When the time will come
Fake smiles
«Jungkook, smettila di tossire, guarda che così ci
distrai e basta!» Jimin urlò dall’altra parte della sala prove, il viso madido
di sudore, i capelli umidi attaccati alla fronte. Raggiunse l’amico di corsa,
schiantandosi a terra scivolando sul pavimento, come suo solito. Rideva, così
come stava ridendo Jungkook della figuraccia a cui ormai era abituato.
«Ma cosa ridi! Avrei potuto farmi male davvero, uffa! Comunque… è bello
sentirti così, sai? Sembra tu stia meglio.»
L’altro guardò Jimin negli occhi, prima di sprofondare in attimi di lenta
amarezza e tornando poi a sorridere malinconico. «Sì, dai. Questa tosse però non
se ne va, mi sto annoiando a lavorare meno del solito.» Jungkook alzò lo
sguardo in direzione dei colleghi impegnati a ripassare l’ultima parte di una
coreografia lenta, emotiva, conciliante. Cercava di non ripensare agli ultimi
giorni, all’allontanamento graduale da Jin, alle lacrime versate sulla
maglietta blu del pigiama di Jimin qualche sera prima: si stava impegnando,
sorrideva un po’ più spesso, concentrandosi sulla composizione di qualche testo.
Appoggiato alla parete di specchi all’angolo opposto degli amici, impegnati ad
esercitarsi sui passi da perfezionare, teneva stretto a sé il quaderno su cui
stava riversando le idee: scriveva, riempiva i fogli di inchiostro, concentrato
quel tanto da fermarsi ogni manciata di minuti a causa della base musicale
avviata ad alto volume nello stanzone. Ci avrebbe rinunciato anche stavolta,
pensò, lanciando a un paio di metri da sé il blocco e relativa penna.
«Posso?» Jimin allungò lo sguardo sull’oggetto maltrattato tentando di
recuperarlo con le piccole dita.
D’istinto Jungkook strattonò l’altro verso di sé, rovesciandoselo addosso in
una breve sequela di imprecazioni: aveva sbattuto la testa sull’ultima lastra
trasparente, un tonfo sordo che s’era propagato per tutta la stanza attirando
l’attenzione dei presenti.
I ballerini si bloccarono focalizzandosi sui due, mostrando reazioni differenti
pennellate sui volti accaldati. Taehyung si stupì della scena, scoppiando a
ridere subito dopo in una sonora smorfia ilare; Yoongi, sfiancato più che mai
dalle ultime due ore si passò il dorso della mano sul volto, scostando la
frangia scura, la fronte corrugata in direzione di Jin.
Impassibile.
Fermo.
Bloccato, anzi. Gli occhi di quest’ultimo erano incastrati sulla scena; non
batteva neppure un ciglio.
«Jin?» osò chiedere Yoongi, «tutto bene?»
L’altro non rispose, non c’era da stupirsene in fondo: Jimin era incastrato a
forbice sul corpo di Jungkook, e non s’era nemmeno alzato, i due a guardarsi
per una serie di interminabili secondi. Jin sentiva mordere qualcosa fin dentro
le viscere, mordere fino a fargli desiderare di urlare “ma che cazzo state
facendo?” Aveva frenato l’impulso di staccarli uno dall’altro e scaraventarli
ai due punti più lontani della sala, impedendo quel contatto decisamente
ambiguo. Il bisogno di andare lì e smuoverli di propria iniziativa era
imperante.
«Levati.»
Glaciale.
Jin strattonò Jimin facendo affidamento sui centimetri in più di altezza e
sulle spalle ben più larghe, lavorando di leva e trascinandolo via dal giovane,
inerme quanto sorpreso. L’unica cosa che uscì dalle labbra del ragazzo fu uno
sbuffo confuso, accompagnato da uno sguardo altrettanto spaesato.
«Cosa…?» non era riuscito a dire altro. Che Jin fosse più fisico del solito era
un dato di fatto, che lo fosse con tutti tranne che con lui… era demotivante.
«Non intrometterti.» Le pupille dilatate di Jin intimarono a Jungkook ancora
sdraiato a terra di stare buono. «E tu, Jimin, stai più attento la prossima
volta.» Jin mascherò l’impulso di urlargli contro di non toccarlo – non toccarglielo.
«Potevate farvi male entrambi.»
Tentativo patetico di nascondere la gelosia che gli stava mangiando le pareti
dello stomaco come una gastrite in fase acuta. Voltò un’ultima volta il capo in
direzione di Jungkook, rabbuiato: non disse nulla.
Per lui la lezione era finita.
