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Autore: Ode To Joy    12/01/2022    2 recensioni
[Past Odazai]
[One-side Soukoku]
“Puoi farmi una promessa?”
Chuuya s’imbronciò. “Tra noi non ci sono promesse, solo minacce.”
“Non è per me,” si affrettò a dire Dazai. “È per il bambino. So che gli vuoi bene.”
“Io non-“
“Volere bene a mio figlio, non implica volere bene a me.”
Chuuya lasciò andare un sospiro esasperato. “Che cosa vuoi, Dazai?”
“Per il mio compleanno, ti chiedo un regalo,” disse Dazai, senza guardarlo negli occhi. “Se mi accadesse qualcosa, dedicheresti la tua vita a proteggere mio figlio?”
“Questo posso promettertelo senza che tu vada da nessuna parte. Hai la mia parola.” Chuuya non avrebbe potuto rispondergli in nessun altro modo.

.
La morte di Odasaku ha posto fine alla guerra contro la Mimic, un modico prezzo per garantire alla Port Mafia l’ultimo tassello di potere di cui aveva bisogno.
Dazai non lo accetta, ma le persone a cui ha voltato le spalle - e da cui è stato ferito - sono le sole a cui può chiedere aiuto, ora che Odasaku lo ha condannato ad avere un futuro.
[Trans!Dazai] [Unplanned Pregancy]
- Fanfiction partecipante al Calendario dell’Avvento di Fanwriter.it -
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Ango Sakaguchi, Chuuya Nakahara, Kouyou Ozaki, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
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IV

 

Tre settimane dopo il suo compleanno, Dazai si svegliò nel cuore della notte con la fame di chi non tocca cibo da giorni. Più di una volta, Mori gli aveva detto di tenere delle provviste sul comodino, consiglio a cui Chuuya aveva riso e che lui non aveva preso sul serio. Ora, mentre rotolava giù dal suo letto - perché la pancia si vedeva appena, ma quei pochi addominali che aveva non erano più funzionanti da un pezzo - comprendeva la lungimiranza dietro il consiglio del medico.

Mentre passava davanti allo studio, sentì Chuuya russare di gran voga sul divano sfondato. L’immagine di un pennarello rosa tra le mani del partner bloccò Dazai come un muro invisibile e lo convinse a tornare sui suoi passi. I piedi scalzi sul pavimento non emisero alcun rumore, mentre si avvicinava alla scrivania - dove ricordava di aver visto Mori nascondere qualcosa. La sua ricerca fu molto breve: il tabellone, incastrato tra il cestino della spazzatura e il bordo del mobile, era in cartoncino spesso - forse era un pezzo di uno dei tanti scatoloni sparsi per la clinica - ed era diviso in due colonne, boy a destra e girl a sinistra. 

“Davvero un bel gioco,” commentò Dazai con una smorfia contrariata, lanciando un’occhiata al rosso addormentato. La fortuna di Chuuya fu nella pigrizia di Dazai: se quest’ultimo avesse avuto la voglia di cercare quel famoso pennarello rosa, nessuno lo avrebbe fermato dal fargli un Picasso in faccia.

Mentre consumava il suo spuntino notturno, Dazai decise di essere paziente e lavorarsi per bene la sua vittima.

Si alzò presto per fare colazione - complice un altro attacco di fame - e aspettò in cucina che Chuuya si alzasse. Quando lui e Mori lo raggiunsero, il tabellone era appoggiato alla parete, al centro del piano lavoro.

“Parliamo di Charlotte,” disse Dazai. “Pronuncia francese o pronuncia inglese?”

Chuuya si sedette dal capo opposto del tavolo, i vestiti per dormire ancora addosso e i capelli in disordine: era troppo presto per quella merda. Mori continuò indisturbato verso la macchinetta del caffè, come se quella cosa non lo riguardasse.

Cosette,” proseguì Dazai. “Questo è senza dubbio francese. Ma perché proprio il francese?”

“Sono nomi eleganti!” Ringhiò Chuuya. “Ma non mi aspetto che uno Sgombro come te possa capirlo.”

Dazai scorse la lista, cercando un’altra opzione divertente. “Oh, Chuuya, suvvia!” Esclamò incredulo. “Quanto devi essere idiota per proporre Elise?”

Mentre la macchinetta del caffè emetteva un allegro bip, Mori alzò la mano senza voltarsi. “Quella è colpa mia.”

“Un momento!” Piuttosto che alzarsi e andare a vedere la lista da vicino, Chuuya si sporse sul tavolo al punto da stendervisi sopra. “Chi ha proposto Sakura?”

“Io,” disse Dazai. Il sorriso che comparve sulle sue labbra era lo stesso che Mori rivolgeva loro quando si sforzava di essere gentile, sebbene non lo meritassero. “Ed è l’unica opzione di cui terremo conto.”

Con la sua tazzina di caffè tra le dita, Mori si rivolse ai due ragazzi per esprimere il suo modesto parere. “Un nome di fiore per una bambina. Classico, intramontabile. Bellissimo, senza essere stucchevole.”

Dazai non diede segno di averlo udito.

Chuuya fece la sua scenata: sbuffò, s’imbronciò e incrociò le braccia contro il petto. “Anche Violet è un nome di fiore.”

“Ma non è il suo,” ribatté Dazai, portando la pancia in fuori per mostrare quel poco che si vedeva. Mori sorseggiò il suo caffè e fece un paio di calcoli: diciassette settimane, tra poco sarebbe esplosa.

“Ci ho riflettuto,” aggiunse Dazai, accarezzandosi il grembo. “Saku.”

Chuuya inarcò il sopracciglio. “Che?”

“Saku… Sakura per una femmina e Sakunosuke per un maschio.” Dazai sapeva benissimo che avrebbe provocato una reazione con quella rivelazione. Lo fece a posta.

Mori fu bravo a mantenere la calma, mentre ingoiava il caffè che gli era andato di traverso. Chuuya smise di essere contrariato, per divenire mortalmente serio. “Sei sicuro?” Domandò.

Dazai piegò le labbra in un sorriso triste. “Non ho mai chiamato Odasaku col suo vero nome. Per me, Sakunosuke è un nome nuovo e, allo stesso tempo, è per onorarlo.”

Tutto sommato, Chuuya decise che aveva senso. “E Sakura da dove salta fuori?”

Dazai smise di toccarsi la pancia. I suoi occhi non guardavano più il proprio corpo, cambiato dalla presenza di una vita dentro di sé, ma riflettevano un’oscurità di cui Chuuya non si accorse. Mori sì e gli vennero i brividi.

“Anche Sakura è morta,” raccontò Dazai. “È saltata in aria.”

Forse credendo che il coetaneo stesse parlando di una mafiosa caduta, Chuuya rifletté un attimo se quel nome gli ricordava qualcosa. La porta d’ingresso che si apriva e la voce di Kouyou che lo chiamava interruppero il processo.

“Chuuya, mi serve una mano. Ho comprato alcune cose per Dazai e il bambino!”

