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Autore: Ode To Joy    16/01/2022    1 recensioni
[Past Odazai]
[One-side Soukoku]
“Puoi farmi una promessa?”
Chuuya s’imbronciò. “Tra noi non ci sono promesse, solo minacce.”
“Non è per me,” si affrettò a dire Dazai. “È per il bambino. So che gli vuoi bene.”
“Io non-“
“Volere bene a mio figlio, non implica volere bene a me.”
Chuuya lasciò andare un sospiro esasperato. “Che cosa vuoi, Dazai?”
“Per il mio compleanno, ti chiedo un regalo,” disse Dazai, senza guardarlo negli occhi. “Se mi accadesse qualcosa, dedicheresti la tua vita a proteggere mio figlio?”
“Questo posso promettertelo senza che tu vada da nessuna parte. Hai la mia parola.” Chuuya non avrebbe potuto rispondergli in nessun altro modo.

.
La morte di Odasaku ha posto fine alla guerra contro la Mimic, un modico prezzo per garantire alla Port Mafia l’ultimo tassello di potere di cui aveva bisogno.
Dazai non lo accetta, ma le persone a cui ha voltato le spalle - e da cui è stato ferito - sono le sole a cui può chiedere aiuto, ora che Odasaku lo ha condannato ad avere un futuro.
[Trans!Dazai] [Unplanned Pregancy]
- Fanfiction partecipante al Calendario dell’Avvento di Fanwriter.it -
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Ango Sakaguchi, Chuuya Nakahara, Kouyou Ozaki, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
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VI

 

Era troppo chiedere a Dazai di fare qualcosa in modo semplice, che non diventasse un problema per tutti. La nascita di un bambino era già di per sé complicata, sommata a tutti i casini emotivi e pratici - la clinica era rimasta chiusa per anni e gran parte del materiale medico era contato - si annunciava un caos totale. Il destino, non contento, aveva ben pensato che una bufera di neve nelle settimane del termine fosse una buona idea.

Mori non sapeva più con chi prendersela, mentre affondava gli stivali nella neve fresca con due buste della spesa per mano. Le strade erano impraticabili, questo aveva impedito a Hirotsu di fare il suo solito giro e portare loro il necessario. Al sicuro nei suoi appartamenti, Kouyou rideva delle sue disgrazie e prevedeva con candore l’arrivo di nuove complicazioni.

“Si sa come va a finire con te e Dazai,” aveva detto, l’ultima volta che si erano sentiti al telefono. “Basta la vostra presenza per trasformare una cosa complicata in un disastro. Povero tesoro.”

“Il tesoro sarei io?” Aveva domandato Mori, speranzoso.

“No, Chuuya.”

La conversazione era finita lì, poi il Boss della Port Mafia si era fatto coraggio e aveva affrontato le intemperie per nutrire se stesso e i suoi due rampolli - e mezzo. 

Arrivato alla clinica, gli caddero le chiavi tre volte, prima di riuscire ad aprire. Si trascinò nell’ingresso portandosi dietro tutta la neve del marciapiede. “Sono tornato!” Annunciò, stravolto. Lasciò cadere le quattro buste sul posto e si liberò dell'orribile berretto di lana che aveva in testa - un altro oggetto dimenticato tra gli oggetti dimenticati della clinica. “Chuuya?” Chiamò.

“Sono in cucina,” rispose il rosso.

Mori appese il cappotto invernale alla parete dell’ingresso e decise di lasciare il suo bottino lì dov’era: Chuuya era abbastanza giovane e in forze per fare il resto del lavoro. Strascinò i piedi fino in cucina, la schiena curva, i capelli ridotti a un nido d’uccelli e la voglia di vivere pari a quella di Dazai.

Una volta sulla porta, la tempesta di neve all’esterno gli parve una sfida più invitante.

“Chuuya, no,” si lagnò, senza dignità. “No, non tu.”

Non io, cosa?” Domandò il diciannovenne, osservando con orgoglio una tutina rosso sgargiante. Sul tavolo vi erano una decina di altre varianti. “È Natale. E Natale vuol dire rosso!” Esclamò con euforia. “Maschi, femmine, non ha importanza! A Natale ci si veste di rosso!”

Mori nascose il viso tra le mani, contò fino a dieci e si ricordò che Kouyou non sarebbe stata felice di sapere il suo discepolo sgozzato, poi simulò un sorriso inquietante. “E come saresti arrivato al negozio, di grazia?”

“Volando,” disse Chuuya, col tono di chi risponde con ovvietà. Tempo di realizzare, la sua espressione cambiò in un nano secondo. “Boss, mi dispi-“

“Ah, ti ricordi che sono il Boss, adesso?”

Chuuya aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. 

“C’è una regola sul modo di usare le abilità,” gli ricordò Mori, fermo. “E se proprio devi trasgredirla, fallo per qualcosa di utile!” Era stufo, irritato. Doveva ammetterlo con se stesso: fare il genitore non lo divertiva per niente.

Il portone d’ingresso si aprì.

Mori gelò: tra il peso delle buste e l’impiccio della neve, si era dimenticato le chiavi infilate nella serratura. Si allontanò dalla porta di due passi e fece cenno a Chuuya - teso quanto lui - di prepararsi. Mentre il giovane toccava il ceppo vicino al lavandino per far levitare i sei coltelli che vi erano riposti, Mori sfilò la pistola dalla fondina sulla schiena. Non era nessuno dei loro, ne era certo.

Sia Kouyou che Hirotsu erano alla sede della Port Mafia e chiunque altro non era ben accetto.

Mori contò ventisei secondi, poi Ango Sakaguchi comparve sulla porta.

“Fermi!” L’agente alzò le mani, arretrando. Inciampò sui suoi piedi e cadde a terra. “Non ho male intenzioni."

Chuuya ridacchiò. “Se le avessi, saresti già morto,” disse e i coltelli tornarono al loro posto. Saltellò - letteralmente - fino a ritrovarsi al fianco di Mori, che aveva ancora la pistola puntata. “Boss, avanti, è il quattrocchi.”

Nel dubbio, Ango continuava a tenere le mani in alto.

“Come sei arrivato fino a qui?” Domandò Mori, sospettoso.

“Guidando.”

“Le strade sono bloccate.”

“Non le principali: le stanno ripulendo. Mi sono avvicinato con la macchina fino a che ho potuto, poi ho continuato a piedi.”

“Tutta questa fatica per cosa? 

Ango aggrottò la fronte. “Per Dazai.”

“Perché fate tutto questo baccano? Mi avete svegliato,” si lamentò Dazai, comparendo in cima alle scale. Nel vedere il suo vecchio amico seduto sul pavimento, il giovane viso s’illuminò. “Ango!” 

Mori ritrasse la pistola, prima che l’ultimo arrivato la vedesse e Chuuya allungò la mano per aiutare l’agente ad alzarsi.

“Ho chiesto a Chuuya di venirti a cercare quest’estate e siamo a Natale,” disse Dazai, arrivando di fronte al loro ospite inatteso. “È proprio una Lumaca.”

Il rosso gli alzò il dito medio, tornando al fianco del Boss.

La scena era ironica: Dazai parlava a macchinetta e Ango neanche lo ascoltava, completamente rapito dalla pancia prominente che il più giovane nascondeva - per modo di dire - sotto la felpa nera.

“Sgombro, è andato in tilt,” gli fece notare Chuuya, quando tutto quel casino cominciò a irritarlo.

Dazai seguì la linea dello sguardo dell’agente. Rise. “È cresciuto, non è vero?” Si accarezzò il grembo amorevolmente. 

