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Autore: Snehvide    13/01/2022    1 recensioni
“Dannazione, Levi—” è più un gemito che un rimprovero.
“Non dovresti essere qui—”
Levi prende un respiro profondo, volta la testa dall’altro lato del cuscino ingiallito.
Gli occhi non li apre neppure.
Non ha bisogno di farlo per vedere l’espressione contrariata del volto di Erwin, bastano i suoi stivali contro le assi del pavimento, che scricchiolano ad ogni passo, lamentosi più di lui.
“Ti avevo detto di andare da Hange. Perché non lo hai fatto?”
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[ERURI] [ANGST] [HURT/COMFORT A MANETTA]
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Hanji Zoe, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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The rat who has seen the stars

 

“Dannazione, Levi—” è più un gemito che un rimprovero.

“Non dovresti essere qui—”

Levi prende un respiro profondo, volta la testa dall’altro lato del cuscino ingiallito.
Gli occhi non li apre neppure.
Non ha bisogno di farlo per vedere l’espressione contrariata del volto di Erwin, bastano i suoi stivali contro le assi del pavimento, che scricchiolano ad ogni passo, lamentosi più di lui.

“Ti avevo detto di andare da Hange. Perché non lo hai fatto?”

“Avrebbe infilato le sue manacce ovunque, come al suo solito.”

Erwin sospira grave. Levi fa altrettanto.
Siede sul bordo del materasso irregolare, su di un punto che quasi non fa sentire la sua presenza.
Lo fa ogni qualvolta vuole dargli fastidio o almeno, questo è quello che si ritrova a pensare Levi.
(Perché Erwin sa quanto ami averlo lì, seduto sul suo letto. Lo ama così tanto da amare anche le ragioni che lo portano ad avere Erwin lì – il che è decisamente un paradosso).

La mano che gli si posa sulla fronte è una mano gentile, e fa male.
Levi sussulta.

“Per quanto ancora hai intenzione di restare in questo stato?”

Il vento umido batte contro la finestra; le sue lingue si insinuano attraverso i cardini e lo ghermiscono come rovi.

“Passerà,” continua ad occhi chiusi, impegnato a camuffare il freddo con il fastidio. “Non è niente che non abbia già vissuto.”

“No, non è così. È ancora tutto nuovo per te,” asserisce Erwin stanco.
La mano ancora sulla sua fronte, pesante e dolorosa. “Laggiù l’aria è differente.”

“È l’aria dei culi dei privilegiati che vivono in superficie, lo so.”

“Non è solo questo,” si corregge, “Qui è pieno di roba che potrebbe ucciderti,” 

Sembra una beffa.

La pezzuola sbrodola l’acqua in eccesso nel bacile, ha lo stesso suono della pioggia.
Levi la ricorda ancora, la prima pioggia che ha visto e sentito sulla pelle.
Pensa sia un po’ colpa sua se i volti di Farlan e Isabel abbiano cominciato a svanire dalla sua mente così in fretta; è come se bagnandoli, la pioggia ne avesse accelerato la decomposizione.
Levi continua a tenere gli occhi chiusi, perché non ama l’acqua negli occhi.
Di nessuna natura essa sia.
Continua a farlo anche quando la pezzuola completamente strizzata di Erwin prende il posto delle sue mani.
La loro assenza fa male come solo la loro assenza sa fare.

“Il tuo volto è in fiamme,”

“Passerà—” dice, quasi a labbra serrate.

I rovi gelati si stringono e si annodano creando solchi intorno al suo volto, alle caviglie, alle braccia, al torace, che si incazzano e si gonfiano pretendendo di uscire dalla paratia di pelle che li costringe a stare ancora al loro posto.

“Dovresti andare da Hange.” Ci riprova, Erwin.


Il vento fuori dalla finestra minaccia di abbattere i vetri sputando pioggia e ansiti, e sospiri che fanno vibrare tutto, incluso il suo mondo.

“Dovresti andare davvero da lei, Levi.”

Un lembo della pezzuola gli lecca le tempie.
Levi scosta la testa infastidito, sfiletta aria tra i denti.

“Non voglio andare da quella quattrocchi di merda.” lamenta con voce incrinata.
Forse più di quanto dovrebbe e vorrebbe. “Lasciami scegliere, per una buona volta.”

“Se non lo farai tu, allora sarò costretto a chiamarla io per te.”

Levi apre gli occhi. Anche se la odia davvero, l’acqua negli occhi.

“Stai mentendo”
Soprattutto, odia quella che nasce come gocce, per poi tramutarsi in rivoli.

Ma ha bisogno di vederla la smorfia di Erwin, questa volta. Ha bisogno di vedere come le sue labbra si serrino, e le pieghe agli angoli degli occhi si infittiscano.

“Non ti ha ancora perdonato dall’ultima missione.”

Erwin schiude la bocca, e Levi rimane incantato dalla tristezza che il suo volto emana.
Lo osserva mentre ferito piega il collo imponendosi una imperturbabilità che vacilla.
Ritira la pezzuola dalla sua fronte, pensa a cosa dire.

“Hange è un ufficiale di alto rango. Sono sicuro farebbe un’eccezione, vista le tue condizioni.” finge di non essere a disagio, ma lo è.

“Non lo farebbe comunque.”

Erwin puntella i palmi, abbandona l’angolo del letto senza far rumore. Ritto come un albero secolare, impone e ricompone la sua autorità.

“Hange non parlerebbe con te.” Insiste Levi, lo sfida ancora.

Erwin volta le spalle.

“Allora dovrai andare tu da lei.”

E quell’ordine è capace di farsi sentire anche più dell’ululato del vento.
Più della pioggia che diventa grandine, più di una tormenta di spilli e schegge che si ammassano tutte contro la finestra e picchiano, picchiano, picchiano affinché il vetro cede e si incrina.

