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Autore: settembre17    11/03/2022    18 recensioni
Questa è dura e dolorosa. E triste. Ma ha un suo senso.
Di Oscar il lato più inquieto.
Di André il lato più rassicurante.
Di Rosalie il lato più cupo.
Di Bernard il lato più razionale.
Di Alain il lato più umano.
Una storia in quattro tempi, slegati dal punto di vista narrativo, ma uniti fortemente da un unico tema.
Genere: Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alain de Soisson, André Grandier, Bernard Chatelet, Oscar François de Jarjayes, Rosalie Lamorlière
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Le parole sono finite
(o Della vendetta)


 
Parte I
Il tempo delle parole

“Sei qui… preferisci restare sola?” Lei è sdraiata nell’erba di una grande aiola del parco, il volto illuminato dalla luce della luna e delle stelle sorte da poco.
“No, no, André.” Lui si siede lì vicino, nello spazio delle loro parole.
 
Era il tempo in cui certe frasi potevano essere dette, il tempo in cui parlavano con spontaneità. E il fatto che già si amassero era un sottinteso che ancora non conoscevano. Nemmeno lui lo conosceva, anche se in alcuni momenti gli era capitato di essere trafitto da sprazzi di una paurosa consapevolezza.
Così si dicevano ancora, in quel tempo, frasi che un giorno non avrebbero più lasciato uscire dal cuore con tanta facilità.
 
