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Autore: Roberto Turati    13/03/2022    0 recensioni
Questa è la prima raccolta di racconti per un progetto di gruppo chiamato "la Compagnia di EFP". Come nel Decameron di Boccaccio, ciascuno di noi autori della Compagnia viene eletto a re o regina di una "giornata" e decide un tema a cui tutti i suoi compagni devono attenersi per scrivere una oneshot.
 
Il tema della prima giornata è stato deciso da me, Roberto Turati: il rapporto tra un personaggio che fa da mentore e un altro che fa da suo allievo!
 
E ricordate: siamo pronti ad accogliere a braccia aperte nuovi partecipanti! Non solo per la curiosità di vedere quali storie possono nascere, ma anche per conoscere nuovi autori. Se queste storie vi intrigano e vi piacerebbe unirvi alla Compagnia di EFP, contattate pokas, la nostra direttrice creativa.
 
Detto questo, buona lettura!
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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SOGNI FENICI

ATTO PRIMO

SCHIUSA

Mi ricordo ancora l’ultima volta che incontrai una fenice. Camminavo lungo il vecchio molo dalle acque verdi, guardando il tramonto. Più che vecchio era proprio dismesso: Nessuna barca ci faceva più capo se non carcasse di pescherecci. Il pontile marciva, con le colonne divorate dal sale e alveari di molluschi. Neppure i gabbiani volavano più, perché la brezza marina si era inspessita e divenuta vento di burrasca. Quei turbini mi indulsero ad incamminarmi verso casa, ma proprio quando mi voltai incrociai un bambino sulla mia strada. Mi guardai attorno.

―Ti sei perso?― Mi chinai sulla testa bionda. La sua espressione non tradiva paura o confusione. Solo un abisso di apatia negli occhi senza riflesso.

―No― Rispose secco, ma senza fastidio ―Tu invece?

Sorrisi nervoso a quel capovolgimento di ruoli.

―Forse. Non c’è nulla qui, credo che tornerò a casa. Dovresti farlo anche tu, ora arriverà una tempesta.

―Sono già a casa― Mormorò lui, stavolta chinando il viso ―E di tempeste ne ho viste molte. Non mi spaventano più.

―Vivi qui?― Lo seguì con lo sguardo, diffidente. In quel villaggio di pescatori tutti gli abitanti erano emigrati o morti da anni. Nessun figlio aveva raccolto la loro eredità.

―Ci sono nato ― Il bambino si mosse verso la banchina, sedendosi su una bitta. Il soffio ululava sempre più forte, strapazzando le acque spumeggianti e i suoi ciuffi dorati. Anche lui prese a mirare l’orizzonte, ma il tramonto era ora coperto da fitte coltri di nubi grigie cenere. La sua posa era quella di una sconfitta ingoiata amara e mi portai accanto a lui per consolarlo. Prima che potessi aprire bocca mi paralizzò nuovamente ―Anche tu, vero?

Stentai a rispondere. Si fece buio sulla terra e i suoi capelli biondi parevano brillare.

―Sì, molti anni fa― Risposi accigliato ―Quando già il paese era mezzo morto. Fui l’ultimo figlio di questo porto, nessun altro nacque dopo di me e fui anche l’ultimo ad andarmene da qui.

Finalmente alzò lo sguardo verso di me. Sorrideva sereno.

―È vero, eri il più giovane di tutti― Rise lui. Ero di lì per pensare che mi stesse prendendo in giro. Una grossa onda salata si infranse davanti a noi. Mi ritrassi dalla sorpresa, senza evitare di bagnarmi. Il bambino non fece una piega e commentò deluso ―Pessimo tempo per volare.

―Senti― Insistetti, stropicciandomi gli occhi ―Vieni via dal mare che si agita. Tanto non c’è nulla da fare qui.

Si voltò, ma non per guardare me, piuttosto il paese in rovina. Lo scrutò nella sua anima che si mostrava dietro quell’intonaco spaccato, i vetri rotti e le strade dissestate. Si passò una mano sugli occhi.

―Hai ragione. Non c’è più nulla qui.

―Piangi?― Mi chinai, prendendogli la mano. Era calda.

―Lo vorrei, ma non posso― Singhiozzò per un istante, poi riprese la sua calma. Il vento gridava e quasi mi portava via. Feci per trascinarlo, ma mi seguì mansueto sotto il tetto di una rimessa piena di muffa e scheletri di nave. Lì osservammo le prime gocce cadere. Sospirò ―E poi a che serve quando il cielo piange più forte?

―È pericoloso andare in giro da soli― Sbuffai, sedendo sulla prua di una lancia mai riparata ―I tuoi genitori saranno in pensiero.

―Non ti devi preoccupare― Si accasciò al portone scardinato, infossando la testa fra le spalle ―Vengo qui spesso e i miei genitori non hanno più nulla da temere.

―Che ci vieni a fare qui?― Mi strinsi nell’impermeabile dal freddo. La pioggia batteva sopra le nostre teste, penetrando quel tetto marcito.

―Per rivedere il mio nido. Ma ogni volta, il ricordo, si fa più flebile e lontano. E, quando finalmente brucerà del tutto, questi detriti non mi diranno niente e io non avrò più un posto a cui tornare sulla terra.

Non lo potevo vedere in faccia, giacché mi dava le spalle. Eppure intuivo cosa gli stringesse il cuore.

―Soffri la nostalgia― Spiegai io.

―Quindi è così che si chiama― Mi diede una sbirciata ―Tu sei qui per lo stesso motivo.

―È vero― Ammisi, grattandomi la barba ―Tutti i grandi vogliono tornare bambini. Ma ero convinto che voi bambini, invece, voleste diventare grandi.

 Lui assentì, staccandosi dal muro, issandosi sulla prua e sedendo accanto a me.

―Infatti vorrei crescere, con tutte le mie forze.

―Verrà il tempo anche per quello― Mi grattai il naso ―E allora rimpiangerai quando era tutto più semplice.

―Quel tempo non verrà mai― Strinse i denti la testa bionda ―E già rimpiango tutta la mia vita.

―Non fare così― Gli cinsi un braccio sulle spalle, aspettandomi un corpo freddo e tremante come il mio. Invece sentì un fuoco ardere sotto la sua pelle. Saltai giù dalla lancia e gli misi una mano in fronte ―Ma tu hai la febbre. Ti farai venire un accidente se resti ancora qua fuori.

Di tutta risposta lui mi tirò giù il braccio, stringendomi il palmo con il suo, piccolo e bollente.

―Non dire sciocchezze, Aringa, non mi riconosci?

Un lampo muto sbiancò la stanza, lasciandola nel buio più totale. La prima luce che vidi era il bagliore spettrale che emanava quell’aureola bionda. Di fronte la mia faccia, pietrificata nello sgomento.

―Ripeti quel nome― Balbettai.

―Aringa, Aringa, Aringa!― Cantilenò lui ―Non dirmi che ti sei scordato anche il tuo nome.

Aringa era il nomignolo per cui ero conosciuto da piccolo, dato il mio fisico mingherlino. Era molto tempo che non lo sentivo pronunciare. Feci un passo indietro da quel fantasma, mollando la calda presa.

―Non è possibile che tu sia…― Ce l‘avevo sulla punta della lingua, ma non osavo dirlo.

―Farfalla!― Allargò le braccia il bambino, aspettandosi che lo cingessi di nuovo, sporgendosi dalla prua ―Ricordi quando ci rincorrevamo, nuotavamo nella baia e raccoglievamo piume d’uccello?

―No, non puoi essere lui― Divenni nervoso, indeciso se toccarlo o meno ―Farfalla era un bambino più grande di me, dovrebbe essere molto più vecchio ora.

―Ma lo sono― Scese giù dalla prua, nonostante l’altezza, come un foglio di carta. Poi alzò il suo viso d’angelo verso di me. Mi chinai e gli carezzai a pelo una guancia, che bruciava.

―Dio mio― Le parole mi uscivano a fatica ―Sei proprio tu, sei Farfalla.

―E tu sei Aringa― Esclamò giocoso lui, premendomi il naso con l’indice. Per la sorpresa caddi a gambe all’aria. Quel caldo polpastrello apparteneva a uno spettro.

―Tu eri scomparso― Strisciai indietro, nuotando fra la segatura ―Nessuno ti ha mai più visto. Dicevano che eri morto, che fossi scappato di casa o che ti avesse rapito il cielo. E ora ti presenti senza essere invecchiato di un giorno, tale e quale all’ultima volta che ci siamo visti.

―In un certo senso tutte e tre le storie sono vere, in quel preciso ordine― Chinò la testa di lato a guardare il mare mosso dalle raffiche. Si scostò un ciuffo biondo dagli occhi ―Ma non è vero che sono uguale a prima.

―Ma che cosa sei allora?― Gattonai ai suoi piedi, tastandolo per assicurarmi che non svanisse ―Tu dici che sei morto, eppure posso toccarti. Devo essere impazzito, non c’è altra spiegazione. Sei solo un ombra della mia infanzia, tornata a tormentarmi come io tormento questo maledetto cimitero di navi!

Sbattei il pugno sul pavimento in pietra fino a farlo sanguinare. Non ebbi il tempo di soffrire che mi sentii carezzare i capelli.

―In fondo sei sempre stato un bambino curioso― Commentò serafico Farfalla. Poi un ghigno da volpe gli attraversò il muso e corse, imboccando l’uscita della rimessa. Ebbi il timore di perderlo ancora e, rimessomi in piedi, gli corsi dietro a mia volta. Non era andato lontano, rimaneva lì, lungo la banchina, gli occhi ai miei, la schiena al mare. Le onde verdi s’infrangevano sul cemento, alzandosi fino al cielo, a fargli da mantello. Aveva ancora quel ghigno.

―Ti prego, non andare via― Lo imploravo, a voce soffocata ―Non di nuovo.

―Tranquillo, non ancora― Mi rassicurò lui, alzando le braccia. La pioggia cadeva obliqua, sospinta dall’uragano. I tamburi delle folgori rimbombavano sopra il vento ―Tu vuoi delle risposte.

Non era una domanda, ma annuì ugualmente, avanzando piano, quasi temessi di spaventarlo e fargli prendere il volo.

―Sei fortunato Aringa. Ho una lunga storia che voglio raccontare, ma nessuno che mi ascolti. È brutto essere soli, per fortuna ci siamo ritrovati. Seguimi ora!

―Seguirti?― Ripetei stralunato ―Dove?

―Che domande Aringa! È un gioco. Seguimi e basta, non importa dove.

