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Autore: Eneri_Mess    23/02/2022    4 recensioni
FINE (Prima parte)
Con il segreto che nasconde, Yokohama è una città dove non si possono dormire sonni tranquilli.
Dal Preludio:
Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole.
«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»
«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!»
Genere: Azione, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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COW-T 12, seconda settimana, M1
Prompt: Punto di non ritorno
Numero parole: 10378

 

 

Capitolo 19

When our worlds collide (Parte 3)





 

If the choices we make define who we are
Then this is who I am, I'll never let go
When our worlds collide, when our worlds collide
I will never let go when our worlds collide

[Our Worlds Collide - Dead by April]






 

La quiete nella stanza era avvolgente e delicata. 

Alle quattro di notte passate, con solo una lampada da comodino accesa a gettare una luce chiara sulle ombre addormentate, Chuuya sistemò Dazai su una delle poltrone con un’insolita gentilezza. 

Alle loro spalle, il letto era un reduce consumato dai loro amplessi. Mentre lo disfaceva e si procurava la biancheria nuova, il rosso accantonò di nuovo troppe domande, troppi dettagli spigolosi a cui non voleva andare incontro in quel momento. Era stanco e provato dalla quantità di piacere che aveva preso e ricevuto, il tutto depositato dentro di lui come una brace confortevole, su cui non aveva intenzione di versare l’acqua fredda dellla consapevolezza. 

Rifece il letto alla bell’e meglio per le sue capacità di quel momento, poi si voltò a fissare Dazai che si era accoccolato nello spazio risicato della poltrona, tenendo stretto il lenzuolo come un profugo. 

Concedendosi qualche momento per osservarlo, Chuuya si domandò se, in maniera minima, meno dell’un percento di probabilità, anche Dazai fosse sorpreso di quella chimica tra loro. 

Al pensiero successivo, avvicinandosi allo Sgombro, l’idea scivolò tra le spire della stanchezza. Scostò un lembo da sopra la sua testa, passandogli le dita sulla guancia ancora calda di sonno e sesso. Fu tardi per recriminarsi quel gesto affettivo. Fu tardi per qualsiasi passo indietro. 

«Siamo ridotti uno schifo… e non torneremo a letto conciati così» borbottò con una smorfia, cercando di essere ruvido, ma era inutile nascondere quel tepore che lo pervadeva. 

Ad ogni ora che passava - ormai si poteva quasi parlare di giorni - gli era sempre più chiaro come non sarebbero più stati quelli di prima. Avevano superato un punto di non ritorno su quel tetto. Ciò che avevano davanti era una materia grezza e informe, che tuttavia il rosso lasciò lì dov’era, nel proprio stomaco e nella parte di torace dove i dubbi, le incoerenze e le scelte stupide facevano il nido. Non l’avrebbe affrontata senza una dose generosa di riposo. 

Dal canto proprio, Dazai non si smentì, mugugnando qualcosa di contrariato quando il partner tentò di scrollarlo. Chuuya lo mise in piedi e lo trascinò in bagno con qualche Seh, seh di risposta. Se stava ridendo, lo avrebbe negato più tardi. 



 

* * *



 

Le ore di sonno che dormì furono poche ed erano rimaste impresse sulla sua faccia.

Stringendosi il ponte del naso per cercare un qualche vano equilibrio mentale, e gettando di malumore un’occhiata all’orologio, Chuuya sbuffò inutilmente contro il mondo che continuava a girare. 

Se prima aveva bisogno di una pausa perché i casini di Yokohama gli stavano succhiando l’esistenza, dopo un giorno e più a letto con Dazai sentiva la necessità di chiudersi altrettanto tempo in una spa per riprendere le energie. 

Il sesso era stato grandioso e ora era in ritardo, due verità inconfutabili e che dovevano coesistere nel residuo di forze che gli erano rimaste. 

Terminò di prepararsi continuando a lanciare qualche occhiata obliqua a Dazai, ma senza trovare un motivo per svegliarlo di nuovo. Rettificando, di motivi ne aveva in avanzo, dal dargli fastidio al dovere, ma l’ultima goccia che serviva al suo mal di testa in agguato era mettersi a discutere con lo Sgombro. 

Questo non gli impedì di restare a fissarlo dal bordo del letto, soffermandosi su dettagli che aveva da sempre avuto sotto gli occhi, ma che aveva deciso di ignorare per quieto vivere personale. Doveva darsi qualche credito: avere vicino l’ex detective significava affrontare l’esistenza in modalità difficile e questo implicava tenere le distanze. Dopo le ultime, scarse trentasei ore gli argini erano crollati e c’erano stati momenti, quelle due notti, dove Chuuya aveva perso percezione dei propri confini, trovando invece Dazai. 

Da quel punto in poi i suoi pensieri si fecero confusi e passandosi una mano sulla guancia la sentì tiepida. Imprecò senza voce. Aveva bisogno di mettere i guanti e andare a tenere occupata la mente con le incombenze del giorno. Disintossicarsi da Dazai diventò una necessità fisiologica. 

Fuori dalla camera lo attese una sorpresa. 

Un fuori programma che gli fece chiudere la porta con un colpo secco, in un gesto involontario e irruento che tradì l’improvviso nervosismo. 

«Ane-san» salutò, la tensione a pizzicarlo sul collo. Non era ancora mentalmente preparato a tenere separato il mondo esterno dal suo scivolone con lo Sgombro. Non quando la collisione era ancora in atto.

Nel sorriso di Kouyou sostavano già tutte le risposte con cui i suoi occhi - sleali - incisero le domande in quelli del suo ex allievo.

«Chuuya» ricambiò lei con lo zucchero nel tono. Due note rubate a qualche usignolo, prima che la caccia cominciasse. «Ieri hai mandato uno dei tuoi invece di venire tu di persona. Mi sono preoccupata.»

Un senso di déjà vu non aiutò il rosso a tenere i nervi saldi. Era già successo qualcosa di simile, dopo la sua prima volta. Gli era bastato mettere piede in una stanza per essere sgamato da un risolino altrettanto soave. 

«Ero impegnato» masticò Chuuya, camminando sulla fune della mezza onestà, mentre faceva quello che tutti consigliavano sempre di non fare: guardare giù e immaginare il disastro. «Ci sono stati problemi?»

«Nessuno. Tutto va secondo i piani di Dazai.»

Tentare di risultare indifferente e non suscettibile al suono del nome del suo partner costò al rosso una discreta dose di autocontrollo mentre si infilava i guanti. Borbottò un Fantastico scarno di entusiasmo, convincendosi che fosse una risposta esaustiva.

Kouyou stirò le labbra come la volpe rossa che era. 

«Parlando di Dazai» e sostò sulle sillabe più del necessario, rendendole tanti piccoli spilli. «È da qualche giorno che non lo vedo in giro. So che sta ristrutturando il proprio ufficio. Ha chiesto a Yumiko-chan di farlo?»

«Aha.»

Non riuscì a non imprimere della frustrazione nella risposta. Sembrava che tutti trovassero divertente nominare la sua arredatrice di fiducia e punzecchiarlo per esserci andato a letto come fosse stato l’ultimo degli adolescenti. Aggiunto questo all’insistenza della Dirigente nel ricordargli dell’esistenza di Dazai, Chuuya capì che non avrebbe retto altro. 

Calcato il capello in testa con una imprecazione interiore, marciò verso la porta, deciso ad allontanarsi fisicamente dalle rogne di quella situazione. 

Le dita della sua ex maestra si strinsero con delicatezza sulla sua spalla, arrestando la sua fuga.

«Non vorrai uscire in queste condizioni» fu amorevole quanto maliziosa nel dirlo, nascondendosi dietro la propria manica. Fu un modo blando per dire Vedo il tuo gioco

Chuuya non comprese, boccheggiando come un pesce. 

«Pensavo di averti insegnato bene» continuò lei, guidandolo gentilmente verso lo specchio a figura intera vicino all’ingresso dell’appartamento. Come stesse toccando il petalo di un fiore, la donna scostò il colletto della camicia di Chuuya, rivelando l’onta. 

«Ricordi? Niente succhiotti dove possono essere visti» e lasciò andare una risatina sottile quanto trattenuta troppo a lungo. 

Chuuya divenne più rosso dei propri capelli, ma ebbe ancora abbastanza controllo per non lasciarsi sfuggire un inequivocabile Figlio di…

Anche se lo avesse detto, ormai il danno era fatto e quando si trattava di questioni di letto non c’era detective che reggesse il confronto con Ozaki Kouyou. 

«È una coincidenza adorabile che tu sia impegnato, o con la testa altrove, gli stessi giorni in cui Dazai sparisce» iniziò, e fu come essere spogliato dei vestiti con le sole parole. Gli occhi di lei guardarono verso la porta della camera e furono più efficaci di una chiave nell’aprirla e rivelarne i segreti. «Considerando la tua regola d’oro di non far entrare nel tuo letto personale sottoposti o qualcuno che non sia di grado pari al tuo…» 

Non spiattellò la risposta cruda, ma continuò a girarci intorno punzecchiando il pudore boccheggiante del rosso. 