“Arrivo!” Il diciannovenne dai capelli rossi uscì dalla cucina, senza sapere di essere appena fuggito da un campo di battaglia.

Mori gettò la tazzina nel lavandino e questa fece un rumore spiacevole. Dazai dedusse che era andata in pezzi. “Vieni con me,” ordinò l’uomo.

Dazai non ebbe alcuna paura a seguirlo, nemmeno quando il Boss lo condusse nello studio e chiuse a chiave la porta. Lo guardò, mentre sfilava la pistola dalla fondina sulla schiena e l’appoggiava sulla scrivania, forse per confermare la sua intenzione di non fargli alcun male.

“Sto cercando di essere paziente, Dazai,” disse Mori, fermo. “Non ti ho negato il mio aiuto e-“

“Grazie,” disse Dazai, sprezzante, spostandosi al centro della stanza. “Contento, ora?”

Mori si passò una mano tra i capelli già in disordine. Impossibile, non c’era altra parola per descrivere quella situazione e ciò che rimaneva del loro rapporto. “Qual è la tua prossima mossa?” Domandò, stanco. “Vuoi raccontare a Chuuya che sono un mostro che ammazza i bambini?”

“Non m’interessa coinvolgere Chuuya in questa storia,” replicò Dazai. “Non mi serve. Compromettere un singolo per distruggere un intero ecosistema dall’interno è una cosa che piace fare a te.”

Mori accennò un sorriso. “Come se fosse un modus operandi a te estraneo. Pensi che non sappia che, se volessi, potresti distruggere la Port Mafia domani?”

“Perdi tempo a lusingarmi per tenermi buono, Mori?”

“Non ti lusingo, credo a ogni parola. E se fossi ancora il mostro di quattordici anni che ho incontrato sulla mia strada, lo avresti fatto.” Mori prese a girare intorno al ragazzo, come un predatore che studia la vittima, prima dell’attacco. Peccato che il più giovane fosse fatto della sua stessa pasta.

Dazai osservava i suoi movimenti con la coda dell’occhio, senza paura. “Dici che sono cambiato?”

“Dico che il Demone è diventato umano.”

Dazai lasciò andare una risatina beffarda. “Chiedilo ai tuoi nemici. Ah, no, non possono più risponderti.”

“Non ho detto che tutte le vite hanno lo stesso valore per te,” ribatté Mori. “Quello è un concetto che puoi inculcarti, ma non lo farai mai tuo per davvero. Quando ti ho salvato, eri il mero contenitore di un abisso. Geniale, certo, ma annoiato dalla vita stessa.”

“E pensi che abbia cambiato idea?”

“Penso che Chuuya ti abbia dato la prima spintarella. La Port Mafia ti ha fatto toccare la natura umana al suo peggio, ma con Chuuya avevi quindici, sedici, diciassette anni. Potevi vivere la tua età anche in mezzo a morte a distruzione, perché al tuo fianco c’era qualcuno come te.”

“Chuuya non è mio amico. Lo hai dimenticato?” Domandò Dazai, sarcastico.

Mori rise. “Oh, no, non ci sarà mai amicizia tra di voi. Il vostro legame non avrà mai un nome e va benissimo così!” C’era qualcosa che riempiva l’uomo di un’euforia fuori luogo. Quello era un duello di parole che lo stuzzicava, perché Dazai poteva essere troppo giovane da vincerlo, ma non abbastanza per non tenergli testa. “Avrai altre mille relazioni interpersonali nella tua vita, nessuna sarà come quella che hai con Chuuya.”

“Ne parli come se Chuuya fosse qualcosa di speciale per me.”

Mori scrollò le spalle. “Speciale, no. Nessuno vorrebbe quello che avete, guardandovi. Irripetibile, sì. Andiamo avanti, parliamo di un uomo che è veramente tuo amico: Sakaguchi Ango. Quando hai capito che era un doppiogiochista, come ti sei sentito?”

Dazai aveva iniziato quel gioco, ma ne era già stufo e gli girava la testa. “Non è importante ora.”

“Tradito?” Ipotizzò Mori, portandosi una mano sotto il mento. “Deluso? Magari anche ferito? Ango è più facile da leggere. Lui ti vuole bene e basta e, nonostante i suoi principi siano molto saldi, è disposto a metterli da parte per darti una seconda possibilità. Ecco, lui sì che è un buon amico!”

Dazai raggiunse la porta con ampie falcate e Mori interruppe la sua marcia circolare.

“Fammi uscire,” disse il giovane, afferrando la maniglia.

Il Boss della Port Mafia alzò l’indice e lo mosse da destra a sinistra in un chiaro no. “Se non sei capace di combattere questa battaglia, come credi di riuscire a proteggere tuo figlio?”

Qualcosa scattò in Dazai, come se il Boss avesse fatto scattare un interruttore. Quei giovani occhi brillavano di un bagliore rosso, pericoloso. “Pensi di potermi ferire?” Dazai si staccò dalla porta per fronteggiare il suo nemico. “Pensi di avere questo potere su di me?”

L’ho già fatto. Contro ogni aspettativa, una sfumatura triste rese più scure le iridi di Mori. “Non puoi lanciarti di petto, come se non avessi più nulla da perdere. Vuoi che ti risponda? Sì, posso far del male a tuo figlio e ferire te nel processo. Questo bambino non ti permetterà più di giocarti il tutto per tutto, ricordalo.”

Dazai comprese di cosa si trattava: non era uno scontro, ma una lezione. 

“E per la cronaca,” aggiunse Mori. “Ti ho già strappato il cuore dal petto.”

L’immagine di Odasaku morente oscurò la vista di Dazai per un istante, quello dopo stava puntando una pistola alla testa del Boss della Port Mafia. 

L’uomo lanciò un’occhiata alla scrivania e non si sorprese di non trovare la sua arma dove l’aveva lasciata. Dazai doveva averla presa quando si era avvicinato alla porta.

“Coraggio,” lo incalzò Mori, senza nessuna particolare espressione sul volto. “Ho ucciso il tuo uomo, il tuo desiderio è legittimo.”

Dazai indossava la sua stessa maschera inespressiva, ma il suo braccio non era così fermo. 

“No?” Mori scrollò le spalle. “Andiamo avanti, allora. Parliamo dell’ultima fase della tua umanizzazione: Oda Sakunosuke.”

“Non osare pronunciare il suo nome,” sibilò Dazai. 

“Un balsamo per l’anima,” ricordò Mori. “Non pensavi di averne una prima di lui, vero?”

“Fai silenzio.”

“Quando hai capito che ti batteva un cuore nel petto, hai sentito dolore?”

“Stai zitto.”

“Oda ti ha fatto sentire vivo, Dazai.”

“Zitto!” L’urlo di Dazai riecheggiò contro le pareti dello studio, ma non premette il grilletto. Rimase a boccheggiare in preda alla rabbia. Il Demone non c’era più. Al suo posto, era comparso un giovane di diciannove anni a cui avevano ridotto il cuore in pezzi.

Mori infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. “Toglimi una curiosità,” disse, in tono gentile. “Il fatto che lo abbia ucciso io, è un dettaglio che amplifica il tuo dolore?”

