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Autore: Ode To Joy    14/01/2022    1 recensioni
[Past Odazai]
[One-side Soukoku]
“Puoi farmi una promessa?”
Chuuya s’imbronciò. “Tra noi non ci sono promesse, solo minacce.”
“Non è per me,” si affrettò a dire Dazai. “È per il bambino. So che gli vuoi bene.”
“Io non-“
“Volere bene a mio figlio, non implica volere bene a me.”
Chuuya lasciò andare un sospiro esasperato. “Che cosa vuoi, Dazai?”
“Per il mio compleanno, ti chiedo un regalo,” disse Dazai, senza guardarlo negli occhi. “Se mi accadesse qualcosa, dedicheresti la tua vita a proteggere mio figlio?”
“Questo posso promettertelo senza che tu vada da nessuna parte. Hai la mia parola.” Chuuya non avrebbe potuto rispondergli in nessun altro modo.

.
La morte di Odasaku ha posto fine alla guerra contro la Mimic, un modico prezzo per garantire alla Port Mafia l’ultimo tassello di potere di cui aveva bisogno.
Dazai non lo accetta, ma le persone a cui ha voltato le spalle - e da cui è stato ferito - sono le sole a cui può chiedere aiuto, ora che Odasaku lo ha condannato ad avere un futuro.
[Trans!Dazai] [Unplanned Pregancy]
- Fanfiction partecipante al Calendario dell’Avvento di Fanwriter.it -
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Ango Sakaguchi, Chuuya Nakahara, Kouyou Ozaki, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
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V

 

La luce della luna era come un secondo sole in quella notte di fine settembre. L’aria si era fatta più fresca, ma Dazai non riusciva a chiudere occhio. 

“Non vuoi proprio stare buono, Saku-chan?” Mormorò, con un sorriso dolce e amaro al contempo. Ormai riusciva solo a dormire su un fianco e Sakunosuke non faceva che muoversi. “E pensare che tu eri una presenza così tranquilla, Odasaku.”

Il fantasma era di fronte a lui, una silhouette scura contro la luce della luna. Nei suoi deliri, Dazai riusciva a riprodurre la sua voce ma non poteva fare lo stesso col suo viso, coi suoi occhi. Soprattutto i suoi occhi.

“Non so nemmeno perché continuo a parlare con te,” ammise Dazai. “Non mi amavi, dovrei essere in grado di lasciarti andare.”

“Il fatto che tu l’abbia capito, non significa automaticamente accettarlo.”

Dazai voleva che si avvicinasse, che lo toccasse. Avrebbe dovuto essere reale per farlo. “Tu lo avresti voluto?” Domandò, passando la mano sulla pancia. Storse la bocca in una smorfia e si rispose da solo: “certo che lo avresti voluto. Difendere gli orfani e i più deboli… Non avresti mai abbandonato tuo figlio.”

“Ma dovere e amore sono due cose diverse,” ribatté il fantasma con la voce di Odasaku.

“Ma tu lo avresti amato tuo figlio,” ribatté Dazai. Ne era sicuro come poche cose nella sua vita. “Per tuo figlio, forse avresti imparato ad amare anche me. Chi lo sa?”

“Se volevi essere amato, perché nemmeno tu hai mai dato un nome a quello che ci legava?”

Dazai si umettò le labbra. “Questo è ingiusto,” replicò. “Non sono io quello che se n’è andato.”

“Hai evitato di rispondere a Chuuya e ora lo fai anche con te stesso.”

Odasaku non sarebbe mai stato tanto sadico con lui. Se fosse stato davvero lì, lo avrebbe tirato fuori - magari con un po’ di forza - dal vortice distruttivo dei suoi pensieri e lo avrebbe spinto a concentrarsi sulla realtà, sul bambino che cresceva dentro di lui e su cosa era giusto fare per la sua sicurezza. No, non si sarebbe lanciato in finte dichiarazioni di amore per tranquillizzarlo. Hirotsu aveva detto una cosa giusta: Odasaku era un uomo incapace di mentire.

“C’è solo una persona a cui devo una risposta,” replicò Dazai. “Quando il giorno arriverà, sarà a mio figlio che risponderò.”

“Comodo…”

“Non sei nella posizione di dirmi che cosa è comodo e cosa non lo è,” ribatté Dazai, senza alcuna nota di affetto nella voce. Era arrabbiato, lo era da quando Odasaku gli aveva dato le spalle e se ne era andato senza voltarsi indietro. “Tu sei morto e hai condannato me ad avere un futuro, senza di te.”




 

Gli alberi del parco sul retro della clinica si erano tinti di tutte le sfumature del giallo e dell'arancione, quando Mori tornò a vivere lì. La sua prima impressione fu di essere tornato indietro di quattro mesi e mezzo. Dazai aveva smesso di nuovo di parlare e con la scusa che il bambino non lo faceva dormire bene, restava isolato nella sua camera per la maggior parte del tempo.

“Vai tranquillo, Mori, prenditi una pausa!” Esclamò il Boss con sarcasmo, mentre riordinava sulla sua scrivania tutti gli esami e le ecografie che aveva fatto fare a Dazai in quei mesi. “Abbiamo tutto sotto controllo!”

Seduta sul divano sfondato, su cui Chuuya aveva dormito per tutta l’estate, Kouyou gli lanciò un’occhiata tagliente. “Andava tutto bene, fino a che non abbiamo detto a Dazai che saresti tornato.”

“Ma guarda un po’!” Mori non ne era affatto sorpreso. “Figurarsi se non è tutta colpa del brutto Boss cattivo della Port Mafia!”

“Puoi fingerti un uomo adulto?” Domandò Kouyou, sebbene fosse la prima a dubitarne.

“No, ho passato troppo tempo in mezzo agli adolescenti!” 

“Non è colpa tua…”

Ci mancò poco che Mori buttasse tutte le carte per aria per lo spavento. No, non erano tornati indietro di quasi cinque mesi ma di ben cinque anni, quando Dazai si divertiva a girare per la clinica senza far rumore, come il fantasma di un romanzo gotico.