«Si può sapere che ti prende?» Yoongi aspettava l’arrivo di Jin fermo sullo
stipite della porta d’ingresso allo spogliatoio, ma il ragazzo non era ancora
uscito dalla doccia: gocce di acqua tiepida ricadevano sulle piastrelle azzurre
del pavimento del bagno comune, mentre la sua fronte era ancora poggiata alla
parete. Non ci poteva credere, cosa gli era passato per la testa? Un gesto
tanto plateale, impulsivo, in una situazione simile era stato soltanto dannoso:
sperava in cuor suo di aver sviato l’attenzione fingendo una preoccupazione che
in quel momento non gli apparteneva, ma Yoongi era sempre stato attento e
riflessivo, aveva il raro dono di riuscire a leggere tra le righe di azioni e
reazioni, e non fidarsi delle parole.
Un’arma a doppio taglio la sua, un’arma puntata su Jin, nudo, sigillato dietro
quell’asse di plexiglass bianco opaco a dividerli.
«Devo parlarti.»
Il suono umido di un colpo su una piastrella bagnata fu l’unica risposta.
«Se fai così ti spacchi le nocche, lo sai?»
Jin inspirò ad occhi chiusi contando lo scorrere dei secondi sperando in un
silenzio di cui aveva assoluto bisogno.
«Jimin gli è solo caduto addosso, non capisco proprio tutto questo astio.»
«Poteva farsi male, potevano sul serio farsi male.» Le fughe bianche parevano
uno spettacolo degno d’attenzione.
«Smettila, sei imbarazzante. Quanto credi faccia bene a Jungkook vederti
trattare così chiunque gli si avvicini? Con quale diritto, poi?»
Con quale diritto.
Nessun diritto, effettivamente.
«Lasciami in pace.»
«Ti dà fastidio venga toccato? Siamo i suoi colleghi, è normale ci sia contatto
fisico tra noi, anche se lo trovo una pratica non apprezzabile. Loro sono
sempre stati ottimi amici, qual è la differenza?»
Nessuna.
Nessuna, rispetto a quasi due settimane prima, quando tutto era ancora normale,
quando nessuno aveva ancora parlato, quando i suoi sentimenti erano
imprigionati nella gabbia di un’emotività troppo aderente ad un futuro pericolosamente
vicino.
«Jin, qual è la differenza?» Yoongi spostò spazientito il peso da un piede
all’altro, le braccia incrociate sulla maglietta con cui s’era allenato, i
pantaloncini aspettavano soltanto di essere levati e buttati in lavatrice;
voleva concludere prima il discorso per poi spogliarsi, lavarsi e sciacquare
via finalmente la stanchezza della giornata. «Non vuoi rispondere, vedo. Sappi
che Taehyung ha visto Jungkook piangere tra le braccia di Jimin. Naturalmente
ho dovuto estorcergli le parole di bocca, perché lui è l’unico stupido che si
sente in colpa per quello che ha fatto. Per la cronaca, sono stato io a
convincerlo a registrarti, altrimenti staresti ancora adesso a soffocarti con i
tuoi stessi sentimenti.»
Il divisore si spalancò, un corpo incurante della propria nudità si avvicinò
rapido. «Cosa hai detto?»
«Hai sentito benissimo. Fossi in te, terrei gli occhi aperti. Hai scelto di
allontanarlo, e puoi avere tutte le ragioni che vuoi, ma sappi che non è tua
proprietà. Fa che non diventi quella di qualcun altro, prima o poi. Ora vado, e
copriti prima che arrivino gli altri.»
Jin raccattò un asciugamano, il profumo di ammorbidente a mischiarsi a quello
del docciaschiuma creava una strana fragranza contrastante; lo legò in vita
prima di raggiungere lo stipetto con il cambio dei vestiti, lasciandosi cadere
sulla panca in legno dello spogliatoio. “Cosa cazzo intendeva dire?”
«Jungkook, sono io, posso entrare?»
Jimin bussò un paio di volte prima di procedere verso la camera: quando avvertì
una parola di assenso si accomodò, constatando con piacere come il disordine
dei giorni scorsi stava lasciando spazio a un concentrato tentativo di
risistemazione.
«Scusami, stavo pulendo.» Jungkook lasciò la scopa in un angolo, stiracchiando
la schiena e allungando le braccia in direzione del soffitto. «Sono stufo di
tutto questo casino. È ora di sistemare.»
«Sei tanto nervoso?»
L’amico aveva imparato a riconoscere i chiari segnali del nervosismo
dell’altro, dopo tutti quegli anni di convivenza. Nulla di più efficace per
costringerlo a sistemare maniacalmente ogni angolo della propria stanza.