“Vai da Hange, Levi.”

Levi digrigna i denti, volta la testa dall’altro lato del cuscino, gelido e umido.

“Sei un fottuto bugiardo, Erwin.”

 

**

“Non è ancora finita.”

Un gemito lancinante, e Levi si sveglia.
Lo fa mentre è ancora riverso a faccia in giù. La bocca e le narici invase dallo sterro, gli occhi pieni di fango, e sangue e merda e Dio solo sa cos’altro.

“Stringi i denti,”

“Non è ancora finita, Levi—”

La voce di Erwin arriva prima della sua agonia.
Prima che senta il suo braccio destro venire come tranciato di netto da mani che stringono lacci e annodano e piegano e bruciano ubbidendo a protocolli dettati da una bacchetta su una lavagna in ardesia e non certo da urla.
Neanche se quelle sono le sue.

E non è neanche come si racconta, no.
Il fatto che il cuore di Erwin adesso batta contro il suo orecchio (in dimostrazione che non ha ancora mantenuto la sua promessa di sacrificarlo a qualcosa di oscuro, così come di tanto in tanto urla ai quattro venti di fronte a un centinaio di soldati incantati) può averlo ingannato, certo – può avergli dato una parvenza di conforto, insieme a quel palmo che impedisce alla sua testa sudicia di andare altrove, ma la verità è che se a un certo punto Levi smette di urlare, è perché non ha più voce né aria.
Perché altrimenti avrebbe continuato a farlo, anche solo per il semplice fatto di essersi pisciato sotto.

Shhhh,” lo culla, come al solito (come lo ha sempre cullato in momenti simili senza che lui ne riesca anche solo a capire il motivo), “Sei stato bravo, Levi—”

E Levi vorrebbe vederlo, perché da che ha memoria, non c’è mai stato nessun ‘sei stato bravo’ di Erwin che non sia stato detto anche dai suoi occhi buoni, ma la controluce è una bestia crudele che gli dice shhhh, accontentati, Levi. È già tanto se puoi ancora vedere qualcosa, sai?’ – e Levi lo fa; scende a compromessi, si accontenta.
In fondo, chi nasce topo di fogna non sa neanche cosa siano le ambizioni, e anche quando lo scoprisse, sa che comunque, non se ne farebbe nulla.
(Solo perché un topo di fogna ha visto le stelle non significa certo che siano lì per lui.)

“Ora ascoltami,” dice, e lo dicono anche i suoi pollici sugli angoli degli occhi, “ascoltami bene, Levi.”

‘Accontentati, Levi—'

“So che è difficile da credere, ma non è ancora finita.”

Il terreno trema: un centinaio di giganti stanno arrivando lì tutti insieme, tutti di corsa.
Ricongiunti dal grido di qualcuno, si lanciano ed esplodono sotto una controffensiva di cannoni e lance fulmine.

“Cosa vuoi che faccia?”

Erwin piega la sua schiena in avanti. Gli stringe i fianchi con le gambe come a tener saldi e caldi entrambi.

“C’è il mare laggiù, riesci a vederlo?”

No che non ci riesce, cazzo.
In quegli occhi c’è finito di tutto, c’è finito ogni orrore. Erwin sembra capirlo prima che il braccio buono (sempre che Levi lo abbia ancora, un braccio buono) possa anche solo tendersi.
Il fruscio di tessuto fende l’aria con un piccolo schioppo, poi il solito lembo di fazzoletto – il suo fazzoletto  sugli occhi.
Il fazzoletto che Erwin sembra portare con sé con il solo scopo di restituirgli qualcosa che gli è stato tolto, che sia la vista o la calma, quando ne ripulisce il viso dal fango. Sempre.

“Riesci a vederlo adesso?”

Prima di guardare l’indice sfocato di Erwin, Levi poggia lo sguardo su punti più amichevoli di quella luce così violenta: è in una grotta; una tana, con molte probabilità.
Nell’oscurità alle loro spalle, animali famelici potrebbero voler addentare le loro carni più di quei titani che si agitano lì fuori, ma non importa.
Non ha memoria di come ci sia finito lì, né ha il tempo di rifletterci.

“Levi, concentrati—” richiama Erwin, indirizza il suo mento verso il punto che vuole che veda.

Le sue retine bruciano anche se ridotte in fessure. Il bagliore della luce esterna è insopportabile.

“Lo vedi il mare?” insiste. “Si fonde con il cielo. È importante che tu veda l’orizzonte. Riesci a distinguerlo?”

“S-sì.”

Erwin ha la risposta che desidera. Sente il suo torace sgonfiarsi mentre esala un respiro che sa di sogni traditi.
Lo fa solo per un attimo. Poi, lo sente di nuovo addosso. Sente la mano di Erwin chiudersi sulla stoffa del suo torace, l’altra – del tutto inattesa, inaspettata – circondargli la schiena.

“Muoviamoci. Hange e gli altri sono già dall’altro lato.”

“Hange e gli altri?”
Non si cura di dar risposta al suo sibilo confuso.
Erwin lo costringe in piedi insieme a lui, ma le sue gambe non funzionano.
Per qualche ragione, nessuno dei due ne è sorpreso.

“Non rimane molto tempo. Dobbiamo andare.”

“Vai tu,” dice, senza quell’indugiare che lo avrebbe reso realistico. “Io non posso attraversarlo.” 
Levi ringrazia il suo collo ciondolante in avanti e la schiena ingobbita. Perché gli permettono di nascondere il volto, e questo un po’ lo scherma alla vergogna: sa che le braccia di Erwin non lo lasceranno e probabilmente, sa anche che è l’unica ragione per cui parla così.

“Non puoi non farcela, Levi. Devi raggiungerli anche tu.”

