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Autore: Kodama_    29/01/2022    3 recensioni
[AtsuHina | break up & make up | 9000w]
Insetti che di notte sbatacchiano contro la stessa lampadina, ancora e ancora e ancora e ancora finché non precipitano a terra.
(Atsumu, Shouyou, l'oceano in mezzo, l'apocalisse intorno.)
Questa storia partecipa alla To Be Writing Challenge 2022 indetta da Bellaluna sul forum di Feriscelapenna.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Shouyou Hinata
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note iniziali: ho scritto questa fanfiction (è più uno sclero mal assortito, in verità) ascoltando a ripetizione sempre la stessa canzone, ovvero 'What could have been' di Sting feat. Ray Chen. Lascio il testo all'inizio perché la storia si basa su quello. Buona lettura e grazie! ♥




I am the monster you created
You ripped out all my parts
And worst of all, for me to live, I gotta kill the part of me that saw
That I needed you more

I hope you know we had everything
And you broke me and left these pieces
I want you to hurt like you hurt me today and
I want you to lose like I lose when I play what could have been

Why don't you love who I am?
I couldn't care what invention you made me
'Cause I, I was meant to be yours

I hope you know we had everything
And you broke me and left these pieces
I want you to hurt like you hurt me today and
I want you to lose like I lose when I play what could have been


*


Ci sono delle farfalle che si nutrono di lacrime.
Farfalle che, nottetempo, si poggiano sulla guancia di qualche malcapitato con lo stesso silenzio di una candela che si spegne. Poi distendono la proboscide, la infilano tra le ciglia chiuse e iniziano a succhiare. Chi dorme neanche se ne accorge.
Atsumu scopre dell’esistenza di queste farfalle nel tipico modo in cui ci si imbatte in curiosità del genere: durante un attacco di insonnia, con il corpo che vorrebbe solo ululare per il disperato bisogno di dormire ma la testa glielo impedisce. Gli occhi bruciano mentre fissa lo schermo del cellulare che brilla aggressivo nel buio e c’è quel ronzio che si propaga nelle orecchie che assomiglia al rumore del sangue quando circola.
C’è qualcosa in quell’immagine, in quella falena che se ne sta acquattata al buio come una pantera a succhiare via liquidi dagli occhi di un tizio che dorme, che gli fa schioccare qualcosa nel cervello. Un ramoscello si spezza all’improvviso, un quadro appeso al muro, immobile da anni, decide di cadere senza un apparente perché. È lo stesso rumore di quando scatta una serratura, tuttavia Atsumu non capisce se l’abbiano imprigionato in qualche stanza o se al contrario sia appena stato liberato - lo scopriremo alla fine di questa storia, immagino.
Perciò Atsumu si mette a sedere, respirando profondamente.
Sono sicuro? chiede a se stesso.
Sono sicuro, si risponde.
E chiama Shouyou.
“Tsumu?” risponde Shouyou al terzo squillo. “È successo qualcosa?”
“No, non è successo nulla. Volevo solo dirti che-
“Ti posso richiamare se non è urgente?” lo interrompe Shouyou. Atsumu si ammutolisce. Da quanto tempo è così? Da quanto tempo tenta di parlargli e Shouyou neanche lo sente? È come se sputasse briciole. È umiliante.
“Ma solo perché sto iniziando l'allenamento,” spiega, addolcendo la voce. “Dopo invece possiamo parlare con calma.”
“Certo,” risponde Atsumu. “Nessun problema.”
“Sicuro di stare bene?”
“Sì, sì. Tutto okay. A dopo.”
“A dopo, Tsumu. Mi manchi,” aggiunge. “Un sacco.”
Bugiardo, bugiardo, bugiardo.
Atsumu sbatte le ciglia e vede farfalle rosso sangue. Moriranno tutte di fame, quella notte, perché lui le lacrime le ha finite.
“Shouyou,” dice, prima che chiuda la chiamata. Le labbra si aprono in un sorriso distorto, il riflesso di uno specchio spaccato. “In realtà, voglio che ci lasciamo.”

*

La sorpresa è che è facile. Lasciare Shouyou, chiudere la telefonata con la sua voce ancora impigliata nella linea, come un animale che cade in una trappola.
“Lasciarci? Ma che stai dic-click.
CLICK.
Ed è così soddisfacente.
Shouyou è morto. Atsumu l’ha ucciso schiacciando il tasto rosso, l’ha ficcato dentro una tomba e ha sotterrato la bara dall’altra parte del mondo, dentro l’oceano.
O forse no. Forse non è Shouyou a essere morto, ma quello che c’era fra loro. E ogni volta che lo chiama e Atsumu ignora il telefono che vibra, è un’ulteriore pugnalata. Un accanimento su un cadavere che non può essere riportato in vita. Una cosa che era finita già da un bel pezzo, ma Shouyou non se n’era accorto o se n’era altamente fregato e Atsumu, debole, ha preferito l’illusione e ha finto che fosse tutto uguale a prima, solo con l’oceano in mezzo.
Atsumu guarda la sua relazione d’amore perfetta, la ammira incantato come se davanti avesse una sirena, le accarezza il viso gentile e luminoso, le dà un bacio della buonanotte proprio sulla fronte.
Poi le sputa addosso. La massacra e la brucia, sparge le sue ceneri nel mare e lascia che il flutto d’acqua salata le conduca lontano. Chissà, magari arriveranno dall’altra parte del mondo, magari finiranno ingoiate da un pescecane, magari arriveranno persino in Brasile, da Shouyou, che si ritroverà a contemplare ciò che rimane di quello che Atsumu ha tentato di proteggere fino alla fine. O forse no, forse non vedrà niente, perché non c’è mai stato niente. Non per Shouyou, almeno.
La cosa strana, è che Atsumu non è triste. Per i giorni successivi, Atsumu si sente onnipotente. Potrebbe raccogliere le stelle dal cielo, mangiarsele, lanciarle addosso alle persone tipo i semi di cocomero e farle scoppiare. Sarebbe capace di uccidere Dio solo schioccando la lingua, ma decide di essere misericordioso - magari è la volta buona che Dio impara cosa sia la vera misericordia - e di lasciarlo in pace, perché sinceramente non gliene frega proprio un cazzo, né di Dio né di Shouyou.
Ha solo voglia del campo. Della pallavolo. Di tornare a sentirsi intero.