Ango annuì, ancora non del tutto presente a se stesso. “Sì, decisamente.”

“Sakunosuke,” disse Dazai. “Si chiama Sakunosuke.”

“Sì, Chuuya me lo ha detto.”

Dazai s’imbronciò e si rivolse al coetaneo. “Tu con le sorprese non ce la fai, vero?”

“Ma quali sorprese?” Ribatté il rosso. “Dovevo usare qualche informazione a mio vantaggio, per convincerlo a tornare.”

“Sarei tornato comunque,” si sentì in dovere di dire Ango.

“Sì, sei stato molto presente negli ultimi mesi,” commentò Mori, sarcastico.

Sentendosi in difetto, Ango abbassò la testa. Non poteva rispondere a tono al Boss della Port Mafia. 

Dazai corse in suo soccorso. “Vieni di sopra.” Gli afferrò il polso. “Parliamo in camera mia, lontano da questi corvi.”




 

La camera di Dazai era più accogliente di come se la ricordava, meno spoglia. La poltrona accanto alla finestra era stata sostituita con una sedia a dondolo. Vicino all’armadio, era stata montata una cassettiera color azzurro pastello, completata da un piano fasciatoio. Sulla sola parete rimasta libera era appoggiato uno scatolone ancora intoccato.

“È la sua culla,” disse Dazai, prima che l’agente governativo potesse chiedere. “Chuuya e Mori devono montarla. So già come andrà a finire: la monterà solo Chuuya, mentre Mori starà a guardare.”

Ango si umettò le labbra. “Ti… Ti trovo bene.” Era sincero.

Dazai scrollò le spalle. “Ti dispiace, se mi siedo?”

L’agente scosse la testa e il ragazzo si accomodò sulla sedia a dondolo. “Non riesco più a stare comodo in nessuna posizione,” si lamentò Dazai, aggiustandosi meglio contro lo schienale. “Voglio che tutto questo finisca presto.”

Ango si concesse un’altra occhiata alla pancia dell’amico, ma allontanò lo sguardo immediatamente. “Manca ancora molto?”

“Ogni giorno è buono,” rispose Dazai. “Non vedo l’ora e, al contempo, non voglio farlo. È una cosa strana. Ho come l’impressione che tra l’alba e il tramonto passi un intero anno, mi sento frustrato fino alle lacrime, poi penso che tra la fine di questo capitolo e l’inizio di quello nuovo c’è una terribile parentesi di dolore.” Rabbrividì. “No, non voglio farlo… Cioè, voglio che Saku nasca, ma non voglio farlo io!”

Suo malgrado, Ango si lasciò andare a una risata. “Temo che sia un po’ complicato.”

“Ti disgusta tanto guardarmi?” Domandò Dazai.

Per tutta risposta, lo sguardo dell’agente saettò sul suo viso. “Perché pensi una cosa del genere?”

“Non appena siamo rimasti soli, hai posato gli occhi su qualsiasi cosa in questa stanza, tranne me.”

Aveva ragione. Se Ango avesse potuto prendersi a pugni da solo, lo avrebbe fatto. “Mi dispiace per essere sparito,” disse, anche se Dazai non gli aveva chiesto nessuna giustificazione. “Era… Era troppo per me, avevo bisogno di prendere le distanze.”

Se Chuuya fosse stato lì, gli avrebbe dato del patetico e l’agente non avrebbe saputo come difendersi. Ango non aveva alcun diritto di definire troppo una situazione a cui aveva potuto voltare le spalle. “Sarei dovuto rimanere qui, con te,” aggiunse, a testa bassa.

“Ti saresti solo guadagnato più rancore da parte di Chuuya,” disse Dazai. “Questo è il mio mondo, Ango, so come gestirlo. Tu hai passato anni sotto copertura alla Port Mafia ma, una volta gettata la maschera, non saresti mai riuscito a integrarti.”

Era vero ma non sufficiente a lenire il senso di colpa che appesantiva il petto di Ango. “Sei diverso.”

“Davvero?” Domandò Dazai, sarcastico, puntando l’indice contro la pancia che si doveva portare dietro.

“Quando ti ho trovato nell’appartamento di Odasaku, ho avuto paura che non ce l’avresti fatta… Che io non ce l’avrei fatta a proteggerti,” disse Ango, con amarezza. “Beh, qualcun altro deve aver fatto un ottimo lavoro, perché ora ti guardo e ho la certezza che ce la farai. Non hai bisogno della protezione di nessuno.”

Le labbra di Dazai si tesero in un sorriso malinconico. “Ricordi il nostro ultimo incontro al Lupin, quando hai espresso quel desiderio assurdo sul ritrovarsi come se nulla fosse cambiato?”

Ango annuì.

“Io non credo che riuscirò mai a slegare il tuo tradimento da quello che è successo a Odasaku.” Dazai avrebbe voluto voltare lo sguardo altrove, gli avrebbe reso più facile contenere l’emozione - è colpa degli ormoni, si disse, solo degli ormoni - ma Ango meritava di essere guardato in faccia, mentre pronunciava quelle parole: “ma non è stata colpa tua. Se Odasaku è morto, non è colpa tua.”

Ricevere una pugnalata allo stomaco, avrebbe fatto meno male. Per impedire al proprio autocontrollo di vacillare, Ango dovette stringere i pugni fino a farsi male. Costrinse la sua mente a passare a qualcosa di pratico, che potesse liberarlo da quell’immobilità. Infilò la mancina nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori la ragione principale per cui Chuuya era venuto a cercarlo.

“Tieni,” disse, porgendo al più giovane due delle fotografie scattate al Lupin - quella di gruppo e quella singola di Odasaku. “Fammi cercare da Chuuya, quando il bambino nascerà.”



 

Chuuya stava mettendo a posto la spesa, quando Ango si affacciò sulla cucina come una furia. “Hai una sigaretta?” Domandò al più giovane, come se il Boss della Port Mafia non fosse seduto proprio davanti a lui, a piegare indumenti per neonati.

I due mafiosi si lanciarono un’occhiata. 

“Penso che voglia un compagno di fumate,” buttò lì Mori, quando fu chiaro che il rosso non si sarebbe mosso di un millimetro.

Chuuya chiuse il frigo e si rivolse all’agente. “Avevi smesso.”

“Ho ricominciato,” ribatté l’agente.

“Da quando?”

“Da oggi. Ce l’hai questa sigaretta o no?”

Mori appoggiò il viso al pugno chiuso, osservando la figura tesa dell’agente governativo. “Chuuya, sembra sul punto di esplodere. Dagli questa sigaretta, su.”




 

Il vento si era calmato ma i fiocchi non accennavano a rallentare.

Chuuya recuperò il pacchetto di sigarette dalla tasca e ne estrasse una con le labbra, poi lo porse al suo improbabile compagno.

Ango lo ringraziò e aspettò il suo turno per l’accendino.

“Ti ha sconvolto così tanto rivederlo?” Domandò Chuuya, dopo la prima boccata di fumo.

Prima di rispondere, Ango fece almeno tre tiri. “Promettimi che starà bene.”

“Bell’insolente!” Sbottò Chuuya, dando un calcio a un pezzo di neve ghiacciata in mezzo al marciapiede. “Lo hai lasciato nelle nostre mani per mesi, senza curarti delle conseguenze!”

“Da quel che ho visto, sarebbe stata una perdita di tempo.”