“Dazai,” disse con calma, voltandosi verso la porta aperta. “Potresti tornare ad annunciarti, invece che spuntare fuori dal nulla?”

“È un po’ difficile spuntare fuori dal nulla così,” replicò il giovane, indicando la pancia di sette mesi. “Ripeto: il mio cattivo umore non dipende da te.”

“Oh…” Mori ne era piacevolmente sorpreso. “Ne sono lie-“

“Ti odio e ti auguro di morire in modo lento e doloroso, ma devo accettare che mi servi,” aggiunse Dazai, con schietta semplicità. “Per tanto, non darti l’importanza che non hai.”

Se ne andò senza far rumore, come era arrivato, lasciando Mori con più malanimo di quanto ne avesse prima. La risatina che Kouyou non riuscì a trattenere non fu di aiuto per i suoi nervi. Il Boss della Port Mafia era uscito dal suo ufficio vista mare da meno di un’ora e già non vedeva l’ora di tornarci.

Forse percependo l’enorme stato di stanchezza in cui si trovava, Kouyou si alzò in piedi e gli arrivò accanto. “Beh… È una bella notizia.”

Mori le lanciò un’occhiata eloquente.

“Rispetto al punto di partenza, qualche passo avanti lo ha fatto,” aggiunse lei, facendogli l’occhiolino.

“È successo qualcosa con Chuuya?”

“No… Cioè, non più del solito. Hirotsu mi ha detto che sono stati insolitamente tranquilli nelle ultime settimane.”

“E questo non è sospetto?”

“No, perché Chuuya stesso è venuto a chiedermi se Dazai mi avesse confidato qualcosa.”

“E lo ha fatto?” Indagò Mori.

Kouyou scosse la testa. “Però ho un’intuizione.”

“Ti ascolto.”

“Dazai ha ancora qualche questione irrisolta. Non tu, ti ha detto chiaramente quello che pensa appena un istante fa.”

Mori s’imbronciò. “E cosa potrebbe mai disturbarlo più di me?”

Kouyou alzò gli occhi al cielo. “Tu e Chuuya siete uguali: non potete proprio accettare che Dazai viva in un mondo di cui voi due non fate parte.”

Il medico allargò le braccia. “Per vivere in un mondo simile dovrebbe essere schizofrenico… O ammazzarci tutti e due.” Non sapeva sinceramente quale delle due ipotesi fosse più realistica. “Torniamo alla tua intuizione, mia cara.”

“Per un po’, ho pensato che a turbarlo fosse il bambino.”

Mori aggrottò la fronte. “Non ha mai dato segno di averci ripensato.”

“Tranquillo, Sakunosuke nascerà e non glielo toglieremo più dalle braccia. Di questo ne sono certa.”

“E quindi?”

“Il problema non è Chuuya, non sei nemmeno tu. Per esclusione, resta solo chi lo ha lasciato in questa situazione,” concluse Kouyou, con una nota dolente.

Mori sapeva benissimo a chi si riferiva: “Oda…”

Kouyou posò la mano sulla sua spalla. “Detto e considerato che sei colpevole della sua morte, non lo hai trascinato al quartier generale della Mimic per farsi ammazzare,” disse a bassa voce, quasi fosse un segreto tra loro. “Dazai può essersi sentito tradito da te, ma di sicuro ha vissuto la scelta di Oda come un abbandono.”




 

“Sei riuscito a trovare Ango?” Domandò Dazai, incrociando le gambe e appoggiando la schiena alla moltitudine di cuscini con cui aveva ricoperto la testiera del suo letto. 

Kouyou era di nuovo andata in missione ai grandi magazzini ed era tornata con tanta di quella roba che Chuuya aveva imprecato in una lingua sconosciuta per portare tutto al piano di sopra. 

“Potevi usare la gravità,” era stato il modo in cui Dazai lo aveva accolto in camera sua, carico di un nuovo guardaroba per un bambino non ancora nato. Chuuya non aveva perso tempo a ricordargli che il Boss non voleva che usassero i loro poteri per fare cose ordinarie: Dazai non aveva mai memorizzato la regola perché, a differenza sua, non ne aveva bisogno.

E ora si ritrovavano lì, con un centinaio di completini da ripiegare e il malumore di Chuuya, peggiorato da quel tripudio di azzurro. “Ma anche il rosso va benissimo per i maschi,” si lamentò.

Dazai si appoggiò una tutina sulla pancia e storse la bocca. “Pensavo che fossero più piccoli da neonati!” Esclamò, calcolando quanto dovesse ancora crescere per contenere un bambino di quella stazza.

“Sono completi da dodici mesi,” disse Chuuya. “Se la lasci indisturbata, Kouyou potrebbe arrivare a comprare il suo completo per i diciotto anni.”

“Ho difficoltà a immaginarmi con Saku tra le braccia, figurati se riesco a pensare che un giorno avrà la nostra età.”

“In effetti…”

“Allora, con Ango?”

Chuuya sbuffò esasperato. “Non è più così facile contattarlo e non posso andarlo a rapire quando esce dal lavoro.”

“Davvero? Pensavo che i mafiosi facessero questo.”

“Idiota…” Chuuya continuò a piegare vestitini. 

Passarono alcuni minuti di silenzio e quando si dilatarono troppo, il rosso alzò lo sguardo e trovò gli occhi scuri del suo partner che lo fissavano. Sobbalzò. Dazai rise e si sentì uno stupido.

“Cretino,” lo insultò Chuuya, per il suo attacco d’ilarità.

“Tu non sei qui per dovere,” disse Dazai, col tono di voce di chi è arrivato a una conclusione dopo una lunga riflessione.

“Ma che dovere e dovere…” Chuuya usava il suo solito tono, ma non riusciva a guardarlo negli occhi. “Nessun uomo decente ti volterebbe le spalle in questo momento, nonostante lo stronzo che sei.”

Era una confessione importante, ma Dazai non ne era realmente sorpreso: Chuuya era sempre stato il più umano di tutti loro, anche nei suoi momenti peggiori. “Quel nostro ultimo litigio-“

“No,” lo interruppe Chuuya.

Dazai prese un respiro profondo. “Quando hai incontrato Ango alla villa di Randou, ero lì.”