*

Atsumu ha scoperto che gli esseri umani sono fatti di polvere di stelle.
C’è una spiegazione scientifica che Atsumu ha dimenticato non appena l’ha ascoltata, ma il concetto è quello.
Quando Atsumu l’ha scoperto, si è sentito pervadere da una sensazione difficile da descrivere a parole, di stupore e totale meraviglia. Quella sensazione, quel calore che si è propagato in maniera così intensa lungo tutto il corpo, è la stessa sensazione che prova quando è con Shouyou.
Atsumu fa schifo con le metafore, ma l’amore per lui ha la stessa identica voce del tizio che gli spiega che le stelle non sono affatto irraggiungibili, ma sono intorno e dentro tutti noi. Tocca il pulviscolo che vedi la mattina grazie ai buchi delle serrande e toccherai corpi celesti. E beh, quella sì che è una notizia che cambia il modo in cui vedi la vita.
Il punto, che non c’entra niente con le stelle ma c’entra tutto con Shouyou, è che Atsumu non può amare piano.
Se decide di amare qualcuno, allora deve farlo con la stessa veemenza di un cannone quando esplode. Atsumu ama come una bomba a orologeria, tuttavia la detonazione non si affievolisce mai, continua a espandersi come l’universo e a creare galassie. È un agglomerato di voce e di corpo che pulsa e che non conosce quiete o sazietà.
Atsumu è onesto e spericolato, e lo è anche nel modo in cui ama, perché si strappa il cuore dal petto come se fosse il gesto più semplice del mondo e te lo mette in mano, a prescindere da quanto sia azzardato, a prescindere dal fatto che, nella peggiore delle ipotesi, ad Atsumu potrebbe rimanere un buco nel petto.
E adesso il buco nel petto ce l’ha per davvero, è una voragine a forma di Shouyou che odora di oceano, perché Atsumu ama forte tanto quanto Shouyou uccide in silenzio.
La verità è che non credeva che la distanza significasse quello. Gli aerei, la vastità del mondo che si è srotolato all’improvviso come un tappeto frapponendosi tra loro: non aveva capito quanto fosse enorme, quello spazio. Credeva che per far rimpicciolire le cose bastasse socchiudere gli occhi: quando avvicini le palpebre, anche l’oceano, così temibile e immenso, diventa nient’altro che una strisciolina azzurra fra le ciglia. Ma figuriamoci se il mare si lascia ingabbiare in maniera così stupida. Figuriamoci se Shouyou si lascia comprimere dalle ciglia di chicchessia.
L’unico a comprimersi è stato lui, annientato da qualcosa di spaventosamente pesante, una cascata di piombo, l’amore che finisce.
Atsumu non ha un carattere adatto alle lunghe distanze: è geloso e ha una paura matta di perdere Shouyou. Shouyou in cambio gli ha regalato solo silenzi che si sono ingigantiti come bolle sempre più gonfie finché non sono scoppiate permettendo alla paranoia di schizzare fuori. Al dubbio basta una fessura minuscola per insinuarsi e piantare semi, soprattutto se il terreno è fertile di insicurezze.
Atsumu non credeva di averne così tante, di insicurezze. Era certo che ce l’avrebbero fatta. Era certo che sarebbero stati bene, perché erano loro, Atsumu e Shouyou.
Invece la fiducia è crollata labile come un castello di carte e Atsumu ha scoperto che la fragilità non sempre è apparente e non sempre si lascia guardare. Delle volte si nasconde dentro, come un piccolo verme, e non ti accorgi che ti ha divorato finché un giorno sollevi il braccio e ti ritrovi a fissarlo mentre si sbriciola al vento. Si sfaldano i contorni della tua sagoma, la tua ombra si maciulla, e tu assisti a quel grottesco spettacolo legato alla sedia centrale in prima fila. Non puoi fare niente, tranne guardare inorridito quello che succede al tuo cuore e poi raschiare via il sangue dalle tavole del parquet.
Atsumu ha sempre creduto che l’amore fosse meraviglioso. Meraviglioso e incredibilmente egoista, perché essere innamorati significa che fuori c’è l’apocalisse, ma a te non frega un cazzo perché sei al sicuro con l’unica persona con cui vuoi trascorrere il resto della tua vita, quindi non importa che fuori la gente venga sbranata dagli zombie, l'unica cosa che conta è che tu e Shouyou continuiate a ballare intorno al tavolo della cucina nel vostro bunker invisibile, che nessuno potrà mai violare.
E invece adesso stai ballando da solo, all’aperto, scalzo sotto il cielo rosso che in parte ti ricorda le ferite aperte e in parte i suoi capelli. I grattacieli intorno a te si sfracellano al suolo e sotto i tuoi piedi ci sono solo chiodi arrugginiti.

E tu balli, balli, balli.

*

Da piccolo, Shouyou aveva un cactus. Minuscolo, una pallina verde dentro un vaso appena più grande di una tazzina da caffè. Gli aculei sembravano più lana che spini veri e propri, tanto erano sottili.
Ricorda sua madre mentre gli ripeteva di NON toccarlo, assolutamente di NON toccarlo, altrimenti le spine l’avrebbero punto.
Ora, Shouyou non è stupido. E non era stupido neanche da piccolo. Lui vedeva le spine di quel cactus, ed era perfettamente consapevole di quanto fossero appuntite pure se all’apparenza sembravano velluto. Ma, essendo intelligente, Shouyou sapeva anche che, toccandole piano, con prudenza, non si sarebbe fatto alcun male. E non gli andava proprio di farsi mettere nel sacco da una pianta più piccola del pugnetto di sua sorella.
Perciò Shouyou aveva poggiato l’indice sul cactus con la stessa delicatezza di un fiocco di neve, e indovinate un po’? Non era bastato. Ma certo che non era bastato. Sua madre aveva ragione. Sua madre aveva sempre ragione.
Shouyou aveva allontanato il dito con gli occhi lucidi e tante minuscole spine sottili come capelli, quasi invisibili, conficcate nel polpastrello. Nonostante la gentilezza del suo tocco, le spine erano comunque riuscite a penetrare la pelle. Aveva passato la serata a piangere silenziosamente mentre sua madre le estraeva una per una con la pinzetta. Natsu aveva pianto insieme a lui per solidarietà, lacrimoni grossi come monete che gocciolavano lungo le guance di entrambi. Non era frustrato per il dolore, sebbene il dito pulsasse, ma perché si era punto nonostante sapesse in anticipo delle spine. La prudenza non era bastata. Aveva peccato di arroganza e boom, fine dei giochi di onnipotenza. Una volta poggiate le pinzette, sua madre aveva lanciato la piccola pianta grassa direttamente nel secchio della spazzatura.
Shouyou aveva imparato una lezione: i cactus pungono, a prescindere. Non lasciatevi ingannare.
Quando Shouyou chiama Atsumu per l’ennesima volta e il telefono squilla a vuoto, Shouyou si sente esattamente come quella sera: stupido. Un completo coglione, ha voglia di spaccarsi le nocche contro la parete, perché sapeva che c’era qualcosa che non andava, sapeva che era colpa sua, colpa sua e dei suoi silenzi e dei ‘ti chiamo dopo’ che non sono mai arrivati e degli impegni e della differenza di orario che si è sempre rifiutato di considerare e del fatto che faccia schifo a mantenere un contatto. Lui ha sempre saputo che Atsumu è diverso, che non vede l’oceano come una cosa bellissima ma come qualcosa di cui avere paura, e forse in questo è più saggio di lui, tuttavia Shouyou non ha mosso un dito, non ha combattuto, si è limitato a voltare la testa dall’altra parte quando tutto quello che avevano annaspava nel mare, lasciandolo annegare.
E ora è solo e Atsumu, che ha sempre odiato nuotare, si è stancato di rincorrerlo e di nuotare per due.
Mi risponderà, pensa Shouyou richiamando per la milionesima volta. Prima o poi mi risponderà.
Atsumu non lo fa.
Perciò Shouyou impara un’altra lezione: l’amore fa male, a prescindere. Non lasciatevi ingannare.

