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Autore: Gaia Bessie    14/12/2021    1 recensioni
Allora, ripeti.
Dolore, odio, paura, amore.
Mentre, tra le vene e il sangue, la magia esplode e fa in frantumi il mondo.
[Ariana Silente, accenni di Albus/Gellert e Gellert/Ariana | Tw: violenza]
Partecipa alle iniziative "Calendario dell'avvento" (indetto da Cora Line sul Forum "Ferisce più la penna") e "Regali di inchiostro" (indetta sul gruppo Facebook "L'angolo di Madama Rosmerta").
Partecipa al contest "Ombre Trasparenti" indetto da 6Misaki sul forum di EFP.
Per Chiara.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Aberforth Silente, Albus Silente, Ariana Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Per Mary Black,
In onore dei suoi audio su Whatsapp, ovviamente.




Allora, ripeti.
Dolore, odio, paura, amore.
Mentre, tra le vene e il sangue, la magia esplode e fa in frantumi il mondo.
 
La ballata dei pesciolini annegati
 
[Dafne – Non ti vorrei in nessun altro modo]
 
[Solitudine]
 
Ripeti.
Una filastrocca imparata da Albus alla mattina, s’è messo in testa che deve insegnarti a leggere, e hai solamente sei anni: una volta ho catturato un pesce vivo1, canticchi giocherellando con un foglio di carta e i pastelli colorati. Una volta ho catturato due pesci vivi.
La solitudine non pesa – dura nel tragitto tra il fuori e il dentro, dove mamma prepara il pranzo e Albus e Aberforth litigano a bassa voce nel tinello, e papà legge la Gazzetta del Profeta intimando loro di far silenzio, ogni volta che deve voltar pagina. Non pesa e non ti vorresti in nessun altro modo.
Agiti le manine, facendo diventare il foglio di carta scarabocchiato l’origami di un pesciolino, che ti fluttua attorno e ti lascia un bacio sulla guancia, sfiorandoti la tempia sinistra con le branchie: ti scappa una risatina, glielo fai rifare.
Una volta ho catturato tre pesci vivi – e ti nuotano tutti attorno, nell’aria, facendoti dimenticare il broncio che avevi messo a tuo padre quand’aveva rifiutato di giocare con te: era stato allora che Albus t’aveva detto vieni qui, t’insegno una cosa. E adesso, pesciolino dopo pesciolino, conti fino a dieci: che non è tanto ma, a sei anni, è dieci volte il tuo mondo.
Eppure non te ne accorgi (quattro pesci, Ariana, quattro!) c’è un mondo dietro le tue spalle ed è fatto di passi. È fatto di silenzi, di gomitate sulle costole, di un isterico guarda e tu continui a giocare ignara, bagnata di sole, con cinque pesciolini di carta che ti nuotano tra i capelli, acconciandoteli in una treccia un po’ storta.
«Guarda» un sibilo che ti fa voltare, ma non vedi nessuno. «Guarda cos’ha fatto!».
Continui a canticchiare – una volta ho catturato sei pesci vivi – agitando il capo a ogni nuovo pesciolino che esce dalla coda degli altri: cosa farai, quand’arriverai a dieci?
Non ci arrivi mai – ti fermi a sette, quando un ragazzo si siede di fronte a te (dietro: una fronda con i suoi amici, quanti anni pensi che avranno? Undici? Tredici?) e ti fa il gesto dell’amo che prende il pesce, con il dito piegato che afferra le labbra. Ridi e inclini la testa, felice che qualcuno voglia finalmente giocare con te.