Chuuya rimase bloccato con una piccola salopette sospesa a mezz’aria. La adagiò sul letto molto lentamente. “Lo sapevo.”

Dazai sorrise e scosse la testa. “Se lo avessi saputo, non saresti stato così disperato e sincero.”

“Non ero disperato!”

“Sei un cane rabbioso.”

“Prego?” 

“Ringhi anche come un cane,” aggiunse Dazai, divertito. “Hai una personalità deleteria.”

“Senti chi parla!”

“E nei miei giorni di noia, il mio unico pensiero è come rovinarti la giornata senza essere banale.”

“Questo lo sanno anche i muri!”

“Ma non sei niente,” aggiunse Dazai con serietà. “Sei la cosa peggiore della mia vita, che è diverso da niente.”

No, Chuuya non poteva davvero reggere il suo sguardo dopo quello. Pensò d’ignorare la cosa e tornare a piegare vestitini color pastello, ma poi si sarebbe trascinato dietro un malanimo troppo pesante e doveva restare lucido per il bene di tutti.

“Col senno di poi, avevo solo perso importanza,” concluse Chuuya, con un’inclinazione amara che non si disturbò a nascondere.

Dazai non lo negò.

“Avevi la testa da un’altra parte,” aggiunse il diciannovenne dai capelli rossi, trovando un improvviso interesse per la finestra alla sua destra e il panorama autunnale fuori. “Adesso lo so. In ogni caso, non avrei mai dovuto metterti le mani addosso in quel modo perché mi sentivo ignorato.”

Dazai accennò un sorriso. “Sono duro a morire.”

Il viso di Chuuya divenne il ritratto della noia. “Dovrebbe far ridere?”

“Non lo so, ma sei tornato a guardarmi in faccia, quindi ha funzionato,” cinguettò Dazai.

Chuuya aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi dichiarò la resa. “Bastardo…”

Tanto vinceva sempre lui.

Passarono dieci minuti di battutine di Dazai e Chuuya che lo intimava di chiudere la bocca, tra un vestitino da piegare e l’altro. Kouyou li trovò così, in quel raro stato di grazia. “Vi divertite?”

“Neanche un po’!” Chuuya si alzò dal letto per riporre gli ultimi indumenti nell’armadio di Dazai - che del legittimo proprietario conteneva davvero poco - imprecando per il poco spazio che era rimasto. “È successo qualcosa?” Aggiunse con voce più cordiale. A dispetto dei loro ruoli, la sua maestra era meno morbida del Boss nell’accettare i suoi toni nervosi.

“Rilassati, non riguarda te,” disse Kouyou.

Chuuya guardò Dazai, che aveva smesso di sorridere. “Ti manda Mori?” Domandò quest’ultimo.

“Sono qui per una mia intuizione,” rispose Kouyou. “Che Mori ne sia informato o meno, non è di alcuna importanza.” Posò gli occhi sul suo allievo, mascherando l’ordine silente con un sorriso gentile.

Chuuya lanciò un’ultima occhiata a Dazai e si prese il suo tempo per uscire, quasi cercasse di leggere nell’atmosfera che era calata un indizio su quanto stava accadendo. Fu Kouyou a spingerlo con cortesia oltre l'architrave della porta e a chiuderlo definitivamente fuori dalla scena.

Seduto dov’era, Dazai si sentiva troppo vulnerabile. Sebbene tutto il suo corpo gli urlasse di non farlo, si alzò in piedi. Scelse il davanzale della finestra come punto di appoggio. “Di cosa mi devi parlare?”

A differenza sua, Kouyou non si fece alcun problema a mettersi comoda sulla poltrona. “Come ti senti?”

Dazai scrollò le spalle. “È una domanda un po’ generica.”

Kouyou si portò una mano sopra al seno. “Ti fa male? Non te ne sei mai lamentato.”

Dazai si guardò il petto: quella felpa troppo grande per lui copriva qualsiasi forma, esclusa quella della pancia. Non che fosse molto difficile. A differenza dell’assassina, non aveva un granché da mostrare. “Sì,” rispose, “ma era peggio all’inizio.” 

Le notti sul divano di Ango erano state un inferno. Ad ogni movimento era seguito del dolore, quasi vi fosse del fuoco liquido a scorrere sotto la sua pelle. Aveva provato una cosa simile durante i primi cicli mestruali: il suo corpo si ribellava contro le fasciature troppo strette sotto cui lo nascondeva, ma aveva imparato a farci l’abitudine e a ricordarsi che era temporaneo. Averlo a ondate per sette mesi di seguito, aveva quasi convinto Dazai a fare a meno delle bende per il resto della vita.

Quasi.

Kouyou sollevò il braccio. “Posso?” Domandò. Solo una donna si sarebbe disturbata a chiedere il permesso. 

Dazai annuì. L’assassina posò il palmo sul suo grembo. “Hai una bella pancia,” commentò intenerita, allontanando la mano. “Posso essere sincera con te? Non credevo che avresti affrontato così bene i cambiamenti del tuo corpo. Ho visto alcune delle mie ragazze avere difficoltà anche con gravidanze desiderate.”

Dazai immaginava che cercare un bambino con un compagno di vita implicasse una certa dose di bene per se stessi. Per lui era pura utopia. Se le circostanze fossero state differenti, forse avrebbe trovato il tempo di lamentarsi di ogni fastidio, delle notti insonni e della dieta da fame che Mori gli aveva imposto - “è quello che succede ad avere figli con uomini con le spalle larghe, sopra il metro e ottanta,” era stato il commento del medico - ma prima avrebbe dovuto liberarsi di tutta l’oscurità che lo tormentava.

“Le tue ragazze devono aver avuto delle gravidanze serene,” commentò Dazai, poggiando la tempia al vetro freddo della finestra. Succedeva. Suonava assurdo, ma accadeva anche alle creature della notte di Yokohama d’innamorarsi. La Port Mafia era piena di coppie che si erano formate sulla strada della malavita e avevano creato famiglie più o meno normali. 

La storia di Dazai con Odasaku non era poi così diversa. La Port Mafia non li aveva messi insieme, ma per la Port Mafia tutto era andato in pezzi. 