Riprese a correre sotto la pioggia, nonostante le mie suppliche di fermarsi. Potei solo seguirlo. Salimmo le vie del vecchio paese, sotto gli occhi defunti di artigiani e pescatori. Rallentai un momento, passando di fronte la mia vecchia dimora, piena di ricordi, ma vuota come un guscio. Mi resi conto che nel contemplare la morte stavo perdendo la corsa. Farfalla si era già dileguato. Vagavo da fantasma irrequieto per le vie del camposanto, ululando come il vento, portandomi le mani alla bocca.

―Farfalla! Farfalla, dove sei?― Solo lo scroscio della pioggia mi tornava all’orecchio. Corsi senza direzione, uscendo dall’alveare di mattoni, in cima alla scogliera, su cui mi ersi. Il tempo era molto peggiorato. Il cielo si tingeva di viola, caricato di elettricità che rilasciava furibondo all’orizzonte, fatto di un intersecarsi di nuvole spiraleggianti. Era dura vedere molto lontano con quell’atmosfera acquosa. Ai miei piedi la scarpata terminava in bocca ad un mare ingrossato, agitando quel manto da gatto, spezzandosi sulla parete nel suo cercare di arrampicarsi. Quella era la scogliera da cui ci tuffavamo sempre da ragazzi. Roba da matti. 

Mi sentii incredibilmente solo in mezzo agli elementi. Mi trovavo in una catacomba a cielo aperto, senza più parvenza di familiarità. Farfalla non c’era. Farfalla non esisteva.

―Ti avevo detto di seguirmi, perché ti sei fermato?― La sua voce squillò al mio fianco. Anche lui stava sul ciglio, fronte alla tempesta, capelli al vento. Nonostante l’acquazzone pareva asciutto ―Non sai più giocare come una volta. Questo vuol dire che la prossima prova sarà più difficile.

―Ne ho abbastanza dei tuoi giochi― M’innervosì ―Non voglio rincorrerti ancora.

―Ti piaceva rincorrermi da bambino. Perché non ti diverti più?

―Perché non sono più un bambino. I grandi non giocano a rincorrersi.

―E come giocano allora i grandi?

―I grandi non giocano― Cercai di essere risoluto ―Pensano a cose serie che voi bambini non riuscite a capire.

Farfalla mi diede un’occhiataccia, la prima volta che lo vedevo perdere la calma. Strinse i pugni.

―Questa è una cosa seria― Tuonò, avanzando un passo verso il dirupo.

―Non farlo― Volevo fermarlo, ma scivolai sulla roccia bagnata. Solo piantando le dita nel fango riuscì a evitare di cascare di sotto, gambe penzoloni sul mare increspato. I lampi illuminavano il viso in ceramica di Farfalla di una tinta statuaria.

―Io voglio capire se sei ancora l’Aringa che conoscevo o sei morto con questo paese― Parlò, gonfiando il petto a ritmi lenti ―E questo è l’unico modo per scoprirlo.

―No!― Troppo tardi. Grazioso tale al suo nome, si buttò di sotto, braccia avanti a sé. Trattenni il respiro, seguendo la sua curva, fino a che non lo vidi sparire nei flutti, ogni sua traccia in superficie cancellata dall’onda successiva. Per un attimo mi parve quasi normale e quando tornai in equilibrio feci per seguirlo, come ai vecchi tempi. Ma erano passati, io ero invecchiato e dalle scogliere erano anni che non mi tuffavo, specie in tempesta. Ma Farfalla era lì sotto, anche se non lo vedevo, sballottolato dalle correnti. Ripensai alla nostra discussione: Se mai i grandi si occupano davvero di cose serie e se questa non lo era abbastanza, nulla lo era. Mi feci coraggio e saltai senza pensare. Ebbi tutto il tempo di pentirmene in quell’eternità di caduta libera, senza nulla a cui aggrapparmi se non gocce di pioggia. Fendetti il vento come una pietra, infine mi infransi sull’acqua, dove si fece tutto freddo e buio.

***

Mi svegliai stranamente sereno. Forse ero solo contento di essere vivo.

―Avrai anche dimenticato come ci si tuffa, ma non hai dimenticato di essere Aringa― Mi sorrideva l’angelo biondo sopra di me. La mia testa poggiava sul grembo di Farfalla. Mi osservai intorno ancora annebbiato, senza alzarmi, perché non riuscivo più a sentirmi il corpo dopo la botta di prima. Ci trovavamo in un antro oscuro, illuminato solo dall’irradiazione dorata del bambino. Il mare esplodeva la sua furia poco lontano, facendo vibrare le pareti di roccia liscissima che ci circondavano e i lampadari di stalattiti sopra le nostre teste.

―Questa era la nostra grotta segreta― Mormorai, con la le labbra impregnate di sale.

―Alla base della scogliera, bravo― Batté le mani lui. Il suo calore sovrannaturale mi spaventava prima, ma in mezzo a quel gelo marino ero contento di essergli vicino.

―Non fare mai più una cosa del genere― Tossì mezzo bicchiere d’acqua salata fra una parola e l’altra ―Se non ci fossi stato io a salvarti…

―Tu saresti annegato― Concluse ridendo Farfalla.

―Come hai fatto?― Lo fissai intensamente negli occhi, perché ora doveva rispondermi per forza. I suoi lineamenti parevano inquietamente diversi. I suoi capelli più lisci, a formare una cresta, gli occhi più distanti, ai lati del capo, Il collo più lungo e il viso più appuntito. Non appena lo misi a fuoco, però, mi convinsi di avere allucinato.

―Sei sempre stato un po’ mingherlino, Aringa. Non è stato difficile portarti qui― E mi mise una mano sullo stomaco. Sobbalzai. Pareva d’essere toccati da una caffettiera.

―Mi hai promesso delle risposte― Cercai di fare il serio, ma ero esausto anche per le recite.

―Ti ho promesso una storia.

―Quale storia?

―La mia storia― E si frugò alle spalle. Trasse fuori una piuma d’oro, che teneva delicatamente per il calamo. Nonostante tutti quegli anni, il vessillo, era ancora ben pettinato, seppure più opaco ―Tutto partì dall’ultima volta che ci siamo lasciati, ricordi? Fu molti anni fa, quando ancora ci rincorrevamo, nuotavamo nella baia…

―E raccoglievamo piume d’uccello― Finalmente risi.

***

Il racconto di Farfalla si fece bizzarro molto in fretta, seppure l’inizio lo conoscessi già. All’epoca dei fatti il villaggio di pescatori in cui eravamo nati non era lugubre come un cimitero, anche se ci si avviava. Gran parte della popolazione aveva alzato le tende per spostarsi all’entroterra, ma le famiglie storiche rimanevano ancora. Le famiglie storiche erano legate alle tradizioni e per tradizione erano molto larghe. Noi avevamo la fortuna di essere ancora troppo giovani per essere utili al largo o in casa e dunque ci lasciavano liberi interi pomeriggi. Quello era uno dei tanti. Ci incontrammo nel bel mezzo della piazza, poco trafficata, sotto l’obelisco. Il sole batteva le calde ore di luglio, indurendo le ombre. Non ci salutammo nemmeno, ci scrutavamo l’un l’altro.

―Hai cambiato le scarpe, Aringa.

―È un regalo di mia sorella― Spiegai, in quella insopportabile voce stridula che mi accompagnò per i primi anni di vita ―Me le ha portate dalla città.

―Sono belle― Si complimentò senza guardarle ―Dicono che tutto in città sia più bello.

―Non è vero, Farfalla― Risposi disgustato ―In città non hanno il nostro mare, né le scogliere o il cielo. E soprattutto non ci sei tu.

Lui mi mise una mano lungo le spalle e mi scortò all’ombra dell’obelisco. Qui mi prese la faccia tra le mani. Cominciavo ad avere gli occhi lucidi.

―Che cosa è successo?

―Dicono che…― M’interruppi per asciugarmi la faccia dal sudore, ma soprattutto perché non volevo piangere di fronte a lui ―Dovremmo trasferirci anche noi.

―Sono cose che si dicono, su― Mi abbracciò Farfalla, dandomi pacche sulla schiena ―Idee del momento, che passano in fretta.

―Non voglio che le cose cambino― Lo strinsi forte ―Non voglio lasciarti.

―Sono ancora qui― Farfalla mi sollevò da terra, stringendomi per la vita ―Non essere triste, abbiamo organizzato il nostro triathlon oggi. Vediamo se le tue nuove scarpe ti aiuteranno a vincere.

Mi poggiò a terra e tornai in me, perché dopotutto era una bella giornata. Quando noi parlavamo di triathlon non ci riferivamo a quello classico, perché avere un intero paese a nostra disposizione significava dar sfogo alla nostra fantasia su come usarlo. Farfalla aveva colpito un tasto dolente perché non avevo mai vinto una nostra gara. Ci posizionammo dunque ai lati dell’obelisco, mani a terra e bacino all’aria. Quando il campanile suonò partimmo. Questa era la prima parte del triathlon, una bella traversata di corsa del paese in salita. Riuscì a non farmi distanziare subito, il che era già una vittoria, sebbene Farfalla mantenesse un costante vantaggio. Lui correva a grosse falcate, respiro regolare, mentre io mi ammazzavo a perdifiato per tenergli dietro. Giungemmo in vista della curva sotto il salice. Credendo di avere molto più vantaggio, Farfalla decise di prenderla larga, permettendomi di tagliare dall’interno e sorpassarlo. Mi voltai solo una volta per tutta corsa, giusto per vedergli stampato in faccia lo stupore di quella rimonta. Mantenni facilmente la posizione per il resto del tragitto in piano, fino a toccare per primo il muro in mattoni che delimitava il nostro arrivo. Dimenticai quasi di rallentare, assorbendo l’impatto con la parete mettendo le mani avanti a me. Farfalla giunse subito dopo, con un leggero fiatone. Io invece ero stremato.

―Te l’avevo detto― Disse dandomi un pugno sulla spalla ―Te l’avevo detto che avresti vinto con le scarpe nuove.

Lo guardai sorridendo ma senza dire nulla. Ora veniva la seconda prova, che si trovava oltre quel muro. Farfalla mi fece da scalino per salire in cima, essendo quello più alto. Prima che potessi buttarmi dall’altra parte lui l’aveva già attraversato. Proseguimmo per una macchia di boschetto, il giardino della vecchia chiesa, fino ad uscire sulla scogliera. A misurarla oggi non era poi tanto alta, forse appena dieci metri sul livello del mare, ma agli occhi dei bambini era la fine del mondo. Il mare si mischiava coll’azzurro del cielo mattutino e veniva a infrangersi sotto di noi con un ruggito da bestia, enorme quanto il suo vasto corpo luccicante.