“Esatto!” Chuuya esalò un’altra nuvola di fumo, che si dissolse presto nell’aria gelida. “Dazai sta benissimo qui, con noi. Non ha bisogno di ricominciare da zero chissà dove e chissà con chi.”

Ango lo guardò poco convinto. “Chuuya, non voglio distorcere la percezione che hai della tua famiglia, ma-“

“Hai detto la parola chiave: famiglia,” lo interruppe il più giovane. “Dazai può disprezzarla quanto vuole, ma è quello di cui Saku ha bisogno.”

Per l’agente governativo era molto difficile vedere in un’associazione mafiosa quell’insieme di legami affettivi necessari a crescere un bimbo, ma dubitava di poter esporre a Chuuya il suo punto di vista. Legalità o meno, i fatti raccontavano una storia assurda, ma che non lasciava spazio a fraintendimenti : Dazai aveva chiesto aiuto alla famiglia da cui era scappato e l’aveva ricevuto.

In confronto a questo, Ango che aveva da offrire? Latitanza e incertezza. Era una battaglia persa in partenza.

“Gli hai portato le fotografie?” Domandò Chuuya.

Ango annuì, finendo di fumare la sua sigaretta. La gettò a terra, schiacciandola col tacco della scarpa. 

“Cazzo, quattrocchi, che ti ha fatto lo Sgombro per ridurti in questo modo?”

L’agente fissò la sigaretta schiacciata sul terreno ghiacciato e pensò che quell’immagine fosse un pratico riassunto di come si era sentito in tutti quei mesi. “Mi ha perdonato.”

Distratto dal freddo, Chuuya fraintese. “Per essere sparito dalla primavera scorsa?” Finita la sua sigaretta, ripose il mozzicone nel portacenere tascabile che aveva sempre con sé. “Rientriamo, stai tremando,” disse.

Non era il freddo a scuotere le spalle di Ango. 

Quando Chuuya se ne accorse, la voglia di lasciarlo lì a piangere da solo fu tanta ma la parte di sé che sopportava meno - la stessa che gli impediva di rinunciare a Dazai - lo costrinse a tornare sui suoi passi.

“Ti preoccupavi che Dazai non avesse pianto la morte di Oda, ma non lo hai fatto nemmeno tu, eh?” Chuuya appoggiò la schiena al muro gelato della clinica e si accese una seconda sigaretta. Aveva il sospetto che quelle lacrime non fossero solo per Oda Sakunosuke, ma anche per Dazai e per quel qualcosa che loro tre avevano costruito. Chuuya sapeva com’era perdere un amico, ma non credeva di aver mai vissuto una cosa simile. Un po’ li invidiava è un po’ aveva voglia di prendere il quattrocchi a calci - Dazai era esonerato e doveva pur prendersela con qualcuno.

Rimase accanto ad Ango per tutto il tempo che ne ebbe bisogno.




 

Dazai stava bene, un evento più unico che raro. L’ultima volta che si era sentito così era stato a Marzo, la stessa mattina in cui Mori aveva convocato Odasaku al quartier generale. 

Ora, a Dicembre, accoccolato sotto il piumone caldo del loro letto, Dazai aveva raggiunto la pace dei sensi. Niente nausea, niente dolori alla schiena, era anche riuscito a trovare una posizione confortevole. Il bambino che si muoveva nella sua pancia non lo disturbava ma, al contrario, lo rassicurava che andava tutto bene. Se solo ci fosse stato qualcuno su quel letto, insieme a lui, il momento sarebbe stato perfetto.  

“Osamu?”

Dazai non era ancora abituato al suono del suo nome, pronunciato con tanta nonchalance. Fece capolino da sotto le coperte e gli occhi azzurri di Odasaku gli diedero il buongiorno. “Stai bene?” Domandò, con quella nota di apprensione che lo aveva accompagnato negli ultimi mesi.

Dazai si stiracchiò. “Mai stato meglio.” 

Il suo compagno sedeva per terra, accanto al loro letto, e di fronte a lui vi era la ragione che lo aveva spinto ad alzarsi presto.

Dazai sorrise alla piccola culla bianca. “Sei riuscito a montarla.”

“Non abbiamo più molto tempo a nostra disposizione,” disse Odasaku, sedendosi accanto al compagno. “Dobbiamo cominciare a parlare di cose serie, io e te.”

Dazai gonfiò le guance. Uscì dal piumone controvoglia, sedendosi contro i cuscini. “Sono tutto orecchie,” disse.

Odasaku si sporse quanto bastava per accarezzargli la pancia. “Devi trasferirti nel tuo appartamento alle torri.”

Dazai emise una risatina che si concluse con un “no” secco.

Odasaku lo guardò dritto negli occhi. “Osamu, ogni giorno potrebbe essere quello buono.”

“Come accade ad altre centinaia di persone nelle mie condizioni e non si vanno a trasferire in prigione per questo.”

“Non è una prigione, è casa tua,” gli ricordò Odasaku.

“Oh, certo, con tutta la Black Lizard sulla porta.”

“Il Boss è preoccupato per te-“

“Ah, ecco chi c’è dietro a questa grande idea!”

“E lo sono anche io,” aggiunse Odasaku. “Qualunque cosa accada, al quartier generale possono tenere la situazione sotto controllo.”

Dazai sapeva che aveva ragione, ma questo non significava che gliel’avrebbe data vinta. “Senti come scalcia,” cambiò discorso, spostando la mano del compagno sul punto in cui il bambino si muoveva di più. 

Odasaku lo lasciò fare e per un po’ nessuno dei due disse niente.

“Voglio che questa cosa sia solo mia e tua,” mormorò Dazai. “Non voglio farci entrare nessun altro.”

“Lo sai che non è possibile, Osamu.”

“Perché non fuggiamo insieme?” Dazai sapeva di essere irrazionale, capriccioso, ma era davvero quello che desiderava di più. “Lasciamo la città. Troviamo una casa sul mare e cresciamo Saku lì.”

Odasaku lo ascoltava paziente, ma con l’obiezione già in punta di lingua. “Dovrai superare questa cosa della Mimic, prima o poi.”

“Sei quasi morto, Odasaku.”

“Quasi.”

“Se Mori non mi avesse impedito di venire da te-“

“Sarebbe finita molto peggio,” concluse Odasaku. “I rinforzi non sono serviti a nulla. Da solo, cosa avresti potuto fare? Aspettavi già Saku-“

“Non lo sapevo,” si giustificò Dazai.

“No, non lo sapevi, ma se fossi rimasto ferito, lo avremmo scoperto nel modo peggiore. Sono grato al Boss per averti fermato.”

Dazai assottigliò gli occhi. “Oh, ecco quella cosa chiamata tradimento…” Fece per nascondersi di nuovo sotto il piumone, ma il compagno glielo impedì. 

“Ho già fallito nel proteggere qualcuno, non commetterò lo stesso errore con te,” disse Odasaku, serio.

Dazai sapeva che si riferiva ai bambini che la Mimic gli aveva portato via. Non c’erano capricci che potessero qualcosa contro una replica del genere. “Almeno dimmi che non hai detto sì alla proposta di Mori di divenire la sua guardia del corpo. Per la Port Mafia sei un eroe, potresti fare qualsiasi altra cosa.”

L’espressione di Odasaku si ammorbidì. “Questo genere di decisioni sono tutte rimandate a dopo la nascita di nostro figlio. Ho detto lo stesso anche al Boss.”

Dazai ne fu sollevato. 

“In ogni caso, non possiamo restare qui,” disse Odasaku, guardando l’appartamento di cinquanta metri quadri. “Ci serve una casa più grande.”