“E come cazzo pensi che io possa farlo? Non sento le gambe, idiota—”

Ritrova le sue gambe avvizzite avvolte nel mantello del comandante prima ancora che una nuova protesta finisca di disperdere nell’aria ciò che secondo lui Erwin Smith non può fare, e altre stronzate.

“Ti porto io. Andiamo.”

Risuona nel suo torace in due tempi, in leggero in disaccordo con il ritmo del suo cuore.

**

“Non mi chiedi perché ti ho convocato?”

“Non voglio gonfiare ulteriormente il tuo ego.”

Levi trova che con il frinire delle cicale in sottofondo, quella frase riecheggi proprio bene.

Non ha permesso a quel coglione di Flagon di trascinarlo per il bavero come avrebbe voluto: da Erwin, Levi è andato con i suoi piedi.

Caposq—” Flagon si interrompe, “Comandante”,  si corregge arrossendo, “l’ordine era quello di attendere nel suo ufficio, ma questo—” ancora, la sua lingua incespica in parole che crede non si addicano al livello da sé supposto “—questa sorta di ratto di fogna dimostra giorno dopo giorno di non conoscere le più basilari norme di civile convivenza!”

“Va tutto bene, Flagon. Puoi andare. Ci penso io a lui.”

È pomeriggio inoltrato, eppure la luce del giorno è ancora talmente potente da rendere le braccia che Erwin immerge nel secchio come incandescenti. Tira su l’acqua sugli avambracci scoperti senza fare troppo rumore, non schizza nemmeno più di tanto. Ciò che solleva, è più simile a quella spruzzata di punti luminosi di cui si è già tinto il cielo lilla che sulla testa di Levi ha preso il posto della roccia.

“Allora?”

“Oggi Hange ti ha atteso in infermeria per ore, ma non ti sei fatto vivo.”

“Ah,” Levi espira, fa finta che farlo non faccia così male. “Adesso tu e la quattrocchi di merda vi parlate di nuovo?”

Neanche il suo silenzio fa poi così male, si dice.

“Chi te lo ha detto?”

“Mi è stato riferito.” Erwin immerge di nuovo le braccia, sciacqua anche il viso. Ancora punti luminosi, Erwin Smith è una fottuta creatura celestiale, cazzo.  “Non è difficile sapere quando Hange è alla ricerca di qualcosa o qualcuno—”

“E ti hanno anche riferito il perché?”

Erwin finisce di asciugarsi volto e braccia con un telo che ha raccolto dal bordo del pozzo e che ha lo stesso colore della sua camicia, e se non sembrasse emanare luce già così, allora arriva anche il tramonto alle sue spalle a rendere la sua figura ancora più insostenibile alla vista.
Erwin tace nel tempo in cui riorganizza le immagini formate dalla sua mente, poi borbotta qualcosa tra sé e sé che alla fine, gli tende le labbra in uno di quei suoi sorrisi fastidiosi che Levi non ha ancora imparato a decifrare.

“Dai, vieni qui—” dice sogghignando bonario. Uno dei carri lì accanto ha ancora delle scorte, Erwin sembra sapere bene dove mettere le mani, quali bauli e casse aprire.
Si volta all’improvviso: “Riesci a camminare?”

“Come cazzo sarei venuto qui, secondo te?” imprecando mentalmente ad ogni passo, ecco come.
Sull’erba avanza a piccoli passi: non si è ancora abituato a sentirla scricchiolare sotto i suoi piedi, ma la preferisce alla pietra; è più gentile con le sue ossa malandate.

Erwin lo solleva di peso sul bordo del carro quando incespica fin troppo.
Lui si lascia sollevare, perché sì – incespica fin troppo.

Quasi non si accorge delle mani di Erwin che gli liberano il torace da stoffa, imbracature, garze – tutta roba di cui sente di non aver più bisogno dal momento in cui arriva quel tocco, saldo e fresco.
I suoi denti liberano un brivido e con esso, anche tutta la volontà di non dargli alcuna soddisfazione.

“Maledizione,” borbotta Levi a capo chino; la testa bionda di Erwin fa finta di non sentire, le mani bianche di non esitare.

“Posso rifare la medicazione e cambiare il bendaggio,” dice serio, srotolando un rotolo di garza sul palmo, “Poi però dovrai andare da Hange e farti sistemare meglio da lei. Con queste cose è più brava di me.”

“Con queste cose fa schifo più di te, vorrai dire.”

Divertito, Erwin leva uno sbuffo dal naso. La sua mano sulla nuca lo piega in avanti, più di quanto la sutura che ha sulla schiena avrebbe bisogno per essere esposta a ciò che rimane del giorno, ma meno di quanto ne abbia bisogno lui.

Levi recupera la distanza, affonda il naso contro la sua spalla; scopre così che anche la luce ha un odore.

 

**

 

“Raccontami del sottosuolo,”

Nello stesso luogo, in un momento del passato poco definito, Levi aveva visto Erwin lavarsi le braccia circondato da un luccichio simile a quello delle stelle.
Quelle stesse braccia sono adesso strette intorno al suo corpo, e le stelle sono tornate al cielo. 
Nulla sarebbe fuori posto, se non la curiosità spicciola di Erwin che si solleva nell’aria fredda della notte con piccoli sbuffi candidi.

“Del sottosuolo?”

“Sì.”

Levi muove un po’ la testa di lato. È così vicino ad Erwin che le sue ciglia sfiorano il suo collo nudo come tante piccole dita che si accertano della sua presenza.
Riflette sulla domanda. Fuori posto.

“Non ho niente da dirti sul sottosuolo che già non sai.”

Torna a guardare le stelle vibrare.

“In realtà, non so molto al riguardo,” dice Erwin, “Non me ne hai mai parlato davvero.”