―Mi fa sempre impressione il mare aperto― Ammise Farfalla con il cuore in gola.

―Non deve― Dissi io, cominciando a spogliarmi ―È lo stesso mare in cui nuotiamo ogni giorno.

Questa era la seconda prova del nostro triathlon. Un bel tuffo dalla scogliera e una nuotata intorno al capo della penisola. Lasciammo i nostri vestiti lì in cima, nascosti sotto un cespuglio, di modo che nessuno potesse trovarli. I nostri genitori non vedevano di buon occhio buttarsi da quella rupe.

―Vado io per primo― Dissi impaziente. Di solito ci buttavamo insieme, ma all’ombra tirava una brezza fredda e non avevo nulla addosso per sopportare oltre. Presi un po’ di rincorsa sull’erba e in un attimo non avevo nulla sotto di me. Dopo la confusione iniziale mi raddrizzai. Specie d’estate si disputavano delle gare di tuffi nei paesi più grandi e noi ci attendavamo sempre, seppure non ci facessero partecipare. Vedevo certe capriole da capogiro da parte dei ragazzi più grandi che quel giorno decisi di azzardare. Mi afferrai le ginocchia e contrassi gli addominali, effettivamente riuscendo a spostare il peso di modo da rotolare in avanti. Feci un giro completo a mezz’aria e all’ultimo ruppi la posa per scendere a candela. Penetrai l’acqua come un siluro. Tornato in superficie mi ritrovai all’ombra del promontorio, immerso nel blu di un mare dalla bocca larga. Lassù stava Farfalla, controsole. Gli feci la linguaccia ―Vediamo se sai fare di meglio!

Lui sparì subito, per poi riapparire di corsa, saltando oltre la scogliera. Lo vidi scendere inizialmente con un tuffo da delfino, ma a mezza strada si fece prendere dal panico. Potei vedere solo per un attimo il suo sguardo di orrore prima che schiantasse di schiena con l’acqua. Riaffiorò poco dopo, stringendo gli occhi e soffiando fra i denti.

―Mi sono fatto male― biascicò mentre nuotavo al suo fianco. Il suo sguardo si smarrì nel vuoto e finì con la testa sott’acqua. Solo allora capì quanto fosse grave la situazione. M’immersi e lo afferrai con un braccio lungo il petto, prima che potesse scivolare troppo in profondità.

―Farfalla― Lo chiamai e lui scosse la testa. Non sembrava del tutto cosciente. Se lo avessi lasciato sarebbe annegato di sicuro. La sua vita era d’improvviso nelle mie mani. Mi maledissi nel mentre cercavo di superare il capo con un braccio solo. Dovevo riportarlo a terra in un qualche modo. La corrente ci attraeva al largo e dovevo sprecare più sforzi solo per non essere trascinato via dalla costa. Dopo pochi metri avevo già i polmoni a fuoco e le braccia molli. Sentì un conato e mi resi conto che Farfalla aveva appena rigurgitato in acqua.

―Aringa― Mormorò per poi chetarsi di nuovo, bava alla bocca. Mi esplodeva la milza. Avrei potuto lasciarmi galleggiare e riprendere fiato, ma Farfalla mi avrebbe trascinato a fondo se non avessi continuato a nuotare. Nessun altro poteva salvarlo se non io. Fui colto da un senso di responsabilità ardente e raddoppiai gli sforzi per raggiungere la parete rocciosa. Trovai più opportuno afferrarmi agli scogli per proseguire. Appena toccata la superficie granitica e porosa del primo rimasi immobile, con le dita artigliate alla sporgenza rocciosa come una stella marina. Farfalla aveva ripreso abbastanza conoscenza per tenersi aggrappato a me. Il mare andava prima a schiacciarci contro gli scogli per poi tentare di risucchiarci lontano, ma non cedetti la presa. Cominciai piano a spostarmi lateralmente, sempre afferrandomi alle rocce sommerse, fino a guadagnare velocità. Dopo dei minuti interminabili fummo investiti dal sole. Eravamo usciti dall’ombra del promontorio, avevamo superato il capo. E lì stava la nostra grotta, imboccata dalla spuma del mare. Quella visione mi fece dimenticare la fatica e riuscì ad issare il corpo di Farfalla sul primo spuntone che trovai. Poco dopo salì anch’io, in quella roccia dalla sommità concava, riempita a ciotola d’acqua salina, scaldata dal sole. Ogni tanto un’onda ci investiva, ma non era più forte d’una brezza. Salì sopra il corpo sdraiato del mio amico. Senza ancora aver aperto gli occhi sorrideva.

―Si sta bene― bisbigliò. Gli diedi uno schiaffo che lo fece saltare seduto.

―Idiota― Gli gridai ―Per poco non t’ammazzavi.

―Mi dispiace― Si mise una mano sulla bocca, vergognandosi. Un’onda interruppe il suo discorso ―Non mi era mai successo.

―Lascia stare― Mi calmai, asciugandomi gli occhi ―Hai avuto paura. Succede. Anch’io ne ho avuta adesso.

―Ti ho visto fare un così bel tuffo che volevo provarci anch’io― Esalò Farfalla, reclinando la testa ―Ma mi sentivo solo sulla scogliera, nudo e al freddo. Non ero concentrato.

―Ci saremmo dovuti buttare insieme― Chinai la testa io, ponendo ambo le mani sui nostri cuori ―Non avrei dovuto lasciarti.

―Non sei tu a dover chiedere scusa― Rise lui, piazzandomi un dito sulle labbra. Ci abbracciammo per un po’, poi fummo costretti a spostarci, perché il sole picchiava forte e ci inoltrammo nella caverna. Qui ci coricammo al fresco, in quell’ambiente umido e odoroso d’alghe, con i riflessi dell’acqua che ballavano su tutto l’arco del soffitto. Farfalla si trovò più comodo a mettersi di pancia e potei constatare il perché da tutti i vasi sanguigni che gli erano esplosi sulla schiena. Io restavo in piedi a muovermi, ancora scosso da quello che era successo. Fu per questo che fui il primo a vederla.

―Farfalla― Lo chiamai, dopo qualche secondo di silenzio contemplativo ―Guarda là.

Lui alzò la testa e la vide subito. Circondata dal buio, una radiazione aurea brillava in gola alla caverna.

―Cosa credi che sia?― Chiese di rimando.

―Speravo me lo potessi dire tu.

Senza altre domande ci avvicinammo ed eccola, la piuma origine della luce, poggiata alla base di una stalagmite. Esitai a raccoglierla, quindi toccò a Farfalla, che passò a studiarsela.

―Di che uccello sarà?― Ma lui non riuscì a rispondermi.

―Certo nessuno di queste zone― Provò a piegarla. Era molto elastica e impossibile da spezzare ―È ancora freschissima.

―Forse l’animale è ancora qui― Ipotizzai. Lui scrollò la testa.

―Se una sua sola piuma brilla così lo avremmo già visto. Deve essersene andato poco fa.

―Che ci verrà a fare un uccello qua sotto?

―Forse a fare il nido.

―Di nidi non ne vedo― Mi grattai i capelli bagnati ―Forse si è riparato dal brutto tempo. Ieri ha piovuto molto e avrà dormito qui.

―È possibile― rifletté fra sé e sé. Poi me la offrì ―Vuoi tenerla?

―Per farne che? Sei tu quello che le colleziona.

―Io credo che…― Si bloccò ―Sia meglio che la tenga tu. Se davvero vi trasferiste vorrei che almeno ti rimanga questa come ricordo.

Ci pensai su. D’improvviso divenni rosso.

―Non dire così. Sarebbe come una condanna portarmela dietro e ogni volta, guardarla, mi farà solo pensare al fatto che dovrò lasciare il nostro golfo. No, tienila tu, io non ce la faccio.

―Stai vivendo molto male questa cosa― Commentò lui, solleticandosi il mento con la piuma dorata ―Farei di tutto per lasciare questo posto.

―Come fai a dire una cosa del genere?― Le pareti della caverna rimbombavano del mio vociare. Gli diedi le spalle come ad andarmene ―E che ne fai della nostra amicizia?

―Non vederla in questo modo, tu potresti venire con me― Mi passò una mano sulla schiena ―Non hai mai desiderato di uscire dal golfo?

―Mio padre mi racconta spesso dei posti che vede quando viaggia― Mi sedetti alla bocca della caverna, giusto al limite della penombra. Il mare copriva il mio sospirare ―Ma quello che dice mi spaventa. Non mi è familiare.

―Per me è lo stesso― Confessò lui, sedendomi accanto, rigirandosi la piuma fra le dita.

―Esatto― alzai le braccia esasperato ―Tu hai paura anche del tuo stesso mare. Perché vuoi andartene?

―È proprio come il mare― Spiegò alzando gli occhi all’orizzonte ―È l’attrazione per l’abisso. Il mondo è qualcosa di così sconfinato che non posso fare a meno che chiedermi come sia fatto e questa curiosità vince anche la mia paura. Tu non provi mai la stessa cosa?

―Mai― Mentì. Non volevo cambiare idea.

―E sia― Si alzò in piedi lui ―È tempo per la terza prova.

Ora c’era da guadagnare la nostra via fino in cima. C’era un vecchio sentiero, utilizzato in passato, che collegava la caverna alla cima del promontorio, ma con anni di inutilizzo e frane si era trasformato in un percorso tanto accidentato che traversarlo era una scalata.

―Non ti fa più male la schiena?― Chiesi preoccupato.

―Certo che mi fa male― Sorrise Farfalla ―Ma tutta questa umidità non me la rimetterà a posto.

Si mise il calamo della piuma fra i denti e prese a salire. Io gli fui presto dietro. Quella fu la prima volta che vinsi il nostro piccolo triathlon, ma non ci sarebbero state altre occasioni.

***

―Certo, questo credo di ricordarmelo― Bofonchiai. Mi ero mezzo svestito per lasciar asciugare i miei abiti. Farfalla non ne ebbe bisogno, perché rimasto asciutto. Il mare continuava a bussare onde verdi alla bocca della caverna ―Ma poi che è successo?

―Trascorremmo un ottimo pomeriggio. Giocammo a lungo quel giorno e poi ci lasciammo, convinti che ci saremmo rivisti quello dopo― La nostalgia continuava a fargli effetto. Aveva cominciato a rigirare la piuma proprio come anni fa ―Tornato a casa mi misi a studiare da dove venisse questa maledizione.

Gli sbirciavo negli occhi un riflesso morente.

***

―Dorata, strisce nere, punta rossa― Constatò sua madre quella sera, rigirando la piuma. Della donna non avevo gran ricordi, ma neppure di brutti. So solo che era sempre stata gentile con me.