Dazai non rispose. Fece un passo in avanti e premette la canna contro la fronte dell’uomo.

Mori piegò le labbra in un sorriso amaro. “Lo immaginavo.”

Chuuya sfondò la porta dell’ufficio esattamente undici secondi più tardi - Kouyou dietro di lui - appena in tempo per vedere Dazai lasciar cadere la pistola a terra. 

Mori allontanò l’arma con un calcio e questa finì al sicuro sotto il tacco dodici di Kouyou. 

Mentre Dazai faceva due passi indietro per appoggiarsi alla scrivania, Chuuya lo fissò basito. “Voi siete fuori di testa!” Tuonò, passando gli occhi da uno all’altro. “Fuori. Di. Testa!”

“Era impossibile andare avanti senza un confronto,” si giustificò Mori, tirando fuori dalla tasca un elastico per capelli con cui si fece un codino storto. 

Kouyou sollevò la pistola. “Questo, tu lo chiami confronto?”

“Dazai ha fatto la sua scelta,” concluse Mori.

Il giovane in questione non disse una parola.




 

Dazai passò il resto della giornata in camera sua. Chuuya salì e scese le scale tutto il pomeriggio, tra i tentativi di fargli compagnia e gli esaurimenti nervosi che ne ricavava.

“Hai un tabellone dei nomi,” notò Kouyou, fissando la lista scritta in rosa, rimasta dove Dazai l’aveva lasciata. “Perché sono tutti nomi per una bambina?”

Mori girò il cucchiaino nella sua tazza di caffè, stando attento a fare il più rumore possibile. “Perché ho deciso che sarà una femmina.”

“Oh, tu hai deciso.”

“Sì, mia cara, prendere decisioni è il mio lavoro, è ciò che permette a questa grande famiglia di continuare a resistere. Io decido e, magicamente, ci ritroviamo ad avere le spalle coperte dal Governo a un prezzo praticamente simbolico.” Mori ingurgitò il suo caffè in una sola sorsata. “Ricevere odio dalle persone che cerco di proteggere è la mia ricompensa, pensa un po’.”

Kouyou alzò gli occhi al cielo. Quell’uomo non era arrivato dov’era senza meriti ma quel suo lato infantile era insopportabile. “Ed è tua abitudine mettere delle pistole in mano alle persone che vuoi proteggere?”

“Dovevo fare una prova.”

“Quale?”

“Quella di cui abbiamo già discusso,” disse Mori. Sollevò la mano destra. “Odio per me.” Fece lo stesso con la sinistra. “Amore per suo figlio.“ Allargò le braccia a scrollò le spalle. “Che posso dirti? L’amore vince su tutto. Come mentore, m’interessava che prendesse la decisione più ragionevole.”

“Pensi di aver ottenuto il suo perdono così?”

“Penso che abbia scelto di non uccidermi. D’ora in poi, non starà più subendo passivamente questa situazione.”

“Tu hai deciso di mandare a morire l’amore della vita di tuo figlio, Mori,” gli ricordò Kouyou, “Come, in passato, hai deciso di usare una figlia per creare la tua armata perfetta e l’hai spinta sull’orlo della follia.”

Mori la fissò, in silenzio. Avrebbe potuto replicare in mille modi, ma era così stanco che a stento assomigliava al Boss della Port Mafia che il mondo della malavita conosceva. Aveva avuto paura di fronte alla pistola di Dazai? Nemmeno per un istante. L’odio che aveva trovato nelle profondità di quegli occhi scuri gli era indifferente? No, affatto, ma avrebbe imparato a conviverci. Bastava che Dazai facesse la sua parte.

Kouyou si era accorta da un pezzo del patetico stato in cui il suo superiore versava, e non ebbe remore ad approfittarne. “Tu riesci ancora a guardarlo negli occhi e a non provare il ben che minimo pentimento?”

Mori le rispose come sempre. “Ho fatto quello che andava fatto.”

“Quindi, Dazai è quello che chiami prezzo simbolico?”

“Oda era il prezzo simbolico. Dazai è nella sua vecchia stanza, insieme a Chuuya, e non andrà da nessuna parte.”

Lo sguardo di Kouyou rifletteva pietà. “Quanto sei ingenuo, Mori.” Buttò sul tavolo in disordine i risultati del test genetico del bambino di Dazai. “È un maschio e sta bene, ma non si chiamerà Sakura.”




 

Dazai sedeva scompostamente sulla poltrona, lo sguardo rivolto verso l’esterno, perso in qualche riflessione che il coetaneo poteva solo indovinare.

Chuuya piegava vestiti, lamentandosi delle scelte sobrie di Kouyou ad alta voce per stuzzicarlo un po’. Dopo mezz’ora, concluse che non avrebbe mai raggiunto il risultato sperato.

“Ti ha messo alla prova?” Domandò, diretto. “Era una lezione delle sue?” 

Non era una novità che Mori si divertisse a educarli così, a suon di colpi d’urto. Sul momento, Chuuya aveva solo pensato che il binomio Dazai e arma da fuoco fosse tra i più pericolosi possibili.

“Uhm…” Fu l’unica risposta che diede Dazai. Sì, Mori aveva giocato con lui affinché realizzasse che era disarmato, con le spalle contro il muro e bisognoso del loro aiuto. Qualcosa gli diceva che il Boss aveva lasciato quella pistola incustodita a posta, per spingerlo a compiere un gesto estremo. 

C’era stato un attimo in cui aveva temuto per la sua vita? Con Mori era impossibile averne la certezza. Dazai sapeva solo che, con la possibilità di scegliere stretta tra le dita, aveva preferito la sicurezza di suo figlio alla sua vendetta. Negli undici secondi che aveva impiegato Chuuya a interromperli, Dazai era venuto a patti con se stesso in un modo che non si era aspettato: per il bene di Saku, poteva anche dimenticare il modo in cui Odasaku gli era stato portato via. Una parte di lui ne era notevolmente infastidita, l’altra - quella che lo spingeva a toccarsi la pancia, come alla ricerca di un appiglio a cui aggrapparsi - chinava la testa e accettava la sconfitta.

Bussarono alla porta. Kouyou si affacciò e disse a Dazai che Mori voleva parlargli.

Chuuya smise di fare quello che stava facendo. “Ci sono armi in giro?” Non era che il diciannovenne non si fidasse del Boss, ma Dazai quello pericoloso.

Kouyou gli sorrise, rassicurante. “Ho preso le dovute precauzioni.”

“Non basteranno,” concluse Chuuya, tra le mani una tutina bianca con sopra ricamati dei coniglietti azzurri.

La sua maestra non perse l’occasione per prenderlo un po’ in giro. “Stai bene così,” commentò, mentre Dazai la precedeva in corridoio in totale silenzio.

Chuuya lasciò cadere l’indumento in miniatura sul letto, manco fosse una bomba.




 

Mori lo aspettava nello stesso studio in cui si era quasi consumata la tragedia. Come previsto da Dazai, lo accolse con un sorriso, come se non fosse successo niente.