*

“Sei diventato cattivo.”
Atsumu sbatte le palpebre un paio di volte. “Come? Che significa?”
“Esattamente quello che ho detto,” risponde Osamu. “Sei diventato cattivo.”
Poi gli porge un’altra porzione di onigiri. Atsumu lo fissa diffidente.  
“Cattivo nel senso che Babbo Natale non mi porterà i regali quest’anno?”
“Lo sai cosa intendo, ‘Tsumu.”
“No, non lo so,” replica Atsumu. “E sinceramente non me ne frega un cazzo.”
E invece lo sa. E non è vero che non gliene importa. Lo sente: qualcosa dentro di lui sta bruciando, ma non è un fuoco caldo, è un fuoco che assomiglia all’acido. Sono vampate di furia che sfoga buttando giù palloni nella metà campo avversaria.
Il problema è che Atsumu ha passato troppo tempo a sentirsi mortificato. A sentirsi non abbastanza.
“Perché non gli hai detto prima quanto stavi male, invece di tenerti tutto dentro e di scoppiare all’improvviso? Shouyou-kun avrebbe capito. Avrebbe fatto qualcosa.”
Volevo renderlo fiero, pensa Atsumu. Volevo che Shouyou continuasse ad ammirarmi. Non volevo lamentarmi. Non con lui. Non volevo farmi vedere debole, non quando lui sembrava stare così bene.
“Non avrebbe fatto un cazzo,” risponde Atsumu - e dopo che l’ha detto, sente che è vero.
“Parlaci.”
“No.”
“Perché?”
Perché voglio vederlo disperato.
Disperato e miserabile. Atsumu vuole che pianga sangue, vuole che non dorma la notte, che rimanga a fissare il soffitto a occhi sbarrati mentre si chiede dove cazzo abbia sbagliato. Perché lui si è sentito così: annichilito, con il cuore slabbrato e sanguinante, pezzi di ruggine conficcati ovunque, mentre una parte di sé sussurrava c’è qualcuno migliore di te, ci sarà sempre qualcuno migliore di te, non sei abbastanza, non sei abbastanza, non sei abbastanza.
“Perché?” insiste suo fratello.
“Perché ce l’ho a morte con lui,” risponde Atsumu. “Gli direi cose troppo pesanti.”
“Allora digli questo. Digli che sei troppo incazzato e che deve darti un po’ di tempo.”
“Non ho bisogno di tempo. Non voglio parlarci mai più, punto.”
“Quindi hai intenzione di fargliela pagare così? Troncando ogni contatto senza degnarlo di una spiegazione e vaffanculo? Tu sei mille volte meglio di questo. Se vuoi lasciarlo d’accordo, ma almeno parlaci. Così stai solo facendo del male a te e a lui, sappiamo entrambi quanto lo am-
“Tu non sai un cazzo.”
Forse sono le lacrime che Atsumu tenta a ogni costo di non far traboccare, che rimangono a tremargli sulle ciglia come pozzanghere, o forse è la sua voce che si spezza all’improvviso in un modo così penoso che Atsumu ha voglia di piantare la testa sotto terra per la vergogna come uno struzzo, ma l’argomento ‘Shouyou’ muore in quell’istante.
Osamu si limita a porgergli del cibo senza insistere, e Atsumu tenta di trovare consolazione nel sapore dolce del riso.
Un po’ funziona.

*

Atsumu diceva che Shouyou era luce.
Shouyou in realtà non l’ha mai trovato un paragone appropriato: lui si sente più come un buco nero, che risucchia via tutto ciò che ha intorno, ma gli piaceva il modo in cui Atsumu lo idealizzava.
Adesso Shouyou scopre che il buco ce l’ha nel corpo, è a forma di Atsumu e si trova fra le scapole. Si domanda se esista un modo per ricucirlo, prendere ago e filo e riparare tutto quello che c’era fra loro.  
Ha chiamato Bokuto, poi ha chiamato Sakusa, poi ha chiamato Osamu. Tutti gli hanno detto la stessa identica cosa: non venire qui. È troppo arrabbiato, lascialo calmare.
Perciò Shouyou li ha ascoltati, ha annullato il biglietto perché si fida più di loro che di se stesso, in quel momento.
La scia di un aereo brilla nel cielo. Shouyou immagina di esserci dentro. Immagina di avere la fronte poggiata contro il finestrino tondo. Accanto a lui, la felicità. Shouyou la guarda, le sorride, le dà un bacio sulle labbra, poi la afferra per il polso e la scaraventa fuori.
La guarda precipitare verso il basso come una palla di fuoco: presto si spiaccicherà al suolo. Shouyou dentro di sé spera che si spiaccichi davanti ad Atsumu perché così sarà costretto a guardare in alto, verso di lui, ma Atsumu è troppo lontano e niente di quello che dice, che pensa, o che fa può raggiungerlo - e così la felicità di Shouyou muore da sola, invisibile, dritta nel secchio della spazzatura come il suo cactus, soltanto che questa volta sua madre non c’entra.
Ma che cazzo, pensa.
E comincia a piangere.

*

“Posso dirti una cosa?” gli aveva domandato Atsumu una sera.
Pioveva. Atsumu se lo ricorda perché era una pioggia violenta, quel tipo di pioggia che sembra possa spaccare il vetro della finestra, ogni goccia sbatteva come una sassolino mentre intorno a loro c’era solo un silenzio ovattato e il tepore di quando fuori è inverno ma tu sei sotto il piumone abbracciato alla pelle nuda e soffice dell’amore della tua vita. Poi era riecheggiato il boato di un tuono particolarmente forte, e si era irrigidito.
“Hai paura dei tuoni?” gli aveva domandato Shouyou, accarezzandogli il braccio.
“No,” aveva risposto Atsumu. “Non dei tuoni, di quello che sto per dirti. Cioè, non di quello che sto per dirti, in realtà ho paura del dopo, perché se poi-
Shouyou aveva sorriso e gli aveva pizzicato la guancia. La voce si era spenta. Poi Atsumu aveva inspirato e gli aveva detto: ti amo tantissimo.

Adesso Atsumu lo sogna.
In realtà non si tratta di sogni veri e propri, quanto piuttosto di ricordi evocati in dormiveglia, con una dolorosa consapevolezza e un’amara nostalgia.
Shouyou è accanto a lui, ha gli occhi spalancati e luminosi, le labbra incurvate in un sorriso grato che è lo specchio del suo.
Atsumu vede se stesso, dentro gli occhi di Shouyou e sa che Shouyou vede se stesso dentro ai suoi. E rimanere in silenzio, a fissare la tua faccia dentro le pupille di qualcun altro, è un’esperienza talmente intima ed emozionante da sembrare surreale, quasi onirica.
L’anima di Shouyou ha scelto la sua e ci si struscia contro, come due gatti che strofinano i musi cercando sollievo nel collo dell’altro.
Adesso invece Atsumu pensa agli occhi di Shouyou, al modo in cui si scioglievano dentro i suoi, e ha voglia di strapparli a morsi. Non sono mai stati sinceri, non sono mai stati trasparenti, non hanno mai trasmesso amore, ma fra le ciglia tremolanti erano celati soltanto l’inganno e il veleno. Riflettevano non quello che erano o che avrebbero potuto essere, ma quello che Atsumu voleva che fossero e quello che Shouyou - lo sapeva - non sarebbero mai stati.