Kouyou gli afferrò la mano, un gesto quasi materno, che a lui veniva riservato solo in occasioni particolari. “Non parli mai di Oda.”

Mesi prima, Dazai sarebbe esploso come una bomba nel sentir pronunciare quel nome. Il tempo gli aveva restituito parte della sua capacità di dissimulare. “Non è vero,” obiettò. “Ho minacciato Mori, parlando di lui.”

“Dazai…” Lei lo guardò, come a dirgli che quei giochetti potevano funzionare con Chuuya, ma non con lei.

“Non sei mia madre,” disse il diciannovenne, schietto. Liberò la mano dalla presa di lei. “E nemmeno mia sorella. Io non sono Chuuya.”

“Hai ragione,” gli concesse Kouyou. “Ma penso di essere l’unica persona coinvolta in questa storia che può provare a comprenderti.”

Dazai continuò a fissare il cielo scuro oltre il vetro. “Eri innamorata di quell’uomo, quello che ha tentato di portarti via dalla Port Mafia, prima dell’arrivo di Mori?”

Kouyou piegò le labbra in un sorriso triste. “Come poteva esserlo una ragazzina di quattordici anni a cui non era mai stata mostrata gentilezza.”

“Uhm…”

“E tu lo amavi, il tuo Odasaku?”

Dazai sbuffò. “Perché non fate che chiedermelo?”

“Perché a tutti noi manca un pezzo di te, Dazai,” rispose Kouyou. “Mori e Chuuya, in particolare, non riescono ad accettarlo.”

“Non mi sono mai nascosto.” Dazai aveva perso il conto delle volte che lo aveva ripetuto. “Parlavo con Mori di lui. Quando mai ho parlato con Mori di chiunque?”

“È stata una svista da parte sua-“

“Svista?” Dazai la inchiodò dov’era con uno sguardo. “L’ha mandato a morire appositamente per colpire me!”

Kouyou scosse la testa. “Lo ha mandato a morire perché era l’uomo più sacrificabile.”

“Oh, certo, tutta la Port Mafia si regge sulle belle favole di Mori!”

“Non si aspettava quella reazione da parte tua, te lo posso assicurare.”

“Ovvio. Mi ha sempre considerato la cosa più simile a lui. Perché mai avrei dovuto rispondere in modo diverso dalle sue aspettative?” Domandò Dazai sarcastico, tornando a rivolgere il suo sguardo all’esterno. Era una discussione inutile: Mori Ougai vinceva in partenza.

“Ammetto che c’è un dettaglio non trascurabile a rendere diversa la tua storia dalla mia,” disse Kouyou. “Deve essere insopportabile convivere col pensiero che tuo padre è anche l’assassino dell’uomo che ami.”

Dazai strinse gli occhi e scosse la testa. “Non è così. Mori non ha alcun valore per me.”

“Mori ti ha tradito. Non c’è nulla di sbagliato nel dirlo ad alta voce, Dazai.”

Forse per loro. Chiunque altro si sarebbe guadagnato una pallottola in testa a fare certi discorsi riguardo al Boss della Port Mafia. 

“Lo odio…” Disse Dazai, sommessamente.

Kouyou lo poteva comprendere. “Ma lui ti ama, Dazai,” disse. “Penso che non lo ammetta nemmeno con se stesso, ma io e te possiamo essere sinceri.”

“I Demoni non sono in grado di amare,” replicò il diciannovenne.

“Fino a prova contraria, il Demone fanciullo della Port Mafia sei tu,” ribatté Kouyou, senza cattiveria. “E ti sei innamorato.”

“Insisti?” Dazai tornò a guardarla, esasperato.

“Le tue azioni dicono solo una cosa, tesoro.”

“Le mie azioni…” Dazai si lasciò sfuggire una risatina che derideva solo se stesso. “Ho cercato di dissuadere Odasaku dal fare qualche sciocchezza,” raccontò. “Non mi ha dato ascolto. Il suo mondo era andato distrutto, certo, ma io ero ancora lì. Per lui non ha avuto alcuna importanza. Se le mie azioni urlano, le sue che cosa dicono?”

Eccola lì, la conferma che Kouyou stava cercando.

Dazai era certo che Oda Sakunosuke non lo avesse mai amato. Con quel pensiero a tormentarlo, lei per prima era sorpresa che riuscisse a restare presente a se stesso. Questo spiegava anche perché Dazai non aveva mai mostrato turbamenti riguardo al piccolo Saku: quel bambino era l’unica cosa, in mezzo a tutta quell’oscurità, a tenerlo saldo.

Kouyou inspirò aria dal naso e decise di parlare di un evento che aveva taciuto persino a Mori. “L’ho conosciuto,” disse. “Ho conosciuto Oda Sakunosuke. Intimamente.”

“Lo so,” disse Dazai, sereno. “Me lo ha raccontato.”

Non era abitudine di Kouyou lasciarsi prendere di sorpresa - quello era il suo lavoro - ma impiegò diversi istanti a fare di nuovo ordine tra i pensieri, abbastanza da poter parlare. Alla fine, buttò tutto in una risata. “Non me lo aspettavo.”

“Nemmeno io,” ammise Dazai, per nulla divertito. “Pensavo fossero di tuo interesse uomini di un altro rango.”

Kouyou scrollò le spalle. “Non credo di doverti spiegare nulla. È venuto dalle mie parti a cercare compagnia e ho pensato che un ragazzo di vent’anni tanto bello fosse un’occasione d’afferrare al volo.”

Se quella conversazione fosse avvenuta un anno prima, Dazai avrebbe già pensato a mille e più modi per attentare alla bella chioma di cui Kouyou era tanto fiera. Peccato che essere infantili impiegasse troppe energie per la sua condizione. “Cosa dovrei farmene della tua confessione, di grazia?”

Sapeva già da sé che Odasaku era bello e non gli serviva certo una recensione sulle sue prestazioni da amante.