Ed è così onesto nella sua ammissione, così ingenuo anche solo nel modo in cui la annuncia che per qualche ragione, Levi prova disagio: all’improvviso, è come se realizzasse di essere rannicchiato sulla spalla di un ragazzino.

“Cosa vuoi sapere?” Calca il fastidio, giusto per non fargli sapere di non avere idea da dove cominciare.
La spalla sotto la sua guancia si contrae, Erwin finge disinteresse.

“Raccontami qualcosa. Qualunque cosa.”

Levi sente la fronte aggrottarsi come ogni qualvolta si trova di fronte a qualcosa che non capisce (e Levi ha imparato a temere qualsiasi cosa non capisca. Anzi, potrebbe partire direttamente da lì: nel sottosuolo, non capire equivale spesso a morire).

“Le stagioni, ad esempio—” avanza, in suo soccorso. “Tenete conto delle stagioni, lì sotto?”

“Di cosa cazzo stai parlando?”

“Oppure le stelle.” incalza ancora, cambiando subito argomento. “Gli abitanti sanno della loro esistenza?”
Le dita che Erwin infila tra i capelli della sua nuca sono lì anche per levigare le parole che sta per formulare, come se il suo animo non potesse permettersi spigolature, o altre crudeltà.

Levi non sa perché sappia queste cose del comandante; come le abbia scoperte, quando le abbia imparate – sa solo che le sa, il che non è per forza un bene.
Se non le sapesse, adesso non starebbe certo lì a sospirare decidendo di accontentarlo.

“Laggiù nessuno sa un cazzo di niente di queste stronzate, e anche se lo sapessero, non gliene fregherebbe nulla.”

“Davvero pensi sia così?”

“Certo che è così.”

Levi si volta pigro su di un fianco e all’improvviso, si sente come autorizzato ad allungare un braccio verso quel torace grande e caldo che ha sotto la coperta accanto a sé.
L’unica mano rimasta ad Erwin gli preme sulla coscia nuda e lo stringe al suo costato. Ed è più di quanto Levi sperasse, per questo cede ancora un po’.
Solo un pochino, si dice ad occhi chiusi.

“Chi nasce nel sottosuolo trascorre la propria vita a tentare di raggiungere il mondo in superficie.”
blatera Levi, i suoi polpastrelli scorrono sulle linee irregolari che Erwin ha sul petto, vecchie cicatrici guarite più o meno bene. Poggia la testa sul suo torace, la sua voce ha un eco diverso.

“Anche quello è un po’ come guardare alle stelle.”

Levi apre gli occhi.

“Da sempre le osserviamo ponendoci domande e interrogativi. Sembra che le stelle siano state messe lì proprio per ricordarci che siamo tutti alla ricerca di qualcosa che non possiamo avere, di un mondo che non ci appartiene ma a cui aspiriamo…”

L’odore dolciastro del sambuco lì accanto era inizialmente gradevole. Levi non sa dire quand’è che abbia cominciato a dargli la nausea.

“La gente del sottosuolo desidera il mondo in superficie, noi quello oltre alle mura. La gente oltre le mura, chissà…” si interrompe, fa una pausa per sospirare, “probabilmente guarderà le stelle e penserà che siano solo stelle…”

“La gente oltre le mura? Ma che diavolo stai dic—”

“Tu cosa desideri, Levi?”

Non è la domanda, ma la velocità con cui ogni centimetro del suo essere sarebbe pronto a gridare la risposta, a lacerarlo.
Levi desidera solo che domani lui non vada. Solo questo.
Desidera che Erwin affidi il comando dell’operazione di recupero del Wall Maria ad Hange, o a Klaus, o a qualsiasi altro soldato di merda della sua legione, e che lui rimanga lì.
Desidera solo che Erwin non guardasse quelle stelle con gli occhi di chi aspira a qualcosa che non può avere.
Non ha bisogno di rifletterci, non ha bisogno di sentire la domanda un’altra volta.
Levi desidera solo essere abbastanza quando, in realtà, è solo un topo.
Un ratto a cui il caso ha concesso di uscire fuori dalle fogne e vedere le stelle.

“Perdonami, mi rendo conto che è una cosa strana da chiedere…”
Le scuse si disperdono nell’immobilità del firmamento e delle sue labbra.

Levi ingoia qualcosa che fa rumore. Puntella i gomiti sulla coperta umida di guazza, cerca di scorgere il viso di Erwin, nel buio ma la luce è sufficiente solo ad illuminarne appena i tratti.

“Dì un po’: la quattrocchi di merda ti ha per caso fatto bere uno di quegli intrugli che cerca propinare a tutti prima di ogni battaglia, o cosa?”

Il petto di Erwin si solleva in piccoli sbuffi divertiti, ma di divertente, Levi non trova proprio nulla.

Scuote la testa.

“No, Hange non mi ha dato proprio nulla, questa volta.”

 

**

“Comandante!”

“Comandante Erwin!”

“Allarme! Il Comandante Erwin è stato colpito!”

Levi sa due–tre cosette circa l’uso del pugnale.
Sa ad esempio che una lama che si muove verso l’alto è in grado di provocare notevoli danni alla spina dorsale, e che raramente lascia scampo. Sa che colpire alle spalle è da vigliacchi, ma spesso chi lo fa non ha altra soluzione: o lui, o l’altro. O gli altri. E in casi simili, beh…
Sa anche che chi colpisce con un tale fendente per poi scappare non è uno qualunque, perché ci vuole una certa assuefazione a questo genere di cose per restare sulle proprie gambe dopo aver pugnalato un uomo, ancora di più se quell’uomo è il Comandante del Corpo di Ricerca.

Sotto al portico, Erwin cade a terra e nessuno dei presenti riesce a frenare la sua caduta.