―Conosci un uccello simile?― Chiese speranzoso Farfalla. Lei scosse la testa.

―Fammi controllare― La posò sul tavolo della cucina e andò verso uno scaffale del salotto. Tornò con sottobraccio una di quelle enciclopedie che vendevano all’epoca porta a porta. Specificatamente si trattava di un tomo sull’ornitologia. Le pagine erano un po’ stropicciate, perché a Farfalla piaceva sfogliarlo, per via delle sue figure colorate. Di leggere il testo, invece, non ne era ancora molto in grado.

―Dove hai detto che l’hai trovata?― Chiese lei, aprendo l’indice. Lui esitò.

―Vicino il mare.

―Sì, ma dove nello specifico?

―Nella caverna sotto il promontorio.

Lei lo squadrò da sotto i capelli castani, gli stessi che lui aveva ereditato.

―Non vi sarete buttati ancora dalla scogliera, tu e Aringa?

―L’abbiamo raggiunta a nuoto― Esclamò prontamente. Non era capace di mentire, ma di dire una mezza verità sì.

―Non mi piace che andiate lì, cercate di evitarla― E conclusa la parentesi tornò a passare un dito sull’indice. Trovò un indirizzo promettente e prese a sfogliare di gran carriera pagine e pagine di animali. Infine giunse al dipinto naturalista di un animale torvo, dal collo tozzo, una lunga coda e un piumaggio rossiccio ―Il guaciaro è un animale notturno. Dorme nelle caverne di giorno in colonie, per poi cacciare di notte solitario.

Ma Farfalla scosse la testa, mentre si teneva la piuma sulla nuca, ad imitare un Sioux.

―Il piumaggio è troppo scuro. E poi, se dormisse di giorno, lo avremmo trovato ancora lì dentro.

―D’accordo allora― Sbuffò, tirando fuori adesso l’immagine di un rapace dalle grosse sopracciglia ―Che ne dici di un gufo reale? Le striature sono identiche.

―Ma la piuma è dorata.

―Sarà una variazione della razza― Suggerì lei ―Molti uccelli cambiano piumaggio in base alla zona.

―Però…― Trasalì ―Mamma, spegni la luce.

Rimase interdetta, ma fece come gli fu chiesto. Una volta al buio la piuma tornò fosforescente come nella grotta in cui l’avevamo trovata. Sua madre dovette avvicinarsi con il viso al miracolo perché Farfalla ne scorgesse l’espressione incantata.

―Decisamente non si tratta di un gufo.

―Non sai proprio cosa sia?― La speranza del bambino negli adulti di dargli risposta cade spesso nel vuoto. Le poté solo tirare a indovinare, presa dalla lucente meraviglia.

―Una fenice, immagino― Non disse altro. Accese la luce, prese il tomo e tornò in salotto. Farfalla rimase solo con la sua piuma, sfregandola sulla fronte. Ripensava a me, al fatto che davvero potessi andarmene e quanto fossi fortunato di vedere nuovi posti al di fuori del golfo. Certo era però triste perdere i contatti in quel modo. Prese a masticare la piuma sovrappensiero, quando un lampo balenò per la stanza. Fulmineo come era arrivato svanì, mentre si guardava in giro. Sua madre era sulla soglia della cucina, che gli sorrideva da dietro l’obiettivo di una polaroid―Commemoriamo il ritrovamento con una foto, che ne dici?

Si sforzò di sorridere, ma non ci riuscì. Poggiò la macchina e gli si piegò accanto.

―Tutto bene?― Chiese, agitando l’istantanea.

―Oggi Aringa ha detto che i suoi pensavano di trasferirsi― Si piegò sul tavolo, reggendo il viso sulle braccia incrociate ―Forse non ci vedremo più.

―Non essere negativo. Sarà solo più difficile.

―Comunque non avremo più il rapporto stretto che abbiamo oggi― Tirò su con il naso ―Oggi stava per piangere quando me lo ha detto. Non ci ho pensato molto, ma adesso credo che piangerò anch’io.

―Tutte le persone che si amano devono dirsi addio, prima o poi. Piangere o meno dipende da te― Sussurrò lei. Stringendolo, lo prese in braccio ―Credimi, è molto doloroso, ma tutte le gioie che avete condiviso insieme giustificano questo dolore.

―Io non voglio lasciarlo.

―Non è una questione di volontà, sono le leggi della natura. Per un motivo o per un altro tutti si lasciano― Sua madre si sedette con stanchezza sulla poltrona del salotto, lui sulle ginocchia. Farfalla la guardò negli occhi.

―Non capisco.

―La vita è…―  Lei s’interruppe, eludendo il contatto visivo. Si domandò se fosse abbastanza grande per spiegarglielo. Infine giudicò che se non era abbastanza grande oggi lo sarebbe stato in futuro ―La vita ha una fine. Anche se tu riuscissi ad andare d’accordo con una persona in eterno, prima o poi, uno di voi due morirà. Ecco perché non devi crucciarti quando vi lascerete, ma piuttosto godi il presente che avete insieme.

Farfalla rimase muto, aprendo solo un poco la bocca.

―Questo succederà anche a noi?― Ruppe infine il suo silenzio. Sua madre annuì sconsolata ―Non voglio che finisca così.

―Non è una questione di volontà― Ripeté lei ―Ma apprezzo che tu ci tenga a me.

―Se è così non ti lascerò mai― Esclamò, emozionato ―Finché sono vivo passerò ogni momento con chi amo.

―È molto nobile da parte tua― Rise lei, baciandogli la fronte ―Basta solo che tu e i tuoi fratelli passiate a trovarmi quando sarete grandi. Allora sarò felice.

―Promesso― E le appoggiò la testa sotto il suo mento. Sua madre mirò l’istantanea, che aveva terminato il processo. La mostrò al figlio. Dipingeva Farfalla colto in un moto sospeso di sorpresa, braccia sul tavolo rigide, voltare la testa con un'espressione confusa, quasi assonnata, con la piuma stretta fra i denti come un succhiotto. Lei gli annusò i capelli, che sapevano di sale, per poi poggiargli le labbra all’orecchio e mormorare le ultime parole di quella sera.

―Qualunque cosa succeda tu rimarrai sempre un amore― Farfalla sorrise, mentre lei gli passava le dita fra i capelli. L’inquietudine lo aveva finalmente lasciato.

***

Quando rimisi insieme il racconto che mi fece Farfalla, realizzai che i precedenti paragrafi non aggiungevano nulla alla storia. Comprensibilmente gli premeva solo parlare di sua madre per sfogarsi. Che fine fece non saprei. Lasciai la baia prima di scoprirlo. La sua famiglia rimase indietro, convinta di potersi riunire.

Proseguì a narrare di come, dopo essere stato consolato e messo a letto dalla mamma, si assopì come un sasso sulla schiena devastata. Non ebbe neppure la voglia di mettere in vetrina, insieme al resto della collezione, la piuma di fenice, con cui giaceva insieme. Per via della sua grande luminosità la teneva sotto il cuscino, che a malapena tratteneva quella scarica d’oro. Quando un senso di bagliore lo stuzzicò a svegliarsi ebbe il fremito di infilare la mano sotto la testa e tirare fuori il cimelio. Stava ancora al suo posto e allora cos'era? Si guardò pigramente attorno e vide la finestra aperta, con le tende in movenze da farfalle per via della brezza notturna. La luna si era spostata proprio a illuminargli il viso di sangue. Sbuffò e si coricò di nuovo, tirandosi dietro tutte le coperte. Quando ebbe di nuovo la testa sul cuscino si osservò il palmo, ma era vuoto di colpo. La temperatura della stanza andava salendo e un bagliore dorato si palesava dalla sua finestra, sormontando le chiazze azzurrine della notte. Cominciò a sudare, ma non osava togliersi le coperte, né a voltarsi verso la luce. Un frullare d’ali e un ticchettio da coltello lo spezzò del tutto. Buttò all’aria le lenzuola, mettendosi a sedere. Lì, sul davanzale, stava l’animale a cui apparteneva quella piuma.

Procedette a descriverlo nel dettaglio, ma ci capì ben poco. Era un volatile, questo è sicuro, dal piumaggio filato d’oro, striato di nero sull’ali e la punta delle penne chiazzate di rosso. Le dimensioni ridotte gli permettevano di infilarsi senza sforzo nella cornice della finestra e se ne stava lì, immobile su quelle zampe da gallina artigliate, a scrutarlo con lo sguardo sbilenco, il becco affusolato all’insù che separava due occhi gonfi di latte, incastrati in una testa nera, crestata di un rosso che balenava come fiamma.

―La fenice― Sussurrò Farfalla senza fiato.

―Puoi chiamarmi così, se desideri― Gli replicò una voce materna.

Ingoiò il cuore. Quell’animale aveva parlato? Si passò una mano sulla fronte. Grondava da bagnare il materasso, sia per lo sbalordimento sia per il calore innaturale che invadeva la stanza, illuminata da mille smerigliature biondo metalliche delle sue penne lucide.

―Tu…― Ma la lingua del bambino aveva smesso di obbedirgli. Aveva quasi dimenticato come si respirava. Un brivido febbrile gli percorse la schiena ferita.

―Sì e non c’è nulla da temere― Rispose comunque, piegando il collo sinuoso. Solo allora Farfalla si rese conto che stringeva nel piccolo becco appuntito la sua stessa piuma. Proseguì a parlare, senza mai mollarla, perché non aveva bisogno di voce ―Ti disturbo?

―Io…― Lui strisciò giù, seduto sul pavimento, indeciso su cosa rispondere in una situazione tanto inattesa e assurda ―Questo è un sogno.

―Non lo è― Replicò senza tono la fenice. Saltò giù dal davanzale, trascinando una lunga coda arcobaleno con sé. Atterrò dinnanzi ai suoi piedi come non avesse peso, unico rumore il ticchettio dei suoi artigli sul legno. Farfalla dovette tarparsi la bocca con ambo le mani per non urlare nel cuore della notte, andando a rannicchiarsi contro una parete. Si potrebbe dire che l’ombra della fenice piombava su di lui, ma non era vero, perché la fenice non aveva ombra ―Perché hai paura, piccolo?

Il bambino sbirciò da dietro le dita e vide quegli occhi bianchi senza pupilla avvicinarsi a lui. La vampata di calore si faceva più intensa e l’irradiazione più accecante. Ombre di mezzogiorno si delineavano negli anfratti della camera.

―Perché hai un aspetto irreale― Singhiozzò Farfalla ―Non esiste nulla come te al mondo. Non so cosa sei né che cosa vuoi.