“Sul mare, via da questa città.”

“Osamu…”

“Stiamo litigando, per caso?” Dazai era intrigato dalla cosa. Era questo che facevano le coppie: litigare per cose stupide. E loro erano una coppia, con tanto di fagottino di gioia in arrivo, anche agli occhi del Boss della Port Mafia.

“Perché non lavori con me?” Propose Dazai. Era diverso da per me, presupponeva una qualche parità di ruoli. “Potremmo essere partner.” Si sporse in avanti, aspettandosi un bacio.

Ricevette un’altra obiezione. “E che ne vuoi fare di Chuu-?”

“Odasaku!” Esclamò Dazai, esasperato. “Devo trasferirmi al quartier generale, perché così vuole Mori! Non posso proporti di lavorare insieme, perché Chuuya esiste! Che altro?”

Odasaku scrollò le spalle, placido. “Sono pensieri ragionevoli.”

“Io non voglio essere ragionevole!” Replicò Dazai. “Voglio essere capriccioso!” E voleva che fosse un problema di tutti, soprattutto di Mori e Chuuya.

Odasaku gli posò un bacio sulle labbra, disinnescando la situazione in un istante.

Dazai simulò uno sguardo rancoroso. “Ecco perché tutti sono in panico all’idea che non sarai più il tuttofare della Port Mafia. Sei troppo bravo a gestire le crisi.”

Il secondo bacio di Odasaku fu per la sua pancia. “Ti preparo la colazione.”

Mentre Odasaku si allontanava, a Dazai sfuggì un sorriso. Si voltò per seguirlo con lo sguardo, ma non trovò nessuno alle sue spalle.

“Odasaku,” chiamò, ma quello non era più l’appartamento in cui si erano amati innumerevoli volte. 

Dazai era in piedi, al centro di un corridoio. Di fronte a lui vi era la porta socchiusa di una stanza per bambini. La culla bianca era l’unica cosa che riusciva a vedere.

Il pianto di un neonato riempì il silenzio. 

Dazai si guardò: la pancia non c’era più. 

Si precipitò all’interno della cameretta, ma scoprì con orrore che la culla era vuota. 

“Saku!” Chiamò disperato. “Saku!”

Il pianto divenne assordante e Dazai premette entrambe le mani contro le orecchie.

“Sei l’incarnazione del nulla assoluto,” disse una voce nella sua testa. “Che cosa mai potrebbe nascere da te?”

Urlò.




 

Quando aprì gli occhi, Dazai si ritrovò nel suo letto, alla clinica. 

La prima cosa che fece fu toccarsi la pancia: il bambino non si muoveva.

“Saku…” Chiamò con voce tremante, premendo le dita sui punti dove lo sentiva scalciare di solito.

Non accadde nulla.

“Chuuya…” Chiamò in panico. “Chuuya!”




 

“E va tutto perfettamente come deve andare,” disse Mori, senza disturbarsi a trattenere un sonoro sbadiglio. Ripose lo scanner e passò al giovane della carta per ripulirsi. “Il bimbo è in posizione, la circolazione del cordone è perfetta e il battito è bello forte. Saku sta benissimo.”

Dazai scosse la testa. “C’è qualcosa che non va,” insistette.

Dalla parte opposta del lettino, Chuuya afferrò la carta sbuffando. “Stava dormendo, paranoico che non sei altro!” Esclamò, pulendo via il gel con gentilezza. 

“Hai avuto un incubo?” Domandò Mori, cercando di aggiustarsi i capelli passandovi le dita. “Qualcosa ti ha turbato?”

Dazai scosse la testa, abbassando l’orlo della maglietta per coprirsi la pancia. Anche un cieco si sarebbe accorto che era spaventato a morte e non era un evento da tutti i giorni.

“Chuuya, andresti a preparare qualcosa di caldo per tutti e tre. Rilassiamoci un po’, prima di tornare a letto, ci farà bene,” propose Mori, sorridendo gentilmente.

Il giovane dai capelli rossi sapeva che era un messaggio in codice. Togliti dai piedi, questo gli stava dicendo. Suo malgrado, ubbidì e decise che avrebbe scaldato un po’ d’acqua per davvero: nessuno di loro sarebbe tornato a dormire tanto facilmente.

“Che cosa c’è?” Domandò Mori, una volta rimasto solo con quello che era stato il più giovane dei suoi Dirigenti.

Dazai continuava ad accarezzarsi la pancia, come se avesse paura che qualcosa d’irreparabile potesse capitare da un momento all’altro. “L’incarnazione del nulla assoluto,” mormorò. “Ricordi queste parole?”

Era impossibile per Mori dimenticarle: erano state le ultime pronunciate da De Sade, prima di essere giustiziato. “Non erano rivolte a te,” lo rassicurò. “Era un messaggio per me, per qualcosa successo in Europa tanti anni fa.”

“Me lo hai detto anche la notte che mi hai portato a casa.”

“Perché ci stai ripensando ora?” Indagò Mori.

Dazai si umettò le labbra. “Ho sognato la sua voce che mi parlava.” Quella era solo l’ultima parte del sogno, ma della prima non ne avrebbe fatto parola con il Boss. “Se io sono il nulla, qualsiasi cosa accostata a me smette di esistere. È come tentare di moltiplicare lo zero per qualsiasi numero e aspettarsi un risultato diverso dallo zero stesso. Che cosa potrebbe mai nascere da me?”

Mori lanciò un’occhiata allo schermo dell'ecografo. “Un maschietto di tre chili abbondanti, per una lunghezza stimata di cinquanta centimetri,” rispose. 

Dazai lo guardò negli occhi. “Il mio potere lo ucciderà.”

Mori scosse la testa. “Il tuo potere non è in grado di uccidere. Se tuo figlio avrà un’abilità, non avrai su di lui un effetto diverso da quello che hai sulle altre persone.”

“Non è prevedibile, vero?” Dazai non si era mai preoccupato di quell’aspetto. Sapeva che non vi era una scienza esatta sulle abilità - anche se il Dipartimento per cui lavorava Ango ne sapeva di più di quanto lasciasse intendere - e se Saku ne avesse avuta una, probabilmente sarebbe stata diversa da tutte le altre. 

“No,” disse Mori. “A dispetto di quello che molti credono, non è una malattia. Non c’è una valida ragione per diagnosticarla in anticipo.”

“Non ci sono i mezzi,” ribatté Dazai. “Nemmeno il sesso biologico è una malattia, eppure non si vede l’ora di scoprirlo.”

“Farebbe alcuna differenza per te?” 

“No.”

“Allora non ci pensare. Conoscevo qualcuno che ha scoperto di avere un’abilità soltanto in età adulta, e so di un bambino che usava la sua già nel grembo materno. È un fattore imprevedibile, inutile perderci tempo.”

Dazai guardò l’immagine in bianco e nero fissata sullo schermo dell’ecografo. “Non voglio che sia come me.” Era la prima volta che lo diceva ad alta voce. Quel bambino era tutto quel che rimaneva di Odasaku, era giusto che avesse i suoi capelli rossi e i suoi occhi azzurri. Era quello che Dazai aveva sperato fin dall’inizio: stringere tra le braccia suo figlio e rivedere l’amore che aveva perduto. Non era certo che fosse giusto, ma non poteva fare a meno di pensarlo.

“Chuuya dice che ha il tuo profilo,” disse Mori, divertito. “Vedi tu se ti conviene contraddirlo.”