Miche corre all’inseguimento dell’assassino, Moblit grida il suo nome prostrato al suo fianco insieme ad altri soldati che in pochi istanti gli si riversano intorno.
Levi non si muove.
Sotto la pioggia battente osserva la scena con l’immobilità di chi vede di fronte ai suoi occhi qualcuno sfilare la via la stringa che tiene insieme tutto il suo corpo, e freme.
Freme senza dire nulla. Freme perché in quelle urla è tutto confuso, stonato, inafferrabile.
Tutto è come adesso è Erwin, che all’improvviso smette di essere Erwin e diventa un ricordo lontano, seppellito e sbiadito nel tempo, come i ricordi d’infanzia.
Come qualcosa di cui non riesce a scandire bene l’ordine degli eventi, il prima dal dopo.
Il sogno da ciò che è reale.
Ciò che ha vissuto da ciò che ha solo immaginato, o desiderato, o bramato come si brama solo l’aria.

Ed è anche colpa della pioggia, pensa Levi. Perché la ricorda ancora, la prima pioggia che sentì sulla propria pelle. Ricorda anche che lo confuse a tal punto da fargli credere fosse una cosa bella.

“Erwin—” Ogni lettera del suo nome ha un prezzo, e Levi è disposto a pagarlo tutto: tagli aguzzi alle labbra, chiodi, aghi che tirano fili che Levi non riesce a vedere. Tutto. “Erw—Erwin.”

Le sue gambe si muovono. Lo fanno anche se sono più simili a paletti piantati in una terra piena di ostacoli rigonfi. Levi abbassa gli occhi, e dove c’era il lastricato trova un tappeto di corpi dormienti, forse cadaveri, incastrati uno accanto all'altro come cucchiai.

È già accaduto in passato.
Erwin aveva anche dato un nome a questa cosa, Hange ne aveva spiegato i dettagli dopo averlo esaminato così a lungo da scoprire di avere convissuto per tutti i suoi anni con parti del proprio corpo di cui ignorava l’esistenza.
Quelle cose non sono realmente lì. Non lo erano allora e non lo sono neanche adesso.
E se non sono lì, non è necessario neanche che guardi quei volti nel tentativo di riconoscerne i tratti.
Se non lo farà, non avrà neanche la nausea, si dice. Non finirà in un angolo dei depositi con occhi barrati e la testa tra le mani, perché Erwin non potrà comunque recuperarlo questa volta, e senza Erwin è un casino.
Senza Erwin, è un gran casino.
Ma è tutto a posto: se li ignorerà, loro lo ignoreranno. Potranno continuare a dormire indisturbati, lavati dalla pioggia e lui potrà avanzare.
Lui potrà raggiungere Erwin prima che i fantasmi di quegli stessi corpi lo portino via.

Levi li scansa uno dopo l’altro con rispettoso contegno, solleva le gambe pesanti e dolenti, raggiunge il portico.

“Erwin!” prova a gridare, ma non esce che un sibilo. Inciampa, incespica. “Erwin!”

Ma non cade, non cede – non si arrende.
Ed è ridicolo che una sola mano che sbuca dall’oscurità di una colonna l’abbia vinta dove centinaia di braccia tese come steli hanno fallito.

Gli copre la bocca bagnata, non ha bisogno neanche di premere più di tanto: lo trascina con sé nell’ombra prima che abbia il tempo di realizzarlo.

“Non ti muovere.” 
Riconosce quel fiato umido contro il suo orecchio.

Hang—” 

“Zitto!” Serra la stretta, scuote le guance dissuadendole dal voltarsi. Levi perde il respiro. “Non una sola parola, Levi.”


Ma è la lama calda del pugnale puntato alla gola però a compiere il vero disastro.
Parla alla pelle, rivela verità che solo lei è in grado di interpretare. Il sangue di Erwin.
Quello che gli sta sbavando minaccioso addosso, è il sangue di Erwin.
Ne porta in qualche modo anche l’odore, la viscosità– ne porta ciò che la sua persona sarà in grado di riconoscere sempre, ovunque, per sempre.


“Non costringermi a fare a te ciò che ho fatto ad Erwin.”


In condizioni normali una frase simile porterebbe il cervello a mollare qualsiasi cosa sia stato impegnato a fare, per poi farlo esplodere.
Levi non è sicuro che non lo abbia già fatto.
Levi non è neanche sicuro di non augurarsi che non lo abbia già fatto.

Attraverso lo spazio tra le dita, Levi aspira come se stesse immagazzinando aria a sufficienza per urlare, pur sapendo di non poterlo fare.

Avanza di qualche passo sotto la spinta del torace di Hange; la lama del pugnale sempre al collo, la mano alla bocca. Preme più di quanto le spalle gli concederebbero prima che gli stimoli di dolore confermino che sì, il cervello è ancora lì– grazie tante. Non è detto possa usarlo, però.
Hange-ha-ucciso-Erwin è un ingranaggio rotto, un liquido colloso che ne rallenta il funzionamento.

Hange scruta guardinga intorno a sé, attende che un gruppetto di reclute affannate raggiunga l’altro lato del patio, poi serra il petto alla sua schiena, e lo costringe a seguirla.

“Dobbiamo andare via da qui, forza. Muoviamoci!”

“Via dove?”

Lo spinge a calpestare insolente tutti i cadaveri dalle braccia tese verso stelle invisibili, la domanda sembra adesso rimbalzare di palmo in palmo, proprio su di loro.
Dove?


“Via.”

 

**


“Levi—”

L’inferno è questo. Levi non ha dubbi.