―Tutto si riduce a questo, dunque― Meditò la fenice, aprendo le ali, come in un gesto di stizza ―L’universo è grande e tu non hai visto nulla, povero piccolo.

―Non mi hai ancora risposto― Si lamentò paonazzo lui, al sentirsi chiamare “piccolo” ―Cosa sei e cosa vuoi?

―Tu possiedi già la risposta alla prima domanda, dal momento che mi hai dato un nome. Per te sono la fenice e sono qui perché hai preso una mia piuma.

Quel poco di coraggio che aveva in corpo fu atterrito da quelle parole.

―Perdonami― Piagnucolò Farfalla ―Pensavo fosse solo una piuma fra tante.

―Non esiste perdono per un gesto simile― La fenice avanzò con passo da pavone verso di lui, senza mutare espressione, soprattutto perché non ne aveva. Farfalla si chiuse di nuovo a riccio, gemendo. Il calore si fece insopportabile e la luce più bianca, come se, a momenti, le pareti della stanza potessero prendere fuoco. Infine una zampa artigliata si chiuse sul suo cranio, facendolo sussultare. Ma non scottava come temeva, anzi, era un caldo inebriante. In egual modo anche l’irradiazione si attenuò, vertendo verso tinte più arancioni ―Alzati.

Le parole della fenice non giungevano da alcun luogo specifico, rimbombavano nella sua testa come pensieri, al punto che gli era difficile, inizialmente, capire se fossero suoi o meno. Si sentì sollevare in ginocchio e aprì gli occhi. La fenice gli teneva ancora la testa delicatamente stretta nella zampa destra, probabilmente perché se lo avesse lasciato andare era capace di cadere inerme. La piuma era a terra.

―Come?―Chiese confuso, con il soffice tallone che gli premeva la fronte e le altre tre dita affondate nei capelli castani ―Che vuol dire?

―Non esiste perdono quando non esiste peccato. Su, alzati piccolo― L’uccello lo fissava con due occhi più umani stavolta, meno a palla e con un taglio più espressivo, standosene in equilibrio sulla gamba destra. Gli tolse la morsa dal volto e gli permise di mettersi quasi in piedi ―Non tremare. Sei il mio erede ora.

―Erede?― Di tutta risposta lei gli diede le spalle, spazzando l’aria con la sua vasta coda. Lui afferrò d’impulso la piuma, la chiave di tutti quei misteri, sperava ―Erede di cosa?

―Erede della mia posizione. Ci sono molte cose di cui discutere d’ora in avanti. Seguimi― E con un altro balzo si portò nuovamente sul davanzale. Prese a mirare il paesaggio notturno con attenzione. Ancora un salto e d’improvviso sparì sopra il tetto, portando la luce via con sé dalla stanza.

―Aspetta― Farfalla si scosse dal torpore e scattò dal suo angolo, sporgendosi alla finestra. La curiosità aveva finalmente preso il sopravvento. Non vide nulla però intorno, se non il buio della notte, le luci del paese e i riflessi rossi sul mare. D’improvviso, quell’incontro così reale, aveva la stessa consistenza dell’atmosfera celeste in corona ai colli: un agitato incubo estivo pieno di sudore e letti sfatti al mattino.

Un globulo di luce gli si accese sopra la testa e si sentì leggero, leggero come quella fenice. Anche il calore era tornato. Alzò il mento e vide l’uccello in volo agitare le ali senza sforzo, lucciola piumata nel buio, molto più grande di prima. Si rese conto in ritardo che i suoi piedi avevano lasciato il suolo, senza obiezione da parte della gravità. Anche i suoi capelli ondeggiavano liberi come fluido. Non ebbe il tempo di spaventarsi che venne trascinato fuori dalla finestra da una forza a cui non poteva opporsi, finendo per osservare le strade del paese, era il caso di dirlo, a vista d’uccello. La fenice lo precedeva, qualche metro più avanti, a tiro d’orecchio per sentire il suo grido lancinante. Torse il collo serpentino per osservare che fosse successo e trovò Farfalla singhiozzare lacrime senza peso, stringendosi le spalle senza nessun altro appiglio.

―Perché piangi?― Ma il biondo uccello non ottenne risposta da quella maschera di pena. Gli si avvicinò per rassicurarlo e, subito, il bambino le gettò le braccia attorno il collo. Dando corda all’istinto infantile di quel piccolo la fenice serrò il becco su un lembo dei suoi vestiti e lo issò sul dorso, dove affondò il viso nel suo collare di rosse e calde piume. La fenice ripeté, con voce più zuccherina ―Perché piangi, piccolo?

―Non ho mai volato prima d’ora― Rise imbarazzato Farfalla, asciugandosi la faccia in quel piumaggio ―Ho paura di schiantarmi a terra da un momento all’altro.

―Non devi. Finché sarai mio erede nulla potrà ferirti. L’universo mi obbedisce.

―Erede… Devi ancora spiegarmi che vuol dire.

―Lo farò― Promise lei, passandogli il becco in mezzo ai capelli, a mo’ di carezze per farlo stare buono ―Ma dobbiamo appartarci da qualche parte, di tranquillo e solitario.

―Io conosco un posto― Propose Farfalla. Non riusciva a chiudere gli occhi davanti all’intero golfo visto da quell’altezza.

***

La fenice poggiò piede nella macchia di boschetto che era il giardino della vecchia chiesa, sul limitare della scogliera. Effettivamente nessun’anima viva ci passava più per quel covo di rovi e ortiche, se non per raccogliere le more d’agosto. Farfalla fu riluttante a scendere dalla sua groppa, che era così calda e soffice, ma fu costretto a separarsene quando si sentì nuovamente sollevato e poggiato dal becco dell’animale. Corse di nuovo a toccarla, picchiettandogli le zampe da rettile.

―Sei diventata enorme― Commentò, ancora consumato dall’entusiasmo del volo ―Prima potevi stringermi la testa in una zampa e ora potresti tenermi per intero nel palmo.

―È solo una delle mie tante abilità―Rise compiaciuta all’interno della sua testa. Gli picchiettò il capo per fargli cenno di spostarsi, riprese le sue dimensioni originarie, restringendosi d’un colpo, e volò sul cadavere di un tronco ―Tutte cose che potrai fare anche tu se diventerai mio erede. Erede dei miei poteri e delle mie responsabilità.

―Continui a dire cose aspettandoti che io capisca― Si grattò la tempia Farfalla, sedendosi nell’erba ―Perché non parti dall’inizio?

―L’inizio― Condivise il suo ponderare la fenice ―Ascolta bene. Io sono, se lo dici tu, una fenice e le fenici esistono da molto tempo. Noi siamo vecchie, come la vita, come le stelle, come l’universo e dureremo fin tanto che queste cose dureranno.

―Sei immortale― Applaudì estasiato il bambino, ma la fenice lo arrestò nel suo pensare. Sbatté le palpebre e storse il muso.

―Non è del tutto vero. Perché la vita fiorisca c’è bisogno di energia e l’energia dell’universo è limitata, così come la vita stessa di conseguenza. Immagina la pioggia. Non può piovere per sempre perché le nuvole si prosciugherebbero. Così è la vita: Perché altri nascano altrettanti devono morire. Le fenici non fanno eccezione.

―Ma hai detto che…

―Che siamo vecchie, è vero. Noi viviamo molti, moltissimi anni, ma non significa essere immortali. Essere immortali vorrebbe dire vedersi scorrere il mare dei secoli davanti a sé senza battere ciglio, esistere dall’inizio alla fine dei tempi. Nessun essere può farlo, ma una specie intera sì. Nella storia due fenici non si incontrano mai, se non per darsi il cambio ogni cinquecento anni. È così che nasce l’illusione dell’immortalità delle fenici.

―Quanti anni ti restano?― Chiese candido Farfalla. Si sedette di fianco all’uccello, giocherellando con la sua coda arcobaleno

―Non più anni― Lei alzò al cielo gli occhi bianchi. Lui poté giurare di vederli quasi umidi.

―E chi prende il posto di una fenice cosa deve fare?

―Può fare quello che desidera. Questa è l’unica regola che si tramanda nella nostra razza― A queste parole Farfalla contemplò le possibilità a bocca aperta, sognando da sveglio. La fenice fu attraversata da una smorfia inusuale sul suo viso immutabile e parlò di nuovo senza essere interpellata ―Sì, puoi fare anche quello. Ma dovresti?

Il bambino si arrestò.

―Non sapevo potessi leggere il pensiero.

―Posso fare tutto quello che desidero, te l’ho detto, ed è la cosa più difficile, perché ogni scelta ricade su di te. Nessuno ti dirà cosa è meglio fare né ti giudicherà per le tue azioni, se non te stesso.

―Capisco― Sospirò Farfalla. Subito si sentì torcere l’orecchio, morso dall’allora piccola fenice. Fu più sorpreso che ferito da quell’improvvisa scarica di violenza  innocua.

―No, non hai capito― La sgridata rimbalzava forte nel teschio del bambino, ancora piegato da quella tirata d’orecchi ―Tu credi di aver capito, ma non è così. Non ti permetto di mentire in mia presenza.

―D’accordo, d’accordo, basta, non lo dico più― Ma la fenice aveva già smesso di fargli del male. Farfalla si ritrovava accovacciato a terra del tronco, massaggiandosi il padiglione che ancora bruciava. Guardò con astio verso l’uccello appollaiato sopra la corteccia fungosa, mentre si risistemava i vestiti. Notava adesso di avere addosso solo boxer e canottiera: da quando era stato svegliato nel cuore della notte non aveva avuto occasione di cambiarsi.

―Noi siamo animali molto anziani― Ritornò la voce avvolgente dell’animale dorato ―E ci infastidisce che dei giovani affermino di poter capire processi che lasciano interdetti anche noi.

―Era una scusa?― Fremette vivido in viso Farfalla.

―No― La fenice fece una parabola fino alla sua spalla, impicciolendo alle dimensioni di un cardellino. Gli sfregò il muso sulla guancia ―Ma non credere che ti odi, anche in un morso ti dimostro l’amore. Sei solo un infante, piccolo e senza esperienza. Io ti farò vedere cose che ti renderanno il più saggio fra tutti gli esseri viventi.

―Perché io?― Mormorò dubbioso lui, guardando dentro di sé. Lei smise di fargli le fusa ―Perché mi hai scelto?

―Io non ti ho mai scelto― Rispose lei, con il tono di chi correggeva un errore sciocco ―Hai trovato la mia piuma, ecco tutto.

―Ma allora― Farfalla si agitò e la fenice frullò via dalla sua spalla, orbitandogli attorno ―Io non ho nulla di speciale.