L’imbarazzo era un’altra emozione che a Kouyou non apparteneva, ma gli occhi scuri del giovane fissi su di lei non le stavano facendo alcun favore. “Abbiamo parlato. Mi ha confessato con molta sincerità che non era sua abitudine frequentare case di piacere,” disse. “Mi ha raccontato che aveva qualcuno per la testa, una persona che forse ricambiava il suo interesse - non ne era sicuro - ma con cui non era saggio superare certi confini.”

L’interesse era ricambiato. I confini erano stati superati. Quella storia non aggiungeva niente a quello che Dazai sapeva già.

“Mi disse che quella persona gli era entrata dentro e che era una cosa a cui non era abituato,” aggiunse Kouyou. “Non so cosa tu gli abbia fatto, ma non riusciva proprio a fare a meno di te.”

“Chi ti dice che stesse parlando di me?” Domandò Dazai.

Kouyou alzò gli occhi al cielo. “Dazai…”

“Non ci credo. Punto.”

“È accaduto poco prima che De Sade ti rapisse. Non appena Mori ha dichiarato lo stato di emergenza, Oda è andato dritto da Chuuya per essere in prima linea. Nessuno glielo aveva ordinato. Non esiste il tempo materiale per dubitare della presenza di una terza persona.”

Quella di Kouyou era un’analisi ragionevole, ma Dazai non riusciva a esserlo quando si parlava di Odasaku. Continuava ad avere pietà di se stesso, della disperazione con cui aveva cercato di trattenerlo a sé. “Trova qualcosa a cui aggrapparti,” aveva detto, nella speranza di essere lui quel qualcosa.

Odasaku non gli aveva riconosciuto un simile valore.

Se le azioni parlavano, le sue avevano mandato un messaggio molto chiaro.

“Chuuya lo sa?” Dazai cambiò discorso. “Di te e Odasaku, intendo.”

Kouyou si alzò in piedi. Erano quasi alti uguali. “Certo che no,” rispose. “Posso contare sulla sua tua discrezione?”

Dazai annuì. “Possiamo raccontarlo a Mori?”

“No.”

“Ma sono certo che non gli farebbe piacere.”

Suo malgrado, Kouyou immaginò la scena e la divertì. “Teniamocelo come asso nella manica per il futuro,” concluse, spettinando con affetto i capelli di Dazai.




 

“Non ho capito,” concluse Mori, alla fine del rapporto.

Kouyou assottigliò gli occhi. “Sul serio, mi spieghi come fai ad essere arrivato dove sei?”

“Non hai fatto altro che dire avevo ragione ogni due parole!” 

La giovane donna si massaggiò la fronte stancamente. “Ti faccio un riassunto. Mi segui?”

Il Boss annuì. 

“Dazai è convinto che Oda non lo amasse.” Quello era il dettaglio chiave. 

“E perché sarebbe una tragedia?”

Kouyou contò fino a dieci. “Lo stai facendo apposta, vero?”

Mori gettò la maschera. “Sì, lo ammetto… Ma non ne posso più di sentirlo nominare!” Trentasette anni di moccioso capriccioso. Ecco chi era davvero il Boss della Port Mafia.

“Il bambino che nascerà avrà il suo stesso nome, fattene una ragione,” gli ricordò Kouyou. “Inoltre, il solo che devi biasimare sei tu.”

“Adesso perché sei arrabbiata con me?”

Kouyou gli lanciò un’occhiata molto eloquente. “Prova a empatizzare. Ce la fai?”

“So cosa vuol dire empatizzare.”

“Di questo non ne dubito. Ti ho chiesto se riesci a farlo.”

Mori crollò contro lo schienale della poltrona, che cigolò pericolosamente. Con la fortuna che aveva, si sarebbe ritrovato a terra senza sapere come. “Dazai era innamorato di Oda? Questo è quello che voglio sapere.”

Kouyou inarcò il sopracciglio destro. “Sei intelligente, deducilo.”

Mori scosse la testa. “No, con Dazai ho smesso di capirci qualcosa dopo il caso Mimic.”

“No, è accaduto prima, solo che non lo sapevi.”

Mori incrocio le braccia sopra la scrivania e vi appoggiò la testa, come un ragazzino. “Alla fine di questa storia, brucerò questo posto,” disse, guardando il suo vecchio ufficio e odiandolo come se fosse la sua prigione.

“Rimanda i tuoi piani da piromane, non hai tempo ora.” Kouyou si avvicinò alla scrivania, tanto d’appoggiarvi i gomiti. “Dazai ha diciannove anni. Tra un paio di mesi, avrà un bambino, il figlio di un uomo che amava ma da cui è certo non essere mai stato ricambiato. Uomo che hai ucciso tu-“

“Giusto, me lo ero scordato,” bofonchiò Mori, sarcastico.

“E tu, mio caro Boss della Port Mafia, eri un punto fermo nella sua vita. No, non darti un’importanza che non hai. Ora a Dazai servi per ragioni pratiche, emotivamente può fare benissimo a meno di te. Il problema: l’odio che prova per te gli impedisce di accettare che parte del suo dolore deriva dal tuo tradimento.”

“Io non-“

“Smettila. Se Oda fosse stato ucciso da Gide e basta, questa storia non sarebbe tanto complicata.”

Mori le diede ragione restando in silenzio. 

“Tuttavia, lo ripeto, non è il pensiero di te a tormentarlo. Non adesso.”

“Ma il dubbio di essere stato amato o meno,” concluse il Boss della Port Mafia.

Kouyou sorrise amaramente. “Esatto. Ma Oda è morto, chi mai potrebbe risolvere un dubbio simile?”

Mori nascose gli occhi contro le braccia piegate. Il primo pensiero che gli attraversò la testa fu di aspettare e vedere come Dazai avrebbe reagito alla nascita del bambino. Forse avere Sakunosuke tra le braccia avrebbe tolto importanza a tutto il resto… O forse avrebbe accresciuto la negatività di certi pensieri. No, si disse, non andava bene. Serviva una strategia attiva, qualcosa che risolvesse la situazione. 

“Se i morti potessero parlare…” Mormorò, abbandonandosi completamente contro la scrivania. Premuto all’interno della tasca interna della giacca, il taccuino di Johann G. gli ricordò la sua presenza. La soluzione si presentò a Mori da sola.