«Non c’è bisogno di infierire» gracchiò Chuuya, allontanandosi come un automa e andando a frugare nel mobile vicino per recuperare dei cerotti color carne. Il bordo dello specchio continuò a restituirgli il riflesso del disonore e l’idea che l’immagine residua sarebbe rimasta impressa sulla superficie per molto, molto tempo. Come le risatine della sua ex Maestra. 

«Forse, allora…» riprese Kouyou, dandosi un po’ di contegno e voltandosi completamente verso l’uscio chiuso della camera da letto. «Dovrei rispiegare certe cose al tuo partner.»

Il tono fu volutamente più alto e le parole scandite. Riecheggiarono sulle pareti e si esaurirono nelle mani che Chuuya si premette sulla faccia con frustrazione, sentendosi un adolescente pizzicato con le mani nelle mutande. Avrebbe soffocato Dazai con un cuscino quella notte e poi avrebbe dimenticato tutto. 

Hai superato il punto di non ritorno. Rimbombò di nuovo nella sua testa, ma non era una verità che in quel momento fosse in grado di assimilare. Si limitò a ingoiarla. 

Tuttavia, sentire la voce dello Sgombro da oltre la porta chiusa della propria camera gli ricordò che non si tornava più indietro. 

«Ricevuto, Ane-san. Niente più succhiotti in zone compromettenti!» e Dazai lo disse con la leggerezza di chi aveva già in mente di fare il contrario. 

Era scattata una nuova era per il Duo Nero e Chuuya aveva firmato il contratto senza leggere le clausole. Il desiderio di sbattere la testa contro lo spigolo del mobile fu intenso. 

«Andiamo» pregò a denti stretti, avviandosi di nuovo verso l’ingresso dell’appartamento con un passo così marziale da dare l’impressione che ci sarebbe passato attraverso senza aprirlo. Kouyou, soddisfatta da quella colazione fuori programma a base di pettegolezzi imbarazzanti, lo seguì senza nulla in contrario. 

Una volta fuori, appena ci fu un’altra porta chiusa e orecchie meno indiscrete ad ascoltare, la sua mano bloccò di nuovo l’ex allievo, meno gentile, meno incline a cedere allo scherzo. 

Chuuya recepì il messaggio come la doccia fredda che era. Indurì l’espressione di fronte alla muta insinuazione che trovò sul volto della sua ex Maestra. 

«La mia fedeltà è alla Port Mafia.»

Non scandì alcuna lettera. Non doveva dimostrare o ribadire proprio niente, ma impresse ogni parola di una minaccia che non intendeva risparmiare malintesi. Era un terreno esplosivo su cui camminare nei suoi confronti e non avrebbe fatto eccezioni. 

Le labbra di Kouyou si piegarono senza allegria, rendendola quasi una persona diversa da quella appena uscita dall’appartamento con la vittoria di aver pizzicato in flagrante i due giovani Dirigenti. 

«Oh, Chuuya, non dubito di questo» spiegò con una tranquillità atona. Alzò una mano e il suo dito indice si posò sul petto del rosso come la punta di un pugnale. 

«È la fedeltà del tuo cuore che mi preoccupa» e nel dirlo, il suo sguardo si assottigliò. Questo è un avvertimento, mio caro, aggiunse senza parole.  

Chuuya si scostò di un passo, scoppiando a ridere come fosse stata una battuta divertente. Scosse la testa, voltandosi e incamminandosi. 

«Non preoccuparti, Ane-san. C’è un limite al masochismo che posso avere nei confronti di Dazai.»

Il sospiro di Kouyou espresse un parere molto diverso. 



 

* * *



 

Chuuya appoggiò la fronte alla porta del proprio appartamento con un sospiro esausto. 

Era stata una mattinata distratta. Non c’era stato un singolo momento in cui la sua testa non fosse stata tirata da una parte o dall’altra, vagando di propria iniziativa e senza una logica. O meglio, la logica base c’era - Dazai, tanto per cambiare - ma i pensieri erano fluttuati dai più recenti a momenti della loro adolescenza a cui non credeva avrebbe più ripensato, per quanto serbasse un ricordo vivissimo.

Non si stava neanche più chiedendo perché le sue sinapsi gli stessero muovendo guerra in quel modo, finendo col farlo richiamare all’ordine più di una volta. Kouyou non si era risparmiata nessuna delicatezza nei suoi confronti, punzecchiandolo sia blandamente, sia con discorsi ad alto grado di imbarazzo. Non si era mai fatto eccessivi problemi a parlare di sesso, ma con Kouyou, quando ogni sillaba nascondeva Dazai tra le proprie spire, era esasperante oltre che un argomento spinoso.

Avrebbe potuto raccontare per filo e per segno quello che lui e lo Sgombro avevano combinato in quelle ore tra le lenzuola, ma non voleva. Il vanto non c’entrava nulla. C’era dell’intimità che lo fermava anche solo dal prendere alla leggera qualche dettaglio. 

Buttando fuori l’aria dalla bocca in uno sbuffo non risolutivo, ma liberatorio, Chuuya si decise a entrare in casa e concedersi le due ore di sonno post pranzo con cui prevedeva di affrontare il pomeriggio. 

Nel percorso dall’ingresso alla camera lasciò cadere tutto ciò che di superfluo aveva, dal capello, alla giacca, il gilet e le scarpe. Lasciò fluire anche i pensieri in uno sbadiglio sonoro, e si buttò sul letto ancora sfatto senza più sciami pungolanti per la testa. 

Il relax dei sensi fu stroncato sul nascere da un Ahi! soffocato. 

Chuuya saltò a molla a quel gemito, per poi afferrare le coperte e scostarle in un unico gesto. 

«Dazai! Ma che cazzo!» imprecò in una botta di adrenalina che lo aveva colto alla sprovvista. «Che diavolo fai ancora qui!?» 

La risposta fu un’incomprensibile sequela di mugugni e movimenti scoordinati mentre l’ex detective rotolava da un fianco a un altro, per aprire poi un occhio, fissare il rosso brevemente, e poi tornare a stringere il cuscino che aveva contro il petto. 

«… riposino post pranzo.»

«Hai un appartamento» gli fece presente la Lumaca, senza smettere di fissarlo. 

Dazai fece di sì con la testa a confermare l’ovvietà, ma non aggiunse altro. Il partner non ci provò nemmeno a insistere. Si mise di nuovo comodo, passando lo sguardo dallo Sgombro al soffitto, senza decidersi a chiudere gli occhi anche lui. 

«Hai combinato qualcosa almeno?» chiese dopo un po’, in un’imitazione molto pallida di un rimprovero. «Ane-san sa di noi perché si è accorta della tua assenza.»

E perché lei fiuta queste cose a chilometri di distanza, aggiunse tra sé con frustrazione. 

Dazai grugnì qualcosa e Chuuya lo scosse come un vecchio Juke Box difettoso per avere una risposta di senso compiuto. 

«… scritto documenti» e nel dirlo, lo Sgombro alzò un braccio a indicare qualcosa, che Chuuya intercettò come il tavolo della propria camera. Lo trovò pieno di fogli, cartelline e tutto il casino che di solito stava nel suo ufficio. 

«Hai lavorato da qui!? Stai almeno tenendo d’occhio la ristrutturazione del tuo ufficio!?»

Dazai scosse la mano in un gesto vago. 

«Yumiko-chan farà un ottimo lavoro…» 

Chuuya non distolse lo sguardo da quel gatto pigro capace solo di girarsi sulla pancia, stiracchiarsi e neanche fare la fatica di tornare composto. Che quella fosse una facciata o la sua vera essenza, averlo di nuovo alla Port Mafia continuava ad avere un sapore molto diverso dal passato. 

«Dazai» chiamò, prima di rendersene conto. «Perché sei tornato?» 

Ci fu un guizzo rapidissimo agli angoli degli occhi dello Sgombro che non passò inosservato al rosso. Seguì un sospiro a labbra chiuse, assimilabile a un lamento. Dazai si portò una mano alla faccia, iniziando a stropicciarsi gli occhi. 

Per Chuuya fu strano realizzare che il partner stesse davvero dormendo. Era una sensazione inconsueta e anomala trovarsi davanti un Dazai così genuino. Nessun atteggiamento ostentato, poche bugie nelle chiacchiere - le mezze verità non contavano - e quell’autenticità nei gesti. Era tutto così fuori dagli schemi da lasciarlo disorientato e affascinato - ma il fascino tipico delle falene che rischiavano di cadere a terra bruciate. 

Dazai sbadigliò, stirando il collo e guardando in faccia Chuuya. Era corrucciato, ma c’era anche qualcosa di morbido nel suo sguardo che lo rese magnetico. 

«Sono più utile qui che in Agenzia, riguardo al Libro» mormorò, aggiungendo un leggero sbuffo esasperato. «Avete continuato a ripetere quanto il mio posto fosse nella Port Mafia, ma ora che sono qui ve ne lamentate.»