“Hai paura per domani?” Lui è il solo che glielo può chiedere.
“No, non ho paura… o invece… sì, ho paura.” Lui è il solo a cui può rispondere con la verità.
E in quella sera che si allunga verso la notte, al chiarore delle stelle che lasciano intravedere il profilo austero del palazzo alle spalle del profilo pensieroso e un po’ preoccupato di lei, lui ritorna ad essere solo André, non più l’attendente del capitano Oscar François de Jarjayes.
“Sei la persona più forte che conosca, Oscar.”
Lei fa un mezzo sorriso, ricorda che lui le ha già detto quella frase un’altra volta. Sdraiati in un altro prato dopo aver fatto a botte.
Ora invece c’è un duello che la attende.
Ma lui non è lì per ricordarle quel duello: lui deve portare via i pensieri di lei da quel vortice che la risucchia e la ghiaccia, dall’immagine di quel braccio steso che termina con una pistola che spara fuori un proiettile nella schiena di un bambino.
Un bambino… il pensiero di lui corre a due bambini che giocano.
“Quando avevi sette anni hai seppellito un tesoro sotto quella quercia, te lo ricordi?” e mentre formula la frase, velocissima una visione repellente lo assale a tradimento: una macchia rossa di sangue che si allarga sulla schiena di lei china a seppellire il suo tesoro… La caccia via con un brivido che gli scuote le spalle.
Lei sbatte le palpebre e dal fondo delle sue meditazioni torna lì con lui:
“Me ne ero dimenticata… Una trottola, un coltellino con il manico rosso…”
Entrambi guardano le radici nodose della quercia che sbucano tra l’erba e un poco sorridono. 
“Andiamo a dormire, Oscar”, lo dice piano, con premura. Se un estraneo lo sentisse penserebbe che dormano insieme, loro due.
Ma lei è ancora lì, a fissare la quercia.
“Il tesoro che ho seppellito. La trottola, il coltellino. Voglio che li abbia tu, se domani dovesse succedermi qualcosa, André.” Se un estraneo la sentisse penserebbe che lei gli stia donando il suo cuore.
Lui non dice niente: non può rassicurarla, non può escludere un esito negativo del duello e non vuole nemmeno sminuire quel dono tutto per lui. Una trottola e un coltellino dal manico rosso: sono tuoi, André Grandier.
Lei intanto si è alzata:
“Sì, è meglio andare a dormire” dice avviandosi verso il vialetto.
Ma dopo un paio di passi si ferma.
“André.”
“Sì?”
“Se non ci fossi stato tu, l’altro giorno, a trattenermi… io avrei ucciso il duca di Germain.”
Lui è ancora seduto e rimane in silenzio. È vero: lei l’avrebbe ucciso.
“Mi hai spaventato in quel momento, Oscar. Ho pensato che avresti fatto una pazzia.”
“E l’avrei fatta. Non riesco a smettere di pensare a quel bambino…” si porta un pugno alla fronte e chiude con forza gli occhi per scacciare quel ricordo, quell’immagine.
Lui accarezza con la mano l’erba e la lascia proseguire:
“Vedere la vita che si trasforma in morte. Vederlo in un bambino, André. È insopportabile, insostenibile.”
“Lo so.”
