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Autore: SerenaEClarke    02/02/2022    1 recensioni
Ci si può innamorare a prima vista.
Oppure, se si è fortunati, si può capire nel giro di pochi secondi che quella che si ha davanti è l'unica persona da evitare come la peste. Un essere umano in grado di darti la forza di rivoluzionare il tuo universo, di renderti una persona migliore, capace dei gesti più estremi e incredibili e di farti sudare un centinaio di camicie prima di farti rendere conto che non sarai mai alla sua altezza.
Perché è una persona diversa da te. In alcuni aspetti migliore, in altri peggiore. Ma non sarà mai in grado di amarti davvero, o di farsi amare.
Ma, come ho detto, è una questione di fortuna.
Di Karma.
Mi chiamo Jo. Ho 32 anni. Sono disoccupata, dislessica, disgrafica e... e non so cosa fare della mia vita.
Ma una cosa la so.
Non mi innamorerò mai e poi mai di Kyle Carter. L'uomo più perfezionista e impossibile del mondo.
Ve lo posso garantire.
Lo giuro.
Croce sul cuore.
Dopotutto ho superato i trenta e posso decidere da me di chi innamorarmi.
Giusto?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi chiamo Jo.
No, non è un diminutivo. Mia madre mi ha proprio chiamata Jo.
J-O.
Semplicemente Jo.
Jo Page. In onore di quella che, a suo dire, fu la più bella scopata della sua vita.
Io, ovviamente, mi premuro di dire che la sua fu una scelta dettata dal bisogno di rendere omaggio al suo libro preferito, ma sono quasi certa che "Piccole Donne" non sia mai rientrata tra le sue letture del momento. Nemmeno io, del resto, conosco molto bene la trama. Mi auguro che almeno questa Jo March fosse simpatica e non soltanto scopabile, come mia madre si diverte a descrivere le persone.
Per quanto vi riguarda posso assicurarvi che lo sono.
Simpatica intendo.
Scopabile... beh, diciamo che io mi scoperei. Tanto basta.
Che altro dire?!
Ho trentadue anni.
Sono disoccupata, o per lo meno lo sono da due giorni e quarantacinque minuti.
Vivo con la mia migliore amica in una meravigliosa casa in uno di quei quartieri super ricercati che, nemmeno tra trecento vite, riuscirei a permettermi. Per lo meno, non con il mio ridicolo titolo di studio e l'assenza di un'entrata economica degna di nota.
Non ho animali domestici, anche se ne desidero uno da quando sono bambina. Per la precisione un gatto. Anche randagio. Come la sottoscritta del resto.
Avevo letto, da qualche parte, che siamo tutti un po' randagi e che cerchiamo soltanto qualcuno che ci accolga nel proprio cuore. Ecco, io ho incontrato Vivienne al liceo e mi ha accolta nel suo cuore e nel suo appartamento di duecento metri quadri. Sono il suo gatto e, credetemi, la cosa non mi disturba affatto. Potrei restare lì per sempre, ma dubito che James, il marito, sarebbe d'accordo con me.
Ad ogni modo, dov'ero rimasta...
Ah già.
Sono disoccupata.
Ho lavorato per cinque anni da Quensy, un ristorante della mia città piuttosto conosciuto, nonostante lo stile rustico. Non il genere di locale dalla clientela sofisticata, ma devo dire che si mangia una buona pizza e il mio lato per metà italiano vanta una certa esperienza in materia.
Ho sempre pensato che sarei invecchiata in quel ristorante e che, con le mance, pian piano sarei riuscita ad affittare qualcosa di semi-decente in zona. Peccato che l'altra sera un cliente abituale abbia cominciato a fare il cascamorto con me e, nel momento in cui ho sentito la sua mano umidiccia risalirmi su per la coscia, non sono riuscita a fare a meno di controllare la mano destra che, in maniera quasi meccanica, gli ha rovesciato il piatto di lasagne appena sfornate direttamente in testa.
Calde erano calde, ve lo posso assicurare.
Ero certa che Ernest, il mio capo, avrebbe ascoltato la mia versione, ma a suo dire era solo questione di tempo prima che si decidesse a licenziarmi e che gli avevo solo dato l'ennesimo buon motivo per farlo. Secondo lui, arrivare in ritardo cinque giorni su sei era fin troppo anche per me.
Sì, ok. Fatico ad alzarmi la mattina, ma solo perché sto seguendo un corso serale di letteratura.
Vedete... come dire, sono semi-ignorante.
Conosco poco o niente di tutto. Non seguo i telegiornali. Non capisco un accidente di finanza e se mi chiedete qualcosa sulla storia so solo che abbiamo vinto la guerra. Quale non lo so ancora. Le date mi confondono all'incirca dal 1997.