È il suono della voce di Erwin che si confonde con lo sfolgorio di una torcia indispettita ma non arresa alla pioggia. Sono le chiome di alberi giganti che si agitano intrappolate in un cielo nero e denso come il carbone, è quello stato di terrore, di confusione e di paradossale lucidità che subentra in sogno nell’istante in cui ci si accorge che non è un sogno ma il preludio di un incubo, e non ci si sveglia.
Perché non si è ancora in grado di farlo. Perché si è stretti così forte sotto quelle mani un tempo amiche che nulla al di fuori di quella morsa appare reale.

Erw—”

Hange arresta il passo.
Lo fa come se per tutta la vita non avesse fatto altro che esercitarsi per quel momento, in quel posto, su quell’erba.
Si volta di colpo, lo trascina con sé nel movimento, e Levi lo vede.

Vede la luce della sua fiaccola dar vita alla sua figura solo per metà, ed è così bello, Erwin.
È così bello che se non le sue labbra, a dirglielo saranno allora i suoi occhi, che si riempiono d’acqua, che scende giù sulle dita di Hange e dice ‘quanto sei bello, Erwin. Quanto sei bello.’ (e ‘quanto mi sei mancato, Erwin, quanto mi sei mancato’).


“Sei viv—”

Shhh, zitto!” è un sussurro incrinato, fragile ed incerto come mai un ordine dovrebbe esserlo.
La punta del coltello che punge e ferisce il suo pomo d’Adamo aggiusta il tiro, ma Levi non sussulta nemmeno.

“Un altro passo e gli riservo il tuo stesso trattamento, Erwin. Io non scherzo.”

Erwin prende un respiro, stira le labbra in una linea sottile, e sì – è l’Inferno.
Levi lo pensa davvero.

“Abbassa quel pugnale, Hange. Tu non lo farai.”

“Vuoi vedere?”

Erwin scuote la testa, Hange striscia la lama del pugnale da un punto all’altro del volto di Levi, che vorrebbe urlare, e lo potrebbe anche fare, visto che non ha più le sue dita umidicce sulla bocca, ma non riesce. Perché Erwin non si muove, ed Erwin non può non muoversi. Non ha senso che non si muova.
Non può osservare come una statua di granito la quattrocchi di merda sclerata e starsene lì, fermo sotto la pioggia battente a guardare, e respirare, e scuotere la testa piano mentre il suo cuore – Dio, perché riesce a sentire il suo cuore? – non si agita. Non si scompone, non si ferma come si è fermato il suo a un certo punto e diamine – diamine, Erwin, perché osservi tutto questo e non fai niente?

È quanto le sue lacrime nuove – quelle rosse, quelle versate da un occhio che si spegne – gli dicono.

“Ti basta come prova, Erwin?”

Erwin chiude gli occhi, abbassa il capo. Rimane per un attimo così, poi scuote ancora la testa.
Lo fa in un modo diverso da prima.

“Posso fargli anche di peggio, se vuoi.”

Erw—”

“Ti ho detto di stare zitto!”

“Non serve che tu faccia altro, Hange,” si interrompe, fa una pausa.

“Sai anche tu che non è così che sono andate le cose.”

Lo sterno dietro la sua schiena rimane per qualche istante fermo e immobile.
Poi, riprende a respirare ad un ritmo nuovo, lento, controllato.

Erwin comincia ad avanzare, e Levi sente il bisogno viscerale di andargli incontro, di raggiungerlo prima che lo faccia lui, e non sa neanche il perché, e non sa il perché pensi che il suo desiderio sia così forte da poter essere percepito anche da Hange, e anche da Erwin, e anche da tutto quel bosco di alberi giganti che di colpo comincia ad agitare le fronde scosso da un vento ostile che prima non c’era, e che gli sputa in faccia pioggia e lamenti, e mormorii convulsi mentre inciampa sotto la spinta del braccio di Hange che lo trascina con sé, arretrando.

“Stai indietro.”

“Sono dalla tua parte, Hange.”

“Stai indietro, ho detto!”

Hange si arresta, e lo sente anche lui, il ciaf-ciaf sotto la suola dei suoi stivali.
Lo sente prima di avvertire lo sciabordio dell’acqua oscura che intravede sotto di sé con la coda dell’unico occhio che gli è rimasto. La quattrocchi di merda impazzita indietreggia ancora di qualche passo, cede al ricatto quando ha la conferma che no, non è una semplice pozzanghera.
Alle loro caviglie c’è un lago o un fiume. Forse persino il mare. Quella distesa blu che Levi non ricorda se ha già visto o se ha solo immaginato ascoltando i discorsi sciocchi delle reclute in uno di quei momenti in cui ha pensato che sì, il mare poteva anche farsi fottere.
Da bravo ratto, non avrebbe saputo cosa farsene di una distesa d’acqua salata.
Da bravo ratto, lui alle stelle avrebbe continuato a chiedere Erwin.

“Dannazione—” la presa di Hange si allenta, i muscoli delle sue braccia perdono tonicità mentre volta la testa a destra e poi a sinistra delle sue spalle, braccata. “Dannazione.”

Erwin rallenta il passo, c’è della rispettosa pietà nella scelta di farlo.
E viene da ridere, è quasi una barzelletta di cattivo gusto, come tante altre cose da un po’ di tempo a questa parte.
Come quella pioggia divenuta una manciata di aghi pungenti che Levi sente picchiettare sulla schiena, come se non fosse già carica d’acqua.

Ma è solo un sottofondo, e i sottofondi sono facili da ignorare, no?
C’è il respiro di Hange che si ingrossa, si inceppa più volte mentre abbassa le braccia ai fianchi, e Levi sa che non avrà una seconda occasione: se vuole allontanarsi, deve farlo subito. Eppure, qualcosa dentro di sé lo fa esitare, una sorta di senso di pentimento, come ingratitudine verso qualcosa – ma cosa, di preciso, Levi non sa dirlo. Ed anche questa volta – Levi ne è sicuro – è colpa di quella cazzo di pioggia.