“Come hai fatto a trattenerti, André? Non ribolliva anche a te il sangue?” Lo guarda con gli occhi spalancati, alla ricerca di una risposta definitiva che però non c’è. Lui si alza e, per frenare l’istinto di accarezzarla, mette le mani in tasca fissando il cielo.
“Ho pensato prima a te. O forse non ho nemmeno pensato e ho solo reagito a quello che vedevo. E vedevo te, Oscar. Ti vedevo uccidere un duca.”
“Come può un uomo convivere con la sua coscienza dopo aver compiuto un simile gesto?”, lei aveva indurito lo sguardo.
“Non lo so.”
“Io non voglio uccidere il duca, André. Io non voglio uccidere nessuno. Ma non riesco, non riesco a pensare che quell’uomo non paghi per quello che ha fatto. Che il sangue di quel bambino imbratti quella strada mentre il duca va a passeggio con la sua bella reputazione pulita…”
“Ora grazie a te molti sanno che quella reputazione non è poi così pulita…”
“André, so che la vendetta non è una forma di giustizia. Ma non riesco a sentirmi nel torto… Dimmelo, André, da dove nasce la furia che mi ha investito quel giorno? O l’altra sera al tavolo da gioco, quando non mi sono trattenuta di fronte al duca? Da dove nasce quella furia? Dimmelo tu, André…”
“Nasce dall’ingiustizia subita, Oscar.”
Anche lui ora indurisce lo sguardo, lui conosce bene le ingiustizie del suo tempo. Ma poi ricorda a sé stesso che non può permettersi certi pensieri, che a dispetto delle sue convinzioni il suo compito è un altro, così torna da lei:
“Sei stanca e giustamente preoccupata. Su, andiamo a dormire.”
“Sì, grazie, André.”
“E di che cosa?” vorrebbe stringerle la mano, ma è un gesto che non si può più permettere.
Allora fa quella cosa che sa che a lei piace, quella cosa che lei silenziosamente gli lascia fare quando ha bisogno di sentire un po’ di caldo nel cuore: si avviano verso casa, lui cammina solo mezzo passo dietro di lei, leggermente di lato, il piede sinistro di lui calpesta l’impronta che il piede destro di lei ha appena lasciato sulla ghiaia. Camminano senza fretta, in modo che il lieve ondeggiare dei passi porti impercettibilmente la spalla di lei contro lo sterno di lui. Poco, solo uno sfiorarsi.
Poi arrivati allo scalone si salutano con uno sguardo.
Un piccolo sorriso, la certezza di non aver bisogno di altre parole.
 
Parte II
Il tempo dei silenzi

La brezza del mare arrivava fino al terrazzino dove la colazione si stava prolungando più del solito. Rosalie si era appena allontanata, “vado a cavalcare fino alla spiaggia”, aveva detto con uno sguardo cupo e concentrato, e loro stavano in silenzio, ognuno avvolto nei propri pensieri.
Nemmeno quella vacanza aveva alleggerito del tutto la tensione che ormai entrambi respiravano quando stavano da soli.
Cavalcare e camminare di giorno, leggere fino a tardi la sera: condividere ogni momento della giornata, ma sempre più spesso nel silenzio. Il silenzio di lui che non vuole invadere i suoi pensieri; il silenzio di lei, così indecifrabile.
 