Sollevò la testa. “So cosa fare,” disse.




 

Quella sera, come tutte le sere, Ango fu l’ultimo a uscire dalla Divisione Speciale.

Era appena iniziato novembre e già si percepiva l’imminente arrivo della neve nell’aria. Non appena uscì nel garage sotterraneo, l’agente nascose il mento nella sciarpa e procedette verso la sua auto a passo spedito. Era stata una lunga giornata. Dopo il caso Mimic, Ango viveva solo lunghe giornate. Nemmeno essere carico di lavoro riusciva a ledere un po’ il suo malanimo. 

Il pensiero di Dazai e Odasaku lo accompagnava ogni giorno.

Impossibilitato a parlare di ciò che lo tormentava con un amico - ne aveva avuti solo due nella sua vita e li aveva persi entrambi - Ango ingoiava il boccone amaro e andava avanti. La sua preoccupazione principale era tenere Dazai al sicuro e assicurarsi che nessuno s’intromettesse nel suo caso.

Per tutto il resto, la sua fiducia era riposta in Chuuya.

Non appena prese posto sul sedile, Ango lasciò andare un sospiro stanco. Sfregò i palmi l’uno contro l’altro per recuperare la sensibilità alle dita fredde, prima di mettersi al volante. Mentre allungava il braccio per premere lo Start/Stop, si accorse della telecamera di sicurezza - quella accanto al suo parcheggio - che penzolava dal soffitto, appesa all’unico cavo che non era stato reciso. Non aveva bisogno di guardarsi intorno per sapere che anche le altre aveva fatto la stessa fine.

Ango strinse le labbra e ingoiò a vuoto. “È nato?” 

Sul sedile posteriore, qualcosa si mosse verso il centro. “Siamo a novembre, mancano due mesi,” rispose Chuuya, guardando l’agente attraverso lo specchietto retrovisore. “La data presunta era tra la fine dell’anno e l’inizio di quello nuovo, ricordi?”

“È successo qualcosa di brutto?” 

Chuuya aggrottò la fronte. “Se fosse così, pensi che me ne starei così calmo?”

“Tu non sei mai stato calmo, Chuuya,” ribatté Ango. “Sai mantenere il controllo, fino a che una singola parola storta ti fa scattare.”

Provocare Nakahara Chuuya non era la migliore delle strategie, ma era la prima volta da mesi che Ango poteva parlare apertamente e non aveva nulla di buono da buttare fuori. 

Il mafioso non gli rispose, s’infilò tra i due sedili e si accomodò accanto all’agente.

Era la prima volta, da quella loro litigata nel bar vicino alla clinica, che si guardavano in faccia.

“È un maschio,” disse Chuuya. “Si chiama Sakunosuke. Noi lo chiamiamo solo Saku, il più delle volte.”

“Sakunosuke…” Ripeté Ango, con un filo di voce. Non avrebbe dovuto sorprenderlo tanto.

“Detto tra noi, credo che a Dazai nemmeno piaccia come nome, dato che continua a storpiarlo.”

Ango si sorresse la testa con la mano. “Hai idea di quante settimane ho impiegato a capire che Odasaku era Oda Sakunosuke?”

“Non faccio fatica a crederlo.”

“Parliamo di Dazai. Penso che nessun nome sarebbe stato al sicuro con lui.”

“Vero anche questo.”

“Se continuiamo ad andare d’accordo, finirà per nevicare prima di dicembre,” disse Ango.

Chuuya emise una risata simile a uno sbuffo, ma fu una cosa breve. “Vuole che torni,” disse.

Ango si ostinò a guardare di fronte a sé. “Te lo ha detto lui o-“

“Mi ha chiesto esplicitamente di venirti a cercare,” chiarì Chuuya. “Perché sei scappato in quel modo?”

Ango rispose al suo sguardo. “Credevo di non essere ben accetto.” 

“La tua opinione riguardo al bambino non lo era,” ribatté il rosso. “Non provare a dire che ti ho cacciato io. Tira fuori le palle e ammetti di essere stato un codardo.”

Aveva ragione. 

“Ho dovuto prendere le distanze,” cercò di giustificarsi.

“Quando hai detto a Mori che avresti protetto Dazai, che avevi un debito da ripagare, eri così fiero!” Lo prese in giro Chuuya. “Ammetti che ti sei sentito messo da parte dai tuoi due amici e fatti un favore.”

Ango scattò subito sulla difensiva. “Io non-“

“Eri il terzo incomodo, Ango. Accettalo,” disse Chuuya. “Come lo ero anche io, a modo mio.”

“Non mi sono mai sentito il terzo incomodo,” obiettò Ango. “Se fosse successo, avrei intuito qualcosa.”

Chuuya estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca. “È proprio qui che cadi male. Hai d’accendere?”

“Non fumare nella mia auto!”

“Come se tu non avessi mai fumato in vita tua. Quella volta, alla clinica, mi hai detto una stronzata.”

“Ho cominciato lavorando con te!” 

“Un altro punto a mio favore,” disse Chuuya, riponendo a malincuore le sigarette. “Facciamo un quadro della situazione: ti senti ferito dal fatto che nessuno dei tuoi amici ti abbia confidato che erano amati, ma Dazai sostiene di non essersi mai nascosto. Conclusione: sei un idiota, come tutti noi.”

Ango appoggiò la fronte al volante. “Te lo ripeto: non avevano il comportamento di una coppia. Dazai dice che non si nascondeva, ma non si mostrava nemmeno.”

Chuuya scrollò le spalle. “Forse era un gioco dei suoi,” disse. “Forse voleva che lo beccassimo. Beh… Abbiamo tutti perso miseramente.”

“Non ha alcun senso!”

“Che cazzo, Ango, Dazai ce l’ha?” Chuuya stava perdendo la pazienza. “Sei talmente attaccato alla logica e alla ragionevolezza, che mi chiedo come tu riuscissi a stare dietro ai suoi discorsi.”

“Non lo facevo,” ammise Ango. “Odasaku ci riusciva, almeno in parte.”

Chuuya schioccò le dita. “Ecco, quello era l’indizio e non lo hai saputo leggere.”