«Ciao» trilli. «Giochiamo?».
Giochiamo.
«Mi fai rivedere quella cosa con i pesci?» domanda lui, incuriosito. «Non ho capito come funziona il trucco».
Obbedisci – una volta ho catturato otto pesci vivi – e un pesciolino sboccia dalla coda del settimo, fluttuando pigramente vicino alla tua guancia.
Il ragazzo scuote il capo, con i capelli rossi che gli ciondolano pigramente lungo la fronte (ridi: sembrano dei brutti lombrichi color terra) e gli graffiano le sopracciglia.
«Non capisco» commenta, cercando di acchiappare uno dei pesciolini. «C’è qualche filo invisibile, come fai a farli volare in questa maniera?».
Scuoti il capo, i capelli biondo-rame ti ballonzolano sulle spalle, con le ciocche che escono dalla treccia che pian piano collassa su sé stessa. Alzi le spalle, borbotti che è magia, li senti ridere.
«La magia non esiste».
Ma tu hai pescato il nono pesce vivo – e allora dubitano.
«Magia?» domanda un ragazzo delle retrovie. «Bill, ha detto magia».
«Magia».
«Magia!».
Spalanchi gli occhi – ti accerchiano, continuando a ripeterlo: magia, magia, magia.
Ti volti verso casa, dando loro le spalle: mamma? Papà?
Un fruscio – i pesciolini smettono di nuotare, cadono a terra, fradici di paura: non senti nemmeno il dolore, quando uno dei ragazzi ti spintona, facendoti cadere a terra. Sbatti la testa sull’erba appena tagliata, tagliente, e mugoli un lamento che sa di lacrime e mamma! Papà!
Schiaffi – strega!
Pugni – strega!
Uno di loro ti prende la testa e inizia a sbattertela contro il terreno – strega!
Rumore di passi, di pianti, ma non si fermano: pelle che si strappa, il sangue rende più fameliche le bestie, ripeti e dai voci a quel che provi.
Dolore.
«Cosa state facendo?» un grido (papà? Papà!) squarcia i tuoi pensieri, facendoti piangere più forte. «Stupeficium!».
Chiudi gli occhi, mentre ti lasci ricadere dolcemente sull’erba: lo sai, Ariana, che una volta ho catturato dieci pesci vivi?
C’è rumore di incantesimi, di grida terrorizzate – tu te la sei fatta addosso da così tanti minuti che, l’odore disgustoso di urina, non ti disturba più – e dell’ansimo di tuo padre quando ti guarda per scoprirti ferita, insanguinata, che sai di lividi e, allora, forse non saprai mai più di niente. Se qualcuno avrà il coraggio di lasciarti (ancora) sulla pelle l’impronta dei denti, allora, che sapore potresti avere?
Di lacrime, del getto giallastro che ti ha insozzato le gambe, finendo per inumidire il terreno, del sangue che ti è uscito dal naso.
Cerchi di tenere gli occhi aperti, ma le palpebre sono troppo livide per permetterti di vedere – pensa ai pesciolini, Ariana: ne ho pescati proprio dieci, tutti vivi, lo sai?
Annuisci, ma ti fa male la testa. Tuo padre ti prende in braccio, facendo attenzione a non muoverti il braccio (è tutto rotto, Ariana, tutto rotto) per portati dentro casa – tra pochi attimi, gli Auror verranno a prenderlo e non lo rivedrai mai più.
Sul terreno, come fiori calpestati, nove pesciolini tutti morti respirano terra bagnata e si agitano come se li avessi presi alla lenza, ma per davvero.
Una volta ho catturato dieci pesci vivi, ma poi li ho lasciati andare.
 