Lui, seduto di fianco a lei, teneva una mano in tasca e con l’altra torturava quello che avanzava di una fetta di pane tostato sbriciolandola su un tovagliolo, i polpastrelli che sfregavano uno contro l’altro, gli occhi che fuggivano lontano dall’espressione assorta di lei. Lei che non la smetteva di fissare la linea dell’orizzonte segnata dal mare, lei che da quel mare aspettava un regalo, lei che sognava un eroe di guerra e non un attendente che sbriciola il pane.
Era sempre più difficile per André reggere il confronto con il conte svedese, da quando quello era partito aveva lasciato in Francia un’immagine di sé contro la quale era impossibile combattere. Aggrottò le sopracciglia e seguì con lo sguardo il percorso incerto ma determinato di una formica che portava una briciola.
Lei stava davvero fissando l’orizzonte, stava davvero pensando a un altro uomo. Ma quel giorno stava anche facendo un grande sforzo per capire in che cosa consistesse davvero l’eroismo di Fersen, forse per la prima volta lo stava mettendo in discussione: che senso aveva che fosse andato a combattere, magari a morire, in una guerra di cui in realtà non gli importava nulla? Guardava la linea blu dell’orizzonte e si chiedeva il senso. Il senso di andarsene in guerra così, come se la guerra fosse una distrazione, come se rischiare di essere perforati da proiettili o fatti a brani dai cannoni non avesse alcun legame con la ragione per cui si corre quel rischio. No, quel giorno Fersen non le piaceva. Improvviso, la attraversò un pensiero di cui suo padre non sarebbe stato fiero: lei non avrebbe mai voluto morire perforata da chissà quanti proiettili combattendo per obbedienza al re e senza chiedersi il senso del suo combattere. Poi si diede della sciocca: “Ma cosa vado a pensare, stamattina? Certo che obbedirò agli ordini di Sua Maestà! Alla politica il discutere e il decidere, all’esercito l’obbedire e il combattere…”
Aggrottò le sopracciglia e guardò di sfuggita André: si sentì immediatamente meglio.
Era bello sapere di averlo lì, vicino, al sicuro, lontano da cannoni e da nemici armati.
Era bello stare lì, con André.
 
Poi lui ruppe il silenzio.
“Ho visto che hai tirato fuori di nuovo l’Eneide, Oscar.”
“Sì… stavo cercando… ho riletto il finale ieri.”
E lei tacque, dando a lui il tempo di colmare i vuoti di quella frase laconica, di ricomporre nella memoria quei terrificanti versi finali e insieme ad essi di ricostruire la linea tortuosa dei suoi pensieri.
In quella manciata di versi Enea, l’eroe in cui si sono immedesimati, l’eroe di cui per dodici libri hanno letto con stupore le rinunce e la determinazione ad assolvere un compito per il quale ha sacrificato sé stesso, i suoi sogni e i suoi desideri di uomo, in quei versi quell’eroe sovrasta con tutto il corpo Turno, il nemico sconfitto che ora a terra chiede pietà, che lo supplica, che implora clemenza.
E quell’eroe, quell’eroe che lei e lui hanno amato e di cui hanno ammirato la capacità di fare sempre scelte giuste anche se spesso le scelte giuste sono quelle più dolorose, in quei terrificanti versi finali quell’eroe abbassa la spada, per un attimo, forse convinto a non spargere altro sangue.
Arrivati a quel punto, la prima volta che lui e lei, due ragazzini ancora, l’avevano letto, avevano alzato la testa e si erano guardati con un sorriso di intesa, “Hai visto? Ha abbassato la spada!”, e poi avevano proseguito la lettura. Mancava solo una decina di versi.
E invece.
E invece succede che, subito dopo aver abbassato la sua spada, quell’eroe vede: il suo nemico indossa un oggetto che ha strappato come trofeo di guerra a un ragazzino che ha ucciso, un ragazzino al quale quell’eroe voleva molto bene. E allora quell’eroe, quello che si è portato sulle spalle il papà pur di salvarlo da una città in fiamme, quello che ha sepolto compagni e amici, quello che vuole solo trovare la pace e una terra in cui vivere con suo figlio, quell’eroe, il loro amato Enea, nel vedere quell’oggetto, nel ricordare quel ragazzino morto, ammazza senza pietà il suo nemico. “Gli immerge la spada nel petto”. E l’anima di Turno vola tra le ombre dei morti.
Fine.
Fine del poema.
La prima volta che avevano letto quel finale, lei e lui si erano guardati sgomenti. Ma finisce così? Davvero finisce così? C’era qualcosa da imparare da quel finale? Che cosa? Non capivano.
 