 

La notte tra il 26 e il 27 Dicembre, Dazai venne strappato dal sonno da un dolore improvviso. Rimase immobile, col respiro bloccato in gola e una mano premuta contro la pancia. Attese, certo che ciò che lo aveva svegliato sarebbe tornato più forte di prima.

Non accadde. Saku si mosse nel suo grembo, come se non fosse successo niente.

Secondo Mori, era impensabile prevedere come tutto sarebbe finito. Nascevano bambini dall’alba dei tempi e ancora la medicina non aveva tutte le risposte. Alcuni parti erano veloci, altri infiniti e una gravidanza da manuale non garantiva un lieto fine. Dazai era abituato ai salti nel buio - non solo metaforicamente - ma era difficile aspettare impotenti, quando era una vita quella che gli cresceva dentro.

Mori gli aveva detto che l’unica arma che poteva brandire era la pazienza. Dazai non ne aveva più da mesi. C’erano stati giorni, specialmente all’inizio, in cui si era ritrovato a fare una lista di tutte le variabili che avrebbero potuto compromettere la sua gravidanza e la salute di Saku. Il pensiero era bastato a trascinarlo nel vortice di oscurità che aveva conosciuto con la morte di Odasaku.

Gli aborti spontanei succedevano, anche quelli nel secondo trimestre. I cuori dei bambini si fermavano anche a pochi giorni dal parto per motivi a volte diagnosticabili, a volte no. Era una tragedia che nel mondo era comune, e Dazai ne era terrorizzato. Se succedeva qualcosa a Saku, respirare non gli sarebbe servito più.

Punto. Basta. Fine.

“Non vedo l’ora che tu nasca,” mormorò alla sua pancia.

Saku gli rispose, a modo suo.

Per il resto della notte, Dazai non riuscì più ad addormentarsi.




 

La mattina seguente, Mori entrò nel suo studio con una tazza di caffè americano preso dal bar dietro l’angolo e si ritrovò Dazai accovacciato sul vecchio divano. 

“Dazai, si congela qui!” Esclamò, accedendo con il piede la stufa sotto la scrivania. “Che stai facendo?”

“Voglio stare con te.” Non era una questione emotiva, era più un ho paura di quello che mi sta succedendo e tu sei l’unico a potermi dare una mano.

Mori ne fu sorpreso. “Non ti senti bene?” Domandò, avvicinandosi. Il ragazzo aveva anche la testa nascosta sotto la coperta, come se quella poca luce che arrivava dalla parete in vetrocemento fosse abbagliante. 

“Ehi?” Mori azzardò una carezza tra quei capelli arruffati. “Senti dolore?”

Dazai scoprì il viso, i suoi occhi stanchi incontrarono quelli del medico. “No, non sento dolore,” ammise. “Mi sento strano.”

Mori annuì. “Sì, è meglio che tu sopporti la mia presenza per oggi,” disse. “Magari è solo un disagio dovuto al tuo corpo che si prepara, ma evita d’isolarti di sopra. Va bene?”

Dazai annuì. “Ti sei portato dietro del lavoro?”

Mori lanciò un’occhiata alla scrivania. “Ho qualche documento per i periodi morti, ma perché t’interessa?” 

“Voglio lavorare,” rispose Dazai, mettendosi a sedere. 

Mori sgranò gli occhi. “Questo non è decisamente da te.”

“Mi devo tenere occupato,” si giustificò il giovane. “Hai una trattativa o un piano d’attacco da elaborare? Devo impegnare la testa.”

Una giornata di lavoro con Daza avrebbe risparmiato al Boss un mese di girotondi inutili. “Va bene,” acconsentì. “Ma prendi la mia poltrona: è più comoda.”




 

Chuuya si svegliò due ore dopo e lì trovò ancora così: Dazai seduto alla scrivania, come se a dirigere il gioco fosse lui e Mori che lo aggiornava sulle novità degli ultimi mesi, per fargli comprendere meglio la situazione.

Era uno spettacolo sorprendente e, al contempo, familiare. Chuuya non se la sentì d’interromperli con la sua presenza e se ne rimase nascosto nel corridoio, a godersi quella rara parentesi di normalità, con la tazza di caffè a scaldargli le mani. Non gli importò affatto di essere stato tagliato fuori. Mori e Dazai erano così. Nel modo di percepire il mondo di Chuuya, quando quei due sedevano insieme in quel modo, fosse per lavoro o per una semplice conversazione, era il chiaro sintomo che andava tutto bene.

“Chi è Higuchi?” Domandò Dazai, sollevando una scheda con tanto di foto allegata.

Mori l’afferrò, studiando l’immagine della ragazzina bionda. “Higuchi Ichiyo,” ci pensò. “Non mi ricorda niente. Che ci faceva in mezzo a quei documenti?”

“Ha fatto domanda per divenire assistente di Akutagawa,” intervenne Chuuya, guadagnandosi le occhiate perplesse degli altri due.

“Come segretaria?” Domandò Mori, poco convinto. “Perché sono certo che quel genere di personale non spetti a me selezionarlo.”

Dazai ridacchiò. “Akutagawa con la segretaria personale.” Il pensiero lo divertiva.

Chuuya entrò nello studio. “No, è una che fa sul serio. Non l’ho realmente conosciuta, ma so chi è. Penso abbia una specie di cotta per il tuo cucciolo rabbioso.”

“Akutagawa non è il mio cucciolo,” rispose Dazai. “Non più, ma non sapevo che avesse delle ammiratrici.” 

Si stava divertendo un sacco, Chuuya lo comprese dal mondo in cui gli brillavano gli occhi. 

“Avete meno di vent’anni e, gira e rigira, vi frequentate un po’ tutti. Avere delle cotte è quasi fisiologico,” disse Mori. “Io, per esempio, ero convinto che avesse una cotta per te, Dazai.”

“Chi?” Domandò il diciannovenne, sgranando gli occhi.

“Akutagawa.”

Chuuya rise. “Non ha una cotta, Boss, è solo scemo. Dazai è tipo la prima cosa che ha visto e gli si è attaccato addosso, come gli anatroccoli con la mamma.”

“Oh, un anatroccolo nero,” disse Dazai.

Ovunque fosse, Chuuya era certo che ad Akutagawa Ryuunosuke stessero fischiando le orecchie. “Sì, ma dubito diventerà mai cigno.”

“I cigni neri sono affascinanti,” intervenne Mori, così a caso. “Conoscete il balletto, no?”

“Boss, assumila come assistente di Akutagawa,” decise Daza, puntando l’indice contro la foto di Higuchi Ichiyo. “Se ha una cotta per lui, almeno siamo certi che non lo pugnalerà alle spalle. Akutagawa non è bravo a farsi volere bene dalle persone.”

Chuuya storse la bocca in una smorfia. “Senti di chi parla!”

Mori studiò la scheda della ragazza con espressione critica. “Sei sicuro, Dazai?” Domandò. “Akutagawa ha preso il tuo posto a capo delle forze armate. Sotto di lui, c’è direttamente Hirotsu. Questa ragazza non ha un’abilità e non è nemmeno un’assassina addestrata.”

Chuuya aggrottò la fronte. “E che ci fa alla Port Mafia?”

“Non abbiamo solo personale da battaglia. Prendi Ango, lui non era alla Port Mafia come uomo d’azione.”

Dazai rise. “Poi ha lavorato con Chuuya e si è dovuto adattare.”

“Stai zitto,” ringhiò il coetaneo.

Mori interruppe il loro battibecco. “Quello che sto cercando di dire è che Akutagawa non ricopre più un ruolo secondario. Devi considerare la pericolosità del suo lavoro e si presume che abbia un assistente suo pari.”