*

Bokuto lo fissa sconvolto.
“Perché lo stai trattando così?”
“Se lo merita.”
“No,” dice Bokuto. “No che non se lo merita. È Hinata.”
“Tu non sai niente di quello che ho passato.”
“Non so niente?” boccheggia Bokuto. Poi molla un calcio al divano.
“Chi è che ti è stato vicino per tutto il tempo? Io lo so meglio di chiunque altro quanto hai sofferto. Ma proprio perché lo so, proprio perché conosco te e conosco lui, so che non se lo merita. Ti ha chiesto scusa. Sta facendo di tutto per aggiustare le cose. Vuole venire qui.”
“Non me ne importa. Potrebbe ingoiarsi un porcospino per quel che mi riguarda, non cambierei idea. Abbiamo chiuso.”
“Allora diglielo! Non gli rispondi neanche al telefono!”
Atsumu scrolla le spalle, la gola che brucia. Vuole che Bokuto la smetta di urlare, perché Atsumu non è abituato a vederlo così furioso.
“Lo sai cosa penso? Che per te non sia finita affatto.”
Atsumu ride. “È decisamente finita, Bokkun. Mi dispiace.”
“No. Tu stai facendo tutto questo casino perché vuoi solo vendicarti. Vuoi che stia male come sei stato male tu. Ma se per te fosse finita sul serio, gliel’avresti già detto.”
“Stai straparlando.”
“Lo sai che ho ragione. E da un lato ti capisco, ma adesso stai esagerando. Io voglio bene a Hinata,” aggiunge poi.
Atsumu sbuffa. “Lo vedo.”
“Però voglio bene anche a te. E ti giuro che non lo capisco proprio, come hai fatto ad arrivare a questo punto.”
Non è difficile da capire: è che quando l’amore della tua vita una sera ti dice che andrà dall’altra parte del mondo, la realtà un po’ ti crolla addosso.
Ma Atsumu si è lasciato seppellire dalle macerie in dignitoso silenzio, poi ha provato a ricostruirle sassolino dopo sassolino, con la stessa pazienza di una formica, proprio lui che la pazienza non l’ha mai avuta.
È solo che Shouyou non può essere ingabbiato, in nessun luogo e in nessuna relazione. È un fatto immutabile, come una legge universale. C’è e basta: o l’accetti, o ristagni nel risentimento.  
Atsumu non solo l’accettava, ma l’ammirava. Perché lui ha bisogno di avere certezze sotto i piedi per camminare, per andare avanti, come suo fratello o la sua casa. Shouyou invece per rimanere in equilibrio deve avere l’ignoto intorno, e sotto i piedi nient’altro che una fune sottilissima. Ed è questa la sua bellezza, è questo il motivo per cui tutti si incantano a guardare la sua sagoma stampata sul sole, con la testa all’insù e la bocca socchiusa dallo stupore mentre si domandano: ma come ci riesce, a fare una cosa del genere. Perché è pieno, pieno di coraggio.
Shouyou si espande, attratto con la stessa curiosità di un bambino da tutto ciò che non conosce e che non comprende. Ed è per questo che quando hanno iniziato a stare insieme, Atsumu, più che felice, si è sentito grato, perché non credeva che Shouyou avrebbe mai voluto legarsi a qualcuno.
Atsumu capisce il suo carattere. Capisce per davvero nonostante faccia schifo a empatizzare, ed è per questo che l’ha sempre incoraggiato ad andare - chissene frega di dove lasci gli altri, chissene frega di dove lasci me, vai e basta. Probabilmente l’avrebbe incoraggiato pure se un giorno Shouyou gli avesse detto di voler andare sulla luna.
Però c’è un limite. Atsumu non può combattere per due. Non può inseguirlo in silenzio come un fantasma mentre Shouyou non si degna neanche di voltare la faccia per vedere se c’è ancora. Domani, oggi non ho tempo, non ho tempo, non ho tempo, diceva, ma beh, l'amore è fatto di tempo, l'amore il tempo lo crea e poi lo cristallizza. Se togli quello, cosa ti rimane in mano oltre ai ricordi del tempo che c’è stato? E Atsumu con i ricordi non è che ci abbia mai fatto molto. Sono cose consumate che stanno lì, a impolverarsi e ad appassire, a fare solo male.
La verità è che loro ogni giorno erano sempre più distanti. E dopo un po’ diventa difficile pure addormentarsi, se i pensieri ronzano come calabroni e si trasformano in un nugolo di gelosia, paranoie e disgusto verso te stesso perché non ce l’hai fatta, perché non sei riuscito a dargli un motivo affinché gli importasse qualcosa. Ed è questa sensazione di sconfitta a torcergli lo stomaco, la sensazione di non essere stato abbastanza importante, la gigantesca umiliazione di aggrapparsi al telefono perché è l’unico mezzo che li collega in quel momento. Ma se la sua relazione si regge in piedi solo grazie alla linea telefonica che il più delle volte rimane muta, beh, allora c’è qualcosa che non funziona. Shouyou si è rifiutato di adattarsi a quella distesa di oceano che li separa e Atsumu si è lasciato divorare dall’acqua salata.
“Non me l’ha mai detto,” dice invece a Bokuto con la voce che si spezza all’improvviso.
Bokuto lo fissa, la rabbia gli svanisce dallo sguardo mentre si siede accanto a lui. “Cosa?”
“Che mi ama. Non me l’ha mai detto, neanche una cazzo di volta.”

*

A Shouyou piace credere: nelle cose e nelle persone, emana quel bagliore dorato tipico di coloro che nutrono un’incrollabile fede nella vita. Shouyou crede in se stesso, per esempio. Crede nel domani e nell’importanza del passato, perché i progressi si notano solo se li confronti con qualcosa che è già accaduto. Crede nei suoi amici, crede nella sua famiglia, crede nella sorte predestinata e nella capacità di poterla cambiare. Crede negli alieni e crede un pochino pure nelle foglie di tè che gli legge sua nonna.
Non crede nell’amore, però. O almeno, non ci credeva prima.
Quello dell’amore è un concetto sfuggente e troppo sfaccettato, difficile da visualizzare o da descrivere. Anche ciò che prova per la pallavolo non lo definirebbe come amore, ma piuttosto come un’assoluta e incrollabile devozione nei confronti di una parte di se stesso.
Poi è arrivato Atsumu.
E Shouyou ha scoperto che l’amore non è un concetto che va compreso, quanto piuttosto il nome di qualcuno.

*

Aveva baciato Atsumu per la prima volta sotto l’acqua.
Non l’acqua salata dell’oceano, anche se l’avrebbe preferito, ma quella della piscina che sapeva di cloro.
Andavano spesso in piscina con la squadra, per allenarsi. A Shouyou nuotare piaceva, ad Atsumu faceva schifo: borbottava sempre prima di immergersi con la pelle d’oca nonostante la piscina fosse al coperto.
Quel giorno, Shouyou gli era andato vicino. Aveva nuotato fino al bordo vasca mentre Atsumu tentennava. L’aveva guardato e aveva sorriso, poi lo aveva afferrato per una caviglia spingendolo dentro. Atsumu si era messo a ridere, provando a liberare la gamba, ma vedendo che Shouyou non mollava la presa aveva sospirato e si era immerso emettendo uno strano verso, simile a quello di un’oca che starnazza.
“Odio l’acqua,” aveva detto, tremando.
“Non è mica così fredda,” gli aveva risposto Shouyou.
“Per te. Per me è congelata.”
Shouyou gli si era avvicinato con la faccia immersa nell’acqua a esclusione degli occhi, soffiando via bolle. Le loro braccia si sfioravano.
“Che c’è?” gli aveva chiesto Atsumu, sorridendo un po’ agitato.
Shouyou aveva ricambiato il sorriso da sotto l’acqua. Poi aveva sollevato il viso.
“Andiamo giù,” aveva detto.
“In che senso?”
“Tocchiamo con i piedi il fondo della piscina.”
“Perché?”
“Così ti passa il freddo.”
Atsumu aveva guardato in basso, continuando a battere i denti, poi aveva sollevato le spalle.
“D’accordo.”
Shouyou aveva contato fino a tre, e poi con le braccia si erano spinti verso il fondo. Shouyou aveva aperto gli occhi sott’acqua non appena aveva avvertito il pavimento liscio della piscina sotto i talloni.
Atsumu aveva le palpebre serrate e le guance gonfie mentre tratteneva il fiato, con i capelli che si muovevano come meduse intorno alla fronte, la pelle che rifletteva la luce azzurrina.  
Shouyou aveva fluttuato verso di lui. Gli aveva accarezzato i polsi, le braccia ruvide di brividi. Poi gli aveva preso il viso fra le mani e le palpebre di Atsumu avevano tremato come se avessero voluto spalancarsi.
Shouyou si era chinato in avanti e gli aveva baciato le labbra morbide, dolci di cloro.
Poi si era spinto con le gambe verso la superficie, e dopo qualche istante era riemerso anche Atsumu.  
“Mi hai appena baciato,” aveva detto dopo averlo fissato per qualche istante sconvolto, le guance rosse.
Shouyou aveva sorriso. “Davvero?”
“Davvero.”