“Si conoscevano da più tempo di me!”

Il mafioso fece un gesto con la mano, come a dire di lasciar perdere. “Lo Sgombro ha parlato di alcune fotografie. Almeno questo, ha senso per te?”

Ango esitò, forse per paura di essere giudicato troppo sensibile, poi infilò una mano nella tasca interna della giacca. 

Il commento di Chuuya arrivò puntuale: “sei una vedova di guerra, Ango?”

L’agente non replicò, si limitò a consegnare l’immagine in bianco e nero al più giovane. “Una copia di quella foto è sulla tomba di Odasaku,” disse.

Chuuya concentrò tutta la sua attenzione sull’uomo al centro. Quando Dazai era stato rapito da De Sade, avevano eluso le regole insieme, ma non si erano mai conosciuti davvero. 

“Ne ho altre,” aggiunse Ango. “Una è solo di Odasaku. Penso non vi siano altre sue immagini esistenti.”

Chuuya restituì la foto. “Quando tornerai, portala con te. Non ci mettere troppo.”

Ango annuì. 

Per cinque minuti buoni, nessuno si mosse.

“E portami a casa!” Tuonò Chuuya. “Col cazzo che cammino, con questo freddo!”




 

Mori scelse con cura il momento per andare da Dazai.

Per una serie di coincidenze, sia Chuuya che Kouyou si assentarono dalla clinica per qualche tempo. Il primo doveva prendere mano con l’arte del comando e quale occasione migliore, se non un periodo di assenza del Boss? Ciò nonostante, era necessario che la sua maestra gli stesse accanto, valutando le sue mosse e consigliandolo dove sbagliava.

Come al principio di tutto, Mori e Dazai si ritrovarono da soli.




 

Rintarou conobbe Johann - per lui era solo Hans - all’età di quindici anni, nel salone dei ricevimenti della Port Mafia. La colonna sonora del loro primo incontro fu il pezzo Für Elise di Ludwig van Beethoven. Entrambi morirono cinque anni dopo. Tutto ciò che rimaneva della loro storia era racchiuso tra le pagine di un taccuino rilegato in pelle nera.

Il destino beffardo volle che quella di Dazai e Odasaku avesse un finale simile.

Al contrario delle sue abitudini, Mori esitò. 

Il corridoio del secondo piano era illuminato solo dalle luci della strada, ma l’uomo riusciva a vedere chiaramente il quaderno scuro tra le sue mani. In principio, quando aveva perquisito l’appartamento di Oda Sakunosuke con Hirotsu, Mori aveva portato quell’oggetto con sé con l’intenzione di leggerne ogni pagina. Non appena Chuuya aveva accettato il tradimento di Dazai, lo aveva abbandonato in un cassetto, deciso a lasciarsi quella storia alle spalle a sua volta.

Era arrivato il momento di consegnarlo all’unica persona che avesse diritto di possederlo, dopo il suo autore. Se Oda aveva l’anima di uno scrittore, doveva esserci una traccia di Dazai tra quelle parole. Mori non poteva averne la certezza, ma non conosceva altro modo per dare voce alle emozioni di un uomo morto.

Quando entrò nella camera del ragazzo, Dazai sedeva sulla poltrona con un cellulare tra le mani - aveva la cover rossa, doveva averlo rubato a Chuuya.

“Che cosa c’è?” Domandò il diciannovenne, diretto.

Mori non riuscì a fare altrettanto. “Il bambino non ti fa dormire?”

Dazai bloccò lo schermo del cellulare per posarlo sul davanzale. “Chuuya mi ha fatto scaricare dei giochi con cui intrattenermi nelle notti brutte.”

Ah, almeno non era un furto.

“È una notte brutta?”

“Questo mese e mezzo non passa più.”

Suo malgrado, a Mori sfuggì un sorriso. “È normale.”

“Cos’è quello?” Dazai indicò il quaderno nella mano destra del Boss con la stessa curiosità di un bambino.

Mori sapeva che quella cosa non si poteva fare in modo gentile. Sollevò l’oggetto in questione, in modo che fosse perfettamente visibile. “Non lo riconosci?”

“È un quaderno a copertina rigida dei grandi magazzini,” rispose Dazai, annoiato.

Quando faceva così, Mori aveva l’impressione che avesse ancora quattordici anni. Decise di non girarci troppo intorno. “È di Oda.”

Gli occhi scuri del giovane divennero enormi. “Perché lo hai tu?” Ingoiò a vuoto. “Dove lo hai trovato?”

“Nel suo appartamento,” rispose Mori. “L’ho perquisito personalmente.”

“Perché?”

“Ti cercavo, lo sai.”

Dazai fissò il quaderno con emozioni contrastanti. “Lo hai letto?” 

“No.” 

“È un altro gioco dei tuoi?”

“Tieni.” Mori gli porse il quaderno. “Sono certo che tu sappia riconoscere la sua scrittura.”

Dazai non esitò a controllare, gli bastò sfogliare un paio di pagine per essere certo che quella fosse opera di Odasaku. “Perché non lo hai distrutto?”

“È una prova,” mentì Mori. “Era in archivio, insieme a tutto il resto che riguarda Oda Sakunosuke. Era uno scrittore?”

“Voleva diventarlo…” Rispose Dazai distrattamente, accarezzando la copertina nera come se avesse tra le mani un oggetto prezioso. 

“Dazai,” Mori aspettò che quegli occhi scuri fossero sui suoi. “Alle volte, in preda alla rabbia o alla disperazione, facciamo cose che un istante dopo non ci sfiorerebbero la mente. Tutto sta nel superare quell’istante.”

Odasaku non c’era riuscito. Non aveva trovato quel qualcosa a cui aggrapparsi, perché non si era dato il tempo di vederlo. Dazai strinse il quaderno al petto, sopra la pancia in cui il suo bambino scalciava e si muoveva, incurante del suo turbamento. “Lasciami solo.”

Mori lo accontentò.




 

Non andò a dormire.

Non ci sarebbe mai riuscito.

Mori si chiuse nel suo studio, in attesa.