“Non esiste qualcuno che possa essere pari di Akutagawa Ryuunosuke,” disse Dazai, serio.

Chuuya sgranò gli occhi. “Era un complimento? Perché suonava come un complimento.”

“Boss, se pensi che Akutagawa abbia bisogno di un partner, uno vero, sono d’accordo,” aggiunse Dazai. “Ma nella Port Mafia non esiste.”

“Affiancargli Higuchi significa farlo combattere da solo,” ribatté Mori.

“E allora che combatta da solo,” concluse Dazai, poi allontanò di colpo la poltrona dalla scrivania, andando a sbattere contro il muro.

Sia Mori che Chuuya sobbalzarono. Fu quest’ultimo a parlare per primo. “Che cazzo ti prende?”

Dazai non gli rispose, lo sguardo fisso a terra. 

Mori si sporse oltre la scrivania. “D’accordo…” Usò la voce più tranquilla che riuscì a simulare. “Si sono rotte le acque, Dazai, va tutto bene.”

Chuuya non gli fu di alcun aiuto. “In che senso rotte le acque?”

Il Boss gli lanciò un’occhiata raggelante e il ragazzo dai capelli rossi ingoiò a vuoto.

“Non va bene,” mormorò Dazai, la voce gli tremava. “Non va bene.”

Mori fece il giro della scrivania. “È esattamente il contrario,” lo rassicurò. “Il tuo bambino vuole nascere ed è anche nei tempi giusti. Non c’è nulla di cui preoccuparsi.”

Chuuya decise di bere in fretta l’ultimo sorso di caffè che gli era rimasto. Appoggiò la tazza sulla prima superficie disponibile - uno scatolone accanto alla porta - certo che non avrebbe buttato giù più nulla per un po’. 

Erano passati quasi sette mesi dall’inizio di quella storia. Sette mesi di rancori, conti in sospeso e parole non dette. Sette mesi in cui aveva alternato i ma chi cazzo me lo fa fare ai Dazai ha bisogno di me, anche se Dazai era la cosa peggiore della sua vita. 

Tutto, solo per quel momento.

“Chuuya, se svieni, ti lascio annegare nella tua bava,” lo avvertì Mori, mentre aiutava Dazai ad alzarsi. 

Grazie agli scatoloni, nessuno vide Chuuya aggrapparsi all’architrave della porta, come se da quell’appiglio dipendesse la sua stessa vita. “No, non svengo, Boss.”





 

Dazai rimase silenzioso fino a sera.

Kouyou aveva comprato tre camicie da notte per l’evento, tutte bianche. A Chuuya venne un colpo al pensiero che le avrebbero usate tutte e tre. Sarebbero davvero andati avanti per tanto tempo? Dazai non emetteva un fiato, anche se bastava guardarlo in faccia per capire che non stava bene per niente.

Dopo la visita, Mori fece a tutti un quadro ipotetico della direzione che stavano prendendo. “Il travaglio è partito in modo naturale e questo è un bene. Dobbiamo solo avere pazienza.”

Solo. Chuuya era certo che se quella situazione fosse durata più di due ore, qualcosa sarebbe esploso - probabilmente lui - e Yokohama avrebbe potuto vantare una seconda Suribachi.

Se il Boss si era accorto che, seduto nel suo angolo, era ad un passo da una crisi di panico, lo ignorò completamente. “Stai comodo così, Dazai?” Domandò al ragazzo, che giaceva sul lettino operatorio steso su un fianco. 

“Fa male,” disse il ragazzo. “Ma non così male.”

Mori sorrise, rassicurante. “Non voglio mentirti: andrà a peggiorare di ora in ora.”

“Questo lo so.”

“Ma non appena Sakunosuke sarà nato, passerà tutto. Vuoi che chiami qualcuno? Pensi di sentirti più a tuo agio con Kouyou?”

Dazai scosse la testa: l’unica persona che avrebbe chiamato giaceva sotto una lapide di pietra, in riva al mare. Sentì il dolore crescere gradualmente, ma non si fermò al punto che aveva previsto. Strinse gli occhi, trattenne il respiro e si aggrappò al primo appiglio che trovò: la mano di Mori.

“Respira, Dazai,” lo istruì il Boss. “Se trattieni il respiro quando arriva il dolore, è pericoloso sia per te che per il bambino.”

Chuuya attraversò la stanza con due ampie falcate. “Che succede?” Domandò. “Un istante fa, stava bene.”

Mori non gli rispose, tirò indietro la frangia di capelli scuri per liberare il viso di Dazai e aspettò che la presa sulla sua mano si allentasse. 

Quando Dazai tornò a guardarli, sia lui che Chuuya ripresero fiato.

“Questa era bella forte,” disse Mori. 

“No, questa posizione mi uccide,” singhiozzò Dazai e il medico lo aiutò a mettersi a sedere. 

“Sentiti libero di muoverti,” disse Mori. “Nei libri di medicina è scritto che la vera tortura è stare fermi.”

“Si fottano i libri di medicina,” sibilò Dazai, scendendo dal lettino per vagare nella stanza, senza una meta.

Chuuya sgranò gli occhi: non era solito del suo partner parlare così, quella era una prerogativa sua.

Mori rise. “Bene, questa è rabbia, ti sarà utile.”

Dazai prese un respiro profondo e allargò le braccia, come se si stesse tenendo in equilibrio. “È un dolore terribile,” concluse, “ma non così tanto come lo raccontano. Se riesco a tirare il fiato tra una contrazione e l’altra, ce la posso fare.”

“L’importante è essere positivi.” Mori sollevò il pollice, carico di entusiasmo. 

Chuuya adocchiò l’alcol puro, quello color rosa fluo vicino all’ecografo, chiedendosi se potesse essere utile alla sua causa. Non ebbe il tempo di prendere una decisione che Dazai prese ad urlare: “maledizione!” 

Mori lo raggiunse e lo sorresse per tutta la contrazione. “Respira,” gli ricordò, accarezzandogli i capelli. “Respira.”

Chuuya era pietrificato al centro della stanza, utile come un bicchiere d’acqua in mezzo a un incendio.

Borbottando frasi sconnesse, Dazai tornò al lettino, artigliando le coperte per sorreggersi. “Mori… Mori!” Chiamò, come se il medico non fosse ad appena un passo da lui. “Ho cambiato idea. Non ce la faccio, non lo voglio fare!”

“Uhm, fammi pensare.” Mori fece finta di rifletterci. “Temo proprio che debba farlo tu.”

Dazai prese il cuscino e vi affondò il viso. Vi soffocò un urlo che non aveva nulla a che fare con il dolore e molto con la frustrazione.

Non capitava spesso, ma Mori si sentì in colpa per quel suo goffo tentativo di sdrammatizzare. “Hai ragione,” aggiunse con voce più gentile. “È un inferno ma tieni a mente questo: più il dolore va veloce, più in fretta finirà.”

Dazai si sollevò sulle braccia, riemergendo dal cuscino. “No, non ce la faccio,” singhiozzò.

“Ce la fai,” lo rassicurò Mori. “Te lo prometto io, ti fidi di me?”

“No.”

“Bene, sei ancora in te,” concluse il medico. “Te lo ripeto: appena il dolore arriva, tu cominci a respirare. Se devi urlare, fallo, ma non trattenere il fiato.”

Dazai annuì. “Ho un ordine per voi.”

Il Boss della Port Mafia fu quasi intenerito dal tono imperativo di quelle parole. “Ti concedo una licenza speciale per l’occasione.”