***
 
Ripeti: dolore, odio.
Non hai più spazio per sciocche filastrocche, nella tua vita – i pesciolini sono tutti morti, tuo padre ad Azkaban, tua madre sfiorita come le rose del suo giardino e i tuoi fratelli sempre più litigiosi, nervosi, preoccupati.
La solitudine è un dato di fatto – nessuno ti parla più: sei l’intervallo tra due respiri e il pianto tra due incubi. La mamma dorme con te, alla sera, ma chi può venire a salvarti tra gli specchi che hai in mente?
Pesa silenziosamente sul tuo capo, come l’aurea venefica di un fiore violaceo, un’aureola e una maledizione: non ti vorresti in nessun altro modo o in mille altri che non sei ma, quando ci rifletti, la testa è così confusa che non comprendi più.
Quando hai ripreso coscienza, e tua mamma ti ha spiegato che il papà sarebbe partito per un lungo viaggio, l’hai detto in un sussurro: basta così. Hai iniziato a mangiare magia, a respirare magia, inghiottendola come spilli acuminati che, sul finire, ti hanno solamente graffiato l’anima e il cuore.
Quando chiudi gli occhi ti accorgi di non ricordare il sentore del tuo dolore – sangue e urina spalmata lungo le cosce – ma di ricordarne a memoria il suono: strega, strega, strega!
Papà parte per un lungo viaggio e non torna più – lascia una moglie terrorizzata, un figlio apatico e uno arrabbiato con la vita, una bambina che ha la magia che le rimbomba come un tamburo nelle vene e non la lascia più.
Albus t’insegna a leggere, ma le fiabe sono noiose: le maghe e le streghe vivono avventure, amano ma, sul finire, nessuna sbatte la testa sulla terra dura e riarsa e non piange lacrime che hanno il profumo e la puzza della paura.
Aberforth prova a convincerti a tornare a canticchiare filastrocche – ma tu non hai il tempo per farlo: la tua vita è tutta una corsa contro il tempo che vuol giocare ad acchiapparella, infrangendo le barriere di noia e solitudine che ti sono cementate nella mente.
E inghiotti, deglutisci, spalanchi la bocca per verificare che sulla lingua non sia rimasto niente (nemmeno un brandello di ricordo): eppure, quel suono sordo e disperato, la tua testa che crolla sul terreno erboso, non ti sa lasciare.
È un dolore che non sentirai mai più, papà te lo ha promesso – e allora perché, quando chiudi gli occhi, quel suono non t’abbandona?
Tonfi sordi, pugni, schiaffi, la testa sbattuta per terra (papà che urla, fermatevi, ma non si ferma nessuno).
Papà è partito per un lungo viaggio, s’è lasciato una vita dietro e un gatto spelacchiato che, il giorno dei pesciolini morti, è fuggito e adesso non si trova da nessuna parte – Aberforth è molto triste, ma non lo ammetterà mai, nemmeno con te.
Sorridi, quando tuo fratello si siede per giocare con te, sorridi fino a spaccarti la faccia mentre senti la magia arrampicarsi lungo le pareti della gola, appiccicandola, impedendoti di parlare. Mamma le chiama le tue maree perché, sebbene pecchino di prevedibilità, la tua magia fluisce e defluisce con la cieca forza del mare.
Hai giurato che non la userai mai più – ma non la sai controllare e, quando ti spacca le labbra in grida mute e sorde, è dolore e odio. Non li hanno puniti.
Tua madre l’ha sussurrato ad Albus mentre credeva che tu stessi dormendo sul tavolo della cucina, stremata tra i tuoi pastelli colorati: papà è ad Azkaban (cos’è Azkaban?) e non li hanno nemmeno puniti. L’hanno rovinata – rovinata!
Quando viene a svegliarti, ti trova con gli occhi spalancati e una domanda sulle labbra: cos’è Azkaban, mamma?
Ti ha sorriso, lacrime ne hanno insozzato i begli occhi – un bel posto, amore, non ti preoccupare: papà è partito per un lungo viaggio, ma ti manda un bacio e ti dice di comportarti bene.
Una volta al mese, poi, arrivano le sue lettere2 ed è festa grande, per te: Albus e Abeforth, quando sono a casa, non vogliono partecipare – così mamma si siede accanto a te e ti legge le parole del tuo papà, facendoti il solletico sulla pancia per farti ridere. E, quando ti manda tanti baci, ti stampa la bocca rossetto-rosso sulla fronte. Sa un po’ di pianto.
Tu cresci sotto quei baci – e, quando finalmente hai quattordici anni e un’idea riguardo quell’odio che ti si agita dentro, comprendi: la magia non la saprai controllare mai, come le maree e, ogni volta che la dovrai rigurgitare via, ferirai qualcuno.
La notte urli, di giorno sei rauca: dormi ancora nel letto con la mamma e, quando ti accarezza i capelli, a volte c’è insofferenza, insoddisfazione. Albus ti insegna le fiabe e ti fa leggere romanzi e commedie e, il giorno in cui scopri cos’è Azkaban e che fine ha fatto tuo padre (morto tra i silenzi), tocca ad Aberforth consolarti.
Senti Albus parlare con tua madre, alla sera, quando le dice che è inutile: non la sai trattenere, non la sai incanalare – ti divora, boccone dopo boccone, e non c’è spazio per poterti permettere di crescere.
Mamma è stanca, sussurra a tuo fratello, tenerti ferma e impedire che tu ne esca ferita è sempre più difficile – hai troppo dolore dentro per impedire alla marea di ampliare la ferita. E tu lo sei, ferita, agisci solamente per dolore incontrollabile e rabbia e paura. E odio.
Scopri così che ti odi, ma non ti sai nemmeno immaginare diversa: e, all’alba dei tuoi quattordici anni, esplodi ogni volta in maniera più improvvisa (improvvisamente dolorosa).
Il giorno che ti si spaccano le vene e i polsi, è quando tua madre non ce la fa più e non sa come fare a farti inghiottire tutta quella magia: gridi, ripeti – dolore e odio: Albus quel giorno non è a casa, ma è andato in cerca di quello scopo che anima il suo mondo e che tu ancora non conosci.
Albus sostiene di voler fare cose grandi: meravigliose, terribili, che differenza potrà mai esserci?
Quando ritorna, ti trova accucciata sotto il divano, la testa tra le gambe e gli arti scossi da mille tremori indefiniti.
Dov’è mamma, Ariana?
Scuoti il capo – era.
 
