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Autore: Decumbra    07/01/2022    1 recensioni
“La sto solo usando per i miei scopi.” si ripeteva Tom, ma sapeva che non era vero. Elizabeth non era una sua amica, mancavano la fiducia reciproca e l’affetto per un rapporto del genere, però era l’unica persona che sentisse come una sua pari, l’unica degna di stargli a fianco, l’unica con cui potesse parlare liberamente delle sue ambizioni. L’unica persona di cui gli fosse mai importato.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Tom O. Riddle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Per qualcuno è troppo tardi
 
Tom Riddle non infrangeva mai le regole senza uno scopo ben preciso, ma quella notte era comunque uscito dal dormitorio dei Serpeverde per andare in infermeria.
“Perché lo faccio?” si chiese mentre camminava “Elizabeth non mi è più di nessuna utilità, quindi perché continuo ad andare a trovarla?”. Di sicuro non per affetto nei suoi confronti: lui non provava quel tipo di sentimenti verso nessuno.
Nonostante questo, adesso era davanti alla porta dell’infermeria. La aprì con un Alohomora e lentamente la richiuse, gettandovi sopra un incantesimo per sigillarla. Poi si diresse verso l’ultimo letto in fondo alla stanza.
Elizabeth era sdraiata lì, con gli occhi chiusi, e solo il petto che si alzava e si abbassava a fatica dimostrava che era ancora viva. Il suo incarnato pallido aveva sempre fatto pensare a Tom a una bambola di porcellana, ma in quel momento gli ricordò un cadavere.
“Tom” sussurrò spalancando gli occhi che luccicarono nella semioscurità “Credevo che non saresti venuto”. Un tempo aveva una voce dolce e melodiosa, che ammagliava le persone che la ascoltavano, ma dopo mesi di malattia si era ridotta ad un roco e flebile rantolo. L’aveva colpita una Maledizione del Sangue, una rara magia che si manifestava sui discendenti del mago a cui era stata lanciata. Alcuni l’avevano in forma lieve, altri, come lei, ne venivano annientati completamente.
“Ti avevo promesso che sarei tornato” Le fece notare freddo Tom.
“Non puoi biasimarmi se non mi fido di te” ribatté lei “Ma sono contenta che tu sia qui. Volevo dirti addio: Domani torno a casa, i miei genitori hanno deciso che, per ragioni pratiche, è meglio che muoia lì, invece che a scuola. Mi chiedo se abbiano anche già scelto la bara e organizzato il funerale”.
Il suo tono era calmo, ma lui notò che le tremò il labbro nel pronunciare quelle parole e il terrore nei suoi occhi era inequivocabile.
Dal canto suo, Tom non sapeva cosa rispondere. Durante i mesi iniziali del Primo Anno, sarebbe stato contento se lei fosse morta, ma molte cose erano cambiate da allora. All’epoca lui ed Elizabeth erano stati nemici, sempre in lotta per avere i voti migliori, essere i preferiti dei professori e per conquistare e controllare gli altri studenti, ma da tempo avevano sospeso le ostilità e stretto una specie di accordo. “Un’alleanza temporanea” così aveva detto Elizabeth “Perché è vantaggioso per entrambi consolidare la propria posizione. Poi potremo anche ammazzarci per il potere, ma non è questo il momento.”.
In principio si era trattato solo di non intralciarsi a vicenda, ma dopo poco era divenuta una stretta collaborazione. Per Tom, abituato ad agire da solo, all’inizio era stato strano doversi confrontare con lei, ma si era rivelato molto utile. Elizabeth, con il suo volto angelico che le dava un aspetto innocente e indifeso, riusciva facilmente a conquistarsi la fiducia della gente e poi a manipolarla in un modo che a Tom sarebbe sempre rimasto sconosciuto e questo le aveva permesso di radunare attorno a loro un gruppo di “Amici zelanti” che pendevano dalle loro labbra ed erano pronti a fare tutto quello che gli dicevano.  
“La sto solo usando per i miei scopi. Quando mi sarà inutile, la eliminerò” si ripeteva Tom, ma sapeva che non era vero. Prima di tutto, ormai dipendevano così tanto l’uno dall’altra e sapevano così tanti segreti l’una dell’altro che sarebbe stato impossibile tradirsi a vicenda e poi, Tom aveva iniziato a considerarla in modo diverso da uno strumento per raggiungere i suoi obbiettivi. Anche se poi la salute fisica di Elizabeth aveva iniziato a declinare e la sua utilità era palesemente diminuita, Tom non aveva comunque voluto staccarsi da lei e tagliarla fuori. 
Anzi, si era impegnato a trovare una soluzione. Aveva sprecato ore e ore chino sui libri che lei aveva rubato dal reparto proibito per cercare un modo di allungarsi la vita.
Elizabeth non era una sua amica, mancavano la fiducia reciproca e l’affetto per un rapporto del genere, però era l’unica persona che sentisse come una sua pari, l’unica degna di stargli a fianco, l’unica con cui potesse parlare liberamente delle sue ambizioni. L’unica persona di cui gli fosse mai importato.
Avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto farle capire quanto fosse importante per lui, ma non trovava le parole.
“Mi dispiace” disse alla fine. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, avrebbe dovuto dire qualcosa per confortarla, ma non ci riusciva.  
Elizabeth tossì, o forse era una risata amara. “Anche a me. Non voglio morire, non merito di morire, eppure sta accadendo comunque.”.