“La Port Mafia deve essere davvero noiosa senza di me, se non riesci a far passare nemmeno ventiquattro ore tra un giochetto dei tuoi e l’altro,” disse Dazai, con voce incolore.

“Non siamo qui per giocare,” lo rassicurò Mori. “Siediti.” Si alzò dalla poltrona per lasciare il posto al diciannovenne. 

Dazai non era molto felice di farsi fissare dall’alto al basso, ma l’alternativa era restare in piedi e le sue gambe non lo avrebbero sopportato.

“Voglio mostrarti una cosa.” Il medico fece scivolare sulla scrivania i risultati del test genetico.

Dazai afferrò il foglio senza sapere cosa fosse, lo lesse il silenzio e gli angoli della sua bocca si sollevarono un poco.

“Sei felice che sia un maschio?” Domandò Mori.

“Sono felice di non dare alcuna soddisfazione a te e a Chuuya,” rispose Dazai, dando una seconda occhiata al documento. “Qui c’è scritto che il risultato è negativo. È una buona cosa, vero?”

“Un’ottima cosa!” Confermò Mori, allegro. “Quindi, aspettiamo il grande arrivo di Sakunosuke!”

“Io aspetto Sakunosuke.” Dazai lasciò i risultati del test genetico sulla scrivania e si rilassò contro lo schienale della poltrona. “Voi mi state solo intorno.”

“Mancano pochi giorni ad agosto,” disse Mori. “Dobbiamo cominciare a parlare del dopo.”

“Non credo sia saggio farlo ora. Questa mattina ho tentato di ucciderti.”

“Non è un tentativo se non vi è l’intenzione.”

Gli occhi di Dazai erano quelli di una belva in gabbia, consapevole di non potersi ribellare. “Vuoi davvero scoprire se vi era l’intenzione?” 

“Sono stanco che tu mi faccia la guerra, Dazai.” Mori non aveva alcuna vergogna a dirlo ad alta voce. “Ti ho dato la possibilità di uccidermi, ma hai capito che non ci avresti guadagnato nulla. Al contrario, avresti messo in pericolo tuo figlio, oltre all’equilibrio dell’intera Yokohama. Una volta giunto a questa conclusione, che senso ha continuare a odiarmi?”

“Sono l’unico genitore che a Saku è rimasto. In quanto tale, devo pensare a quello che è meglio per lui, non per me,” rispose Dazai. “Ma se credi che questo basti a farmi dimenticare Odasaku, il modo in cui è morto tra le mie braccia e la ragione per cui è successo, ti sbagli di grosso.”

Mori non era sorpreso. “La morte di Oda per la vita di vostro figlio. Per quel che vale, non devi sentirti in difetto.”

“Stai zitto.”

“Vuoi sapere perché non hai messo Chuuya in mezzo a questa storia?” Mori piegò un ginocchio a terra per poterlo guardare negli occhi. “Perché sai bene come ci si sente, quanto tutto il tuo mondo diviene ciò che odi di più. Ora puoi anche dirmi che di Chuuya non te ne importa niente, ma gli hai risparmiato un dolore.”

Dazai sorrise, sarcastico. “Pensi che fossi tu a rappresentare tutto il mio mondo, sul serio?”

“Nah!” Mori sottolineò il concetto con un gesto della mano, come se fosse un ragazzino. “Il tuo mondo era pieno di persone: Ango, Chuuya, Akutagawa, Hirotsu e tanti altri. A me è spettato solo l’ingrato compito di esserne a capo. Oda era diverso da tutti. Me lo hai detto, ti sei fidato - se per ingenuità o abitudine, non lo so - e io l’ho mandato a morire.”

“Che stai facendo?” Dazai reclinò il capo da un lato. “Adesso vuoi convincermi che la morte di Odasaku è una mia responsabilità?”

Mori scosse la testa. “Sto dicendo che l'unica nota stonata nel mondo da cui sei fuggito sono io,” spiegò. “Il mio ruolo all’interno di quel mondo è ciò che ti ha indotto ad andartene. Fossi stato un Dirigente, tuo pari, ti saresti liberato di me e saresti rimasto a casa.”

“Ho mal di testa,” disse Dazai, passandosi una mano tra i capelli. “Puoi arrivare a una conclusione e smetterla di fare discorsi ragionevoli?”

“Odiami,” disse Mori. “Ho capito che non posso fare niente a riguardo, ma alla Port Mafia ci sono persone che ti vogliono bene e tu ne vuoi a loro, a modo tuo. È il luogo migliore per te. È il luogo migliore per tuo figlio. Sei stufo di sentire discorsi ragionevoli ma se non mi hai sparato, vuol dire che te ne sei fatto uno anche tu. Farò nascere tuo figlio, costi quel che costi, e dopo tornerai a casa, alla Port Mafia.” Si alzò in piedi. Non aveva altro d’aggiungere.

“Perché?” Domandò Dazai in un mormorio sommesso.

“Cosa?”

“Fosse stato chiunque altro, gli avresti piantato un proiettile nella testa e tanti saluti. Dici di essere ragionevole ma quando ci siamo ritrovati tutti qui, hai sottolineato che c’eravamo per motivi puramente personali. Hai parlato di umanizzazione e, credimi, faccio fatica a vedere qualcosa di umano in te, ma allora perché fai tutto questo per me?”

Mori non aveva alcuna difficoltà a dire la verità. “Perché sei il mio preferito, Dazai.” Tanto quel ragazzino non gli avrebbe mai creduto. “Perché mi piace quanto mi assomigli.” Avrebbe potuto dirgli che, un giorno, il piccolo Sakunosuke lo avrebbe guardato disprezzandolo e allora, solo allora, lo avrebbe capito. Ma non era un esempio corretto: Dazai non avrebbe mai fatto a Saku quello che Mori aveva fatto a lui.

Il Boss della Port Mafia aprì la porta dell’ufficio per lui. “Vai a dare a Chuuya la buona notizia, sono certo che ne sarà felice.”




 

Chuuya ne fu felice come se lo avessero invitato a un funerale. “Un maschio,” borbottò, ancora occupato a piegare vestitini da neonato. “Era troppo pretendere che tu facessi qualcosa di decente, vero?”

Dazai sbuffò. “Hai saltato una lezione di genetica? È stato Odasaku a deciderlo, non io.”

“Oh, certo!” Esclamò Chuuya, afferrando una pila di tutine per riporle in una cassettiera color azzurro pastello - quasi che Kouyou avesse previsto il futuro. “Diamo la colpa al morto, tanto non può difendersi!”

Dazai inarcò le sopracciglia: era certo che mezz’ora prima quel mobile non ci fosse. “Kouyou ha svaligiato il negozio per bambini o-?”

“Vuoi vedere cosa c’è di là?” Domandò Chuuya, facendo un vago gesto della mano verso la porta. “È impazzita. Siamo tutto impazziti ed è colpa tua!” 

Dazai fece per rispondere a tono, poi si accorse che non stava parlando con lui ma con la sua pancia. Gli venne da ridere. “Parli con Saku, ora?”