“Questo bambino nascerà,” disse Dazai, lo sguardo basso. “Indipendentemente dalle conseguenze, Sakunosuke nascerà. Sono stato chiaro?”

Chuuya si avvicinò di un paio di passi. “Che stai blaterando, idiota?”

“Non siamo a quel punto, Dazai,” rispose Mori, appoggiando la mano sulla sua nuca. “Giuro su tutta la Port Mafia, che non ci arriveremo”




 

Chuuya fu abbastanza bravo da starsene zitto, fino a che lui e il Boss non furono da soli nel magazzino. “Che voleva dire?”

“Ha paura,” rispose Mori, spostando al centro della stanza un carrello operatorio vuoto. “Ce l’ha dall’inizio della gravidanza.”

“Ma sta andando tutto bene, vero?” Indagò Chuuya, che di timore ne aveva tanto a sua volta. 

“Il travaglio si è avviato da solo e sta procedendo gradualmente. È meglio di quanto avessi sperato. Ho letto cose spiacevoli sui parti indotti e noi l’abbiamo scampata,” disse Mori, recuperando da uno scaffale degli asciugamani ancora avvolti nella plastica. Li passò al più giovane. “Mettili sull’ultimo ripiano, ci serviranno più tardi.”

Seguirono degli attrezzi di chirurgia ancora sigillati.

Chuuya prestò particolare attenzione ai bisturi. “Se va tutto bene, a che servono quelli?”

Mori scrollò le spalle. “Non per forza alle emergenze. In questi mesi, non li ho usati come arma per non sprecarli.”

“E come si riconosce un’emergenza?”

“Il più delle volte, se il bambino va in sofferenza fetale.”

“Eh?”

“Il battito cala troppo durante una contrazione e fa fatica a stabilizzarsi.”

Chuuya pensò al monitor a cui Dazai era attaccato e a tutti quei numeri impazziti sul display, a cui non aveva dato alcuna importanza. “E se succede?”

“Improbabile.”

“Sì, ma se succede? Lo dovrai aprire in due e servirà un anestesista, o cosa cazzo ne so. Ci saranno sangue e urla e-“

“È un cesareo, Chuuya, non un film dell’orrore!” Non era solito di Mori alzare la voce, specie con lui, ma era inutile pretendere che avere Dazai in travaglio non lo mettesse in agitazione - era solo bravo a fingersi un adulto e a controllarsi.

Chuuya rimase pietrificato.

Mori prese un respiro profondo. “Sono stato un chirurgo della prima linea,” disse, anche se era una storia che il ragazzo conosceva già. “Nei primi anni della guerra, facevo amputazioni con una sega e un laccio emostatico. Niente anestesia, nemmeno uno straccio di droga per stordirli. Non avevamo niente, bollivamo le fasciature dei morti perché non potevamo permetterci di buttarle. Qui alla clinica, mi sono sempre preoccupato che ci fosse tutto il necessario. Hai ragione, in una sala operatoria normale sono presenti diverse figure specializzate. Non ho mai avuto il lusso di avere uno staff, così ho imparato ad arrangiarmi da solo. A volte mi è andata bene, a volte no. Ogni medico può raccontarti la stessa storia.” Fece una pausa, tanto per assicurarsi che il ragazzo lo stesse ancora ascoltando. “Ci vogliono circa quaranta minuti per un cesareo, ma per incidere e tirare fuori il bambino ne servono molti meno. Ti racconto tutto questo per chiarire che se dico che ce la faccio, vuol dire che ce la faccio.”

Chuuya annuì, abbassando gli occhi con rispetto.

Mori spinse il carrello operatorio verso di lui. “Torna da Dazai e porta questo con te. Vado a fare un giro di telefonate.”




 

“Io non so se ce la faccio, Kouyou,” ammise Mori, seduto sul pavimento del suo studio, con il cellulare premuto contro l’orecchio.

“Dammi il tempo di contattare Hirotsu,” disse lei, dall’altro capo della linea. “Le strade secondarie sono ancora bloccate dalla neve, ma in qualche ora dovremmo farcela.”

“Spero che sia tutto finito in qualche ora,” ammise Mori, con lo sguardo basso. Dalla stanza in fondo al corridoio, le urla di Dazai arrivavano a intervalli di pochi minuti. Se Chuuya fosse venuto a cercare il suo aiuto, lo avrebbe trovato curvo su se stesso e a un passo dalla disperazione. 

“Non dovrei essere tanto coinvolto,” disse Mori, rimproverando se stesso. “Ai ragazzi non serve questo… A Dazai non serve questo.”

Kouyou sospirò. “Un giorno capirò che tipo di ruolo ti sei imposto,” disse, la gentilezza della sua voce fu come una carezza a distanza. “Non è solo quello di Boss della Port Mafia, è qualcosa di più. So già che tu non me lo dirai mai.”

Mori sorrise amaramente. Era bello avere un’amica, ma era terribile ricordarsi che non poteva permettersi di averne. 

“Però, Mori…” Kouyou pensò con cura alle sue parole successive. “Esiste solo Dazai ora. Il peso del mondo mettilo da una parte, non te lo ruberà nessuno. Arriviamo il prima possibile, promesso.”

Mori interruppe la comunicazione e appoggiò la nuca alla parete fredda. Fuori, attraverso il muro in vetrocemento, poteva intravvedere i fiocchi di neve che cadevano senza far rumore.

“Lascia perdere il mondo, pensa solo a Dazai,” ripeté Mori alla stanza vuota. “Non potrò mai spiegarti che sono la stessa cosa.”

Un lampo di follia lo spinse a cercare un altro numero in rubrica. Avrebbe dovuto cancellarlo da tempo, ma era ancora lì. Premere il tasto di chiamata gli fece fisicamente male.

Era sicuro al novantanove percento che quel numero fosse andato distrutto. Vinse quel misero uno percento, perché seguirono uno, due, tre squilli…

Mori non diede tempo all’altro di parlare. “Sono io.” Si morse la lingua per l'idiozia di quelle parole. “Non essere infantile, non riattaccare.”

Seguì il silenzio e Mori seppe di essere ascoltato.

“Ho bisogno di parlarti…”




 

In tarda serata, le cose cominciarono a mettersi male.

Mori concesse a Chuuya una pausa. “Vai a mangiare qualcosa,” disse. “Se crolliamo anche noi, non facciamo un favore a nessuno.”

Il ragazzo tornò meno di cinque minuti dopo, dicendo che aveva lo stomaco chiuso.

Il medico poteva capirlo. “Ti dispiace se mi faccio un caffè?” Domandò a Dazai, che aveva ripreso a vagare per la stanza. Il partoriente scosse la testa, ma Mori non era certo che lo avesse ascoltato.

Tornò dieci minuti dopo, Chuuya non c’era e Dazai era genuflesso accanto al lettino, le mani giunte. “Non pensare che stia pregando,” disse il giovane. “Questa è l’unica posizione in cui il dolore non mi fa impazzire.”

“Chuuya?” Domandò il medico.

Sospeso in un momento di pausa tra una contrazione e l’altra, Dazai riuscì a parlargli tranquillamente. “Ango ha chiamato otto volte, forse dieci,” rispose. “Si sono provocati un attacco di panico a vicenda e l’ho buttato fuori. Riuscivo addirittura a sentire le urla di Ango dal ricevitore.”

Mori si sedette sul pavimento, accanto al giovane. “Ango sta venendo qui?”

“Se non si ammazza in macchina,” rispose Dazai.