*

Perdere qualcuno non è questione di un istante. Non è una sofferenza che si apre come la corolla di un fiore per poi chiudersi quando finisci di dire addio. Non è un breve arco di tempo, non è un segmento sopra un foglio bianco, ma è un dolore perpetuo e martellante, come gli insetti che di notte sbatacchiano contro la stessa lampadina, ancora e ancora e ancora e ancora finché non precipitano a terra. Tonfi scostanti, aritmici: un cuore che funziona male.
Atsumu crede che forse l’insetto era lui e la luce era Shouyou.
Ma adesso dov’è finito? Atsumu, s’intende. Shouyou è dall’altra parte del mare a fissare la luna che si riflette lattiginosa sull’acqua che si increspa, più grande, più bella e pure più salata. Ma Atsumu dov’è? Sul fondo? Sul fondo di cosa, dell’oceano? Sotto la sabbia?
Il sale sicuramente c’è, pure dove si trova lui. Sa più di lacrime che di oceano, in verità. Ha lo stesso sapore di quella saliva che ti si ammucchia in gola quando vuoi  disperatamente dire qualcosa, ma per un motivo o per un altro non riesci o non puoi farlo.
È solo che quello che avevano, quello che avevano, quello che avevano e che toccavano e che respiravano e che custodivano e che vivevano, tutto quello che c’era fra loro, tutto tutto tutto quanto era-
era-

Era.

*

Che sapore ha il gesso masticato? Shouyou immagina che assomigli al cemento che gli impasta lingua e gola, ma comunque dev’essere migliore dello schifo che sta vomitando adesso.
“Mi manca,” geme, poi ridacchia, poi torna a vomitare.
Qualcuno gli accarezza la spalla. “Shouyou, ti accompagnamo a casa.”
Shouyou non ha la più pallida idea di chi sia a parlare: in quel momento le facce intorno a lui si somigliano tutte, Shouyou non riesce a distinguerle, c’è solo Atsumu che volteggia nella sua testa.
“Gli ho fatto del male,” biascica, alzandosi e barcollando. Qualcuno lo afferra per un braccio e lo aiuta a mantenersi dritto. “L’ho deluso. E ora mi oooodia.”
Qualcuno ridacchia.
Che cazzo ridete, vorrebbe urlare.
Poi va a sbattere contro un palo. Le risate si intensificano e anche Shouyou scoppia a ridere mentre si aggrappa al palo come un koala.
“Lo voglio riportare ad Atsumu,” dice.
“Cosa?”
“Il palo. Lo voglio riportare ad Atsumu,” ripete. E poi: “voglio andare da lui. Mi manca.”
“Shouyou, come ti ci portiamo in Giappone?”
“Non lo so. Lanciatemi, tipo un frisbee.”
Poi si china e vomita ancora fra spasmi di tosse.
Infine abbandona il palo, e in una breve parentesi di cui Shouyou non ha memoria, i compagni di squadra (o almeno Shouyou pensa che si tratti di loro) lo riportano a casa.
Shouyou barcolla verso il bagno e si lava i denti per togliersi il sapore acido della bile mentre il pavimento dondola sotto i suoi piedi.
Ecco, il segreto della sopravvivenza è lì, nel pavimento che balla più ubriaco di Shouyou e lui che deve tentare di rimanere in equilibrio.
Perché è stato così stupido? E perché Atsumu è stato più stupido di lui? Perché non possono semplicemente stare insieme? Perché bisogna sempre trasformare le cose belle e facili in cose complicatissime e contorte?
C’è l’oceano in mezzo, e allora? Chissene frega, potrebbe esserci una galassia fatta di mare salato fra loro due e comunque non basterebbe a scalfire minimamente il loro rapporto. E poi il mare è meraviglioso da guardare. E non è un ostacolo, alla fine si tratta solo di acqua. Okay, tantissima acqua, ma pur sempre una pozzanghera. Potrebbero saltarci dentro e fare ciak ciak con i piedi mentre ballano la macarena, se solo lo volessero.
Quindi perché diamine Atsumu l’ha piantato? Erano davvero così fragili? Davvero non si è reso conto che tutto quello che avevano stava morendo per colpa sua?
Shouyou si butta sul letto e pensa:
ma che cazzo.

E poi:
mi manchi. E il letto ruota e a me sembra di stare sopra una trottola e mi manchi mi manchi mi manchi mi manchi, credo di essermi trasformato in un acchiappafantasmi solo che tu non sei un fantasma, sei vivo, quindi non capisco perché non posso sentirti vicino o forse eri tu che inseguivi me e io non me ne sono accorto. E perché hai tanta paura del mare? Perché non ti riesci a fidare di me di quello che abbiamo e perché io non posso tornare indietro? Indietro alle notti dove tu eri vicino e andava tutto bene e tu dicevi di amarmi e io avevo troppa paura per dirti che ti amavo - che ti amo - anche io perché fra me e te quello più codardo sono sempre, sempre, sempre stato io, anche se tutti credevano il contrario, tu compreso?
Ma ti giuro, ti giuro ti giuro TI GIURO che ti ho dato tutto quello che avevo, anche io mi sono fidato, avresti potuto uccidermi nel sonno avresti potuto annientarmi schiacciandomi fra le ciglia e io te l’avrei lasciato fare. Ti avrei lasciato fare qualunque cosa, e se questo non è amore allora io non so più niente, perché tu come la chiami una cosa del genere, come la chiami?
Guardami per favore guardami guardami guardami, guardami negli occhi e azzardati a dire che ti sto mentendo, azzardati, azzardati a dire che io e te non ci amavamo nello stesso modo, che io e te
che io e te
io e te-


eravamo.

*

Seduto a gambe incrociate, Shouyou fissa l’oceano che mormora sulla battigia. Si fa scorrere la sabbia fra le dita e ricorda di quando accarezzava i capelli di Atsumu.
Quello che c’è fra loro è più grande di questo. È molto più grande dell’oceano, della sabbia, dell’abisso e di tutto quello che riflette l’acqua e che custodisce dentro.
Perciò Shouyou non capisce. Perché farlo finire? Perché rinunciare a quello che avevano quando era così tanto?
Tsumu, scrive per messaggio. Ti sei innamorato di qualcun altro?


Atsumu lo chiama.