Allora lui, dopo che ebbe ricomposto tutto il filo dei ragionamenti di lei, disse:
“Stai pensando a Rosalie, vero?”
“Era talmente determinata ad uccidere quella donna, André. Ho davvero temuto che commettesse una pazzia quella notte…”
Lui, che in quei giorni che ora gli sembrano lontani aveva condiviso la stessa paura, la osservò con tenerezza senza che lei se ne accorgesse, poi spostò lo sguardo avanti, verso le dune di sabbia:
“Il nemico di Enea chiede pietà, ormai è a terra, vinto. E dichiara la resa perché non vuole morire.”
“Già, non vuole morire…” Risente l’urlo della contessa che si perde nell’oscurità del bosco, mentre lei scappa e le fiamme avvampano vicino alla carrozza.
“Enea pare cedere alla compassione, vero? Ma poi…”
“Poi vede che Turno indossa quella maledetta cintura, la cintura del suo amico Pallante e allora…”
“Rosalie si è fermata, Oscar. Stava per sparare ma non l’ha fatto.”
“Sì, ma vedi come è ancora inquieta… E quella sera aveva quegli occhi, André… io quegli occhi non li dimenticherò mai. So che lei non ucciderà la contessa di Polignac, ma a tratti mi sembra di vedere in lei la stessa rabbia, talvolta addirittura il rimpianto di non essere riuscita a fare giustizia per la madre che l’ha allevata… Che cos’è quella furia omicida? Da dove nasce, André?”
Ricordò che gliel’aveva già fatta quella domanda, un giorno lontano in cui volersi bene era facile come respirare.
“Nasce dall’ingiustizia subita, Oscar…” Sì, lei ricordava quella risposta.
Ma lei capì che lui non aveva terminato la frase, così attese.
“… e nasce dall’amore...” lo disse piano, quasi a sé stesso.
Lei lasciò cadere il silenzio, quella parola la turbava. L’aveva sempre turbata, era una parola che non sapeva gestire. Soprattutto davanti a lui, scoprì all’improvviso.
Allora lui, che aveva capito di aver usato una parola tra loro ormai proibita, si alzò, le diede le spalle perché lei potesse non incrociare il suo sguardo e tornò al punto:
“Rosalie ha visto la donna che ha amato come una madre morire, uccisa da una donna che mai pagherà le conseguenze di quello che ha fatto. Anche tu una volta hai provato che cosa significa…
“Sì, il duello con il duca di Germain…”
“Ma, Oscar, Rosalie non è un’assassina.”
Così la guardò con amore e con comprensione, lui sapeva quanto lei si preoccupasse per Rosalie e quanto fosse difficile per lei accettare che la Contessa di Polignac percorresse a testa alta i corridoi di Versailles dopo aver ucciso una donna senza provare per questo il minimo rimorso. Lui lo sapeva. E allora raccolse tutta quella confusione, tutta quella inquietudine in un sorriso:
“La raggiungiamo? Scommetto che si è persa!”
“Sì, andiamo, è bellissimo cavalcare a quest’ora” quasi stava per aggiungere “insieme”, ma poi una strana forma di pudore la trattenne.
 