L’orologio appeso sopra la porta informò Mori che erano passate le tre di notte. Dazai versava in quello stato da diciassette ore ed erano in dirittura d’arrivo, ma il tempo cominciava a essere davvero troppo. Reclinò il collo per controllare i valori sul display del monitoraggio: il battito del bambino era perfetto. 

Sakunosuke era un guerriero e Dazai non era da meno.

Dopo il panico iniziale, aveva sopportato il travaglio a testa alta. A Mori bastava guardarlo per accorgersi che era al limite, ma non sul punto di crollare. 

Dazai strinse gli occhi e chinò la testa in avanti.

Mori gli diede la sua mano a cui aggrapparsi. “Respira.” Gli accarezzò i capelli. “Così, bravo, respira.”

Quando il dolore passò, Dazai tremava ma non lasciò andare la mano del Boss. “Voglio Odasaku,” singhiozzò. Si era ripromesso di non dirlo ad alta voce, perché era inutile pregare per qualcosa d’impossibile, ma era troppo stanco per essere ragionevole. “Voglio Odasaku.”

Per un attimo, Mori fu sul punto di chiedergli scusa. Anche se aveva fatto quel che doveva, anche se non provava alcun pentimento per il dolore che aveva inflitto a Dazai, che ora si aggrappava alla sua mano come se da questo dipendesse la sua vita, non significava che gli facesse piacere vederlo soffrire.

Ma Dazai non meritava di essere preso in giro.

Mori accarezzò la mano tra le sue dita. Era più piccola della sua, eppure era certo che quel ragazzino lo avrebbe superato in altezza. Con l’indice, tracciò la cicatrice orizzontale sul polso. Ve ne era una gemella sull’altro braccio. Mori ricordava con esattezza il giorno in cui Dazai se l’era inflitte e quanto tempo ci aveva messo per ripulire il sangue dal pavimento, dalle pareti e da se stesso.

Dazai girò la testa nella sua direzione per guardarlo. “Quel giorno…” Rammentò con un filo di voce. “Tu sei arrivato in tempo.”

Non era un evento che a Mori faceva piacere ricordare. 

“Io non sono arrivato in tempo per Odasaku,” aggiunse Dazai.

“Non avresti potuto fare niente,” ribatté Mori. “Se fossi arrivato un minuto prima, il leader della Mimic avrebbe sparato a te, poi a lui. Sareste morti insieme, non ci sarebbe stato nessun lieto fine.”

“Morire insieme,” ripeté Dazai. “Dal mio punto di vista, non suona così male.”

Mori lo guardò dritto negli occhi. “No, quella stupidaggine del doppio suicidio non sarebbe mai andata bene con Odasaku. Puoi credere che la tua vita non abbia valore, ma la sua era un’altra cosa.”

“Lui aveva qualcosa da fare,” disse Dazai. “Un sogno da realizzare.”

“E tu portavi in grembo suo figlio,” replicò Mori. “Anche se non lo sapevi ancora, avevi una ragione per vivere.”

“Una ragione per vivere.” Dazai si sollevò sui gomiti e si prese la testa tra le mani. “Non posso dare a mio figlio questo peso.”

Mori sorrise tristemente. “Nessun genitore dovrebbe farlo, eppure accade ogni giorno. Ci ripetiamo che i figli non ci appartengono, ma non possiamo fare a meno di essere legati in modo viscerale a quelle vite che abbiamo nutrito, cresciuto e messo al mondo.”

Dazai si mosse, avvertendo l’inizio di una nuova contrazione. “Perché ora ne parli come se lo avessi provato sulla tua pelle?”

Mori trattenne il fiato, ma il dolore raggiunse il suo picco prima che il giovane potesse elaborare. “Coraggio.” Il medico si spostò alle sue spalle, afferrò il ragazzo per i fianchi. “Provo ad alleviare un po’ il dolore. Appoggiati a me.”

Dazai non aveva la possibilità di rifiutare. Mori prese a massaggiargli la schiena e il dolore non passò, ma si attenuò abbastanza da fargli riprendere fiato.

Chuuya tornò nella camera in quel momento. Non fece domande su quanto stava succedendo, si limitò a sedersi sul pavimento a sua volta.

Passata la contrazione, Dazai incrociò le braccia sul bordo del materasso e vi affondò il viso. Fu lui a spezzare il silenzio con un singhiozzo.

“Ohi…” Chuuya gli strinse la mano, allarmato. “Perché piangi, adesso?”

“Lascialo stare, Chuuya,” disse Mori, tornando al suo posto.

Dazai si aggrappò a tutti e due, affrontando le successive contrazioni in quasi silenzio. Era troppo stanco per urlare, per fare qualsiasi cosa che non fosse respirare. 

Di colpo, il dolore cambiò. Sentì bruciore in un punto in cui non avrebbe mai voluto sentirlo. “Devo spingere,” gemette.

Gli occhi di Chuuya divennero enormi. “Che vuol dire?”

Mori sorrise, sollevandosi in piedi. “Vuol dire che ci siamo!” Esclamò, improvvisamente allegro. “Chuuya, aiutami a metterlo sul lettino!”




 

Sakunosuke venne al mondo alle 3.58 del 28 Dicembre.

Dazai aveva creduto che avrebbe impiegato più tempo ad arrivare, che la scena sarebbe stata più drammatica. Aggrappato alla mano di Chuuya, a stento emise un fiato per tutti i quaranta minuti che ci vollero per far nascere suo figlio. Fece male - “come diavolo si può dimenticare un dolore così?” Singhiozzò a un certo punto - e scoppiò a piangere di nuovo, nel bel mezzo del processo. Non gliene importò. 

Chuuya gli parlava, più spaventato di quanto lo fosse lui, ma Dazai non poteva dare ascolto alle sue parole. Era la voce di Mori che lo guidava: fino a che il medico rimaneva tranquillo, sapeva che andava tutto bene.

E, alla fine, eccolo lì.

Il dolore sparì in un battito di ciglia e Dazai sentì ogni residuo di energia scivolargli via di dosso. Si ritrovò con la guancia premuta contro il petto di Chuuya - che era diventato di colpo silenzioso - e le palpebre pesanti. Impiegò tre respiri profondi a tornare presente a se stesso. Per allora, il pianto del suo bambino aveva già riempito la stanza.

“Va tutto bene,” continuava a ripetere Mori. Era la creatura appena nata che guardava, ma Dazai sapeva che si stava rivolgendo a lui. “Va tutto bene.”

Si protese in avanti, ma il braccio di Chuuya lo cingeva e non ebbe la forza di liberarsi dalla stretta. Fu un’attesa di pochi istanti, a Dazai parve un’eternità.

“C’è qualcuno che vuole conoscerti, Sakunosuke.” 

Quando Mori glielo mise tra le braccia, suo figlio aveva gli occhi aperti. Per mesi, Dazai aveva immaginato - meglio,sperato - di rivedere Odasaku sul viso del loro bambino, ma in quello sguardo trovò solo se stesso. Una versione di sé ancora intoccata dall’oscurità, una pagina bianca. 

Dazai passò l’indice tremante sulla testolina ricoperta di capelli scuri - non rossi - e si perse in ogni minuscolo dettaglio, incredulo che fosse opera sua. Era perfetto.

Allora era così che ci si sentiva di fronte alla più pura e sincera sorpresa. 

Eccola lì, l’unica cosa che aveva superato ogni sua aspettativa.

“Sei vivo.” Mormorò Dazai, incredulo. “Sei vivo.”

   
 
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