Il suo tono era carico di rimpianto, rabbia e paura, tanta paura.
“Non è detto.” quelle parole uscirono dalla bocca di Tom prima che potesse decidere se voleva dirle o meno, ma una volta iniziato non poté che continuare “Ieri sera ho trovato un libro, nel reparto proibito, che accenna vagamente a una strana magia, gli Horcrux. Mi serve solo un altro po' di tempo per capire come…”.
“Tempo?” lo interruppe Elizabeth, con evidente fatica nel parlare “Io non ne ho più. Ogni secondo che passa, mi avvicina alla morte. Ad ogni respiro che faccio, i miei polmoni rischiano di cedere. Presto, il mio cuore smetterà di battere, e io finirò in una bara, sotto un metro di terra…”.
Aveva cercato di mantenere un tono normale, ma verso la fine la voce le si spezzò ed Elizabeth cominciò a piangere, il petto scosso dai singhiozzi.
Tom non sapeva cosa fare. Avrebbe dovuto abbracciarla? Si ricordava che all’orfanotrofio, quando un bambino piangeva, una delle educatrici lo abbracciava e aveva visto molti ragazzi a scuola che si abbracciavano tra loro per dimostrare affetto. Era un gesto che agli altri veniva naturale, ma a lui no. Lui non lo aveva mai fatto e non era nemmeno sicuro di voler iniziare, però non poteva nemmeno rimanere lì impalato.
Lentamente e con impaccio, si avvicinò al letto e la strinse a sé. Gli sembrò una forzatura, una cosa innaturale, ma lei gli si attaccò come un naufrago in un mare in tempesta si attaccherebbe a un salvagente.
Il corpo di Elizabeth era freddo, come un cadavere, e il suo respiro si era ridotto ad un rantolo. “E’ come abbracciare la propria morte” si ritrovò a pensare Tom, ma continuò comunque a stringerla per un tempo che gli parve lunghissimo.
I singhiozzi continuarono, ma sempre più deboli, la stretta di Elizabeth si allentò sempre di più e il suo respiro si fece sempre più difficoltoso, fino a cessare del tutto.
Tom si alzò dal letto e rimase per qualche secondo a osservarla, poi, non tollerando oltre di guardare i suoi occhi spalancati e vuoti che fissavano senza vederlo il soffitto, si allontanò e uscì a passi rapidi dall’infermeria.
Non fece attenzione a non fare rumore, non fece attenzione a non incontrare professori o prefetti, tutto quello che voleva era allontanarsi da lì il più in fretta possibile. Era terrorizzato e triste e arrabbiato. Voleva urlare o forse piangere (cosa che non aveva mai fatto in vita sua, da quanto poteva ricordare).
Quasi in automatico, i suoi passi lo portarono davanti alla Stanza delle Necessità. Camminò avanti e indietro tre volte e la porta si spalancò davanti a lui. L’ambiente in cui entrò era lo stesso che aveva visitato nei mesi precedenti: uno studio con una scrivania, i libri che aveva preso dalla biblioteca o rubato dal reparto proibito per cercare di tenere in vita Elizabeth sparpagliati ovunque e pergamene piene di appunti appese alle pareti.
“Inutile, tutto inutile” pensò e in un impeto di rabbia scaraventò i libri giù dalla scrivania. Poi, cominciò a frantumare e distruggere ogni oggetto che si trovava nella stanza. Con la magia o a mani nude, non importava.
Quando ebbe finito di fare a pezzi tutto quello che gli capitava a tiro, si accasciò sul pavimento e lì rimase a fissare il vuoto, almeno finché uno dei frammenti di carta stracciata sparsi per terra non attirò la sua attenzione.
“Horcrux” c’era scritto. Senza sapere bene perché, Tom riparò con un colpo di bacchetta il libro a cui apparteneva il frammento e rilesse il passaggio che la sera prima aveva attirato la sua attenzione: “Gli Horcrux sono una potente, malvagia e oscurissima magia che permette di diventare immortale. Essendo la più immonda delle magiche invenzioni, non ne tratteremo ne daremo indicazioni su come crearla all’interno di questo libro.”
“Se avessi saputo come creare uno di questi Horcrux, forse avrei potuto salvarla. Se solo avessi trovato questo libro prima… se solo ci fossero state scritte le istruzioni…” pensò Tom, per la prima volta provando qualcosa di simile al rimpianto “non ho fatto abbastanza”.
Poi un pensiero lo fulminò: era troppo tardi per Elizabeth, ma non per lui.
La morte lo aveva sempre terrorizzato, ma averla vista accadere aveva ingigantito la sua paura. Non riusciva nemmeno a concepire che un giorno sarebbe potuto accadere anche a lui. Anche solo l'idea che la morte fosse ineluttabile gli impediva di respirare.
Più ci pensava e più si convinceva che creare un Horcrux era la cosa migliore da fare, nonostante il prezzo che avrebbe dovuto di sicuro pagare per averne uno. Dopotutto, a cosa sarebbero servite le ambizioni di controllo e dominio sul mondo magico se poi alla fine lui sarebbe comunque morto? A niente.
La determinazione si impadronì di lui: avrebbe trovato il modo di creare un Horcrux, avrebbe fatto ciò che nessuno era mai riuscito a fare: avrebbe sconfitto la morte.
Non era riuscito a salvare Elizabeth, però avrebbe salvato sé stesso.
   
 
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