Parte III
Il tempo del rimorso

Sta calando la sera e lei è nella sua camera, seduta di fronte al pianoforte chiuso. Sta cercando di mettere in ordine la sua vita, ma si accorge che tutto è cambiato per sempre, ormai.
Ha paura.
Ha paura di sé stessa.
Da quando nel pomeriggio in camera di André ha sentito le parole del dottore e poi quando ha avuto quella reazione istintiva e feroce… Vorrebbe dare la colpa di tutto a Bernard, al Cavaliere nero, ma nel suo personale processo sul banco degli imputati c’è solo lei.
Anche al tavolo dell’accusa c’è lei. C’è una lei che punta il dito:
“Perché hai agito da sola?”
Silenzio.
“Perché non hai avvisato almeno il tuo secondo?”
Silenzio.
“Perché non hai aspettato qualche giorno prima di andare al Palais Royal?”
Silenzio.
“Che cosa avresti fatto se lui non fosse venuto a salvarti?”
Silenzio. E una lacrima.
“Perché hai detto alla nonna dove andavi?”
Silenzio. Un’altra lacrima.
“Volevi che lui lo sapesse?”
Silenzio. Ancora lacrime.
“Che cosa ti aspettavi che facesse lui, una volta saputo che non eri a casa?”
Silenzio. Ancora lacrime.
“Perché non l’hai detto a Girodelle?”
Silenzio. E lacrime.
Infine la sentenza: “La sua cecità è colpa tua.”
Si tiene la testa tra le mani e le sembra di impazzire. Lo immagina al piano di sotto, nella sua stanza, bendato, stordito dal laudano. Non vedrà più i suoi occhi. Le viene in mente lo sguardo di lui, una sera di pioggia, mentre cavalcano vicini dopo che lui le ha appena appoggiato un mantello sulle spalle. Non li vedrà più quegli occhi.
 
E dopo che con un movimento secco e infastidito ha spostato indietro lo sgabello del pianoforte, si alza e si avvia verso il letto. Ma non ci si butterà sopra vestita, aspettando che il torpore scenda sulle sue palpebre, non fisserà una qualunque piega nel tessuto del baldacchino fino a che sentirà il sonno impadronirsi di lei. No, farà tutto per bene: darà ordine ai suoi movimenti, esattezza ai suoi gesti, pulizia al suo corpo.
Così si spoglia piano, appoggia bene la giacca al manichino, la camicia, ripiegata in due, di traverso sul bordo di una poltroncina vicino al letto e sopra i pantaloni, lisciati perché non facciano pieghe, arrotola le calze alle caviglie e poi le sfila, le pareggia una all’altra e le sistema sul bracciolo di una sedia vicino alle scarpe che ha lasciato sul tappeto contro il muro. Rabbrividisce un po’. Infila la lunga camicia da notte facendo uscire dallo scollo la lunghezza dei capelli, aggiusta le ruches sul davanti, raddrizza le maniche e sistema i polsini. Poi, dopo la sosta dietro al paravento, si sciacqua le mani con cura, prende la cenere di rosmarino per pulirsi i denti, infine si spazzola con lenta precisione i capelli, una ciocca alla volta.
E mentre fa tutto questo, pensa solo al movimento che sta compiendo, ringraziando la disciplina militare, che le ha insegnato che il rigore esteriore aiuta l’ordine interiore.
Così, una volta terminato il suo meticoloso rituale, si infila sotto le coperte, aggiusta il cuscino e ripiega il lenzuolo sopra il caldo copriletto.
Bene, ora può dormire, no?
Invece no. I pensieri vanno tutti a lui, a quello che lui le ha detto quando l’ha vista rientrare nella sua stanza:
“Dove… sei scappata prima…, Oscar?” ha la voce bassa, rallentata dal laudano che lo stordisce, ma lei sente, in quello sforzo, l’urgenza di sapere, la preoccupazione di lui.
Lei non risponde e gli volta le spalle. Guarda fuori dalla finestra attraverso un piccolo spiraglio tra le tende tirate.
“Sei salita… da lui, vero?”
Lei strizza gli occhi come se tutto il suo interesse fosse volto a distinguere la curva di un ramo della vecchia quercia che taglia a metà la porzione di cielo che da lì riesce a vedere. Non parla, ma il suo respiro è rumoroso.
“Che cosa… volevi fare, Oscar…?” Lui fa sempre più fatica, le parole sono spezzate, le ultime sillabe quasi muoiono in gola.
Lei stringe i pugni e continua a guardare fuori. C’è un tesoro sepolto sotto quella quercia. Una sera di tanto tempo prima lei ha regalato quel tesoro a lui. Il pensiero torna a quel duello. Al sangue che pulsa nelle tempie. Al desiderio di vendetta.
“Lascialo andare, Oscar… lascialo andare…” Sente che il torpore lo sta avvolgendo e che non c’è più nessuna forza che lui gli può opporre.
Lasciarlo andare! Lei si volta appena in tempo per vedere il suo unico occhio chiudersi e lui cadere in un sonno profondo.
Pochi minuti prima ha visto i due occhi di Bernard passare dal sonno alla veglia. Si rivede con quella spada alta sul volto di lui addormentato.
Da che cosa nasce questa furia, André? Dimmelo tu, André.
Risente una voce lontana:
Nasce dall’ingiustizia subita…
Se Bernard avesse aperto gli occhi un minuto prima… se lei avesse visto quei due, due!, occhi aprirsi un istante prima…
Quando Enea, ormai pronto alla pietà, vede la cintura di Pallante…
Se lei avesse visto aprirsi entrambi gli occhi di Bernard un istante prima… avrebbe calato la sua spada su quel volto?
 