Avanza di un passo, poi incerto, di un altro. Smuove l’acqua sotto ai suoi piedi, si sorprende di riuscire a compierne un terzo, quasi ne è deluso, ma Erwin è così vicino, e il suo unico occhio così abbagliato da quella torcia che d’improvviso sembra avvolgerlo per intero e irradiare luce come un sole, e va bene così.
Va assolutamente bene così.
La stretta al braccio arriva al quarto, ed è una presa silenziosa, di quelle che non credono molto in quello che fanno, ma ci provano lo stesso.

“Levi—” Hange leva il suo nome, insieme alle lacrime, o una collera indicibile, o tutt’e due.
“Levi, stammi a sentire.” Si sforza di rimodulare il tono; il filo dei pensieri che tenta cautamente di articolare viaggia nell’aria trasportato da piccoli spifferi sottili, e a Levi sembra quasi di poterli sentire tutti, come quelle dita che si puntellano al suo braccio.

“Non ascoltarlo.” Paga quella frase con più dolore di quanto riesca a sopportare.
“Qualunque cosa Erwin ti dica, tu non ascoltarlo. Non devi ascoltarlo, Levi. Promettimi che non lo farai!”

“Non è necessaria alcuna promessa, Hange.” dice Erwin, ma Hange è coerente, e non lo ascolta.
Anche senza vederla, Levi sa che questa Hange non ascolta.
Serra la stretta al braccio, le unghie grattano.

“Levi, promettimi che non lo farai. Promettimelo!”

Levi si volta, si accorge solo adesso di vederla in viso per la prima volta: è come aveva immaginato di ritrovarla.
Stanca, smagrita – il residuato di una fierezza che non esiste più.
Levi la guarda per un po’. Guarda le sue nocche inarcate sul suo braccio, guarda la palpebra dell’unico occhio rimastole raggrinzirsi.

Corruga le sopracciglia: “Perché dici questo?”

Hange inspira, storce la bocca, la sua voce si rompe per sempre.

“Perché quello non è Erwin.”

Al bagliore di un lampo che le illumina la faccia, Levi vede le lacrime brillare.
Lo stesso si irradia poi nello stomaco, e non è sorpreso, no – lui lo conosce.
È un vecchio dolore, una carneficina delle viscere che è nata e cresciuta insieme a lui. Fin troppo familiare.
Arriva, e le sue interiora si torcono, i suoi polmoni esplodono sotto l’aria che non riesce ad esalare, e forse è proprio per questo che alla fine, glieli concede davvero, quei passi indietro che Hange gli chiede.

“C-ci sono giganti che sono in grado di assumere le sembianze della persona che più desideri rivedere.” balbetta incerta.

“Cosa?”

“Io e Moblit avevamo cominciato a sospettarlo già da qualche tempo, ma—” freme, le mani che affretta sulle sue guance giungono improvvise ed inopportune.
Levi solleva le braccia, getta indietro la testa.

“Che cazzata è mai questa, quattrocchi di merd—”

“Ha ragione.”

La solennità di Erwin rende il martellare che Levi ha nelle tempie ancora più marcato. Poi, come se avesse sino ad allora mantenuto quella parvenza solo per beffa, Erwin piega il capo, rilassa il viso, e sorride.

“La seconda parte è una trovata ingegnosa, c’è da dirlo. I miei complimenti per l’inventiva, Hange.” dice, “Ma la prima è vera, Levi. Hange ha ragione.”

Ed è strano, il luccichio che adesso vede tutt’intorno. Direbbe siano stelle, o lucciole, o il sollevarsi di piccoli aliti di fuoco di un mondo che brucia su sé stesso perché Erwin ha pronunciato le parole che mettono fine all’incanto, ma poi si rende conto che è solo la mancanza di ossigeno a fargli vedere quelle stelle, perché respirare non è più una priorità.
(E a quel punto, viene anche da chiedersi se le stelle a cui ha affidato i suoi desideri non siano solo l’illusione di un ratto del sottosuolo che ha smesso di respirare).

“Ma è vero anche che quella non è Hange—”

“Erwin, ti prego—” geme Hange, ed anche il bosco che un fulmine incendia lì, da qualche parte, in lontananza.

“Nel mio caso, è stata la scuola—” dice Erwin, dopo una pausa diluita nel tempo di un altro universo, “C’era mio padre, c’erano i miei compagni – c’eri anche tu. E ci hai provato, sai?”

“Provato –?”

“A salvarmi, intendo. “

E suona più o meno come l’eco di un cuore che si spezza in tanti pezzi.
E Dio, Levi neanche sapeva di averlo ancora, un cuore da farsi spezzare in tanti pezzi.

“Hai anche tentato di uccidere mio padre, volevi che andassi con te.” aggiunge, “È davvero difficile distinguere i ricordi dagli stimoli esterni, da ciò che la tua mente crea e ciò che invece è esistito davvero, e da— tutto il resto. Guarda Hange, ad esempio,”

Non si era neanche accorto che è crollata sulle ginocchia, ingoiata per metà dalla fanghiglia alla quale si è già arresa.

“La vera Hange è lì fuori. Sta lottando per strapparti alla morte, e mi sta supplicando di aiutarla.”

“Hange non supplica.”

Erwin chiude gli occhi, sorridere mestamente. “Ti assicuro che lo sta facendo. Le è bastato sentire il mio nome sulle tue labbra perché cominciasse a farlo.”

Ma l’immagine di Hange che supplica non arriva. Arrivano le lacrime, invece. Tornano, per essere precisi.
E non dicono nulla, questa volta. Non parlano, non commentano – niente.
Sbucano fuori dal suo unico occhio quasi per scherno. Quasi per la semplice voglia di distorcere l’immagine di Erwin sempre più difficile da sostenere.