*

Te la ricordi la notte che non faceva paura?
Te la ricordi la notte dove tu poggiavi l’orecchio sul mio petto e con le dita mimavi il ritmo del mio battito? E dicevi che bastava quello per calmarti, e poi ci addormentavamo così, io mentre ti ascoltavo respirare e tu mentre ascoltavi il mio cuore.
Te la ricordi la notte che nonostante i temporali, nonostante la pioggia, nonostante gli incubi e l’ansia incagliata nelle pupille, semplicemente non poteva far paura perché era la notte in cui allungavo una mano e trovavo il tuo corpo o le tue dita da stringere e tu mi impedivi di andare giù?
Non c’era niente che potesse farmi paura, di notte. O meglio, faceva tutto paura, ma finché ti sentivo accanto a me, contro la mia schiena, c’era anche il coraggio per combattere, combattere persino il tempo che continuava a scorrere micidiale e io cominciavo a vedere i miei sogni sfumare e tu iniziavi a chiederti in silenzio se alla fine, in cima, ci saresti mai arrivato.
È soltanto che a un certo punto, arriva la disillusione. Ed è come un petardo che scoppia all’improvviso, la profezia che si realizza, perché ce lo ripetono da quando nasciamo che le bastonate sulle ginocchia arrivano per tutti, prima o poi. Ma io non ci pensavo, e neanche tu, vedevamo la vita dorata come le medaglie che volevamo infilarci intorno al collo e ci crogiolavamo nell’inganno che sarebbe andato sempre tutto bene e che avevamo tutto il tempo del mondo perché eravamo fortunati, poi però abbiamo realizzato che non è vero, non è vero che niente può toccarci, non è vero che siamo invincibili, siamo solo esseri umani e quindi la vita ci passa attraverso e ci ferisce e ci uccide come uccide qualunque altro uomo. Perciò abbiamo smesso all’improvviso di vedere i colori come se ci avessero raschiato via gli occhi e il freddo ci è entrato dentro le ossa pure se era estate, e noi stavamo nel letto a battere i denti a turno.
A turno, però, smettevamo anche di farci tremare. E io i tuoi colori li vedevo sempre, pure al buio.
Se te ne fossi andato durante una di quelle notti, il mio cuore si sarebbe rifiutato di battere perché è viziato e teatrale e avrebbe protestato e urlato e si sarebbe squarciato come seta davanti ai tuoi occhi, perché il mio cuore voleva che tu lo guardassi (guardami Shouyou, guardami, guardami, guardami).
Te la ricordi la notte che non faceva paura? Te la ricordi la notte così piena di coraggio che la paura la scacciava via? Te la ricordi la notte in cui credevo, in cui ero sicuro, di non volere di nient’altro? Di non aver bisogno di nient’altro, perché c’eri tu e c’era tutta quella cosa fra noi che pulsava ed era calda ed era sicura ed era bellissima e soprattutto, soprattutto, era vera?  
Te la ricordi la notte in cui volevo sentirti gridare il mio nome dentro la gola? Mentre ti scopavo, mentre ti abbracciavo, mentre ti guardavo dormire o mentre fingevo di dormire e tu guardavi me? E c’era quel senso di appartenenza reciproca, di intimità viscerale, di ossigeno di vene e di arterie collegate, io sistole e tu diastole, che ci teneva allacciati per l’anima, ci sembrava di avere i cuori collegati con una fune come il gioco del telefono. E allacciati lo eravamo per davvero, soltanto per il collo come due che stanno per essere impiccati, e quello non era un laccio di velluto ma uno fatto di spine, che forava la pelle, senza medaglia.
Ma a me andava bene. Mi andava bene il sangue, mi andava bene il dolore, mi andava bene anche morire, finché ti sentivo respirare contro la mia schiena, finché sentivo il tuo cuore pulsare direttamente sopra il mio.
Non mi spaventava neanche la paura.
E adesso?


Mi stai ascoltando?


MI
STAI
ASCOLTANDO?

*

Quando Atsumu lo chiama, la prima cosa che dice è ‘ma che cazzo, Shouyou’.
A Shouyou sembra che gli abbiano appena ficcato un fumogeno in gola. Brucia la lingua, brucia la bocca, forse è sempre stato un drago e non se n’è mai accorto, forse sta per sputare fuoco.
“Atsumu,” boccheggia Shouyou con gli occhi sgranati. “Ma che cazzo.”
Le parolacce vanno avanti per un bel po’. Cazzo, merda, cazzo cazzo cazzo merda cazzo merda. La cosa divertente è che gli insulti non sono mai specificatamente rivolti all’uno o all’altro. Imprecano in maniera generica, come se la colpa fosse di circostanze misteriose, di entità avverse che un giorno si sono svegliate e hanno deciso di rendere interessante la domenica facendoli lasciare.
“Ma come ti viene in mente che mi sia innamorato di qualcun altro?” dice Atsumu.
Shouyou trema come una foglia. Si concentra sul mare ma il tremore aumenta.
“Non lo so,” risponde. “Non lo so.”
Ha voglia di ridere, ha voglia di piangere, è preda dell’isteria più totale.
“Ci possiamo vedere? Posso venire in Giappone?” dice. “Ci possiamo vedere?” ripete. “Posso venire in Giappone. Anche adesso. Ci possiamo vedere?”
“No,” risponde Atsumu.  “Prima devo capire. E se tu sei con me io non capisco più un cazzo.”
A Shouyou sembra che Atsumu non capisca un cazzo a prescindere, ma sa che è la rabbia a parlare, quindi si impone di prendere quel pensiero e di lanciarlo in mezzo al mare.
“Okay,” risponde. Sente i lacrimoni ammucchiarsi negli occhi. “Puoi almeno dirmi se ci siamo lasciati sul serio? Cioè, intendo tipo per sempre. Ci siamo lasciati per sempre?”
Atsumu non dice nulla, e Shouyou rimane appeso come un pesce alla lenza.
“Non lo so,” risponde infine Atsumu.
“Che cazzo significa che non lo sai?”
Atsumu sospira. “Mi dispiace,” dice. “Mi dispiace. Mi dispiace per averti tagliato fuori dalla mia vita senza mezza spiegazione. Ma io non lo so se voglio tornare insieme a te, Shouyou. È che sono arrivato al punto in cui questa relazione mi fa più male che bene. E tu sembri lontanissimo, e non è solo perché sei dall’altra parte del mondo.”
E finalmente Atsumu gli parla. Le parole gli scivolano dalle labbra come il fiotto di una fontana. Gli parla dell’insonnia, dell’insicurezza, della gelosia, gli chiede scusa e poi lo manda a cagare per come l’ha trattato e perché Shouyou non ha alzato mezzo dito, per loro due. Non ha fatto nulla e Atsumu nel frattempo ingoiava lava e “scusami, scusami se non ti ho detto nulla, però Shouyou come cazzo hai fatto a non accorgertene? Come hai fatto a non capire quello che stava succedendo? Perché a me manchi in continuazione e tu non hai neanche il tempo per parlare con me dieci minuti al telefono?”
Ecco, pensa Shouyou, mentre lo ascolta. Questo è il vero coraggio.
Perché non è facile, parlare con quella sincerità disarmante. Non è facile mettere di nuovo il cuore in mano di qualcuno pure se l’hai già perduto una volta.
Poi Atsumu gli dà del superficiale del cazzo. Gli dice proprio: “io sono paranoico. Ma tu sei un superficiale del cazzo. Hai un carattere davvero di merda per una relazione a distanza.”
E beh, Atsumu ha ragione. Ha proprio ragione. Quindi Shouyou si scusa.
“Scusami,” dice. “Scusami, scusami, scusami. Lasciami sistemare tutto. Posso fare di meglio. Posso fare mille volte meglio di così. Ma non posso perderti, Tsumu.”
Perciò di’ di sì, pensa. Dimmi di sì. Dimmi che vuoi stare con me.
Atsumu invece dice: “ho bisogno di tempo.”
Ora, Shouyou davanti a sé ha il mare. Il mare immenso, il mare che grida di vivere, di andare, di non sprecarne neanche una goccia di tempo, perché la vita è davvero troppo, troppo breve per permettersi di rimanere ad aspettare.
“Perché cazzo ti serve del tempo?” sbotta Shouyou.
“Perché devo capire se voglio farlo. Voglio essere sicuro. Non voglio dirti sì, certo, ricominciamo da capo, e poi fra una settimana chiamarti disperato e dirti che non ce la faccio. Non voglio trasformare la tua vita in un inferno. E soprattutto non voglio trasformarmi in una persona che arriveresti a disprezzare.”
Silenzio.
“Shouyou?”
“Cosa.”
“Per favore.”