Tiene le braccia stese fuori dal copriletto, ai lati del corpo, i palmi delle mani sulla la trama spessa del tessuto. Anche André sta dormendo così, al pieno di sotto.
 
Ma lei si è fermata prima che Bernard aprisse gli occhi. La spada si è abbassata prima che lui potesse intuire il rischio corso. Come la pistola di Rosalie quella notte in cui voleva vendicare sua madre… quella pistola, puntata nella schiena della Polignac, un attimo prima di sparare si era definitivamente abbassata. Anche la sua spada, levata in alto, si era abbassata.
No, non si è abbassata, lei l’ha abbassata.
Lei si è fermata. Prima, prima di fargli del male.
Ma la furia che ha sentito, che l’ha spinta su per le scale ancora la atterrisce. Involontariamente strozza il copriletto tra le dita.
Da che cosa è nata quella furia? Ricorda all’improvviso un terrazzo di fronte al mare, una colazione silenziosa, lui.
Nasce dall’ingiustizia subita…
Sì, è così, André…
… e nasce dall’amore.
Chiude gli occhi e si addormenta.
 
Parte IV
Il tempo finito

Rosalie andò verso la finestra del piccolo salotto di casa e la aprì. Aveva uno strano sguardo vitreo. Bernard fermò con una mano le carte sul tavolo che si erano sollevate non appena era entrata una folata di vento che minacciava pioggia:
“Questo caldo è insopportabile, speriamo che piova presto”, disse sperando che lei lo sentisse.
“Sì.”
Lei l’aveva sentito, evidentemente. Ma quella risposta, così automatica, con quel tono monocorde lo preoccupò ancora di più.
La guardò: era in piedi di fronte al davanzale, fissava davanti a sé il cielo blu scuro già stracciato da nuvoloni neri che avanzavano portati dal vento di luglio e intanto con le unghie grattava il ferro che per la ruggine si staccava dal parapetto del balcone.
Bernard era molto teso, solo una volta aveva visto sua moglie con quell’espressione sul volto.
A quel tempo Rosalie non era certo sua moglie, era solo una ragazzina, forse ancora una bambina che la miseria aveva fatto crescere troppo in fretta: lui aveva provato a presentarsi e a offrirle aiuto in un pomeriggio di nuvole grigie e di dolore, il pomeriggio in cui avevano portato al camposanto la madre di lei, uccisa dalle ruote di una carrozza nobiliare.
Bernard pareggiò con un movimento meccanico i fogli che aveva appena riletto, osservò sua moglie e rivide quello sguardo.
Ed ebbe paura.
Quella volta, al camposanto, dopo che lui con gentilezza e apprensione le si era avvicinato, lei con occhi inespressivi l’aveva oltrepassato senza dirgli una parola. E poi, lui l’aveva saputo molti anni dopo in una notte in cui lei e lui si sussurravano segreti tra le lenzuola, era andata a uccidere la donna che aveva ucciso suo madre: “Volevo solo vendetta”, così gli aveva detto stretta tra le sue braccia quella notte.
Bernard si alzò e fece un passo verso di lei: pareva che lei non se ne fosse accorta, continuava a dargli le spalle, dritte e contratte, mentre le unghie non smettevano di grattare la ruggine.
“Devo andare. Robespierre mi aspetta”, disse. Lei non si mosse.
“Rosalie…, tesoro, posso lasciarti sola?” non osava toccarla, temeva che reagisse come un animale selvatico a cui si tenta di fare una carezza.
Lei si girò e si pulì le dita nel grembiule. Lui notò una piccola macchia rossa sul bianco del grembiule e poi un po’ di sangue vicino all’unghia dell’indice. Non disse niente.
“Scendo con te” disse lei sistemandosi il nastro dei capelli.
Scendo. Con. Te.
Tre parole. Quante parole aveva pronunciato da quando erano usciti da quella chiesa?
Si salutarono davanti al portone di casa con un cenno, dopo che lei era sgusciata via dal suo abbraccio con una certa fretta insofferente.
Bernard rimase solo con i suoi pensieri e cercò di usarli per entrare nella testa e nel cuore di sua moglie.
Chi era lui per te, Rosalie?
No, non era un vecchio amore, di questo Bernard era sicuro.
Ma era una persona che aveva vissuto con sua moglie quelli che la gente con un’espressione trita, ah, come si vede che sei un giornalista, Bernard!, definiva “momenti unici e irripetibili”. Ma quelli erano letteralmente “unici e irripetibili”!
Lui c’era la sera in cui lei stava per uccidere una dama innocente mentre usciva da una carrozza.
Lui c’era quando lei stava per sparare alla sua vera madre.
Lui c’era quando lei aveva fatto la sua prima apparizione a un ballo.
Lui c’era quando lei aveva fatto la sua prima apparizione a un ballo a corte.
Lui l’aveva fatta ballare per la prima volta.
Lui c’era quando lei aveva conosciuto la regina.
Lui aveva scoperto chi fosse la vera madre di Rosalie.
Lui c’era quando la sorella di Rosalie si era buttata nel vuoto.
Lui c’era quando l’altra sorella di Rosalie si era fatta esplodere.
Bernard non era geloso di lui, no. Ma sapeva che sua moglie aveva perso più di un amico, quel giorno.
Arrivò davanti a una porta conosciuta, si passò nervosamente una mano tra i capelli, poi entrò.
 