―Tu sei speciale dal momento che sei il mio erede― Esclamò lei con pazienza, adagiandosi sopra il ramo di un albero.

―Ma che cosa ho fatto per meritarlo?― Gli pareva di pregare un vitello d’oro tanto quell’uccello lo scrutava immobile nella sua lucentezza ―Io non sono una fenice

―Non ha importanza― Fermò il suo flusso di pensieri, come a inspirare ―Noi fenici siamo esemplari unici nell’universo durante il nostro ciclo vitale, dunque non possiamo accoppiarci. L’unico modo per proseguire la nostra discendenza è trovare un soggetto disposto a sottoporsi alla nostra stessa metamorfosi. Nella scelta dell’erede non ci sono regole, dunque io seguo il metodo della fenice che mi ha scelto a sua volta quattrocentonovantanove anni fa.

―Neanche tu eri una fenice?

―C’è stato un tempo, che neppure ricordo, quando avevo un aspetto diverso. Oggi posso mutare in qualsiasi forma, eccetto la mia originaria, perché non ne ho memoria.

―Lo sei diventata― Ci ragionò senza fiato Farfalla, poi gli puntò addosso la sua stessa squama dorata ―E ora vuoi fare la stessa cosa con me. Tutto questo perché ho trovato la tua piuma per caso.

―Esatto― Assentì la fenice, con un volto più morbido, quasi sorridendo ―Ovunque ci fosse vita io ho lasciato una singola piuma, perché qualcuno la trovasse. Essendo parte di me io ho la percezione di dove essa si trovi anche se troncata dal mio corpo, allo stesso modo in cui puoi percepire dove toccano le tue appendici. Tu l’hai trovata, io sono venuta e ora sei l’infante più fortunato dell’universo.

―Ma non è giusto― Si mise seduto per terra a scrutare negli occhi di latte quel fuoco personificato ―Non sono stato io a trovarla, ma Aringa. Io l’ho solo tenuta.

―Lo so per certo― Gli planò alle spalle, dove ingrandì nuovamente, avvolgendolo nelle sue calde ali ―Perché noi due ci siamo già parlati.

―Davvero? Ma allora perché…― Non poté dire altro che si sentì stringere come nella morsa di un rettile. Nonostante ciò trovò la cosa ipnoticamente piacevole. La testa crestata della fenice gli si pose dinnanzi il viso capovolta, scendendo dall’alto.

―Lo sai già perché ha rifiutato― Cantò lei ―Lui ha paura dell’infinito. Ma per te è diverso. Tu ne sei attratto.

―Aringa sa di tutto questo?― Chiese, scivolando in uno stato di quiete involontaria, cercando di rimanere aggrappato disperatamente alla realtà.

―Lui non sa più nulla. Gli ho cancellato la memoria, come a tutti quelli che rifiutano il dono della fenice. Tu non seguirai il suo esempio, dico bene?

―Io non s…― Si rese conto all’ultimo di star ripetendo ciò che quell’eco suadente gli diceva. Riformulò ―Io non sono pronto.

―Certo che non sei pronto― La fenice stava mutando. Non era più un uccello, assumeva un’apparenza più umana, seppure imperfetta. Ora era una donna, ma le sue forme incomplete ne tradivano l’origine. La cresta, per esempio, era rimasta in cima a un caschetto di capelli neri, così anche le zampe squamate rimasero. Se prima, Farfalla, si sentiva schiacciare ora veniva sollevato in braccio, cui lui replicò istintivamente cingendosi a questo riflesso di maternità. Lei gli annusò i capelli e gli baciò la fronte, proprio come faceva la mamma. Un principio di disgusto lo pervase, abortito però da quel calore così piacevole. Lei proseguì a invitarlo, senza muovere le labbra ―Vieni via con me. 

―Non posso…― Tentò di resisterle ―La mamma…

―Lei non ha importanza in merito― Gli morse ancora l’orecchio, stavolta con denti umani, ma solo per gioco ―Nessuno ha più importanza di noi due. In tutto il creato sei tu a essere stato scelto quale mio erede, perché esiti? Non capisci che questa occasione cade una volta ogni cinquecento anni? Se  ti rifiuti rimpiangerai questa scelta per il resto dei tuoi giorni.

―Ma tutti quelli che amo…

―Sono effimeri― Lo cullò la fenice.

―Che vuol dire “effimeri”?

―Vuol dire che non hanno alcuna importanza. Cos è un fiore se confrontato agli oceani e le montagne? E tu vorresti abbandonare questa occasione per dedicarti all’amore dei tuoi cari, qualcosa di instabile e che si spegnerà in pochi anni. Abbandona questi specchi per le allodole terrestri, vieni via con me, ti mostrerò fenomeni tutt’altro che effimeri se solo me lo permetterai.

―Ho fatto una promessa…― Sbadigliò. Il sonno cominciava a vincerlo.

―Le promesse non hanno seguito. Sono solo parole buttate al vento, come le preghiere e i sogni― Lo zittì lei, piazzandogli le labbra sulle sue, ma non vi fu alcun bacio, solo uno scambio di respiri. Un bagliore nuovo si levò sulla fenice, sovrastando anche la sua irradiazione. Sbirciò alle sue spalle e vide una palla di fuoco sorgere dalle acque. Continuò con un tono dispiaciuto ―Se tu solo lo volessi potrei portarti fin lì, là dove è più caldo del seno di mille madri. Perché sei tanto affezionato a questo stadio larvale? Perché mi resisti? Non capisci che sono la sola a poterti aprire la strada all’illuminazione?

―Tutto questo potere…― Aveva ormai chiuso gli occhi. La bocca parlava per soffi di parole ―Come lo ottengo?

―È la parte più semplice― Lo coricò delicatamente sul tronco riverso della quercia morta, sul limitare della scogliera, ma anche delle percezioni. Si sentiva al sicuro, spensierato, nulla era un suo problema perché a tutto avrebbe pensato la fenice. Stringeva al petto la piuma dorata, prima che la proprietaria gliela prendesse dalle mani. Lei continuava a parlare, ma le parole divenivano musica, lieve come il rumore del mare sotto di lui ―Io non posso morire se non una volta che ho completato il mio ciclo. Fino ad allora ogni singola parte di me sopravvive, non importa cosa succeda. Lo vedi da te nella piuma che mi hai preso, che brilla anche quando è mozzata dal mio corpo. Io sono invulnerabile, non immortale. Perfino le gocce del mio sangue hanno questa proprietà. Ti donerò il mio sangue e tu diverrai una giovane fenice.

―Per farne che?― Rise piano Farfalla senza aprire gli occhi. Ormai si sentiva in paradiso.

―Sarò la tua guida, ti dirò io come comportarti e ti trasmetterò tutti i miei segreti, ma tu non dovrai mai contraddirmi― Gli afferrò il braccio destro, osservandone la ragnatela di vene, solleticandogli la pelle con la piuma dorata ―Trascorreremo insieme il mio ultimo anno di vita e al termine di questo sarai un erede perfetto.

―Ma…― Prima che potesse obiettare ancora la voce della fenice gli si propagò nel cervello.

―Resterai con me e mi seguirai ovunque io vada, sarai la mia ombra. Sarà così per tutto il periodo del nostro apprendistato, poi potrai tornare alla tua famiglia. Nessuna legge ti proibisce di trascorrere la tua vita in mezzo a loro, se è questo che desideri. Ora dimmi, vuoi diventare una fenice?

Farfalla si morse il labbro.

―Sì― Quell’alito di vento non gli aveva ancora lasciato il palato che il suo avambraccio fu infilzato con il calamo della piuma dorata. Recuperò il senno sopito tutto d’un colpo. Farfalla avrebbe urlato se una calda mano non gli avesse tarpato la bocca e per quanto si dimenasse la fenice si era pietrificata nel suo agire, inamovibile a ogni sforzo. Occhi fuori dalle orbite, fece del suo meglio per strillare da capretto sacrificale qual’era. Sopra di lui, la gravosa fenice, si scioglieva al sole, perdendo ogni tratto umano precedentemente accumulato, ritornando ai suoi occhi candeggina, le squame dorate e un corto becco d’avocetta. Non c’era modo di staccare quello stiletto di cheratina da sotto pelle, data bestiale mano che lo premeva sempre più a fondo. Come una chiazza, dal punto colpito, la pelle andava a brillare, impallidire, spaccare e dissolvere come sabbia. Gli stava divorando tutto il braccio e bruciava. 

―Non durerà a lungo― Lo rassicurò mentre lo uccideva, nello stesso tono materno con lui lo chiamava “piccolo mio” e continuava a farlo, in una sorta di ripetitiva ninna-nanna ―piccolo mio, dormi.

Piccolo mio dormi.

Piccolo.

Piccolo.

Dormi.

***

Si risvegliò con il sole in fronte. Un sole freddo, constatò, perché pure senza brezza si gelava in quella chiarissima mattina di luglio. Girò  la testa e vide il mare oltre il ciglio della scogliera. Perché si trovava lì? Aveva venduto il suo corpo a una fenice. No, era ridicolo. Tentò di issarsi in piedi. Perché le sue mani non si piantavano a terra? Perché non ruotavano nel polso come voleva? Perché non si sentiva più le dita? Annaspò senza successo ancora e ancora. Anche le gambe non reagivano come ricordava, né il collo, né ogni altra parte del suo corpo. Forse era solo troppo stanco per alzarsi. Cercò di guardarsi attorno; vide fronde d’alberi alti fino al cielo e ai loro piedi un’erba altrettanto impressionante. Mirò la lontana ombra di una montagna, per poi realizzare essere solo uno scalcinato muretto di pietre incastrate. Si trovava nel giardino della vecchia chiesa, ma qualcosa era cambiato. Guardò sé stesso. No, era lui ad essere cambiato. Il terreno vibrò sotto di lui. Guardò alle sue spalle, sgomento.

―Ce l’abbiamo fatta― La figura della fenice lo sovrastava, più di prima. L’avrebbe definita gigantesca, ma aveva intuito non fosse questo il caso. Le sue due zampe da rettile sostavano ai suoi lati come pilastri di muscoli, sorreggendo una massa piegata su di lui a coprirgli il sole, ma non per questo a metterlo in ombra. I suoi occhi da rapace, accesi e appuntiti, lo inquadravano come fanali ―Piccolo mio, tu sei una fenice ora.

Si sforzò di rimanere calmo e seduto, alzando le braccia e trovando solo piume. Le aveva incollate dappertutto, nascondendo la sua pelle sotto un manto dorato. Provò ad alzarsi in piedi su quelle gambe da gallina, ma era come issarsi su dei trampoli, incapace com’era di adoperare metatarsi così lunghi. Cadde in avanti, facendosi piovere addosso la sua stessa coda fatta di nastrini arcobaleno. Era veramente una copia carbone della fenice. Provò a piangere, ma riuscì solo a pigolare.