*

Shouyou si sveglia nel pieno della notte con il batticuore. La stanza sembra improvvisamente troppo piccola.
Spalanca la bocca: inspira ed espira, ancora e ancora finché non ridimensiona lo spazio intorno a lui. Una patina di sudore ghiacciato gli imperla le scapole.
A tentoni, Shouyou accende la abat jour. Poi si volta verso il muro e prova ad addormentarsi con il bagliore della lampada che indora la stanza.
Non serve a niente, non è della luce della lampada che ha bisogno per conciliarsi il sonno, ma di una luce più calda, dello stesso colore degli occhi di Atsumu e con la sua voce. Aveva dimenticato cosa significasse avere paura di notte. Cosa significasse chiudere le palpebre e scivolare nel sonno con tutti quegli elefanti acciambellati sul petto, la sensazione della vita che ti sfugge dalle mani e la consapevolezza brutale di non essere capace di decidere niente. Puoi solo rimanere fermo, abbandonarti alla corrente, sbattere gli occhi e avere dieci anni, sbatterli di nuovo e averne più di venti, sbatterli ancora e tenere per mano l’amore della tua vita, sbatterli ancora e ritrovarti da solo.
A Shouyou manca il rumore della pioggia e quello del temporale, gli manca ascoltare Atsumu respirare, gli manca tutto quello che sono stati e che avrebbero potuto essere e la sensazione della sua pelle sotto le labbra e il modo in cui si vedevano si stringevano e si mostravano per quel che erano, non invincibili come quando erano sul campo, ma fragili come esseri viventi, perché a distruggerti basta un imprevisto, delle volte i mostri sono dietro l’angolo e quelli più pericolosi, quelli veri, sono quelli che credi che non ti troveranno mai. Invece poi lo fanno. E tu li fissi scioccato mentre loro ti azzannano.
È come se la vita ogni tanto dovesse ricordarti che c’è sempre un prezzo da pagare, per la felicità. Che non c’è solo la pallavolo. Che non può esserci solo la pallavolo, perché sarebbe un’utopia, ma tu non vivi in un’utopia, non stai sognando, sei fin troppo sveglio, sei qui, adesso, guardati intorno, non puoi controllare tutto. Devi capire che la tristezza quando arriva arriva e basta, e non è colpa tua. Non è colpa di nessuno.
Shouyou però vuole pensare che può ancora controllare il legame fra lui e Atsumu. Gli piace pensare - deve pensare - che dipenda ancora da loro, dalle loro scelte. Non è un quadro che è caduto da solo, non è un filo che si è spezzato senza preavviso, è qualcosa che hanno rotto con una consapevolezza vigliacca. Ma se sono loro gli artefici di quel teatro, allora significa che possono riscriverlo, bruciare il palcoscenico, ricominciare da capo.
A Shouyou piace credere nelle cose.
Perciò, ci crede.

*

Pensi che torneremo mai a essere qualcosa? Pensi che avrai mai voglia di salvare un briciolo di quello che avevamo, anche solo un granello di sabbia? Pensi che potrai mai perdonarmi? Pensi che io potrò mai perdonare te?
Credi ai mostri sotto al letto? (Certo che ci credi, li hai visti con i tuoi occhi.)
Allora credi in noi?
Credi in me?

*

Non è la fine.
Questo è quello a cui pensava Atsumu, mentre Shouyou camminava di fianco a lui con una valigia gialla e gigantesca e nella tasca il biglietto per il Brasile.
Non è la fine. Non è la fine. Non è la fine.
Questo è quello a cui si aggrappava disperatamente, mentre intorno a lui c’erano voci ammucchiate e le valigie colorate di gente che tornava e di gente che partiva, c’erano la felicità e la tristezza, espressioni tanto diverse che si sovrapponevano e si mischiavano fra loro come se l’aeroporto fosse una gigantesca centrifuga. Il rumore delle rotelle e quello dei passi in corsa gli martellava nella testa e d’improvviso Atsumu avrebbe soltanto voluto sdraiarsi per terra e rimanere immobile, perché delle volte il tempo va troppo, troppo, troppo veloce, come se migliaia di fotogrammi scrosciassero via dalle maniche tutti insieme, un prestigiatore e le sue colombe.
E poi all’improvviso c’era la fronte di Shouyou contro la sua, e i suoi palmi premuti sulle sue guance che tremavano. La fronte di Shouyou che premeva forte, con disperazione, l’odore di lacrime, l'aeroporto era svanito e ora Atsumu ascoltava solo il suo respiro.
Non è la fine, non è la fine, non è la fine.
"Shouyou," aveva sussurrato Atsumu. "Non è la fine, vero?"
Shouyou non aveva risposto.

*

Il suo delirio di onnipotenza è finito da un pezzo. Poi è finita anche la sofferenza. Atsumu non si sente più in grado di uccidere Dio, né tantomeno ne ha voglia.
Si sente strano, in verità. C’è la destra, c’è la sinistra, lui si trova al centro su una linea invisibile. La sua percezione è appesantita, come se fosse immerso dentro la marmellata e avesse lo zucchero filato dentro la testa.
Non è triste, non è neanche felice. È stabile. Equilibrato. Il che è decisamente un aggettivo insolito per lui. Forse sta per morire.
Osamu gli rivolge una lunga occhiata. Atsumu si sente trapassato da parte a parte.
“Ti posso dire una cosa?”
“No,” risponde Atsumu.
“Te la dirò comunque.”
Atsumu scuote la testa e alza gli occhi al cielo. “Fa’ come ti pare.”
“Va bene lasciare qualcuno che ami.”
“Come?”
“Va bene lasciare qualcuno che ami. Non devi sentirti in colpa per quello che hai fatto con Shouyou.”
“Non mi sento in colpa.”
“Sta’ zitto e fammi finire,” ringhia Osamu. Atsumu chiude la bocca.
“Quello che voglio dire è che le cose non durano per sempre. Anche se delle volte sembra di sì. E tu magari lasciando Shouyou ti sei sentito in colpa perché hai fatto finire una cosa che sembrava perfetta, e magari credi di aver sputato in faccia alla fortuna o al destino - chiamalo come ti pare. E ti senti pure ingrato, pensi che non avresti mai dovuto farlo perché è un po’ come se avessi rinunciato al paradiso, ma non è così. Hai il diritto di rifiutare. Hai il diritto di dire di no pure alle cose belle.”
“Ti posso registrare?” lo interrompe Atsumu. “Cioè, sarebbe un peccato se Suna si perdesse tutto questo.”
“Guarda che si vede che ti stai per mettere a piangere, perciò non mi interrompere e io in cambio continuerò a fingere di non essermene accorto.”
Atsumu spalanca la bocca per ribattere, ma poi gli tremano gli occhi come pozzanghere e quindi si limita ad annuire, puntando lo sguardo sulla superficie del bancone.
“Quello che voglio farti capire,” riprende Osamu, “è che tu puoi fare il cazzo che ti pare. Puoi lasciare Shouyou senza sentirti in dovere di proteggerlo. Perché Shouyou guarirà, così come guarirai anche tu, pure se adesso sembra impossibile. Ma è così che andranno le cose. Prima o poi starete entrambi bene e la vostra storia rimarrà nel passato. Ma la domanda è: vuoi davvero che rimanga nel passato? Vuoi davvero lasciarti tutto alle spalle?
“Tu puoi stare senza Shouyou. Shouyou può stare senza te. Perché quando ti innamori di qualcuno funziona così, credi che non puoi vivere senza quella persona e poi scopri che è una bugia. Ma il fatto che possiate vivere separati non significa che lo vogliate. Io credo che tu voglia stare con lui. E credo che anche lui voglia stare con te. E credo sia sbagliato forzare una rottura che nessuno dei due vuole, soprattutto se entrambi siete disposti a fare meglio rispetto a quello che avete fatto fino ad adesso.”
“Io non-” comincia Atsumu con la voce rotta, dopo un istante di silenzio. “Io non so se ho il diritto di tornare indietro. Che cosa dovrei dirgli? Che mi dispiace? Che è stato tutto per niente?”
“Non è stato tutto per niente,” risponde Osamu. “Tu hai capito delle cose. Shouyou-kun pure. Si era accumulata troppa tensione e ha finito per esplodere, com’è anche normale. Si litiga in una relazione, Tsumu. Non puoi pretendere che tutto proceda per il meglio, soprattutto in una situazione non proprio facilissima come la vostra, con una distanza del genere. Ma non è troppo tardi, non siete mica finiti. Devi un attimo ridimensionare il problema, perché non è successo niente di irreparabile. Va tutto bene.”
“Okay,” dice Atsumu. “Okay.”
Osamu sospira e spalanca le braccia. Atsumu lo abbraccia e nasconde la faccia umida di lacrime nel suo collo.
“Prima l’hai detta una cazzata,” gli dice infine.
“Quale cazzata?” domanda Osamu. “Era un discorso perfetto.”
“Che tutte le cose non durano per sempre. È una cazzata.”
Poi Atsumu lo stringe più forte. “Io e te siamo per sempre.”
“Ah,” dice Osamu, e ora piange un pochino pure lui. “Immagino di sì. Ho detto proprio una cazzata.”