***
 
Ripeti: dolore, odio, paura.
Albus non t’insegna più niente – dice di non averne il tempo: la solitudine diviene sempre di più un dato di fatto.
Aberforth torna per le vacanze, ma Albus lo manda a studiare – perché almeno tu abbia un futuro – e lui obbedisce brontolando.
Un giorno arriva uno straniero, nel vostro giardino fatto d’erba morta e riarsa, e si presenta con il nome di Gellert Grindelwald: ride, quando si rende conto che non sai pronunciarlo, e dice che va bene solamente Gellert. Ha gli occhi color verde menta e una vena di possesso, quando mette la mano sulla spalla di tuo fratello e stringe forte.
Ti fissa con quello sguardo penetrante e, quando allunga la mano per scompigliarti i capelli (ti ritrai, tremando: no, no, no) ride forte: perché questa bambina sembra aver paura perfino della propria ombra? Albus glielo spiega, rosso di vergogna, Gellert ti scruta con interesse: le vuoi bene comunque, commenta – è amore, questo.
Gellert va e viene da casa vostra, giorno dopo giorno e ti vede crescere, cambiare, e rimanere comunque sempre e dolorosamente bambina. Con un’ombra che la segue e di cui bisogna avere paura, Ariana, sempre avere paura.
Albus si fida di lui – faranno grandi cose, insieme (grandi o temibili?) e li senti studiare in camera, con le teste chine sopra i libri. Ogni tanto, un ansito.
Cosa state studiando?
Non capiresti.
Ti raccontano che vivrai presto in un mondo migliore, dove nessuno avrà mai più bisogno di avere paura: sporchi e sbagliati, sangue amaro, quei Babbani – impuniti, intoccati: Gellert ringhia, al posto di tuo padre sarei andato ad Azkaban per motivi ben più gravi (non capisci: li avrebbe uccisi tutti).
C’è qualcosa di inspiegabile, nello sguardo di Gellert, qualcosa di inspiegabile e per questo oscuro e spaventoso: quando rimani con lui, seduto per terra di fronte a te, ti domandi – ti vorrebbe in un altro modo?
Aberforth ti dice di non rimanere mai sola con lui (non puoi comprendere, Ariana: io so cosa fa ad Albus), ma c’è qualcosa in quello straniero dagli occhi color dell’erba, che non hai visto mai più verde, che ti attrae con forza inumana. E, il giorno in cui la marea t’assale e finisci a piangere sotto la stretta di uno degli incantesimi di Albus, ti rendi conto che non è più dolore, odio, paura: è vergogna che ti scardina la mente e ti fa domandare – perché deve vederti in questo stato?
Gellert, in un angolo della sala, sorride come un lupo o come un Babbano, che è la stessa cosa: quando Albus ti lascia andare si siede accanto a te, aprendo il palmo della mano per rivelarne un pesciolino di carta. Si libra in volo, ti dà un bacio sulla guancia.
Ripeti: dolore, odio, paura. Amore.
Perché non ti vorrebbe mai diversa da ciò che sei – non è amore, questo?
 
***

Dice che non ti vorrebbe mai in nessun altro modo: perché sei sola, coraggiosa, spaventata e soffri, odi, ami – sei una macchietta impazzita condita con magia incontrollabile e, allora, Albus ti scruta con l’interesse dello studioso, Gellert con sguardo indecifrabile.
Finché il mondo non esplode: Aberforth se ne rende conto, di quegli sguardi (non verso te, verso Albus), urla, dice che non deve toccarti – nodi e fiocchi di incantesimi, tu sorridi e corri verso la luce per acchiapparla come fosse una farfalla.
Una volta ne ho catturata una viva, ma poi l’ho lasciata andare.

 


1https://blog.kidsandus.it/6-filastrocche-in-inglese-per-bambini
2Questo lo chiarisco: le lettere le scrive Kendra
   
 
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