―Cosa c’è che non va?― L’occhio da capodoglio dell’animale gli scese accanto, tanto chiaro da potervisi riflettere. In esso vide l’immagine di un pulcino dorato, incapace di stare in piedi e tremante per il freddo. Ma gli occhi erano ancora quelli di Farfalla. Tentò di chiedere aiuto ma, di nuovo, uscì solo un acuto stonato. La fenice rise ―Dimentichi che non possiedi una laringe in questa forma; ma non temere, io saprò sempre quello che vuoi.

Era vero. Per lei, la sua mente, era un libro aperto, ma questo non lo aiutò a stare più tranquillo, anzi.

“Perché sono così piccolo?” Fu la domanda che per prima affluì alle antenne della fenice. Sedette la sua massa d’oro striata di fronte a lui, inizialmente spaventandolo. Poi, sempre seguendo il suo istinto infantile, strisciò sotto il suo caldo petto, unico riparo in quel gelo che fermava l’aria.

―Le fenici possono cambiare dimensioni, questo già lo sai― Spiegò suadente lei, mutandole nel bel mezzo del discorso, assumendo quelle di un fringuello. Il petto sotto cui si era riparato Farfalla era ora più piccolo e ci stava meramente appoggiato. La fenice aveva assunto le sue stesse proporzioni, avvolgendolo in altrettanto piccole ali ―Ma è qualcosa che si impara a comandare con il tempo, come tutti i nostri poteri. Fino ad allora essi sono preda delle nostre emozioni.

Farfalla trasalì quando si sentì spingere verso l’alto. La fenice cercava di correggergli la postura, alzandogli il bacino, raddrizzandogli le zampe e chiudendogli le ali ai fianchi. Una volta messolo in piedi lo beccò scherzosa alla base del collo, di modo che non lo tenesse così infossato.

“Quali emozioni?”

―Mi sembra chiaro― Fece un occhiolino e crebbe di nuovo, mirandolo dall’alto. Abbassò il collo da gru e chiuse il becco intorno al suo collare rosso, sollevandolo fra le sue proteste ―Tu hai molte cose da imparare, abbandoni tua madre insieme al paese dove sei nato e avrai solo me come figura di riferimento. Davanti a ciò ti senti impotente, piccolo, bisognoso e queste emozioni si riflettono nella tua forma attuale: un gracile e adorabile pulcino spaventato che vuole solo essere covato dalla mamma.

“Non voglio restare così” Cercò di divincolarsi da quel becco, pur sapendo di avere un abisso sotto di sé, agitando ridicolmente la coda come un sonaglino “Voglio tornare umano”.

―Un giorno ci riuscirai. Ce ne vogliono pochi perché le giovani fenici si abituino ai loro corpi, ma fino ad allora non puoi fare nulla se non lasciare che sia io a prendermi cura di te.

Una voce familiare si sparse nell’aria. Farfalla non disponeva di orecchie, ma le tese ugualmente. Lo stava chiamando ed era vicina. Una speranza cieca gli si formò nel cuore.

―So che vuoi darle un ultimo saluto prima di migrare― La fenice abbassò il capo, fino a deporre il suo erede a terra. Farfalla cercò di muoversi, ma aveva già dimenticato le basi. Trascinò le proprie piume per pochi centimetri prima di vedere quella figura amata torreggiare di fronte a sé. Sua madre era lì.

In retrospettiva era chiaro che, non trovando il figlio, lo fosse venuta a cercare proprio alla scogliera, conoscendo il suo gusto per il proibito, ma a Farfalla, lì per lì, parve un miracolo vederla.

Saltellò sgraziatamente verso di lei, ma essa restava incurante della sua esistenza, pietrificata a guardare, di fronte a sé, quella meraviglia della natura, la fenice che irradiava oro. Sua madre pareva indecisa se urlare o meno, a giudicare dalla faccia tremante, senza rendersi conto che suo figlio, o quel che ne restava, giacesse ai suoi piedi. Curiosa, tentò un passo in avanti e, per un momento, Farfalla credé di morire ancora una volta quel mattino, vedendosi già la pesante gamba addosso. Di nuovo chiuse gli occhi e implorò, con tutto il fiato in gola, rilasciando solo un deludente verso da canarino. Non venne schiacciato. Aprì gli occhi. All’ultimo il piede si era fermato ed era arretrato. Il viso di lei si era finalmente piegato, con un’espressione attonita.

―Povera bestia― Nonostante tutta la grazia nella voce della madre a Farfalla non piacque affatto venir appellato in quel modo.

―Non può riconoscerti― Gli minò i pensieri la fenice ―Né può sentirci parlare. Per lei sei solo un pulcino spaventato.

Questo già lo sapeva, ma Farfalla sperava, in maniera irrazionale, che chi lo avesse messo al mondo potesse riconoscerlo, in un qualche modo. Pigolò sempre più insistentemente.

“Mamma!” Cercava di dire “Sono io, mamma!”.

Lei rimase interdetta a quei versi. Mossa a pietà, si abbassò su quell’uccellino che aveva rischiato di uccidere, per afferrarlo. Non ebbe bisogno di fare alcuno sforzo che quello, inspiegabilmente, gli si arrampicò sul palmo delle mani, riprendendo a pigolare. Gli avvicinò un dito e quello vi strusciò contro il muso. Le si scaldò il cuore. Alzò di nuovo lo sguardo all’esemplare più grande.

―Quindi― Esitò ―È a voi che mio figlio ha preso la piuma, ieri pomeriggio.

“Dì qualcosa!” La implorò Farfalla, rivolta al viso di bronzo della fenice “Diglielo che sei stata tu a farmi questo. Voglio che lo sappia”.

―Non ne ho motivo― Gli parassitò il cervello, come al solito senza muovere la bocca ―Anzi, credo sia l’ora, per voi, di dirsi addio.

La fenice avanzò con un passo lento e regale, diretta verso loro due. Farfalla pregò che sua madre scappasse, che lo portasse via, lontano dall’uccello di fuoco, ma non successe. Questa rimase immobile a sorriderle, credendoli madre e figlio di una razza sconosciuta.

―È ora di andare― Ancora quella voce melliflua che si faceva strada nel suo cranio senza rumore, mentre la testa dell’animale verteva su di lui. Tirato per il collare, provò in tutti i modi a restare aggrappato alle mani di sua madre, ma non ne aveva la forza. Nuovamente afferrato dal becco della fenice poté solo lasciarsi in rumorosi piagnistei asciutti ―Non piangere. Le fenici non hanno lacrime.

L’uccello dorato s’incamminò verso l’alba, dove la scogliera scendeva nelle acque verdi, dipanando le ali sul ciglio. L’ultima chiara immagine che ebbe di sua madre fu poco prima di prendere il volo: si era abbassata su quella piuma, la stessa macchiata del suo sangue, che ancora brillava. L’ebbe raccolta, portandosela alla gote e sospirò.

―Dove sei?

Non poté vedere altro. L’uccello di fuoco si gettò dalla scarpata ad ali aperte. Lame di ghiaccio sferzarono il corpo di Farfalla nello squarciare l’aria. Il mare fu ad un soffio e poi di nuovo lontanissimo. Presero quota. Un ultimo sguardo alle sue spalle e vide una macchia lontana sul promontorio, presto indistinguibile fra le fronde. La scogliera si fece lontana, così il paese e il golfo intero. Sotto di lui solo un tappeto di sale a perdita d’occhio.

“Voglio la mamma” Si ammollì, lasciandosi investire dalla corrente. Si addormentò, dato che non ne aveva avuto modo per tutta la notte.

―Sono qui― Cantò la fenice.

***

Attraversò uno stato di dormiveglia dalla durata indefinita. Sorpassarono oceani scintillanti, inseguendo un sole fisso in cielo, mai fermandosi. Nessuna traccia di vita, solo un deserto azzurro sempre uguale. Una volta gli parve di attraversare uno stormo di starnazzanti gabbiani, ma si chetarono subito. L’odore di carne bruciata si diffuse per un momento, prima di lasciarsi indietro anche quello.

“Dove stiamo andando?” Fu il primo pensiero che riuscì ad articolare.

―Dove io possa educarti― Sussurrò la fenice, mentre di fronte a loro si parò un atollo di modeste dimensioni. Vi circolò intorno, scegliendo una perla di quella collana, infine atterrò, affondando le zampe nella fine sabbia di una spiaggia bianca, sotto lo stesso sole che avevano lasciato al golfo. Farfalla si ritrovò poggiato a terra poco dopo, con suo sollievo. Da quando era divenuto una fenice una cappa di gelo lo seguiva ovunque, un bisogno incessante di calore che quella sabbia bollente finalmente gli saziava. L’uccello di fuoco compì un paio di passi lungo il bagnasciuga, poi lo aspettò ―Vieni.

Ma Farfalla rimase pigramente sdraiato, avvolto in quella rena cocente, il sole nell’occhio.

“Sono stato ingannato” Vagò la sua mente, dimenticandosi di poter essere ascoltato.

―Nessun inganno― La fenice restava immobile in attesa, neppure la sua coda era mossa dal vento ―Sei stato tu ad accettare il mio dono .

“Voglio tornare umano”.

―Non è possibile invertire il processo. Quando riuscirai a dominare il tuo corpo potrai trasformarti in quello che vorrai, anche in un essere umano, ma non sarà mai un trasfigurazione completa, solo un’imitazione.

“Mia mamma sarà in pensiero”.

Le piume del volatile d’oro parvero rizzarsi a quella parola.

―Dimentica quella donna― Il vento s’ingrossò. Dacché era una brezza, un turbine di sabbia spazzò la spiaggia bianca, scoprendo Farfalla da tutta la rena in cui si era avvolto. Tentò di non lasciarsi trasportare, affondando le ali nel terreno, ma dimenticò di essere sprovvisto di dita. Quella folata si spense con la stessa rapidità d’un colpo di tosse, lasciandolo stordito e con tutte le piume spettinate. Alzò la testa. Quel breve soffio l’aveva spinto ai piedi della fenice ―Ho solo un anno di vita per fare di te un degno erede, non possiamo perdere tempo in distrazioni. Sarai libero di ricongiungerti a lei una volta finito il tuo apprendistato, ma fino ad allora non ti permetterò di vederla, né di pensarla. Dobbiamo fare progressi in fretta e ti punirò se necessario; dunque smettila di rammaricarti e mettiti in piedi come ti ho insegnato.