*

Atsumu fa schifo con le metafore, è vero, ma mentre si decolora le ricrescita viene fulminato da un’immagine che gli fa pensare ‘beh, minchia. Questa sì che è poesia.’
L’amore tra lui e Shouyou è come una partita di Twister: all’inizio è stato facile, poggiare mani e piedi sui giusti colori, ma poi i loro corpi hanno iniziato a cozzare fra loro, a incassare gomitate e ginocchiate, e mantenere l’equilibrio è diventato praticamente impossibile. Al posto del tappetino di plastica, però, loro giocano sul mare.
Pensateci un secondo: l’amore è come una partita di Twister sul mare. La potenza di questa metafora.
Atsumu annuisce compiaciuto al suo stesso riflesso. In quel momento, Sakusa attraversa il corridoio alle sue spalle e sibila un ‘testa di cazzo.’
“Ma se non ho detto niente?” protesta Atsumu ad alta voce.
“No, ma avevi la faccia di quando pensi qualche cagata.”
“È la mia faccia di sempre.”
“Appunto.”
Forse Sakusa è psichico, pensa Atsumu. Laureato, pallavolista pagato, psichico. E pure un po’ stronzo. È proprio vero che c’è chi nasce con tutto.
Dopo aver risciacquato la decolorazione, Atsumu si guarda allo specchio: la ricrescita scura è scomparsa e Atsumu sente l’universo intorno a lui che si riequilibra, l’armonia cosmica. Beh, più o meno. C’è una lieve pendenza che oramai è una costante.
“Dovresti partire.”
Atsumu fissa Sakusa dal riflesso dello specchio. Ha le braccia conserte e le sopracciglia leggermente inarcate. Gli fa pensare a un gatto schizzinoso.
“Per andare dove?”
“A fanculo,” risponde Sakusa, scuotendo la testa. “In Brasile, Miya. Dove altro vorresti andare?”
Da nessuna parte, pensa Atsumu. Perché non posso avere tutto senza muovermi?
“Perché io?” chiede invece. “Perché non può essere Shouyou a venire qui?”
“Perché sei tu quello che ha paura. Della distanza e dell’oceano. Perciò sei tu che devi affrontarla.”
Psichico, laureato, ben pagato, un po’ stronzo e pure saggio.
Cristo, quanto è fastidioso.

*

“Shouyou, ma tu prima mi amavi?”
“Ma che cazzo,” risponde Shouyou dall’altra parte del telefono. Atsumu sente il rumore dell’oceano in sottofondo, e gli viene voglia di guardarlo. “Certo che ti amavo. Ti amo anche adesso. Tempo presente.”
Silenzio.
“Atsumu?”
“Non me l’hai mai detto. Perché non me l’hai mai detto?”
“Non lo so,” risponde Shouyou, agitato. “Atsumu, ho fatto davvero così schifo da non riuscire a farti capire neanche questo? Che ti amo?”

*

A Shouyou piace credere nelle cose e nelle persone. Quando Atsumu gli dice di aver comprato un biglietto per San Paolo, però, Shouyou non ci crede.
Mentre lo aspetta all’aeroporto con le mani che tremano, sbatte le ciglia e torna ad avere dieci anni. Poi le sbatte di nuovo e ne ha più di venti. Le sbatte ancora e c’è l’amore della sua vita che dorme accanto a lui. Le sbatte ancora e c’è la solitudine, quella che non ti fa vedere più niente.
Le sbatte ancora e c’è Atsumu, che si osserva sperduto intorno trascinandosi dietro un grosso trolley arancione.
Atsumu, Atsumu, Atsumu.
Poi c’è la sua fronte che preme forte sulla sua, i suoi palmi sulle sue guance, l’odore di lacrime e di risate e la voce che non esce. Shouyou assaggia il sapore delle stelle sulle labbra, Shouyou sente il coraggio che scaccia la paura e il buco sulla schiena che si riempie di luce dorata. Abbracciarlo, sentire la forma delle sue ossa contro le sue, è come tornare a casa. Però quella casa è senza tetto e si può vedere tuuuuutto il cielo.
“Tsumu,” sussurra Shouyou. Tsumu, Tsumu, Tsumu. “Non è la fine, vero?”
Atsumu scuote la testa.
Come potrebbero, loro due, fare qualcosa che sia finire?


*

Sono sulla spiaggia. È il tramonto.
“Ho scoperto una cosa,” gli dice Atsumu.
“Cosa?”
“Posso vivere senza di te,” gli dice. Shouyou stringe la sua mano in uno spasmo. “Ma non voglio.”
Shouyou gli poggia la guancia sulla spalla. Strofina il naso contro la sua pelle, Atsumu gli bacia la fronte.
Ora, Shouyou con le metafore è un po’ più bravo di Atsumu. Perciò, se dovesse descrivere il loro amore, vi direbbe: immaginate qualcosa di denso, salato, profondo chilometri, un amore tanto immenso da poter ingoiare il mondo. Immaginate un amore che batte sotto la sabbia. Il cuore dell’acqua che pulsa e che fa circolare le correnti come se fossero sangue. Immaginate una farfalla che mangia le lacrime.

Immaginate il mare.



Note d'autore
Hi, beautiful people. Cioè, grazie per essere arrivati fino in fondo. Questa è una roba estremamente sconclusionata ma sono nel pieno di un blocco atroce e invece di cancellare l'ennesima storia mi sono forzata di pubblicarla, però prendetela per quello che è, ovvero una bozza che non ha avuto la spinta giusta per trasformarsi in una storia vera e propria. È un po' un groviglio mal assortito di roba di cui avrei voluto parlare e di concetti che avrei voluto approfondire, ma magari un giorno la riprenderò in mano e la sistemerò! Nel frattempo, grazie per aver letto ed essere arrivati sin qui, davvero! ♥
See ya ♥

   
 
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