«Dai, siediti, parliamone se vuoi. E non voglio sentire storie, so che hai
bisogno di sfogarti.»
Jungkook sospirò lasciando lo straccio intriso di sottile polvere sul mobiletto
adiacente al letto.
«Vieni qui e raccontami cosa ti gira per la testa.»
«Hai visto come ti ha trattato?» Inspirò il ragazzo, sbuffando spazientito.
«Chi, Jin? Ah, lascialo stare, era solo preoccupato per te.» Preoccupato non
era certo la parola che avrebbe voluto dire davvero, incazzato nero sarebbe
stata un’espressione più efficace ma preferiva non infierire sulla faccenda.
«Non ti sembrava… ecco, più infastidito del solito? Molto di più, intendo.» Il
moro intanto giocherellava con gli anelli che indossava sempre, facendoli
tintinnare, cozzare l’uno con l’altro, cambiandone posizione continuamente.
Jimin poggiò le proprie mani sulle sue ad interrompere gesti meccanici rapidi e
inconcludenti.
«Calmati, dai.»
«Secondo te potrebbe essere gelosia?»
Una domanda più che lecita. Jimin voleva soppesare le parole considerando che quel
tipo di reazioni avrebbe potuto dare speranze, e forse l’amico ora non aveva
bisogno di quel genere di sicurezze con basi tanto traballanti.
«No, non credo. Ti sono caduto addosso e hai battuto la testa contro un vetro
spesso come un mio mezzo dito. Chiunque avrebbe reagito. Sei un po’ più
convinto?»
Il monosillabo incerto fu l’unica risposta. Jungkook riprese a giocare con le
proprie dita, martoriandosi le pellicine con le unghie. Il gesto precedente
venne ripetuto, Jimin lo fermò dal continuare a torturarsi sottilmente.
«Dovresti staccare la testa e non pensarci, secondo me.»
«È che da quando, beh, sì, lo sai… da quando se n’è andato non viene più a
trovarmi oltre l’orario di lavoro, e mi manca. Ah, Jimin, lascia stare, sono
soltanto uno stupido che crede ancora a qualcosa che viene smentito ogni giorno.
Sono, sono… non so proprio quale parola potrei usare… »
Jimin si allungò su di lui stringendolo a sé, aggrappandosi al tessuto di
cotone a macchie colorate all’altezza delle scapole, affondando il volto contro
lo sterno: lo faceva soffrire vederlo in quelle condizioni, era davvero difficile
rapportarsi a qualcuno che era sempre stato capace di sorridere per poi
dimenticarsi come farlo. Sapeva di aver parte della colpa, ma non negò a se stesso di star odiando Jin e il suo atteggiamento
controverso. Jungkook meritava ogni singolo buon sentimento possibile, meritava
di essere felice, di ridere, di vivere di quella serenità che il ragazzo di cui
era innamorato non era capace di donargli al momento. Strinse più forte,
sussurrando quanto potesse dispiacergli di ogni cosa.
È colpa tua. Se solo tu fossi stato a casa a farti i fatti suoi, ora
continuerebbe a stare bene, ignaro di tutto. Sei orribile. La sua coscienza
stava giocando sporco. Un fremito lo colpì dritto in mezzo alle vertebre.
L’altro lo prese per le spalle, controllando stesse bene: le iridi lucide di
Jimin si nascosero dietro alle palpebre serrate con violenza.
Tua e di Jin, lui più di tutti. È colpa vostra.
Non fosse per lui, Jungkook starebbe bene. Avrebbe voluto fermare quei pensieri invasivi e opprimenti, ma non
riusciva a negarne il contenuto.
Il volto dell’amico a pochi centimetri.
«Tutto bene?»
No, non va bene, avrebbe voluto dirglielo, dirgli quanto la sua vicinanza fosse
eccessiva, quanto lo spazio vitale ormai divorato dall’amico fosse inutile.
Avrebbe voluto dirgli di allontanarsi, di lasciare perdere tutto, di pensare a
sé stesso.
Di pensarmi.
E di cercare di guarire presto, non
solo nel fisico, dando modo all’emotività e al resto di trovare un equilibrio.
Pensami, Jungkook.
Di riprendere a lavorare con la testa sgombra, il petto leggero.
Di ricordare che Jin sarebbe partito entro breve.
E io invece resto.
Si alzò sorridendo improvvisato, sciogliendo l’abbraccio di malavoglia e
scostandosi dall’apprensione forse eccessiva. Il volto troppo vicino, il corpo
attaccato al suo.
Le lacrime viste e sentite addosso.
I singhiozzi non trattenuti, il cuore a sgretolarsi ogni volta di più.
E io invece… resto.