Stropicciò il cuscino che aveva tra le braccia, ma stancandosi subito. 

«L’ultima cosa che voglio è che Dostoevskij riesca a mettere le mani sul Libro.»

Chuuya si imbronciò a propria volta. 

«Vuoi farmi credere che non sei tornato per trovarti davanti a Odasaku?»

«Non hai bisogno che te lo dica se già lo sai.»

Prima che il rosso potesse ribattere irritato, Dazai si voltò supino, lasciando vagare lo sguardo sul soffitto. 

«Non voglio che Odasaku si suicidi scontrandosi con il pieno potere della Port Mafia» spiega piano, dando alle parole un suono fragile e infuso dall’esperienza di troppe cose andate per il verso sbagliato. 

«Ti ha quasi ammazzato l’ultima volta, e non sei così stupido da lasciarglielo fare di nuovo. Ma questa volta non ci saresti solo tu… e dubito che il suo modus operandi di attaccare da solo cambierà.»

«Credi che abbia l’ordine di andare avanti fino a… morire?» 

Dazai non rispose. Non fu un assenso, ma un pensiero che si sfaldava lentamente, come i m’ama non m’ama inflitti a una margherita. 

«Sì, lo credo. In fondo, lo scopo di Dostoevskij è un mondo privo di peccati, di abilità. Odasaku non fa eccezione, anche se sono…» 

Compagni

Chuuya lo capì senza bisogno di sentire la fine della frase. Una smorfia disgustata prese possesso delle sue labbra. 

«Possiamo sempre irrompere nella prigione dove tengono quel ratto schifoso e frantumargli le ossa una volta per tutte» propose, schioccando la lingua mentre incrociava le braccia con stizza e il desiderio di spaccare la faccia al Demone Russo in via definitiva. 

Non capì cosa fece ridacchiare il suo partner, ma per quanto l’allegria fosse scarsa, fu un suono leggero e piacevole. 

«Ti piacerebbe Meursault, è pieno di aziende vinicole.»

«Seh» sbuffò Chuuya. «Finita questa storia mi farò un viaggio in Francia» sancì, chiudendo gli occhi e ricordandosi che era tornato in camera per dormire e recuperare le energie che lo Sgombro stesso gli aveva risucchiato.

«Non voglio più sentire di Libri che possono stravolgere il mondo, di gente che risorge dalla tomba e tenta di ammazzarti, o qualsiasi altra cazzata formato problema.» 

«Stai pensando a un’utopia, lo sai, sì?»

Ridacchiando ancora, Dazai si spostò più vicino al partner, fino ad appoggiare la fronte sulla sua spalla. Fu un tocco lieve che Chuuya accolse però con un gran respiro di pace. 

Perché tornare indietro?

«No, Sgombro. Sto pensando a delle fottute vacanze. E ora dormi.»



 

* * *



 

Kouyou entrò nell’ufficio di Mori senza aspettare un permesso esplicito. 

Il tappeto era disseminato di pastelli, matite, pennarelli e fogli pieni dei più grotteschi disegni, ma non c’era alcuna Elise a giocarci. La donna dedicò loro appena uno sguardo, quello che serviva a evitare di pestarli. 

Il Boss della Port Mafia non la stava calcolando. Indaffarato a trafficare coi cassetti della propria scrivania, borbottava tra sé e sé come un vecchio bollitore esausto dal riscaldare l’acqua. La Dirigente seguì con gli occhi il suo affaccendarsi, restandosene in piedi in un’attesa composta, che non avrebbe mosso sillaba per palesare la propria presenza. 

Nel mettersi la cravatta sulla camicia color uva scura, Mori si focalizzò finalmente su di lei. La sua espressione stupita trasudava una sincerità quasi apprezzabile. 

«Kouyou-kun! Non ti ho sentita entrare.»

Lei non si scompose, regalandogli la stessa sobria onestà che solitamente entrambi usavano agli incontri ufficiali, tra una stretta di mano e una pugnalata alle spalle. 

«Potremmo avere un problema» fu il suo modo di salutarlo, con un sollucchero che la fece ridacchiare appena. 

Sulla faccia di Mori fu evidente il disappunto per il contrasto tra le parole e il tono. Non si fermò dallo stringersi il nodo alla cravatta, ma sospirò in maniera fin troppo rumorosa. 

«Sono troppo stressato da questa situazione» esordì, passandosi una mano sulla faccia con una spossatezza lungi dall’essere una finzione. Tuttavia, con lui, distinguere cosa fosse realmente sentito e cosa una messinscena faceva parte del suo gioco. 

«Ho bisogno di andare a fare shopping con Elise-chan e schiarirmi le idee» aggiunse in fine, recuperando il proprio camice bianco dalla spalliera della poltrona su cui era solito comandare da quel punto tra cielo e terra.  

«Manda Chuuya a risolvere qualsiasi cosa sia. Non si preoccupi per i danni, pagheremo.»

Il sorrisino compiaciuto di Kouyou disse a Mori che era appena inciampato sulla casellina del gioco dell’oca che lei desiderava. Era stato così prevedibile che non trattenne alcuna risata, sempre schermata da una delle sue eleganti maniche. 

«Chuuya è parte del problema.»

Non era impossibile fare scacco a Mori - non a lei che tanto bene viveva nella sua ombra e conosceva i suoi spigoli meglio di lui - ma vederlo smarrito di fronte a un palese tranello del destino era il sapore inebriante di un liquore invecchiato al punto giusto e che si pensava andato perso. 

La richiesta di spiegazioni fu implicita nelle sopracciglia aggrottate del Boss. Kouyou si passò appena la lingua sulle labbra, chiudendo gli occhi e godendosi il momento. 

«Quello che sospettavamo sette anni fa è… sbocciato.»

Un fulmine a ciel sereno attraversò la mente di Mori, riflettendosi nel suo sguardo. 

«Oh» fu tutto ciò che riuscì a esprimere in prima battuta. Se fu necessario o teatrale appoggiarsi allo schienale della propria poltrona, lui lo fece comunque. 

Se ci fossero stati estranei presenti in quel momento si sarebbero sbalorditi nel constatare quanto umano potesse apparire il Boss della Port Mafia di fronte a una notizia chiara solo a lui e alla Dirigente. 

Kouyou sapeva, invece, quanto quella notizia stesse già muovendo i pezzi sulla scacchiera. Le mosse sarebbero potute essere le più intelligenti e sleali - e queste ultime lei le avrebbe respinte con disgusto, sempre di un suo ex protetto si parlava - ma erano soprattutto un nuovo vantaggio per il burattinaio che Mori impersonava. 

Tuttavia, il Boss scelse di accogliere quell’informazione con un terribile sospiro. 

«Ne sei sicura, mia cara?»

Kouyou si strinse nelle spalle. 

«Dazai non è più tornato nel suo appartamento o nel suo ufficio. Conoscendo i gusti di Chuuya in fatto di comodità, avrà fatto il nido nel suo letto. Comunque sia andata, era lì stamattina e Chuuya ne portava i segni sul collo.»

Il medicastro si portò le mani al volto e soffocò un lungo e inclassificabile gemito di cui Kouyou rise senza indulgenze. 

Non era qualcosa che pioveva dal cielo inaspettatamente. Entrambi, all’inizio di tutto, avevano visto il seme depositarsi a terra. Ci aveva impiegato sette anni a germogliare e, nonostante le intemperie di quattro anni di aridità, le foglie erano spuntate inconfondibili come i succhiotti che Kouyou aveva constatato di persona. 

«Ho davvero bisogno di una pausa» mormorò Mori sfinito, tirandosi indietro i capelli. 

«Melodrammatico» commentò lei serafica, ricevendo un muso imbronciato che non restituiva minimamente l’età reale del Boss. 

«Sii gentile, come pensi che dovrei gestire questa seconda adolescenza? Già la prima è stata terrificante» e rabbrividì per conto suo, riaprendo i propri cassetti della memoria. 

Kouyou roteò gli occhi al soffitto, scevra di pazienza. 

«Scendi dal piedistallo e renditi conto che sono cambiati entrambi. Non sono più i ragazzini che comandavi a bacchetta con un giro di parole. Meno che mai Dazai.»

Un attimo dopo la serietà si incise nei suoi lineamenti in maniera così dura che avrebbe potuto ferire con uno sguardo. 

«Riguardo a Chuuya, fai attenzione a tirare il suo guinzaglio. Potresti accorgerti che si è sciolto. Non fare cazzate.»

Mori deglutì, questa volta senza alcuna finzione e sbattendo due volte le palpebre per assicurarsi di avere la vera Ozaki Kouyou di fronte. In anni di conoscenza, era la prima volta che la sentiva usare una parola di quel calibro e con una minaccia insita così cristallina che si sarebbe potuto gridare all’insubordinazione. 

Tuttavia, nel giro di un tic tac di orologio, perfino quell’intimidazione divenne un pedone sulla sua scacchiera mentale. 