“La disperazione fa fare cose insolite, Levi. Supplicare un uomo che non è più tra i vivi, chiedere alla persona che ami di cercare una verità e una vendetta che porterà solo a tutto questo…”

Prima della mente, sono i muscoli, e le ossa, e piccoli agglomerati di nervi intrecciati sotto la sua pelle, a ricordare.

“Ti ho fatto una promessa, Erwin—” La sua bocca sembra muoversi da sola, la sente storta, dolorante, impigliata da fremiti (e fili) che, in loro assenza, la porterebbero a spalancarsi e urlare, urlare, urlare.

“Le promesse vanno mantenute solo se quanto promesso è davvero importante, Levi.”

Erwin lo fissa, ma lui non riesce più a vederlo sotto quell’impiastro che ha in volto. Vede solo una massa gelatinosa irradiare luce; qualcosa gli dice che stia sorridendo.

“Quante cazzate, Erwin—” Levi gonfia il petto, prende fiato – “Non è forse la verità la cosa più importante per te?”

“La cosa più importante per me è che tu viva,” ammette, “e che io possa essere ancora per molto tempo ciò che chiederai le stelle.”

 Il vento muta, e con lui anche la pioggia cambia rumore e direzione. Sparpaglia i capelli di Levi ovunque, le lacrime, beh – quelle brutte stronze riprendono solo adesso a parlare.
Ma Levi non vuole sentire. Non ha voglia di sentire i loro patetici ‘non voglio, non voglio, Erwin, non voglio’ perché se le ascoltasse, non sa se riuscirebbe poi a dar retta a quella mano di Hange che timida e previdente torna a cingergli il braccio. Non sa se riuscirebbe a dirgli addio, non sa se riuscirebbe davvero a farlo ancora, un’altra volta, senza sentire la sua vita consumarsi, il suo stomaco e la sua anima lacerarsi insieme a quel pensiero.

“Adesso va’ da Hange, Levi. Va’ da lei, prima che sia troppo tardi. Saprà cosa fare.”

E non ci sono che un paio di centimetri da quel braccio che Erwin stende e che guizza di luce.
Un piccolo passo, uno strattone neanche tanto forte alla quattrocchi, e sarebbe fatta, Levi lo sa.

“Puoi farcela, Levi—” esala Hange, lo lusinga con parole lievi e con le rughe della fronte che si ripiegano su sé stesse come le piccole onde sotto di loro “Tu sei più forte di tutto questo—”

Ed è una vera e propria bastardata.

“Tu sei più forte di tutto questo!”

Far decidere tutto a lui, è una vera e propria bastardata.

Levi stringe le mani alla testa mentre cede, o peggio – scivola all’indietro. Crolla alla presa della quattrocchi che infila le sue manacce dappertutto, lo avvinghia e lo trascina oltre l’acqua come un naufrago, ma al contrario. E mentre l’incendio di luce in cui brucia Erwin si fa sempre più distante portando con sé parti di sé che ha perso per sempre, Levi sì – lo pensa davvero.

“Sei un fottuto bastardo, Erwin Smith—”

 

 

 

“Levi—!”

Non sente il passaggio dal sonno alla veglia. Quando riapre gli occhi, è come se niente fosse cambiato. Nulla.
È tutto lì, esattamente come lo è stato. La pioggia, gli alberi, il freddo che trafigge le ossa.
Tutto è cielo. Cielo e stelle. Stelle visibili anche attraverso le nubi nere.
Cambia l’intensità con cui brillano, forse – ma del resto, non tutte le stelle brillano allo stesso modo.
Levi è pronto ad accettarlo anche così, forse è questa accettazione a farlo rabbrividire – a far dire ad ogni singola parte irrazionale del suo essere, ‘no, no, che cazzo dici, Levi, no—'.
Una mano sgraziata sul volto, sul petto, sul collo, e pungolati, i suoi nervi tornano a funzionare, dando il via ad un crescendo dolore che si irradia sino a diventare l’unica dimensione in grado di percepire, e Cristo.

“Levi,” grida la quattrocchi, quella vera. “Levi, mi senti? – Levi!” lo fa forse più di quanto potrebbe. La sua voce distorta ricorda il verso di un animale notturno, qualcosa che si nasconde tra le fronde degli alberi, che come lei, Levi sente frusciare, ma non vede.

E vorrebbe piangere quando in un impeto sgarbato, Hange gli solleva la schiena e lo porta al suo petto, stringendolo e cullandolo, e ripetendo il suo nome ai timpani come temesse possa averlo scordato.

Vorrebbe piangere, Levi – ma rinuncia: sa che sarebbe solo il sottofondo inutile ad un pianto molto più accorato, molto più efferato, e non ne ha la forza né le energie.
“Grazie—grazie, Erwin—grazie!” leva Hange confusa tra ansiti e singhiozzi, mentre solleva il mento al cielo e le dita vagano, e si piegano, e poi si incastrano sulla sua nuca gelata, ancora, ancora, alla ricerca di un appiglio, un gancio, qualcosa che possa frenare il suo pianto, e dirle che sì – ha vinto.

Lei e Erwin hanno vinto.

Levi espira, rilascia l’aria contro il suo collo, le dà la conferma che cerca: questo mondo ha ancora un ratto che ha visto le stelle.

Fine

 

__

NOTE:

Scritta per la Saint Lucia's day challenge - gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO) Prompt: "Tu invece no”.

Betata da Giulia, Eikomidori e Asuka, che hanno fatto anche da pre-reader (in poche parole, le ho massacrate con sta roba per settimane)
Un’altra di quelle fanfiction incomprensibili che ho deciso comunque di scrivere. Spero vi sia piaciuta!

Grazie per la lettura!

 

   
 
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