Chuuya allargò le braccia. “Con te è impossibile farlo!”

“Puoi fermarti un attimo? Devo chiederti una cosa.”

“No, non mi fermo o qui finiamo per diventare un magazzino per neonati!” Chuuya spostò una torre di confezioni di pannolini dove non dava fastidio. “Ma tu chiedi,” gli concesse.

Dazai prese un respiro profondo. “Si tratta di Ango…”





 

A dispetto delle apparenze, Mori sapeva muoversi perfettamente nel disordine della sua clinica. Dopo l’arrivo di Chuuya e il definitivo trasferimento suo e di Dazai, aveva usato quel luogo come una sorta di magazzino dei ricordi. Chiudendo a chiave la porta d’ingresso, aveva tracciato un confine netto tra la sua nuova vita - quella di Boss della Port Mafia - e tutte quelle precedenti. Era stato un soldato della prima linea, era tornato a Yokohama come medico della zona più buia della sua città e in Europa aveva scritto i veri capitoli della sua formazione. Gli anni che ora vivevano i suoi ragazzi erano gli stessi da cui aveva preso più le distanze. Quella stagione della sua vita era come un arto andato in cancrena: aveva dovuto amputarlo per permettersi di sopravvivere.

Eppure, come la sua esperienza da medico di campo gli aveva insegnato, gli arti fantasma tornano a fare male di tanto in tanto. 

E Dazai, inconsapevolmente, aveva accentuato quel dolore dal giorno in cui era entrato nella sua vita. 

Mori sapeva perfettamente dove trovare quella cassetta di metallo, ma aveva aspettato che tutti fossero a letto per spostare gli scatoloni e il mobilio con cui le aveva creato una muraglia intorno. L’aveva sepolta - quello era il termine più adatto - nella stanza dei libri. Dazai la chiamava biblioteca, anche se era un termine un po’ superbo per definire quel caos di carta impolverata, e ne aveva fatto il suo rifugio durante il loro anno di convivenza. 

Un tempo, quella cassetta era stata rossa, ora era mangiata dalla ruggine. Non vi era una chiave per aprirla: la serratura si era rotta da un pezzo. Al suo interno, vi era custodito un taccuino rilegato in pelle nera. Mori lo prese tra le dita, dimenticandosi del suo misero contenitore in mezzo agli scatoloni: vi era solo morte tra quelle pagine ingiallite, ma meritavano di essere custodite con più dignità.

Sotto la luce tiepida della lampadina appesa al soffitto, Mori si fermò tra gli scaffali polverosi, pieni di libri e concesse a Rintarou di esistere di nuovo, dopo quasi vent’anni.

“Adesso ti nascondi pure?” 

Con gli occhi ancora persi tra le parole scritte in quel taccuino, Mori sorrise. “Pensavo te ne fossi andata,” disse.

“Me ne stavo andando,” ammise Kouyou, muovendo un passo all’interno di quella stanza caotica. “Ho controllato che i ragazzi fossero a posto, poi ho sentito un rumore sospetto mentre scendevo le scale.”

“E io che pensavo di essere stato silenzioso.”

“Lo sei stato, ma non abbastanza.” Kouyou si guardò intorno, sinceramente incuriosita. “Questo posto ha anche dei passaggi segreti? Mi ritrovo ogni giorno in una stanza diversa.”

“Quando ero giovane, all’inizio della mia attività, ammetto di aver pensato che costruirne uno sarebbe stato pittoresco,” raccontò Mori. “Influenza di qualche vecchio romanzo gotico.”

“E quello cos’è?” Domandò Kouyou, indicando il taccuino. 

“Niente.”

“E questo niente è così pericoloso da poter essere letto solo di notte, lontano da occhi indiscreti?”

Mori chiuse il piccolo quaderno e glielo porse. “Non ho nulla da nascondere, non a te.”

Le labbra di Kouyou accennarono una smorfia. “Non so se sia un onore o una condanna,” disse, prendendo tra le mani l’oggetto misterioso.

Tutti e due, avrebbe risposto Mori. 

La delusione di lei fu presto evidente, le bastò sfogliare un paio di pagine. “Non so leggere il tedesco.”

“Sai riconoscerlo però.”

“Ho avuto occasione d’intrattenermi anche con uomini europei.”

“Avrei voluto portare i ragazzi in Europa. Una vacanza, intendo. Gli episodi spiacevoli per cui ci sono finiti, non contano,” disse Mori, con un po’ di amarezza. “Sarebbe piaciuta a entrambi, per motivi diversi.”

“Non mi hai mai parlato di quella stagione della tua vita.” Nonostante non comprendesse le parole, Kouyou continuò a scorrerle con gli occhi, ammirando la calligrafia. “Non è la tua scrittura.”

“No.” Mori appoggiò la spalla allo scaffale alla sua destra. “So scrivere in tedesco, ma quella non è opera mia.”

“Sono poesie?”

“Perspicace…”

“Lo intuisco dal modo in cui tronca le frasi e va a capo.”

“Sì, la maggior parte sono poesie,” confermò Mori. 

Kouyou trovò una data scritta in un angolo, l’unica cosa a lei comprensibile in quell’insieme di caratteri stranieri. “Avevi l’età dei ragazzi.” Il pensiero la divertiva.

"Alcune di quelle liriche risalgono anche a prima. L’ultima è stata scritta che avevo circa vent’anni.”

“Oh!” Lo prese in giro Kouyou. “Anche tu hai avuto vent’anni!”

Mori si portò una mano al petto, fingendosi ferito. “Ne dimostro di più, per caso?”

“Chi è Johann G.?” 

Era da tempo che Mori Ougai non provava quella sensazione, come di lame invisibili che gli trapassavano il corpo da parte a parte. Non gli era mancata. C’era della tragica ironia nel fatto che la giovane donna di fronte a lui non potesse comprendere l’incanto delle parole scritte su quelle pagine, ma fosse stata in grado di leggere quel nome. “Guarda in fondo al taccuino,” disse.

Tra l’ultima pagina e la copertina di pelle, Kouyou trovò una foto. Sorrise, sinceramente sorpresa. “Mi aspettavo ci fosse una Elise nel tuo passato, non uno Johann.”

“Elise era nostra.” 

Non appena vide il sorriso di lei sparire, Mori si rese conto di averlo detto ad alta voce. “Ho raccontato questa storia solo una volta, a una persona che non fa più parte della mia vita. Al tempo, ero certo che non mi avrebbe compreso e questo mi ha aiutato a essere sincero.”

Kouyou fu una maestra della dissimulazione nell'ingoiare lo stupore e continuare la conversazione. “Ed è stato così, non ti ha capito?”

“No, lo ha fatto,” rispose Mori. “A modo suo, ma lo ha fatto.”

Kouyou diede un’ultima occhiata alla foto di Johann G. poi chiuse il taccuino e lo riconsegnò al suo legittimo proprietario. “Un giorno, la racconterai anche a me questa storia?”

“Può darsi…”

Kouyou prese un bel respiro. “Ascolta, io e Hirotsu abbiamo una proposta da farti.”