«Vado a schiarirmi le idee» sospirò infine Mori, mentre dall’ingresso della stanza arrivò una risatina infantile. 

Kouyou scoccò un’occhiata di striscio a Elise, ferma sulla porta con un cappottino rosso adorabile. La sua espressione era celata dalla frangetta ordinata, o più probabilmente era solo ciò che appariva, un’oscurità così profonda e infingarda come delle sabbie mobili. L’ombra dove la Dirigente era solita muoversi non era così nera come quella coscienza brillante solo nell’aspetto ingannevole che assumeva. 

«Non comprare altri vestiti di cattivo gusto» lo salutò lei senza alcuna enfasi. 

Le spalle di Mori si smontarono per quell’osservazione che riteneva immeritata, ma ricambiò cordiale, sparendo oltre l’uscio e lasciandola sola. 

Kouyou era entrata in quell’ufficio consapevole di essere in possesso di un’informazione deliziosa al palato quanto delicata come un veleno. Se ne fosse caduta anche solo una goccia ne sarebbero rimasti tutti avvelenati, senza distinzioni. 

Non uscì dalla stanza con lo stesso umore, ma chiedendosi quanto le cose fossero cambiate senza che nessuno di loro prendesse le dovute precauzioni. 



 

* * *



 

Chuuya non aveva voluto sentire ragioni e nel pomeriggio aveva portato Dazai e il suo culo fuori dall’appartamento. Erano però finiti nel proprio ufficio. Non esattamente dalla padella nella brace, ma la sensazione restava quella. 

Come l’idea degli sguardi addosso, con una patina nuova che il rosso stava cercando di ingoiare. Non avevano assunto atteggiamenti equivoci davanti ad agenti e impiegati che avevano incrociato, non che a Chuuya sembrasse. Tuttavia, chiudersi l’ennesima porta alle spalle e il mondo fuori lo fece respirare.

Un po’ meno quando Dazai si chinò su di lui, intrappolandolo pigramente contro l’uscio con le labbra, le mani e la sua - fottuta - altezza. 

Scordati che fuori da questa stanza combineremo qualcosa

Chuuya mugugnò di frustrazione alle proprie vane minacce, mentre lo afferrava per la giacca scura e se lo premeva di più addosso. Frenare le mani fu come chiedere alle loro bocche di farlo, ma il rosso pizzicò le dita di Dazai, fermandolo dallo smanettare con la fibbia della sua cintura. 

Non ci provare. 

Noioso.

Se lo dissero con gli occhi, per poi scaricare entrambi la frustrazione per quella proibizione - l’ennesimo preliminare - in un nuovo assalto di labbra che durò un tempo vergognosamente lungo. 

«Sei uno stronzo, Sgombro» sbuffò Chuuya, quando Dazai si staccò per riprendere fiato. Tuttavia, con la mano gli afferrò la cravatta per non farlo allontanare troppo. 

«Per fortuna che ci sei tu a ricordarmelo, Lumaca» celiò il partner, giocando distrattamente con una delle sue ciocche di capelli boccolose. «Non avevi detto niente al di fuori della tua camera da letto?» e sorrise mellifluo come il demone che era. 

«Sei. Uno. Stronzo» scandì di nuovo Chuuya, stringendo la cravatta con tutta la propria indecisione tra il mandarlo a quel paese e tirarselo di nuovo addosso. L’ultima cosa che voleva era finire nel cliché del sesso sulla scrivania, cosa che invece era abbastanza chiara desiderasse lo sguardo denso dell’ex detective. 

A scegliere per loro fu un bussare alla porta. 

Il rosso si irrigidì all’istante, allontanando il partner con una manata e schiarendosi la gola. 

«Chi è?» borbottò, tastandosi per assicurarsi di avere tutto in ordine. Dazai gli era di nuovo troppo vicino, a braccia conserte, curioso anche lui, ma il rosso percepiva solo la sua presenza come la forza magnetica che era. 

«Chuuya-san, sono Hibana Yumiko! Mi hanno detto che potevo trovare Dazai-san nel suo ufficio. Ho alcune carte da sottoporgli.» 

Nel tempo che il rosso sprecò a imprecare tra sé, lo Sgombro aveva già aperto la porta, quasi sbattendogliela sul naso. 

«Yumiko-chan!» trillò allegro l’ex detective, tutto galante nel farla entrare. «Venire abbagliati dal suo bel sorriso è un onore! Prego, prego.»

Chuuya trattenne l’ugh di gola che avrebbe voluto esprimere a quel complimento da diabete. Non era decisamente pronto a quella combo, avendo capito da subito che Dazai stava per mettere su un teatrino dei suoi.  

«Lei è troppo lusinghiero, Dazai-san. Sono venuta a portarle le ultime carte da firmare per finalizzare i lavori» spiegò pacata e professionale, ma non senza un atteggiamento civettuolo, il cui ondeggiare del seno era l’indiscusso protagonista. I suoi occhi incrociarono poi quelli di Chuuya, scaldandosi leggermente. 

«Quanto tempo, Chuuya-san. La trovo bene. Speravo di risentirla prima…» iniziò, mordendosi leggermente il labbro e ravviandosi i capelli dietro l’orecchio. Alle spalle di lei, ma pienamente in vista al rosso, Dazai gli mostrò la lingua e non fu in segno di burla. 

Ti è piaciuto stanotte? Stavo pensando di farti un pompino.

«Ho avuto diversi impegni» tagliò corto Chuuya con un gesto vago della mano, cercando di non risultare troppo sgarbato, ma optando anche per la ritirata, avviandosi verso il mobiletto dove teneva il vino. Diversamente, avrebbe sbattuto Dazai contro il muro, ma, di nuovo, l’azione successiva sarebbe stata incerta. 

Sentì alle proprie spalle lo Sgombro riprendere a cianciare con energia e con una lunga sequela di complimenti e flirt che gli girarono lo stomaco. Era così falso. Un minuto prima era pronto a farsi scopare sulla prima superficie disponibile. Dazai era sempre Dazai. 

Il rosso stappò una bottiglia di vino e si versò da bere, concedendosi una tregua. 

Poteva contare le ore dal ribaltamento della sua relazione con l’ex detective e di come tutto sembrasse all’apparenza rimasto uguale, ma con quella chiave di lettura diversa. 

Non poteva - e non voleva - ancora parlare di abitudine, era fuori discussione, non con una data di scadenza certa - ossia quando si sarebbero trovati di fronte Odasaku - a tranciare di netto qualsiasi cosa stessero vivendo come due adolescenti. L’unico pensiero sensato rimaneva assecondare quella follia, e questo la diceva lunga. 

Buttando giù un altro sorso di vino, Chuuya ingoiò di nuovo, per l’ennesima volta, tutta la sequenza di dubbi. Per dirla in maniera prosaica, né rimpianti né rimorsi. Non era nel suo stile.

Si voltò appena, tornando a dedicare la propria attenzione ai due che parlavano. Yumiko aveva tirato fuori dalla borsa le carte da firmare, Dazai le stava scarabocchiando con disinteresse mentre continuava a chiacchierare di solo lui sapeva cosa. L’arredatrice non lo stava realmente ascoltando, ma unendo tra loro le mani in un gesto di ringraziamento, la donna mise nuovamente in risalto il proprio seno.  

Chuuya la osservò, vedendola per la prima volta con un’ottica esterna. Hibana Yumiko era una professionista, sia come interior designer sia nell’arte di aprire le gambe agli uomini per cui lavorava. 

Non era per niente stupida. Camminava per la Mori Corporation a proprio agio, perfettamente a conoscenza del fatto che fosse una facciata di comodo per la Port Mafia; questo non l’aveva spaventata o fermata dall’immischiarsi, cosa che il rosso aveva apprezzato. Sapeva ciò che voleva e come viverselo. 

A Chuuya non era dispiaciuto andarci a letto qualche volta, venire coinvolto anche col suo assistente e passare delle nottate di cui conservava la soddisfazione. Tuttavia, oltre a quello, Yumiko non era che una persona segnata nella sua agenda. 

All’ultimo sorso di vino, la Lumaca decretò che la commedia fosse durata abbastanza. 

Non gliene fregava niente che Dazai facesse il totano fritto svenevole con la designer, o che lei stesse facendo passeggiare le sue dita sul suo braccio, sfiorandolo intenzionalmente col proprio seno, troppo vicina per parlare ancora di spazio personale. 

Di per sé, era una scena da film di serie b e non gli interessava restare a guardarli. Era più il concetto di fondo a farlo incazzare, il fatto che negli ultimi due giorni sia lo Sgombro che Kouyou lo avessero preso per il culo nominando Yumiko-chan in giudizi ironici riguardo i suoi gusti sessuali.

Le tette rifatte di Yumiko a lui non erano dispiaciute, non aveva nulla da giustificare o scelte da difendere. Era proprio che non aveva voglia di avere distrazioni intorno, non quando la sua realtà stava tirando le somme delle ultime ore di uragano. 