Fatico a leggere per un problema alla vista. No, ok sono cazzate. Sono dislessica e disgrafica e, nell'ultimo anno di liceo, ricordo che un professore mi disse che potevo essere un soggetto affetto da discalculia.
In altre parole fatico a leggere, a scrivere e perfino a fare i conti.
Una tripletta perfetta.
Non so che cos'abbia il mio cervello che non va. Ma so che funziono male; per lo meno è quello che mio padre mi ha sempre detto da quando ero bambina. Già, perché io non ho vissuto con mia madre. No, sarebbe stata una fortuna quella.
Ok, cerco di raccontarvela in breve.
Rebecca, mia madre, è una ballerina, o meglio era una ballerina. Il suo problema era la bella vita e gli uomini. All'età di otto anni rimasi sola con Karl, il primo marito, mentre lei fuggiva con la scopata più bella della sua vita, alias Jo I, lasciandomi una lettera dove diceva a me e a quello che scoprii essere il mio patrigno, che ne aveva abbastanza di venire picchiata e che scappava via con il mio vero padre.
Morì tre anni dopo. Non seppi mai come. Mio padre dice tuttora che era una drogata e che aveva avuto ciò che meritava.
Vi lascio immaginare, a quei tempi, su chi Karl avesse deciso di sfogare la sua frustrazione.
Non che il mio padre adottivo mi abbia mai fatto mancare nulla. A modo suo era un buon uomo. Diciamo che aveva modi piuttosto severi e se portavo a casa un brutto voto mi arrivava un manrovescio degno di Muhammad Ali. E di brutti voti ne avevo una collezione infinita.
Così eccomi qui. A camminare a passo spedito, trascinandomi il corpo pesante di un ragazzone di sì e no novanta chili improvvisamente colpito da un attacco di dissenteria.
Sì, anche stavolta avete capito bene: dissenteria.
Vi starete chiedendo come mi sia cacciata in una simile situazione. Un attimo ancora e ci arriveremo
Questa avrebbe dovuto essere la mia serata di svago, organizzata da Vivianne per permettermi di sviare la mente dai miei problemi economici. Il karma, però, ha sempre avuto un piano di riserva per la sottoscritta.
Un piano che, in quel momento, strabordava merda ovunque.
Scusate il linguaggio.
È vero che provengo dai bassi fondi, ma di solito sono una brava ragazza e decisamente a modo. Mi si può tranquillamente portare ad eventi mondani, senza mettere nessuno dei presenti in imbarazzo visto che ho sempre saputo comportarmi bene: non mangio a bocca aperta, non rutto in pubblico, ho una buona dialettica... quasi sempre.
Solo che Will, il tipo in questione, ha davvero iniziato ad emanare un odore pungente dalle parti basse e la mia esasperazione ha messo freno a tutte le buone maniere a disposizione.
«Urgh...»
L'ennesimo lamento da parte del poveretto ha cominciato a farmi sentire in colpa per quei pensieri così egoistici. In fin dei conti, venire trascinato per le strade di Sacramento, divorato da crampi allo stomaco da una con cui avresti sperato di combinare qualcosa sotto le lenzuola non doveva essere il sogno della vita.
«Dove hai detto che abita tuo fratello?» gli chiesi, stringendo affaticata la presa sulle sue braccia.
Diciamocelo, non ero esile come Keira Knightley, ma non ero nemmeno una ragazza dal fisico prestante e atletico e portarmi dietro quel semi-peso morto non era il tipo di attività fisica a cui ero abituata. Visto, soprattutto, che io e il movimento aerobico avevamo messo fine alla nostra relazione da un paio d'anni.
«In che quartiere siamo?» chiese, guardandosi intorno.
Gettai uno sguardo al viale in cui ci trovavamo. Vivevo a Sacramento da sempre e, per lo meno, il mio senso dell'orientamento vantava un certo primato. Almeno su qualcosa sapevo eccellere.
«Laguna» gli risposi «il "Todo un poco Mexican" è a qualche miglio da qui. Hai detto che tuo fratello abita a Brook Way giusto?»
Lo vidi alzare la testa bionda a fatica, come se cercasse di orientarsi solo in quel momento.
Eravamo usciti dal locale che già il suo viso, prima tutto sorrisi e sdolcinatezza, aveva iniziato ad impallidire, avvicinandosi sempre più verso, quelli che definivo, possibili pazienti di ER.
Sì sono una patita delle vecchie serie tv. E, ancora sì, nutro la profonda speranza di incontrare un dottor Carter in grado di riportarmi verso la retta via.
Per chi non fosse informato a riguardo sono certa diano qualche replica di tanto in tanto. Io mi sono premunita di blu-rey.
Ad ogni modo, stavo parlando di...
Ah già, il paziente zero.