Rosalie, intanto, era arrivata nella piazza dove i soldati si erano provvisoriamente accampati. C’era troppo silenzio in quella piazza.
Andò da Alain, che fingeva di dormire con il cappello calato sugli occhi. Lo tirò per un braccio.
“Chi è? Ah… sei tu, Rosalie. Che cosa…?” si fermò, colpito dallo sguardo scuro di lei.
“Devo parlarti. Vieni.” Si incamminò, senza aspettare che lui si alzasse, verso il vicolo più vicino.
Lui si alzò e la seguì: quegli occhi non lasciavano scelta.
“Che cosa c’è?” non era di buon umore nemmeno lui, a dirla tutta. Voleva starsene per i fatti suoi quella sera.
“Voglio sapere come è successo, Alain.” La parola voglio sulla bocca di quella biondina slavata lo impressionò.
“Come è successo che cosa?”
“Lo sai.” Lui pensò che aveva sottovalutato quella ragazza lacrimosa.
“Gli hanno sparato, lo sai anche tu” ripetere quella frase lo innervosiva in un modo indicibile.
“Tutti avete detto quella frase. Ma io voglio sapere di più.”
“Non c’è niente in più da sapere.”
“Oh, sì, invece.”
Restarono a guardarsi negli occhi. A lui sembrò che lei fosse in preda a una sorta di delirio, no, non di delirio, di lucida follia.
“Che vuoi, Rosalie? Vattene a casa.”
“Io voglio sapere chi è stato.”
Lui capì. Capì il senso assurdo di quella follia.
“Tu vuoi sapere chi è stato.”
“Sì.”
“Brava. E poi?”
Lei rimase in silenzio, strinse i denti, strinse il pugno della mano che teneva lungo il fianco e strinse il pugno della mano che sotto il grembiule stringeva una pistola. Se l’era infilata sotto il grembiule prima di uscire, suo marito nemmeno se ne era accorto.
Lui la canzonò:
“E poi che fai, te ne vai di notte in giro per la città a fare l’angelo vendicatore?” fece una risata che si storse in un ghigno amaro.
“E se fosse?”
Allora lui, con le orecchie che ronzavano per il furore sordo che saliva dalle sue viscere, la prese per un braccio e si incamminò per il vicolo trascinandola a forza. Lei sentiva la presa di quella mano sul braccio, la fretta rabbiosa di quei passi e non riusciva a far altro che seguirlo accelerando l’andatura e inciampando nei suoi stessi piedi per stargli dietro.
Quando lui arrivò dove voleva, le fece cenno di tacere fissandola con severità da sotto la visiera del cappello.
“Guarda. Guarda bene e non dimenticare”, soffiò tra i denti.
Lei guardò e vide una figura irriconoscibile: una donna seduta sui gradini di una chiesa, le braccia abbandonate sulle ginocchia, la testa china tra le mani, la schiena curva. Mai, mai Rosalie aveva visto quella schiena curva.
“La vedi? Guardala bene quella donna. E ora ti dico quello che vuoi sapere: un soldato nemico, forse del Royal Allemand, ha ucciso André. Lei, ancor prima di vederlo ferito, ha sparato a sua volta. L’uomo che ha ucciso André è morto. L’ha ucciso lei.”
Rosalie inghiottì un groppo che sentiva nella gola.
“Guardala. Credi che si senta meglio per questo? Credi che le importi?”
Fece segno di no con la testa e abbassò gli occhi. Poi sentì che le lacrime scendevano e le bagnavano le guance, gocciolavano dalla punta del naso e a lei veniva voglia di tirare su come quando era bambina.
Allora Alain si calmò, le mise un braccio intorno alle spalle e si volsero per tornare indietro. Poi lui, accarezzandole la testa, le disse:
“Non importa chi è stato, Rosalie,” si asciugò veloce una lacrima e pensò a sua sorella, che lui stesso aveva calato giù da un cappio e adagiato sul letto qualche mese prima, “importa solo che è stato.”
 
Il giorno dopo, quando Rosalie vide issata su una picca la testa di de Launay, il comandante della Bastiglia che aveva dato l’ordine di sparare al petto di quella donna che lei tanto amava e che aveva combattuto come una furia tra le lacrime e la polvere da sparo, comprese fino in fondo le parole di Alain.
Perché quella vista non le aveva tolto un’oncia del dolore che stava provando.
 
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Grazie di cuore a tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggere fino a qui e a chi vorrà commentare.
Un grazie speciale a Epices, che mi ha dedicato il suo prezioso tempo e con cui condivido il fascino per l’André sbriciolatore (di torte o di pane poco importa!).

 

 
   
 
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