Appoggiato il calice, si avvicinò ai due con calma. Nonostante le poche ore di sonno e gli sconvolgimenti vari, era abbastanza tranquillo da sapere cosa fare. 

«Yumiko» chiamò, interrompendoli senza chiedere scusa. Fece cenno alla donna di avvicinarsi ed entrambi lo guardarono incuriositi. 

Quando la designer gli fu a un passo, Chuuya fece scivolare la mano sul suo collo, guidandola con una leggera pressione sulla nuca verso di sé e accostandole le labbra all’orecchio. 

Dazai seguì tutta l’azione con del reale interesse, levandosi dalla faccia qualsiasi espressione da attore consumato. Gli occhi dei due Dirigenti si incrociarono per non staccarsi più, mentre Chuuya iniziava a mormorare qualcosa solo per la donna. 

Fu un minuto che parve durarne cinque. Prima le spalle di Yumiko, poi tutto il suo corpo - Dazai ebbe piena visione di come la donna strinse le cosce sotto la gonna - ebbero un guizzo, seguito da un irrigidimento che si sciolse sul finire, quando si ritrasse e restò per un attimo a fissare il rosso. 

Dazai aggrottò la fronte. Non poteva vederla in faccia, mentre Chuuya aveva un sorriso soddisfatto. 

«A-Allora io vado. Avviserò quando i lavori saranno ultimati» balbettò la donna, passando di fianco allo Sgombro senza più la sicurezza iniziale, ma con un rossore profuso per tutto il viso e il décolleté. Raccolse i documenti e la propria borsa e si avviò frettolosamente verso la porta dell’ufficio. Poco prima di abbassare la maniglia, sembrò ricordarsi delle buone maniere. Si voltò per un inchino formale e un ultimo sguardo a Chuuya, per cui si morse il labbro inferiore, ma si dileguò senza aggiungere altro. Erano di nuovo soli. 

«Mi stai dicendo che devo rivalutare le tue doti di persuasione, Lumaca?» sbuffò Dazai. «Che cosa le hai detto per farla scappare via così eccitata?» e guardò la porta come se la scena non fosse realmente avvenuta. «Vuoi essere chiamato demone anche tu?» 

Chuuya tornò alla sua bottiglia di vino e si riempì un altro calice. 

«Fino a prova contraria io sono un Dio» replicò con una punta di arroganza per cui non riuscì a trattenere anche un ghigno. Era la prima volta che scherzava sulla natura dell’Arahabaki e fu una sensazione stranamente leggera. 

«Un Dio basso» precisò Dazai. «Microscopico» aggiunse per stizza, roteando gli occhi e incrociando le braccia, ma la sua espressione giudicante e per nulla convinta si trasformò presto in un muso lungo. 

«Sentiamo, vantati un po’, che le hai sussurrato?»

La curiosità aveva vinto. 

Chuuya riconobbe l’opportunità, una seconda volta, e non se la lasciò sfuggire. 

Probabilmente andare a letto con Dazai, iniziare ad accettare quel veleno, a lungo andare lo avrebbe reso immune agli atteggiamenti doppiogiochisti del suo partner. Fino a quel momento, gli bastò poter godere del vantaggio di poche, mirate parole. 

Tornò di nuovo dallo Sgombro, calice alla mano, e gli fece cenno di abbassarsi, mentre mandava giù un altro sorso. 

«Sai stronzo, a volte basta il tono giusto per toccare certe corde.»

Il sussurrò fu calibrato, roco. 

Era una sfumatura di voce che aveva già sperimentato la notte precedente, ma che aveva fatto parte della confusione dei loro amplessi come un pezzo qualsiasi nella catena del piacere. Però Chuuya aveva consolidato nel tempo la sua efficacia con diversi partner, e il brivido lungo le spalle dell’ex detective gli confermò che aveva fatto centro anche con lui. 

Lo afferrò di nuovo per la cravatta, per assicurarsi che non battesse in ritirata, e lo costrinse ad avvicinarsi di più, premendogli la bocca a lato dell’orecchio. 

«… perché adesso non scegli dove vuoi che ti sbatta? … o preferisci che ricambi il lavoretto di ieri?»



 

* * *



 

Dazai si muoveva all’interno della Port Mafia come uno spettro relegato nel mondo dei vivi e confinato tra quelle mura. 

Avrebbe potuto percorrere i corridoi a occhi chiusi, scivolare negli anfratti che probabilmente neanche l’architetto originale ricordava più, sparire alla vista nello spazio di un respiro semplicemente sapendo quale ombra o angolo sfruttare. 

Era il luogo più simile a una casa che conoscesse, ma i ricordi a guidarlo quella notte furono solo logistici. Aveva rivissuto abbastanza il passato per meritare di concentrarsi solo sul presente. Gli orologi intorno a lui non smettevano di ticchettare, ricordandogli quanto poco mancasse a un futuro che sarebbe giunto senza alcuna carezza. 

Mescolandosi al buio della notte, come un vecchio amico che torna nei luoghi dell’infanzia, raggiunse i sotterranei. 



 

Dazai restò con le spalle contro l’angolo della parete ad ascoltare i passi che si allontanavano, insieme alle chiacchiere, e all’eco che si spense quando le guardie voltarono nel corridoio successivo. 

Contò fino a dieci e poi prese la trasmittente che aveva nel taschino, insieme al cellulare. Sul display di quest’ultimo selezionò uno dei nove video in riproduzione costante e questo prese tutto il campo disponibile, mostrando una sala di monitoraggio e una guardia appollaiata sulla sedia a fare il proprio noioso lavoro di sorveglianza. 

Dopo qualche secondo, uno degli schermi in basso nell’inquadratura si spense e Dazai si portò la trasmittente alla bocca. Si schiarì la gola e pensò al tono da usare.

«Ohi ohi, Sala di Controllo, qui corridoio diciannove! C’è qualcosa che non va nella zona del montacarichi.»

Sul cellulare di Dazai, la guardia trasalì e afferrò il microfono, chinandosi poi verso lo stesso schermo diventato scuro. 

«Qui Sala di Controllo, non ti vedo, è saltata la luce?» 

L’ex detective vide la guardia picchiettare lo schermo oscurato. Reimpostò la voce prima di rispondere. 

«Certo che la luce funziona, non mi vedi?! Ehi, c’è stata una scintilla! Merda amico, qui ci devono essere dei ratti! Cazzo, quegli schifosi portano malattie! Io qui non ci rimango!»

«Stai fermo lì! Mando qualcuno!»

La guardia si dimenò sulla sedia e l’ex detective lo vide digitare più codici sul tastierino del microfono per contattare altre squadre. Dai tentativi che fece e da come la sua figura si agitò, Dazai ebbe conferma che i propri dispositivi di interferenza stessero facendo il loro dovere. 

Attese ancora un po’, appoggiando la testa al muro senza smettere di seguire i movimenti del video, ma la sua mente si estraniò. 

Se Chuuya si svegliasse adesso sarebbe un problema.

Chiuse gli occhi per quietare quella possibilità. Si era già concesso troppi ritardi e una sbandata imprevista fuori strada, ma-

«Ohi! Qui Sala di Controllo! Sei ancora lì!? Ci sono problemi con le comunicazioni, non riesco a mandarti una squadra a controllare-»

Dazai prese un respiro e riattaccò con la recita. 

«’Fanculo amico, io sono venuto a fare una sostituzione, non dovrei manco essere qui! Preferisco farmi sparare per strada che essere morso da un ratto schifoso! Lo sai che portano la peste!? Io me ne vado!»

Nel video, la guardia scattò in piedi allarmata. 

«Che cazzo dici!? Vuoi essere licenziato!? Ohi! Merda-» 

La guardia afferrò la giacca, pistola e torcia, e si precipitò fuori dalla Sala Controllo. 

Poco distante, Dazai sentì proprio quei passi approssimarsi, insieme a un ansare pesante e qualche imprecazione. La guardia gli sfrecciò di fianco, proseguendo nel corridoio senza minimamente fiutare la sua presenza. 

L’ex detective osservò le spalle dell’uomo allontanarsi fino a svoltare in un altro corridoio. Si fece scivolare di nuovo la trasmittente in tasca e ricontrollò sul proprio cellulare la posizione delle altre sentinelle. Aveva campo libero per almeno dieci minuti, contò. 

Staccandosi dal muro con indolenza, canticchiando un motivetto senza inflessione, prese il corridoio in senso contrario alla corsa del sorvegliante, raggiungendo la Sala Controllo incustodita. Prima di accedervi, si spostò di lato e iniziò a tastare il muro con i guanti neri, finché non trovò l’accesso al pannello camuffato. 

Senza gesti inutili, tenendo a mente i minuti che scorrevano, Dazai iniziò a fare quello per cui era lì, cercando di tenere lontani i pensieri intrusivi. Lavorare nel silenzio su qualcosa di delicato, con la pressione di essere scoperto - ma con pronti almeno una dozzina di piani alternativi per giustificare la sua presenza e il proprio operato - era la situazione ideale per pensare. Distrarsi lo aiutava a concentrarsi. 