Will me la sto per fare sui pantaloni mi aveva subito fatto una buona impressione, nonostante i miei timori verso gli amici di James fossero dei più nefasti.
Sorriso sornione, di quelli in grado di sfilarti le mutande senza che tu te ne renda conto, occhi verde aurora boreale e fisico degno di un giocatore di football strapagato.
Un angelo disceso dal cielo.
Conoscendo quanto fosse meschina la mia buona stella, mi ero preparata a dover trascorrere le successive tre ore in compagnia del più classico dei palloni gonfiati e, invece, ecco che venivo stupita di nuovo: il bell'imbusto, oltre che affascinante oltre ogni misura, era addirittura simpatico.
Non avevo dovuto faticare nemmeno per un secondo, si era occupato lui a far decollare la serata nel modo giusto.
Aveva intavolato discorsi interessanti, si era preoccupato di chiedermi cosa facessi nella vita (domanda a cui avevo magistralmente dato una risposta evasiva, dopo anni e anni di Law and Order), aveva riso alle mie battute nel momento giusto, dimostrandosi un attento ascoltatore, sia di fronte alle cose più sciocche che a quelle più serie.
Avevo già iniziato a fantasticare sulla nostra prossima uscita, quando lo avevo visto sbiancare. Appurato che il messicano non è la scelta più depurativa nella storia dell'arte culinaria, ma di certo non può iniziare a fare simili effetti dopo solo mezz'ora dall'assunzione. O forse sì?!
Poteva trattarsi di qualcosa di virale e tra meno di due giorni mi sarei probabilmente ritrovata nelle sue stesse condizioni, piegata in due con la speranza di resistere fino a casa.
Meglio comportarmi bene e amicarmi quel farabutto del karma.
Così, ecco che l'uomo perfetto, un sex symbol senza eguali, aveva iniziato a sudare come un cammello e a chiedermi di fare due passi per riprendersi.
Durante quella che sarebbe diventata una passeggiata indimenticabile, avevo cercato di deviare la sua attenzione da quell'improvviso intorpidimento, chiedendogli di lui e della sua famiglia. Avevo scoperto che era il maggiore di tre fratelli, poco più piccoli di lui: Helen di 30 anni e Kyle, 28. Il nostro caro Will era insegnante di matematica in una scuola elementare, aspetto che mi mise in allarme visto che la scuola non era la parte che meglio mi caratterizzava.
Avevo in mente di spostare la questione verso aspetti meno spinosi, quando venni salvata dalla più inaspettata delle salvatrici.
Una scorreggia.
Del mio accompagnatore, mi pare ovvio.
Non potete immaginare la fatica fisica e mentale che mi è costata per non mettermi a ridere lì, in mezzo alla strada. Perché, credetemi, quando a scorreggiare è una vecchietta o un ragazzino o, perché no, un perfetto sconosciuto che non ha fino a poco prima abitato i tuoi sogni più erotici, il problema non si pone. Ma se a farlo è Will "sbattimi sul primo muro che incontri", beh... le cose cambiano.
Non so come, ma ci siamo ritrovati a camminare in maniera spedita, con il mio povero accompagnatore che camminava a chiappe strette e io che combattevo tra le risate e le maledizioni verso quella sfigata della mia buona stella.
Ed ecco che entra in gioco il mio karma, l'unico e vero responsabile della mia attuale situazione.
Io, la simpatica abbastanza scopabile Jo Page, che non vedeva un bel ragazzo da fin troppo tempo, se ne stava davanti ad un'abitazione piuttosto bella a Brook Way, chiedendomi se le mutande del ragazzone che aiutavo a stare in piedi fossero ancora immacolate.
«La casa è questa?»
«Argh...» fu la sua risposta, seguita da un debole segno di assenso con il capo.
Mi sistemai la borsa a tracolla, preparandomi a suonare alla porta.
Si trattava di una piccola casa su un unico livello, situata in quello che pareva essere un quartiere tranquillo.
Il garage, nonostante le pareti chiuse, doveva essere piuttosto grande e in grado di contenere una macchina e qualche cianfrusaglia.
Il vialetto era carino, forse fin troppo curato. Però qualche fiore si poteva anche mettere. Un bel sempre verde, una siepe... che ne so, una petunia.
Superati i tre gradini che ci dividevano dall'entrata, bussai alla porta, aspettando che qualcuno venisse ad aprirci.
Corrucciai la fronte, cercando un campanello che potesse in qualche modo annunciare il nostro arrivo ma, o ero cieca o non vi era nulla di simile nei dintorni.
Mi apprestai a dare l'ennesima bussata, quando il mio aitante cavaliere cercò di sollevarsi, per poi ricadere piegato in due, in lotta con l'ennesimo attacco sul fronte meridionale.