“Ecco, i ragazzi richiedono tutta la mia attenzione e la mia cerchia di fedelissimi complotta contro di me.” Mori ripose il taccuino di pelle nella tasca interna della giacca, lasciando cadere la questione tra i libri ricoperti di polvere. “E che proposta sarebbe?”

Kouyou reclinò la testa da un lato. “Torna alla Port Mafia.” Si rivolse a lui con lo stesso tono con cui parlava a Chuuya e Dazai.

Mori si chiese che cosa avesse mai fatto di male per meritarselo.

“Hai bisogno di una pausa,” aggiunse Kouyou. “Anche Dazai ce l’ha.”

“Quindi che facciamo?” Domandò Mori, allargando le braccia. “Lasciamo i ragazzi ad autogestirsi e intanto preparo un discorso funebre per Chuuya?”

Kouyou assottigliò gli occhi. “Non sottovalutare i miei allievi.”

“Mia cara, Dazai ha un potente alleato dalla sua parte, non possiamo ignorarlo.”

“Hirotsu resterà qui con loro.”

“Affiderei a Hirotsu la mia vita, ma non mi risulta che abbia conoscenze mediche.” Mori uscì dalla biblioteca per primo, aspettò che la giovane donna lo seguisse e chiuse la porta.

“Dazai sta bene, Mori. Sakunosuke non arriverà prima di Natale, perciò dubito che ti perderai qualcosa dall’alto del tuo ufficio.”

“Esistono i bambini premat- Ahi!” Mori si portò la mano alla nuca, dove la borsetta dell’assassina si era abbattuta. Sì, doveva esserci dentro un mattone.

“Questo è da parte di Dazai,” spiegò lei, con un sorriso angelico. “Non ti sto esiliando dalla tua stessa casa, ti sto dicendo di cambiare aria. Torna al tuo grattacielo, fai il tuo lavoro, gioca con Elise… Non sono stupida, lo so che in presenza di Dazai non ti disturbi a evocarla.”

“Troveresti divertente vederla comparire e sparire ogni qual volta io e Dazai ci tocchiamo, anche per sbaglio.”

“Ottobre,” propose Kouyou. “Torna a fare il Boss della Port Mafia fino a Ottobre. Passa a fare un saluto nei momenti liberi e lascia i ragazzi a me e Hirotsu. Sono sempre stati più tranquilli con lui che con te.”

Suo malgrado, Mori doveva darle ragione e ora Hirotsu godeva del vantaggio di non essere implicato nella morte di Oda Sakunosuke.

“Domani sottopongo Dazai a una visita di controllo generale,” disse Mori. “Dopodiché deciderò.”

Kouyou sorrise soddisfatta e si lasciò accompagnare alla porta. “Toglimi una curiosità,” domandò, prima di andarsene. “La persona a cui hai raccontato quella storia è Yukichi?”

“Buona notte, Kouyou,” la congedò Mori, con un sorriso tirato.




 

La prima volta che il piccolo Sakunosuke si fece sentire, Dazai per poco non ebbe una crisi di panico. Da qualche giorno si sentiva strano, qualcosa lo svegliava nel cuore della notte - a parte il continuo bisogno di fare pipì - e lo metteva in allerta ogni qual volta si sedeva.

“No, non va bene,” disse una mattina, toccandosi la pancia con fare sospetto. 

“Sì, la tua testa,” rispose Chuuya, occupato a rifargli il letto. Lo Sgombro era stato ufficialmente bandito da qualsiasi dovere domestico. Non che facesse molta differenza, rispetto alla normale quotidianità.

Dazai si sedette con cautela sulla poltrona vicino alla finestra. “C’è qualcosa che non va,” ripeté. 

Chuuya alzò gli occhi al cielo, prendendo a pugni uno dei cuscini per sfogare la voglia di fare lo stesso con la faccia dell’altro. “Dazai, dacci un taglio con gli scherzi!”

“Non sto scherzando!” Urlò Dazai. 

Chuuya fu pronto a tirargli la federa appallottolata, poi si accorse che l’altro tremava. “Ohi…”

Dazai non riusciva a muoversi. Aveva paura che il solo respirare fosse sufficiente a peggiorare la situazione.

“Che state facendo?” Kouyou entrò nella camera senza bussare, forse allarmata dall’urlo di Dazai. 

Lo sguardo atterrito dei due ragazzi fu sufficiente come risposta.

“Che cosa succede?” Kouyou si precipitò dal più spaventato dei due.

“Qualcosa non va.” Dazai non sapeva come spiegarsi. “Sento qualcosa, non so che cosa sia, ma non può andare bene.”

Istintivamente, Kouyou appoggiò la mano sulla pancia del diciannovenne - ancora poche settimane e i vestiti larghi non sarebbero più serviti a nasconderla - e le belle labbra si piegarono in un sorriso spontaneo. “Oh, tesoro,” disse, emozionata. “Non è niente di brutto. Quello che senti è il tuo bambino che si muove.”

Gli occhi di Dazai divennero grandi, luminosi. “Davvero?”

“Davvero?” Gli fece eco Chuuya, superando il letto passandoci sopra.

Kouyou posò un bacio sulla guancia di Dazai. “Una prova ulteriore che è sano e forte,” disse. “Anche se a lungo andare non ti farà più dormire.”

“Puoi tenermi sveglio quanto vuoi,” disse Dazai sollevato, rivolgendosi al piccino nella sua pancia. 

“Voglio sentire anche io!” Chuuya si precipitò sul partner. 

Dazai schiaffò via la sua mano, prima che potesse toccarlo. “Stammi lontano.”

“Ehi!” Ringhiò Chuuya. 

“È mio, lo posso toccare solo io.”

“Non te lo rubo mica, voglio solo sentirlo che scalcia!”

Contenta che l’atmosfera fosse tornata quella giusta, Kouyou scivolò via dalla camera da letto, senza essere notata.




 

Hirotsu aveva un potere calmante sui ragazzi, specialmente su Dazai. 

La sua devozione nei confronti della Port Mafia non poteva essere messa in discussione. I suoi meriti e la sua esperienza parlavano per lui. Se fosse stato per Mori, avrebbe occupato una poltrona da Dirigente, ma il veterano non aveva mai voluto saperne.

Qualunque mafioso del suo livello si sarebbe sentito umiliato a sottostare agli ordini di un quindicenne. Hirotsu aveva appoggiato Dazai fin dal primo giorno e non si era mai lamentato della sua caotica condotta. Era stato per affetto che era andato a cercarlo, dopo il caso Mimic. Era stato un piccolo atto di trasgressione su cui Mori aveva sorvolato senza rancore. 

Ora, in nome di quello stesso affetto, aveva lasciato i suoi doveri per indossare un grembiule da cucina e preparare una torta al figliol prodigo della Port Mafia e al prossimo Dirigente della stessa. 

“Ma perché proprio una torta di mele?” Domandò Chuuya. “E da dove viene questo affare?” Aggiunse, indicando il cappello da cuoco sulla sua testa.