Se però ora Chuuya si svegliasse...

Quella, tuttavia, non era una distrazione. Era una possibilità che avrebbe mandato tutto a monte.

Le dita di Dazai esitarono e smise di canticchiare. Durò un attimo, ma si portò una mano alla fronte, piegando le labbra in qualcosa che non era abituato a provare. Autocommiserazione. 

«Merda. In che situazione mi hai cacciato, Lumaca?» mormorò tra sé. 

Prese un respiro profondo e relegò il pensiero da una parte, ma questo semplicemente lasciò il posto a un altro. 

Odasaku

Era proprio fregato. 

«Non avevo capito che il mio colore preferito fosse il rosso» rise tra sé con una stilettata di biasimo, tornando a maneggiare i cavi del pannello operativo. 

Tirò fuori dalle tasche della lunga giacca nera che indossava il necessario, tra tronchesine e dei piccoli dispositivi con cui ricollegò tra loro determinati cavi. 

Quattro minuti scarsi ed ebbe finito, richiudendo tutto. Prendendo il cellulare constatò che il sistema installato funzionasse, poi si spostò all’interno della Sala di Controllo e ricominciò, impiegando il resto del tempo a propria disposizione, per poi andarsene com’era arrivato. 

Svoltò in un corridoio deserto l’istante prima di sentire i passi trafelati della guardia che tornava al proprio posto. Alzando gli occhi, vide una telecamera puntata proprio su di sé e riaccese il cellulare, selezionando e osservando il video all’interno della Sala di Controllo. Nello schermo corrispondente alla telecamera lui non appariva, ma il minutaggio scorreva segnando l’orario giusto. Sorrise compiaciuto. 

«Ohi! Tu che eri di guardia nel corridoio diciannove! Rispondi! Dove diavolo sei finito!? Ehi, coglione! Guarda che ti faccio licen-»

Dazai spense la trasmittente, incamminandosi verso la prossima tappa e dando uno sguardo alla planimetria sul cellulare più per impiegare il tempo che per utilità. 

Esclusi i lavori di estetica interna ai diversi piani del palazzo, la parte che aveva ricevuto più modifiche, dopo la presa in gestione di Mori, erano proprio i sotterranei, per essere adeguati alle nuove tecnologie. Esclusi alcuni sistemi di emergenza, da lì passavano e salivano la maggior parte delle arterie che alimentavano il cuore nero di Yokohama. Nei giorni precedenti, finché aveva lavorato, Dazai si era annoiato a imparare a memoria ogni locazione, cavo e interruttore. 

Mentre raggiungeva la propria meta, sistemando un auricolare nell’orecchio e ascoltando gli agenti cianciare di presunti ratti nel corridoio diciannove, tirò fuori dalla tasca anche un grosso pennarello e si fermò a scarabocchiare alcune cose su tubi e muri, ma senza che l’inchiostro lasciasse alcuna traccia visibile. 

Fece visita a diversi pannelli nel giro di un’ora, continuando con quel gioco di indirizzare il personale di sorveglianza dove più gli facesse comodo per avere la tranquillità necessaria a eseguire la propria silenziosa opera chirurgica. 

«… che schifo! Sala di Controllo, ci sono ratti ovunque qui sotto! Il peggior lavoro di sempre!»

Dazai aveva di nuovo la trasmittente in mano, la voce impostata su quel tono a lui totalmente estraneo, mentre la sua espressione rimaneva impassibile. Accovacciato in terra, nella mano libera aveva un piccolo strumento che usava con pollice, indice e medio, e con cui stava rosicchiando dei cavi. 

«Sei di nuovo tu!» sbraitò la guardia della Sala Operativa. «Dove diavolo ti sei cacciato!? Qual è il tuo numero identificativo!?»

«Stai calmo, amico, io sto solo facendo quello che mi è stato detto! Il mio numero è 54695 e sostituisco uno dei vostri che sta male, e ora mi spiego la ragione! Un ratto lo avrà morso!»

«Dove diavolo sei!?» 

«Corridoio quattro! Non mi vedi? Te l’ho detto, sono i ratti!»

Dazai sorrise a sentire la guardia imprecare. La telecamera del corridoio quattro era temporaneamente fuori uso. 

«Io qui non ci rimango, sbrigatevela tra voi! Preferisco mi taglino lo stipendio piuttosto che rimanere in questo posto infestato!» 

«Non ti muovere! Sto-» 

La trasmittente fu spenta una seconda volta e Dazai la mise via, per estrarre dalla tasca qualcos’altro per cui esibì una piccola smorfia. 

«A qualcuno tocca sempre la parte del morto» mormorò tra sé, lasciando scivolare fuori dal sacchetto di plastica, vicino al cavo appena manomesso, un ratto stecchino.

Con quell’ultimo dettaglio, il palcoscenico era pronto per la prima. 



 

* * *



 

Chuuya dormiva ancora. 

Il suo respiro era abbastanza forte da raggiungere il partner, appoggiato di schiena alla porta della camera. 

Dazai si riempì i polmoni lentamente ed espirò allo stesso ritmo. Dai sotterranei all’appartamento il cuore aveva aumentato il ritmo in maniera spiacevole, al martellare di quel pensiero invasivo che non lo aveva abbandonato per tutta la serata. 

Se Chuuya si svegliasse, tutto questo idillio finirebbe miseramente. 

Lo fissò, anche se di lui si percepiva solo il colore dei capelli sbiadito dalle ombre. In pochi passi avrebbe potuto raggiungerlo, ma l’ex detective scelse di restare ancorato all’uscio con quella materia informe nello stomaco che aveva gli stessi dentini accumunati dei ratti usati nella sua messinscena. 

Rimorsi

«Maledetta Lumaca» imprecò con un filo di voce. «Guarda come mi fai sentire.»

Sapeva di non poter e non voler rimanere per sempre appoggiato a quella porta. I granelli del suo tempo stavano continuando a scivolare via e nessuno avrebbe girato una seconda volta la clessidra. Quello che aveva era tutto ciò che gli rimaneva prima dell’inevitabile. 

Era una delle rare volte in vita sua per cui la nebbia stava appestando la sua scacchiera. I pezzi erano quasi del tutto disposti, ricordava dove li avesse messi, ma in quella partita le previsioni non lo avrebbero aiutato finché non fosse stato in grado di vedere oltre la foschia. E per vedere, avrebbe dovuto aspettare il momento giusto, l’ultimo secondo, per muovere quel Pedone o quel Cavallo. 

Fino ad allora, sarebbe rimasto appoggiato alla presenza rassicurante della Regina. 

«Ehi, stai dormendo dormendo?» mormorò Dazai, abbastanza forte da avere quasi un tono normale. Chuuya non replicò né il suo respirò mutò. All’ex detective venne quasi da ridere, mentre si staccava dalla porta e iniziava a spogliarsi di quei vestiti fastidiosi e li appallottolava su una sedia. 

Il letto era ancora caldo di loro. Dazai ci si infilò piano, ritrovando tutte le sensazioni piacevoli che vi aveva lasciato. Gli salì alle labbra un sospiro sconfitto. 

«È la terza notte che passiamo insieme e non mi hai ancora fatto salire la bile» ridacchiò piano lo Sgombro, accoccolandosi come gli piaceva tra quelle coperte. Si portò a un soffio da Chuuya, ma non lo sfiorò, restando a fissarlo. 

La tentazione fu però più forte e con un indice Dazai gli pungolò una guancia. La reazione del rosso fu un riflesso condizionato e, dopo una smorfia nel sonno, con una manata scacciò il gesto molesto, finendo a girarsi a pancia in giù, ma col volto verso il partner, senza svegliarsi. 

Erano faccia a faccia e Dazai percepì nuovamente quei rimorsi rosicchiare le sue interiora. 

Si umettò le labbra - che immaginò di premere su quelle che aveva iniziato a conoscere non più solo per gli insulti - e mitigò la tensione dei nervi in una piccola risata nervosa. 

«Mi avevi chiesto cosa siamo… io un’idea ce l’avrei, ma non ti piacerebbe» scherzò, eppure in quel suono ci fu soltanto il contrario dell’allegria. «E non abbiamo tempo. Ce ne servirebbe parecchio, perché lo so che sei una testa dura e mi detesti.» 

Gli occhi scuri di Dazai si spostarono come una lenta marea sul corpo di Chuuya, parzialmente coperto dal lenzuolo. Poteva percepire il suo calore pervadere il loro piccolo spazio intimo ed era un tepore inebriante, cullante. 

Sulla schiena della Lumaca c’erano i segni freschi del sesso di qualche ora prima. Dazai poteva ancora avvertire la sensazione sui polpastrelli di quella pelle tesa e salda. Ci si era aggrappato senza remore, le sue unghie avevano scalfito la superficie come un naufrago in balia della tempesta. Fu un paragona che costò a Dazai il dover ingoiare un boccone amaro. 