Al piano di sopra, Dazai stava sicuramente leggendo gli scritti di Oda e non voleva farsi trovare impreparato, qualunque fosse la reazione. 

All’inizio si sedette sul divano - se quel mobile avesse potuto parlare, lo avrebbe mandato al diavolo - e concluse che braccioli, schienale e seduta erano ancora staccati insieme per puro miracolo. Mori rimase immobile, con le orecchie tese a studiare il silenzio, come se da lì potesse sentire Dazai voltare le pagine di quel quaderno. Dopo un po’, si sorprese a contare le mattonelle del pavimento ma si stufò in fretta. 

Il Boss della Port Mafia si alzò in piedi con un saltello, come se fosse ancora un adolescente capriccioso - eccome se lo era stato, Dazai e Chuuya erano acqua liscia in confronto - e prese a girare intorno, con le dita intrecciate dietro la schiena. Andò avanti così per un bel po’, intrattenendosi con le preoccupazioni del momento: era meglio rimandare la promozione di Chuuya a Dirigente a dopo la nascita del bambino, quando sarebbero stati tutti più rilassati - forse - poi bisognava seriamente pensare a dove sistemare Dazai, la clinica non era adatta per crescere un piccino; inoltre, c’era tutta la questione del ritorno del figliol prodigo - munito di figlio a sua volta - da gestire. Quando ebbe finito, Mori aveva un mal di testa tale che crollò sulla poltrona girevole dietro alla scrivania.

Non sapeva che ore fossero e non era certo di volerlo sapere: se cominciava a contare i minuti, ne sarebbe uscito pazzo.

Prese a canticchiare per distrarsi e il motivetto del Für Elise fu il primo che gli venne in mente. Non era la migliore delle scelte, non per una nottata come quella. Chissà se era ancora in grado di suonarla? Ne dubitava, non toccava un pianoforte dai tempi della guerra e non aveva mai imparato a leggere gli spartiti. Ricordava la sequenza dei tasti a memoria, per lui era la via più veloce.

Quante volte Johann lo aveva rimproverato, seppur bonariamente, di usare la sua intelligenza nel modo errato. Mori ricordava ancora quando diceva: “se impegnassi quella mente brillante che hai nel modo corretto, saresti in grado di conquistare il mondo.”

Qualcuno lo toccò e Mori trasalì. 

Fuori albeggiava: si era addormentato.

Accanto a lui, Dazai lo guardava dall’alto al basso, il petto che si alzava e abbassava velocemente. “Non respiro…” Riuscì a dire, con un filo di voce.

La prima cosa che Mori provò fu paura, ma l’accantonò velocemente. “Hai preso qualcosa?” Era quello che lo preoccupava di più. “Hai fatto qualcosa?” Era stato un idiota, non avrebbe mai dovuto lasciarlo da solo.

Quando Dazai scosse la testa, il medico provò un immenso sollievo. “È un attacco di panico,” disse. “Non stai morendo, te lo giuro.” Cercò di toccarlo, ma il giovane si fece indietro, fino a far aderire la schiena al muro.

“Non mi toccare,” sibilò.

“Va bene, ma respira.” 

“Ma Saku-“

“Non succederà nulla a tuo figlio, se respiri.” 

Dazai si portò una mano sulla pancia e chiuse gli occhi.

“Scalcia?” Domandò Mori.

Il ragazzo annuì.

“Bene, concentrati su questo.”

Sembrò funzionare. Dazai non si calmò, ma almeno smise d’iperventilare.

“Posso avvicinarmi?” Tentò il medico.

“No!” 

Mori si aggrappò al bordo della scrivania. Perché quel moccioso doveva sempre rendere tutto così difficile?

“Puo-Puoi venire a sederti, almeno?” Lo faceva innervosire al punto da farlo balbettare. 

Dazai accettò l’offerta. Appena lo ebbe a portata, Mori lo afferrò per il braccio e lo portò fino alla poltrona girevole. Passarono alcuni minuti di silenzio, in cui il Boss della Port Mafia si prese il tempo per ricomporsi a sua volta. 

Contro ogni sua aspettativa, fu Dazai a spezzare il silenzio: “le sue ultime parole sono state per me.”

Colto di sorpresa, Mori impiegò qualche istante per comprendere. “Oh…” Mormorò, alla fine. “Sei arrivato in tempo.”

Dazai scosse la testa, gli occhi fissi in un punto nel vuoto. “No, non in tempo,” ribatté. “Poco prima che troppo tardi.”

“E cosa ti ha detto?” Mori non era certo che gli avrebbe risposto.

“Mi ha dato una ragione per vivere,” disse Dazai, poi si guardò la pancia. “Beh, lo aveva già fatto senza saperlo.”

Mori si concesse un sorriso. “Ora la vita ha un valore?”

“No,” rispose Dazai. “Saku ha valore. Per questo non posso morire.”

Non era proprio la conclusione in cui il Boss aveva sperato. Tempo al tempo, quel bambino doveva ancora nascere e nessuno di loro poteva prevedere l’effetto che avrebbe avuto. Per ora, a Mori importava sapere solo una cosa. “Leggere le sue parole è stato così terribile?”

“No, non terribile.” Dazai scosse la testa. “È stato-“ la voce gli morì in gola. Ingoiò a vuoto e riprovò, ma gli sfuggì solo un singhiozzo. 

“Ehi.” Mori fece scivolare le dita tra i capelli del giovane. “Lasciati andare, Dazai. Lasciati andare.”

Dazai nascose il viso tra le mani. Tremava. 

Le prime lacrime furono ustionanti sulle guance fredde. I singhiozzi gli bruciarono la gola, spezzandogli il respiro. Gli faceva male il petto, come se quel che era rimasto del suo cuore stesse andando in pezzi una volta per tutte. Eppure, per la prima volta da quando l’uomo che amava - era inutile mentire ulteriormente a se stesso - era morto tra le sue braccia, Dazai non sentiva più freddo.

Meraviglioso. Era la parola che non era riuscito a pronunciare.

Quello che Odasaku aveva scritto era meraviglioso. 




 

All’alba di quella fredda mattina di novembre, i primi fiocchi di neve caddero su Yokohama.



 
   
 
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