“Questo palazzo nasconde meraviglie che noi umani…” Fu la risposta ironica di Dazai, che si dondolava su una sedia, a distanza di sicurezza da qualsiasi tipo di sforzo.

“Tu non sei umano,” gli ricordò Chuuya. “E stai seduto composto. Se cadi, fai male a Sakunosuke.”

Maturo com’era, Dazai gli rispose con una linguaccia.

“Chuuya ha ragione,” intervenne Hirotsu, dando un’ultima occhiata al libro di ricette.

Dazai gli diede retta, ma si annoiò in fretta e si avvicinò al rosso per dargli fastidio. “Ti sta bene questo cappello,” commentò, sarcastico. “Che fine ha fatto il tuo? Non lo vedo dalla sera in cui sei venuto a prendermi.”

“Al sicuro, lontano da te. Quando torneremo ad avere una vita normale, potrò indossarlo come si deve.” 

“Non voglio litigi nella mia cucina,” disse Hirotsu, allungò tre belle mele al giovane dai capelli rossi. “Sbuccia,” ordinò.

Chuuya afferrò la prima e si diede subito da fare. Dazai prese tra le dita una delle due rimasta e la osservò affascinato. “Se ne prendo un morso, morirò come nella favola di Biancaneve?” Lui e Odasaku ne avevano parlato una volta e quest’ultimo si era rivelato piuttosto confuso in materia di fiabe.

“No!” Esclamò Chuuya, togliendogli il frutto di mano. “Si era detto di sospendere l’argomento suicidio, fino a data da destinarsi!” Spostò le mele lontano dalla portata dello stronzetto, manco fossero avvelenate per davvero. “Per la cronaca, Biancaneve non muore.”

Dazai storse la bocca in una smorfia. “Viene salvata dal bacio del vero amore. Nel mondo reale, equivale a rimanere morti.”

Chuuya inarcò le sopracciglia. “E lo dici tu?”

Dazai incrociò le braccia sul tavolo e vi appoggiò la testa stancamente. Non gli rispose.

“Tornando alla tua prima domanda, Chuuya,” disse Hirotsu, rompendo due uova in una ciotola. “Il Boss ha detto che il bambino è bello grosso. Se dobbiamo fare una torta, meglio che sia di frutta o potrebbe crescere troppo.”

“Ma il Boss non è qui.” Dazai sbatté le lunghe ciglia, sfoderando i suoi occhi da cerbiatto.

“Non mi corromperai,” lo avvertì Hirotsu, accennando un sorriso. “Non puoi farlo, nemmeno tu.”

Dazai sbuffò. “Voi uomini d’onore e i vostri saldi principi!” Esclamò. “Voglio qualcosa di calorico, che urli colesterolo e alimentazione scorretta!”

Indeciso se dargli una mela in testa oppure infilargliela in bocca, Chuuya gliene sbatté una davanti al naso con poca grazia. “Se devi rompere i coglioni per tutta la cottura, mangia questa e stai zitto.”

Hirotsu recuperò un quarto pomo rosso dal cesto di frutta vicino al lavandino - Mori ne portava uno nuovo ogni fine settimana, ripetendo come un disco rotto quanto fosse importante che Dazai ne mangiasse - e riprese con la preparazione. “Chuuya, quando hai finito di togliere la buccia, tagliale a spicchi non troppo spessi. Dobbiamo creare una sorta di tappeto intorno alla struttura della torta.”

Dopo aver dato il primo morso alla sua mela, Dazai si mise subito al lavoro per fare quello che gli riusciva meglio. “Come sta Akutagawa?” Lo domandò come se fosse una curiosità da nulla.

Chuuya avvertì come un colpo secco dietro la nuca, per poco il coltello non gli scivolò. Dovette contare fino a dieci per riprendere a sbucciare la mela. Akutagawa Ryuunosuke non era suo amico, non era un collega per cui provava una particolare stima e non lo considerava nemmeno una buona compagnia, ma lo aveva accompagnato passo passo nella sua folle ricerca di Dazai. Non era una sua responsabilità, ma quel ragazzino era l’unico coinvolto in quella vicenda che ancora non fosse a conoscenza della verità. Era giusto che lo stronzo lo sapesse.

“Ti sta cercando,” disse Chuuya, prima che il veterano potesse rispondere.

Dazai apprese la notizia con una scrollata di spalle. “Non mi troverà.” Diede un altro morso alla sua mela.

“Certo che non ti troverà, sei coperto sia dal Boss che dal Governo. Non avrà mai i mezzi per trovarti.”

“Appunto.”

Chuuya voleva prenderlo a schiaffi.

“È molto scosso dalla tua scomparsa,” disse Hirotsu, serio. “Carattere difficile, ma se la caverà.”

“Tu sei bravo con i caratteri difficili, Hirotsu,” disse Dazai, un sorriso sincero gli graziò le labbra. 

“Non mi ascolta,” aggiunse il veterano.

“Oh, non ne dubito!” Esclamò Dazai. “È una testa calda, non ascolterà mai!”

Chuuya aggrottò la fronte. “Era il tuo cagnolino…”

“Quella è solo l’impressione che lascia a un’occhiata superficiale,” disse Dazai, con l’espressione di chi parla di una gran delusione. “Potrebbe avere il mondo ai suoi piedi, ma è destinato a rimanere un perdente.”

Chuuya gettò il cappello da cuoco a terra. “Scusa, Hirotsu, ho bisogno d’aria!”

Nessuno si mosse, fino a che la porta d’ingresso non sbatté, poi Dazai recuperò la mela sbucciata a metà e continuò il lavoro abbandonato dal suo partner. 

“Non sono sicuro che sia il caso di farti impugnare un coltello,” disse Hirotsu, aprendo il sacchetto della farina.

Dazai gli rivolse un sorriso rassicurante. “La mia vita è un conto, quella di Sakunosuke è un altro.”

“Sono importanti tutte e due,” ribatté il veterano.

Dazai sapeva che non c’era modo di fargli cambiare idea. “Saku merita la sua possibilità. Farò tutto ciò che è in mio potere per assicurargliela.” La buccia cadde sul tavolo sotto forma di una spirale rossa. Passò alla seconda mela.

“Parole coraggiose, Dazai.”

“Il coraggio è un’altra cosa…” La lama del coltello scivolò sulla mela e Dazai si tagliò. Il frutto e la posata gli caddero di mano, ma non ebbe il tempo di verificare l’entità del danno che Hirotsu era già accanto a lui, uno strofinaccio pulito in mano.

“Fai pressione sulla ferita,” lo istruì il veterano. “Non credo avrai bisogno di punti.”

Dazai scosse la testa. “Sto bene.”

“Siediti.”

Hirotsu tornò al suo lavoro e Dazai l’osservò in silenzio per alcuni minuti.

“Ti fa male?” Domandò il veterano, una volta finito di riversare tutti gli ingredienti nella ciotola. Recuperò il mestolo e prese a mescolare il tutto.

Dazai scosse la testa, nemmeno si disturbò a controllare se il taglio sanguinasse ancora. “Quante volte, Odasaku ha rifiutato la tua offerta?” Domandò di colpo.