Chuuya l’aveva sentita la sua esitazione quella notte. Non c’era modo di nascondergli qualcosa quando erano privi di bende e collari. Nonostante questo, il rosso aveva fatto la cosa più naturale e distruttiva: lo aveva stretto a sé invece di chiedere. 

Non importava che fossero stati preda delle sensazioni, che l’orgasmo avesse fatto terra bruciata per qualche lungo attimo di coscienza e incertezze. Dazai lo aveva sentito, che Chuuya fosse stato consapevole o istintivo nel gesto, il rosso era arrivato lì, nel punto più oscuro del Demone Prodigio, per un battito di ciglia, con una scintilla che aveva fatto ritrarre ogni ombra o solitudine.

«Se prima ti fossi svegliato… chissà che scusa avrei usato? O quale verità ti avrei raccontato? Iniziano a essere tante.»

Con le dita, ma senza mai davvero sfiorarlo, percorse quei segni rossi scavati su una pelle che sembrava fatta apposta per esibirli. 

«Mi hai fatto ritardare di due giorni sulla mia tabella di marcia, Lumaca. Però…»

Dazai si impresse nella mente quell’espressione addormentata, buffa, con i capelli in disordine, così importante. 

«Sei riuscito a spegnermi i pensieri come faceva Odasaku» e sorrise, affondando un po’ nel cuscino per mitigare e celare quella verità. «Se te lo dicessi, penseresti che ti stia prendendo in giro.» 

Chuuya si mosse, prendendo un respiro più forte e raschiato, facendo irrigidire Dazai. 

«Ehi?» chiamò piano l’ex detective, scrutandolo. 

Il rosso non replicò, se non per un nuovo russare sommesso. 

«Sto per raccontarti tutto quello che mi passa per la testa e tu stai dormendo sul serio?» 

Dazai si avvicinò, finché non incontrò la fronte di Chuuya con la propria. Chiuse gli occhi, perché l’unico senso di cui sentisse il bisogno era quello in grado di incidergli la sensazione di quel momento nella mente.

«Ascolta, Chuuya… anche quando ti volterò le spalle, fidati ancora di me, ok? Avrò bisogno di te.»

Prese un respiro tremulo, sofferto. Quante cose erano cambiate in quattro anni? Quante ne erano cambiate in una manciata di ore rubate al presente?

«Per arrivare in fondo a questa storia… Avrò- Avremo bisogno di tutta l’umanità che io non ho e di cui tu abbondi… Ci perderemo, sarà inevitabile. Atsushi e Akutagawa non ce la faranno da soli… Avranno bisogno di te.» 

Si umettò le labbra. Era tutto così chiaro e sbagliato il futuro nelle sue previsioni. 

«E… avevi ragione, Lumaca. Sarò così stupido da farmi ammazzare dalla trappola che Fyodor ha costruito apposta per me. Se in ballo c’è Odasaku… mi si inceppa il cervello.» 

Quando aprì gli occhi, Dazai sperò di trovare quelli di Chuuya a fissarlo, a urlargli Che cazzo stai blaterando, Sgombro!?

Gli sarebbe bastato scrollarlo appena per svegliarlo, per avere un ascoltatore per quella confessione raccolta dalla vertigine della notte.

Sospirò piano, con le labbra piegate da una triste ironia. 

Se la Lumaca fosse stata sveglia, nessuna di quelle parole sarebbe esistita, non con la sincerità con cui la loro eco si stava dissipando nella stanza. Restò solo una solitudine consapevole, su una scacchiera consumata che non avrebbe dovuto conoscere colori diversi dal bianco e dal nero. 

Tuttavia, quella Regina rossa a cui Dazai sistemò i capelli dietro l’orecchio era diventata un’eccezione. E le eccezioni erano pericolose perché distraevano dal gioco, e l’ex detective non era ancora in grado di assicurare la sua incolumità. Anche se si trattava del pezzo più forte tra le sue dita, gettava su di lui il fardello di essere anche il più prezioso e il meno sacrificabile. 

Oltre la nebbia che gli impediva la sicurezza dei propri calcoli, un’altra Regina rossa - un’altra eccezione, un’altra debolezza - in mano al nemico, rischiava di tingere del colore sbagliato il campo di gioco.  

Dazai quietò quei pensieri annullando l’esigua distanza rimasta tra lui e il partner. 

Premette le labbra sulle sue con decisione e con le dita finalmente lo toccò, aggrappandosi di nuovo a quella schiena. 

Chuuya mugugnò appena, non svegliandosi del tutto, ma la sua bocca accolse quella richiesta silenziosa e lasciò spazio a Dazai per entrarvi. Il rosso cambiò posizione, girandosi supino costretto dall’insistenza del partner nel baciarlo. Aprì gli occhi confusi di sonno quando Dazai nascose il viso nell’incavo del suo collo. 

«Stupido Sgombro…» mormorò in un mezzo sbadiglio, massaggiandogli la collottola. 

«È un insulto blando stavolta, a cosa lo devo, Lumaca?» ridacchiò lui, mordicchiandogli appena la spalla. 

«Stavi sicuramente pensando troppo invece di dormire…»

Dazai si irrigidì saltando un battito, chiedendosi se, in realtà, Chuuya non lo avesse davvero ascoltato

«Ecco, vedi? Avevo ragione. Usa la notte per dormire invece di farti qualche viaggio mentale dei tuoi…» 

Dazai si rilassò buttando fuori il nervoso con una mezza risata. Chuuya fraintese e sbuffò esasperato. 

«Smettila di prendermi in giro o giuro che ti soffoco.» 

«Non abbiamo ancora provato l’asfissia erotica, penso mi potrebbe piacere…»

Fu il turno di Chuuya di irrigidirsi e Dazai ne approfittò per montargli a cavalcioni sul ventre, con un sorrisetto pieno di pessime intenzioni. Non c’era più alcuna scacchiera o nebbia, ma solo il suo partner e quel suo calore piacevole. 

Dopo un attimo di smarrimento, anche sulle labbra del rosso si dipinse un’espressione di riflesso. Le sue dita andarono a solleticare la base del collo dello Sgombro, fissandolo con una certa avidità e senza più tracce di sonno. 

«Cercherò di non ucciderti.» 

«Come se ne fossi davvero capace.»

Chuuya si sollevò per incontrarne le labbra e leccargliele, senza mai baciarlo davvero, mentre la sua mano si stringeva più decisa intorno alla sua gola. 

«Domattina ti ucciderò sicuro per l’ennesima nottata in bianco. Ma ci penserò più tardi.»



 

* * *



 

«Sei proprio sprecato per fare il terrorista…» 

La donna ridacchiò, ma il suono fu sbiadito, singhiozzante, con un fondo di follia sintetica fuori posto. 

«Con quel bel faccino che hai… potremmo andare a berci qualcosa insieme, che dici?… poi io farei cadere il bicchiere, questo si romperebbe… e zac!» rise di nuovo, mentre si contorceva sul letto, i polsi legati e fasce in cuoio a tenerle fermo il corpo. «Ti taglieresti un dito per raccogliere i cocci e io… per dovere morale e professionale… mi sentirei obbligata a curarti…»

Spalancò gli occhi, iniettati di quella stessa pazzia che aveva pizzicato le sillabe delle sue parole. 

«Ma prima di farlo ti farei provare tutto il dolore che un essere umano può sopportare!»

L’effetto della droga tornò nuovamente in circolo attraverso la flebo e Yosano Akiko si rilassò sul materasso contro la propria volontà. 

Di fianco a lei, impassibile nell’osservarla, Oda buttò la siringa nel cestino e accompagnò con lo sguardo il fluttuare delle sue ciglia, l’espandersi delle pupille, le dita che tremavano, si contraevano, per poi distendersi non potendo stringere neanche l’aria. 

«Sono giorni che ci frequentiamo ma ancora non mi hai detto come ti chiami, bel faccino…» riprese la dottoressa, stirando le labbra in un nuovo risolino ebbro. «Tu continui a essere così gentile da farmi dormire… e io non ho idea di cosa dovrò far scrivere sulla tua tomba…»

Oda continuò a ignorarla, controllandole le pulsazioni. Yosano non si diede pace, consapevole che il farmaco l’avrebbe presto intorpidita del tutto.

«E io che volevo provare a fuggire di nuovo…» borbottò con un verso di frustrazione, tentando di stringere i pugni. «Ma a te non si può nascondere niente, vero?… con quella tua abilità perfetta… sai, mi ricordi qualcuno.» 

Lo sguardo di Oda incrociò il suo, anche se le doveva risultare difficile metterlo a fuoco. La dottoressa si leccò le labbra seccate dai giorni di prigionia, ma il deperimento generale non pareva averla privata della sua macabra vena minacciosa. 

«Una volta mi hanno raccontato una storia… eravamo ubriachi, avevamo la testa leggera, ma la sensazione era mille volte più piacevole di questa» e lo disse sbuffando spossata. 