«Devi bussare... tre volte e... con... colpi belli decisi...altrimenti non... ci... apre.»
Aggrottai ancor di più le mie sopracciglia, scure al punto giusto, grazie all'accurata dose di make-up che mi ero tanto prodigata di applicare quella sera, chiedendomi a chi diavolo stessimo per invadere la casa.
Will mi aveva detto che il fratello abitava poco lontano da lì, ma non mi ero preoccupata di chiedere se il soggetto in questione fosse mentalmente stabile.
Non il genere di domande da fare ad un perfetto sconosciuto, ma visti i tempi forse era il caso di smettere i panni delle persone educate.
Bussai tre volte, come mi era stato chiesto, sentendomi una perfetta idiota e rischiando di ammaccarmi la mano. Chissà, forse ero davanti ad un agente della CIA e la mia vita stava per cambiare nel giro di un battito di ciglia.
Con quegli assurdi pensieri in testa, quasi non mi accorsi della porta che si apriva e della figura che, di colpo, invase la mia intera sfera visiva.
Un ragazzo alto all'incirca un metro e ottantacinque. Capelli di un intenso marrone cioccolato, così folti da far nascere dentro di me un incontenibile bisogno di accarezzarli o, per lo meno, di domarli visto lo stato confuso in cui si presentavano. Gli occhi, scuri quanto le ciocche, apparivano indecifrabili, nonostante decisi di punto in bianco di considerarli gli occhi più dolci che avessi mai visto. Le sopracciglia andavano a rafforzare quella contraddizione di dolcezza e diffidenza.
E, sì... come potete immaginare aveva una bocca.
Buon Dio, avrei ucciso la sorella che non avevo per venire baciata da una bocca così ben delineata e sicuramente morbida.
Ok, forse avrei dovuto darci un taglio con quei romanzi Regency che Vivianne continuava a passarmi.
Ad ogni modo, descrizione fisica/ormonale da Premio Nobel a parte, tornai a concentrarmi sul fratello minore.
Non notai un solo velo di barba e, forse, fu proprio quel dettaglio a rendere quel volto così giovane. E poi c'erano quei piccoli nei sparsi sul volto. Dei perfetti e ben posizionati nei che, vi giuro, non avrei dimenticato neanche da vecchia neppure se fossi stata affetta da un'inarrestabile demenza senile. Ma di loro parlerò nei dettagli la prossima volta.
Come minimo, quelle labbra così ben definite dovevano aprirsi nel migliore dei sorrisi e farmi sciogliere come neve al sole. Degno finale di una descrizione che mai, mai, mai al mondo mi sarei sognata di fare.
«Fratellino» gracchiò Will, riportandomi in quel preciso momento.
Il fratellino in questione che, ero certa, chiamarsi Kyle, mi degnò di un'occhiata lunga poco più di un micro secondo (e forse ero stata pure positiva in proposito) per poi tornare a concentrarsi su WIll.
La cosa sconvolgente era che non intravidi il solo barlume di emozione in quel volto su cui avevo mentalmente sbavato poco prima.
Io, del resto, se mi fossi trovata davanti ad una situazione del genere o mi sarei scompisciata dalle risate o mi sarei preoccupata come una mamma premurosa.
«Perché ti fai tenere in piedi da questa strana donna?» disse, con tono piuttosto piatto.
Strana donna.
Strana.
Un attimo.
Ero io la strana?
Mi guardai i vestiti, chiedendomi cosa avesse di strano la mia camicetta verde con i jeans neri. Cavolo ci avevo pure abbinato la borsa firmata di Vivianne.
«Ho bisogno... del... bagno...» esclamò l'uomo che avrebbe dovuto mettere in subbuglio la mia vagina, per poi sparire dentro l'abitazione.
Osservai Will svanire dietro l'angolo, chiedendomi cosa avrebbe pensato al risveglio. Forse avrei dovuto dargli un colpo di telefono.
Eppure c'era una sola cosa a cui riuscivo a pensare in quel momento...
Fa che non sia contagioso.
Fa che non sia contagioso.
Fa che...
«Hai il piede sul mio zerbino!» esclamò, di colpo, l'uomo davanti a me.
Quasi mossa da uno spirito di sopravvivenza interno mi ritrovai a fare un passo indietro, pronta a spostare lo sguardo sul quel volto che, in un primo momento, avevo considerato bello come pochi.
Avrei potuto dirgli qualcosa.
Che gli zerbini erano fatti per essere calpestati.
Il mio nome.
Perché avessi dovuto bussare tre volte la porta d'ingresso.
Il mio numero di telefono.
Perché non amasse pettini e spazzole.
Eppure, non feci in tempo a fare nulla perché....
Mi aveva prontamente sbattuto la porta in faccia.
«Brutto str...»
 
   
 
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