Hirotsu gli lanciò un’occhiata veloce, ma molto eloquente. “Tre,” rispose. “Ho smesso di provarci dopo quello che ti è successo. A quel punto, era chiaro che fosse inutile insistere.”

Dazai sospirò. “Hirotsu, ti prego, almeno tu chiama il caso De Sade con il suo nome. Nemmeno Mori ha il coraggio di farlo.”

Hirotsu lo guardò dritto negli occhi: “credo che Mori non dimenticherà mai il giorno in cui ti ha salvato, Dazai. Forse rivede quella scena nei suoi incubi. Nessuno di noi riuscirà a scordare quello che ti hanno quasi fatto.”

Era semplice: lo avevano rapito, drogato, reso il prodotto di punta di un commercio umano che si finanziava con il benestare di una classe d’élite che correva dall’Asia all’Europa. Nessun silenzio poteva cancellare quegli eventi e Dazai non sopportava di essere trattato come una bambola di ceramica. L’ipocrisia di Mori nel non volerne parlare per il suo bene, quando era stato il suo piano a spingere Odasaku incontro alla morte, era a dir poco ridicola.

“Per tre volte sei andato da Odasaku a proporgli di entrare nella Black Lizard,” disse Dazai, riportando la conversazione nella direzione che gli interessava. “E per tre volte ha detto di no. Lo volevi sotto il tuo comando così tanto?”

Hirotsu scrollò le spalle, con un sorriso amaro. “Tu sai che veniva a sparare insieme agli altri della squadra armata, vero? Diceva di non voler perdere la mano.”

Dazai annuì.

“Oda non era un bravo pistolero,” disse Hirotsu. “Era dotato. Certe cose non le insegni nemmeno con anni di addestramento. Gli chiesi se avesse mai avuto una formazione da cecchino, mi rispose che in passato si era arrangiato per il suo lavoro. Arrangiato, capisci?”

Sì, Dazai poteva capirlo bene. Quando aveva parlato ad Akutagawa delle doti di Odasaku, non lo aveva fatto per il semplice gusto di dargli fastidio. Se quel giovane pistolero non avesse avuto così cara la vita degli altri, nessuno gli avrebbe impedito di fare carriera nel braccio armato della Port Mafia.

“Volevo prepararlo per te,” ammise Hirotsu, sollevando il mestolo per valutare la consistenza dell’impasto. 

Dazai non comprese. “Per me?”

“Diciamo che da qualche tempo fantastico sulla mia pensione.”

“Mori non te la pagherebbe mai. Ti minaccerebbe di miseria pur di farti restare: non sa nemmeno prepararsi il caffè da solo.”

Hirotsu rise, ma non fu un suono allegro. “Oda aveva tutte le carte in regola per essere leader della Black Lizard, gli mancava solo qualche anno sul campo. Se fosse stato il mio successore, me ne sarei andato con la certezza che fossi in mani sicure.”

Il veterano gli voleva bene, Dazai lo sapeva. Odasaku era stato coinvolto nel suo piano per il pensionamento non perché fosse stufo del suo lavoro, ma perché sapeva di non essere eterno. Hirotsu si considerava arrivato, sacrificabile e Odasaku era stato il candidato migliore per rappresentare il suo lascito alla Port Mafia.

La storia era andata diversamente dal previsto.

“Tu lo sapevi,” disse Dazai, accennando un sorriso. “Prima della Mimic e di tutto il casino. Tu lo sapevi cosa eravamo io e Odasaku l’uno per l’altro.”

Hirotsu sollevò la ciotola per versarne il contenuto in una teglia. Si avvalse del diritto di non rispondere.

Dazai non demorse. “Mi ha raccontato della conversazione che avete avuto,” disse. “So che dall’esterno sembrava che parlassi solo io,” aggiunse divertito.

Il veterano portò tutti gli utensili sporchi al lavandino: li avrebbe lavati più tardi. “Era impossibile non notare come vi guardavate. Lui provava a essere discreto, tu neanche un po’.” Una mela era stata mangiata da Dazai, l’altra era caduta a terra. Non gli restava che cominciare a sbucciare la terza. 

Il diciannovenne fece una smorfietta. “Ammetto la mia colpevolezza,” disse. “Non c’è mai stata l’intenzione di nascondere nulla, ma nemmeno di dare spiegazioni. Eravamo quello che eravamo e nessuno se n’è accorto. Tranne te, a quanto pare.”

“Non potevo non parlare con Oda,” si giustificò Hirotsu. “Era più grande di te, veniva dalla strada…”

“Beh, io non sono stato propriamente lasciato in un cestino di fronte alla clinica di Mori.”

“Avevi sedici anni,” gli ricordò Hirotsu. “Mi sentivo responsabile, dovevo tutelarti. Sì, era un compito che spettava a Mori, ma chi ero io per andarglielo a dire?”

“Gli hai parlato del mio corpo,” disse Dazai, passando la mano sana sulla pancia coperta dalla felpa. “Devo ammettere che quando Odasaku me lo ha raccontato, mi sono arrabbiato.”

“Non avevo dubbi.” 

“Era una cosa mia, nemmeno Chuuya sapeva nulla.” 

“Non sono io che ti ho tolto il diritto di rivelarti alle tue condizioni,” gli ricordò Hirotsu. “De Sade giace con una pallottola in testa anche per questo.”

Dazai ne era dolorosamente consapevole. Né De Sade né nessuno dei suoi clienti lo avevano preso carnalmente contro la propria volontà, ma questo non toglieva che lo avessero violato. Avevano esposto il suo corpo come merce da vendere, avevano giocato col modo in cui identificava se stesso. Chi lo aveva salvato, non era colpevole dello stato di nudità - a cui Mori aveva cercato prontamente di rimediare - e semicoscienza in cui lo aveva trovato. 

Ciò non toglieva che Chuuya non l’aveva più guardato nello stesso modo. 

La buccia della mela cadde sul tavolo e Hirotsu prese a tagliarla a spicchi. “Ma già lo sapeva, vero?”

“Eh?”

“All’inizio, pensavo stesse mentendo,” raccontò Hitotsu. “Ho capito in fretta che Oda era un tipo incapace di mentire. Lui conosceva il tuo segreto e, se vuoi saperlo, aveva paura di fare qualcosa che potesse offenderti o ferirti in qualche modo.”

Per Dazai quella era fantascienza. Sì, dopo Mori, Odasaku era stato il primo a vedere cosa nascondesse sotto le bende che gli fasciavano il corpo, ben prima che in loro vi fosse la volontà di legarsi come amanti. Ma avere paura di ferirlo, quando non c’era stata una singola volta in cui lo avesse messo a disagio…

“Ho avuto i miei dubbi,” ammise Hirotsu. “Ma ho avuto anche la sensazione che fosse la persona giusta.”

Dazai si umettò le labbra. “Lo era,” confermò. “Odasaku era la persona giusta.”

Anche se non lo aveva amato.



 

Nessuno dei due si accorse di Chuuya, fermo nel corridoio.




 
   
 
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