«Il protagonista veniva chiamato amico… era un mafioso di basso rango, un tuttofare che una volta faceva il postino e non uccideva, ci crederesti?… però, sembrava che fosse tanto bello parlarci… così bello da perdercisi per ore… come con le sue carezze… una bella storia, finché il protagonista non è morto… che peccato.» 

Il sorriso sul viso di Yosano era una fastidiosa scucitura che rivelava troppo di quello che l’abito cospriva. 

«Dazai mi raccontò che questo suo amico aveva i capelli rossi come i tuoi… e occhi che desideravano il mare… potresti interpretare la parte del fantasma, lo sai, bel faccino?»

Oda spostò l’attenzione sulle flebo, restando a controllarle per un tempo quasi esasperante. 

«Ehi, ti sei offeso?» lo richiamò Yosano con la voce sempre più fioca e impastata. «Se i fantasmi esistessero, Dazai potrebbe essere… felice…» 

La mano dell’uomo esitò, mentre il suo sguardo si abbassava di nuovo sul viso della dottoressa. Vide le sue palpebre diventare pesanti e osservò la droga arrivare al suo culmine con l’effetto rilassante e narcotico. 

«… ma i fantasmi tormentano… e uccidono… l’ho imparato da un vecchio medico idiota…»

Il respiro di Yosano si fece profondo e regolare. Oda le prese il mento con la mano e le spostò il viso, facendole scivolare i capelli ai lati delle guance. Non ci furono reazioni. La lasciò andare, ma restò a fissarla ancora qualche secondo. Le sue labbra restarono socchiuse, come se avesse voluto aggiungere altro, ma il narcotico l’avrebbe tenuta fuori gioco per molte ore.  

«Dazai…» pronunciò l’uomo, senza che nessuno potesse più ascoltarlo. 

Lasciò la stanza. 



 

Connessione in corso…

Connessione…

Connessione…

 

Dostoevskij - Ore 19:02 (Francia)

 

19:02:34 ─ Ciao Sakunosuke, non dormi?

Nel video, proiettato su un portatile di stampo militare, incassato in una valigetta, Dostoevskij era seduto sul letto della sua cella a Meursault. Alcuni libri erano di fianco a lui, uno in mano. Sorrise alla pagina che aveva davanti come avrebbe fatto a un amico. 

Oda attivò l’auricolare che si era sistemato nell’orecchio, mentre prendeva un sorso di whiskey dal bicchiere. Fuori, dalla piccola finestra alle sue spalle, aleggiava l’aria notturna delle due di notte. 

«Non ho sonno. Più tardi devo uscire» replicò in un russo privo di accento. 

L’uomo imprigionato sembrò trovare la cosa buffa, mentre scorreva le dita sulle righe del libro. La chat a lato del video si riempì di parole in russo in risposta.

19:03:11 ─ Ho saputo che non ti stanno più organizzando grandi comitati di benvenuto come prima. La Port Mafia sta rivalutando le proprie risorse umane, presumo. 

L’uomo rimescolò con decisione il proprio drink osservando il liquido ambrato lambire le pareti di vetro, ma senza mai versarsarne una goccia. 

«Mi stanno lasciando vagire

Nel video, Dostoevskij si premette il libro contro la bocca, soffocando quella che sembrò a tutti gli effetti una risata improvvisa. Oda aggrottò la fronte, per poi ripensare a ciò che aveva detto. 

«Ho sbagliato pronuncia?» e c’era una nota che stonava con la sua impassibilità, suonando vagamente divertita. 

19:04:03 ─ Sei fuori allenamento. Immagino che le conversazioni con Gogol’ si limitino alle minacce. Hai smesso di leggere? 

«Non è la lettura che mi manca.»

Dostoevskij si ricompose, tornando ad avere un’espressione placida, impenetrabile, mentre sfogliava il libro.

19:04:43 ─ Il piano sta procedendo. Ancora un po’ di tempo e potrai venire a prendermi. Ma prima la farsa di Red Hood dovrà raggiungere il suo picco.

«Tra tre giorni attaccherò il palazzo della Port Mafia. So che Dazai Osamu mi sta aspettando.»

Fu una verità scomoda e ingombrante, ma allo stesso tempo inconsistente. Riempì il virtuale spazio tra di loro come un gas inodore e incolore, i cui effetti, tuttavia, perdurarono nel tempo come un prurito sulla pelle. 

Gli occhi del russo si fissarono su una riga, insieme al dito che solitamente scorreva tra le parole. Dopo qualche secondo chiuse il libro, lo appoggiò di lato con delicatezza e ne prese un altro, ma lo lasciò sulle gambe, senza aprirlo. 

«Che genere di trappola dovrò aspettarmi?» continuò Oda, spezzando quel sospeso.

Il prigioniero aprì il libro a una pagina a caso. La sua espressione era imperscrutabile, senza alcun risolino poggiato sopra. 

19:06:23 ─ La Port Mafia è la sua casa. Dazai Osamu avrà preparato trappole per tutti. Per alleati e nemici. 

«Quello che faresti anche tu.»

19:06:39 ─ Quello che farei io, eh?

Le dita del russo si mossero sulla pagina come le zampe di un ragno, senza fretta, ma inesorabili. 

19:06:59 ─ Sakunosuke, cosa provi quando hai davanti Dazai Osamu? 

Oda non rispose, non subito. Abbandonò il bicchiere col whiskey sul tavolino, ma restò a fissarlo. Il sapore era amaro, ammorbidiva i suoi sensi con qualcosa di conosciuto, tuttavia non bastava al suo palato, mancava qualcosa di inafferrabile a fargli da contorno e gustarlo appieno.

«Mi da noia» iniziò, saggiando quelle parole e mischiandole al sapore dell’alcolico. Con una mano, sovrappensiero, si massaggiò la spalla dove l’ex detective l’aveva pugnalato al Porto Vecchio. «Continua a intromettersi e a chiamarmi Odasaku. Ho fallito con l’ucciderlo quando potevo e ora gli ordini sono cambiati. È davvero così importante catturarlo vivo?»

19:07:14 ─ La sua abilità è unica. O meglio, la più simile alla sua è fuggita ai nostri benefattori e ora vogliono Dazai. E noi non vogliamo inimicarceli.   

Oda spostò lo sguardo al video con la fronte corrucciata, come se avesse avuto davanti Dostoevskij stesso. 

«Tu sei d’accordo?»

19:08:09 ─ Pensi che lo sia? Gli affari li conduce Kamui, a me non interessa. 

Le unghie dell’uomo in cella graffiarono la pagina del libro.

19:08:18 ─ Quando avremo il Libro, i desideri puerili degli uomini saranno ridimensionati. L’uomo è servo di se stesso e del proprio egoismo. Dazai Osamu non è diverso, Sakunosuke. Le persone che lo circondano sono i suoi burattini, e lui o li rompe o li abbandona. Hai visto cosa ha fatto fare alla sua Bestia, portandola quasi a morire. O come ha gettato via i suoi compagni dell’Agenzia. 

Le dita di Oda si strinsero a pugno, per poi rilassarsi e afferrare di nuovo il bicchiere di whiskey. 

«Hai detto che il sangue di Dazai Osamu è nero…»

19:09:07 ─ Da prima ancora che Mori Ougai lo raccogliesse come suo protetto e lo plasmasse. Ciò che le mani di Dazai raggiungono finisce perso… come è successo con te, Sakunosuke. 

Oda ci rifletté per qualche lungo secondo. Nella sua mente c’erano solo stanze buie.

«Hai detto che ero importante per lui.» 

19:09:32 ─ Lo eri, sì. Avrebbe potuto salvarti la vita e impedire che Mori Ougai ti usasse come pedina nella propria scalata al potere, ma non l’ha fatto. 

Il resto del discorso era una storia già raccontata. Non ci furono risposte. 

Lì nella sua cella, Dostoevskij sospirò piano, condiscendente - mefistofelico - continuando a guardare le righe del proprio libro. 

19:11:17  ─ Il pensiero di Dazai Osamu ti tormenta? 

«No» replicò secco Oda, terminando il whiskey e passandosi il pollice sulle labbra. «È un lavoro, sono stato addestrato per questo. Chiunque lui conoscesse, io non sono Odasaku.»

Il nome vibrò nella stanza con un suono pieno di speranze, ma morì nell’essere ascoltato dalle uniche due persone a cui non importava niente. 




To be continued. 



Penso sia il capitolo più lungo che abbia mai scritto di questa storia? Non lo so, è interminabile, succede di tutto e tutto in 24 ore praticamente. 
C'è qualche vago accenno/spoilerino alla nuova light novel (The Day I Picked Up Dazai), ma proprio una cosa sola...! Plus FINALMENTE ci sono Dostoevskij e Odasaku. Che ne pensate? Non tiratemi nulla, ahah. 
Ci sarebbero così tante cose da dire, ma è tardi...! T_T 
Fatemi sapere che ne pensate! 
Mi trovate su ig: @nolongerflawless.fanfic! 
Buonanotte!


Prossimo capitolo → Minutes to midnight


 
   
 
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