Farfalla fece del suo meglio. Prima la coda, poi la testa si levarono dalla sabbia, barcollando su quelle zampette ridicolmente sottili.

―Bene, piccolino― Si congratulò lei. Era umiliante dover imparare di nuovo a camminare e farsi chiamare per diminutivi, e lei lo sapeva bene, ne era sicuro, perché pareva calare la dose ogni volta che ci pensava ―Ora vieni verso di me, fai i tuoi primi passi.

Non spenderò altre parole a descrivere quante volte Farfalla dovette incespicare per percorrere quel breve tratto che li separava, fatto sta che, riuscitoci, attese le prossime direttive, sebbene si sentisse già stanco. Il viso della fenice piegato su di lui era mutato ancora. Aveva sempre avuto quei tratti aggraziati e ciglia così lunghe? Aveva mai avuto delle ciglia prima di allora?

―Stai imparando così in fretta― Sorrise ―Ora, da bravo, chiamami “mamma”.

Lui rimase spiazzato.

“Perché?”

―perché sei piccolo, anzi, il mio piccolino. Sarai anche una fenice, ma, nonostante il tuo potere latente, ancora non hai idea di come usarlo. Sei indifeso e hai bisogno di una madre che ti protegga. Anche questo fa parte dell’apprendistato, perché ti richiedo fiducia cieca e incondizionata. Quale miglior modo di dimostrarmi la tua fiducia, dunque, se non chiamandomi “mamma”?

“È assurdo” Farfalla non poté fare a meno di trovare tutto ciò pretestuoso, seppure non conoscesse ancora quella parola “Non hai il diritto di costringermi a farlo”.

―Io ho pieni diritti su tutto ciò che desidero, ma questo già lo sai. E anche se volessimo sorvolare su questo punto rimane il fatto che io sia davvero tua madre.

“Non è vero” Accompagnò questo diniego con un cinguettio di protesta, non riuscendo a esprimere parole di senso compiuto. La fenice alzò, sconsolata, un’ala davanti a sé, come a coprirsi d’un mantello.

―Subendo la metamorfosi tu sei morto, anche se per poco, venendo corroso dal mio sangue. Sei stato rimodellato a mia immagine, una copia perfetta, pur mantenendo i tuoi ricordi intatti. Nel tuo corpo non c’è più alcuna traccia del seme di donna, né di uomo, ma solo del mio. Per questo voglio che ora tu mi guardi negli occhi e mi chiami “mamma” con la più pura delle intenzioni.

Attese, ma i pensieri del ragazzo erano di orrore, come quello stampatogli in faccia. Le sarebbe bastato che anche solo fingesse di amarla, ma Farfalla non aveva mai saputo mentire. Le si chiusero gli occhi e fendette l’aria con l’ala destra, aprendola di scatto. Il vento si levò, più violento ancora, ma se prima lo aveva accompagnato verso la fenice ora lo spingeva lontano da lei, facendolo rotolare per tutta la spiaggia, librandolo in aria con facilità, preda delle correnti. L’uccello di fuoco era l’occhio di un ciclone, splendente di un azzurro malato, che si alzava verso il cielo senza essere minimamente condizionato dal meteo.

―Posso sentire ogni singola goccia d’odio che provi nei miei confronti― La sua voce senza fonte aveva un tono di sofferenza, neanche fosse lei a subire quel tornado. Non smetteva neanche per un momento di leggergli il pensiero? ―Ma ti assicuro che quello che faccio è per il tuo bene, come per l’universo tutto. Quando morirò voglio che esso sia lasciato nelle migliori mani possibili e solo tramite una rigida disciplina potrò assicurarmi il successo di questa transizione.

“Ma che cosa centra se io voglia chiamarti “mamma”o meno?” Fu sbattuto contro un masso, e vi rimase premuto contro dal vento. Una fitta sorda si propagò per contraccolpo al suo viso, sentendoselo quasi spiccare in due. La fenice esplose in una cometa, ormai priva di forma.

―Perché io pretendo obbedienza assoluta, non importa cosa ti venga chiesto. Quando eri ancora un fanciullo della razza umana ti spiegai tutte le mie condizioni. Ti dissi chiaramente che non avrei accettato di essere contraddetta in alcuna maniera, ti dissi che saresti divenuto la mia ombra. Tu accettasti ch’io ti rendessi una fenice, ma ancora insisti ad andare contro la mia volontà, per questo sono costretta a punirti. Se vuoi ch’io la smetta di farti del male devi solo rispettare i nostri accordi.

“Ma io credevo che l’unico obbligo di una fenice fosse di fare quello che desideravo” La testa gli pulsava, il corpo gelava e gli occhi bruciavano per tutta quella sabbia.

―Quella è la legge delle fenici, ma queste sono le mie regole e nulla mi vieta di educarti come mi sembra opportuno. Sto per darti in mano l’universo, cinquecento anni di giovinezza immacolata; dimostrami che meriti il mio dono― Quel nucleo azzurro salì sempre di più, forando anche le spirali di nuvole nere attratte dal ciclone. Infine, oltre il confine oscuro, deflagrò, sconvolgendo le nubi. Il flusso della sua voce si chiuse. Il vento cessò. Rimase solo un cielo grigio e un pulcino pieno di contusioni che cinguettava disperato, strisciando sulla spiaggia deturpata. Presto si aggiunse la pioggia.

“Fenice!” La chiamò. Nonostante fosse sicuro che udisse i suoi pensieri, lei non venne. Continuò per molto tempo ancora. Gocce di maltempo furono le sue uniche lacrime in occhi troppo freddi per piangere “Fenice!”.

***

Sparito il sole, la temperatura scese rapidamente a livelli per lui insopportabili. Scavò un buco nella sabbia ancora calda in cui potersi seppellire; un compito ingrato da svolgere con il solo becco e le ali. Ma quando ebbe finito la pioggia aveva già reso la finissima sabbia dell’atollo una poltiglia bianca, acquosa e altrettanto fredda. Per quanto sprofondare nel fango fosse disgustoso e non gli permettesse di scaldarsi, quantomeno era abbastanza isolante da non fargli disperdere ulteriore calore. Provò a dormire nell’attesa che finisse di piovere, ma non ci riuscì: aveva dormito fin troppo durante il viaggio per arrivare all’isola. Insultò la fenice in tutti i modi che conosceva, non molti a causa della sua innocenza, ma fece del suo meglio.

“Ancora non viene” pensò, nel buio del suo miserabile antro da verme “Forse davvero non può sentirmi. Sono solo”.

Quella nozione lo mise ancora più a disagio che sapere di essere spiato.

“Non può lasciarmi qui: io sono il suo unico erede, ha bisogno di me. Tornerà per continuare il nostro apprendistato” Il tempo scorreva insensibile come la pioggia che lo martellava. Si trovava diviso su come sentirsi. Da quando aveva acconsentito alla metamorfosi non gli era successo nulla di buono. Gli era stato promesso di governare l’universo e paradossalmente si sentiva più debole e insignificante di prima. La fenice lo aveva ingannato con le sue promesse di grandezza.

«Nessun inganno» Per un attimo sobbalzò a quella voce, credendo di essere contattato di nuovo da lei. Invece gli stava solo tornando alla mente la discussione di prima «Sei stato tu ad accettare il mio dono».

Era vero, ma perché il ricordo di quel “sì” era tanto sfumato, come se glielo avesse strappato nel sonno? Ricordava di essere carezzato, stretto, sollevato, cullato, baciato dalla fenice e tutte quelle azioni lo avevano come ubriacato di dolcezza, spinto in uno stato di leggerezza mentale. Una forma di ipnotismo?

“Mamma” non riusciva a smettere di pensare a lei. Quante ore erano passate da quando si erano lasciati? Non aveva importanza, perché un intero anno doveva passare prima che potesse riabbracciarla. Si sentiva un microbo nel vuoto. La fenice aveva ragione: era debole, indifeso, aveva bisogno di una figura materna e al momento solo l’uccello di fuoco poteva dargliela, ma non gli riusciva di arrendersi a lei 

“Vorrei che ci fosse qualcun altro qui”.

Sentì uno stridore di pettini sbattere l’uno contro l’altro. Alzò il capo dalla sabbia come uno struzzo alla rovescia e si guardò attorno. Nulla, solo un terreno massacrato dalla pioggia. Ma non l’aveva immaginato. Non poteva essere la fenice, non aveva mai emesso suono da quando l’aveva conosciuta. Notò un rigonfiamento del terreno dietro di sé, un masso colorato al quale le gocce andavano a sciacquare via lo strato di rena che lo copriva. Che forma bizzarra che aveva. Una forma viva. Si mosse. Prima uno, poi l’altro, infine dieci arti sbucarono dalla sabbia, uscendo dalla grossa conchiglia di charonia rosa che ruotava a chiudersi in cima. Due occhi neri slittarono fuori da un muso placcato d’esoscheletro giallo, che si apriva ogni tanto, rivelando una bocca interamente coperta di spuntoni che si affilavano l’un altro, diffondendo un secco rigurgito d’ossa. In sostanza un grosso granchio tropicale.

Prima che potesse avvicinarsi troppo, Farfalla era già in piedi. Avrebbe dovuto correre, ma sarebbe stato complicato considerando che sapeva a malapena camminare. Arretrò, camminando all’indietro. Forse mantenere un contatto visivo lo avrebbe spaventato. Macché, quel granchio neppure sapeva a che altezza si trovassero i suoi occhi. Udì il fango alle sue spalle spaccarsi. Si voltò ed eccone un altro, simile al primo. Tutta quella pioggia stava attirando crostacei allo scoperto. Virò, spostò il baricentro in avanti, parallelo al terreno, e corse selvaggiamente, sempre cadendo e sempre rialzandosi per ruzzolare ancora nel terreno bagnato. Non aveva mai corso tanto in vita sua, neppure per battermi al nostro triathlon, tant’è che, insolitamente per lui, perse il fiato in neanche dieci metri.

“Le fenici sono invulnerabili fino alla fine del loro ciclo, non importa cosa gli succeda, esse continueranno a vivere” gli pare fosse così. Cosa avrebbe voluto dire? Se l’avessero fatto a pezzi avrebbe proseguito a vivere nei loro stomaci? Non ci teneva a sperimentarlo. Vide la salvezza. Il masso, lo stesso dove si era sfasciato il cranio poco fa nella tempesta, si ergeva poco distante. Se fosse riuscito a salire in cima sarebbe stato al sicuro, sperava. Era ancora lontano, ma tentò di saltare comunque e si diede una spinta di cui non si considerava capace con simili zampette. Atterrò con dolore sulla dura faccia di pietra inclinata, si piantò con il becco e le unghie e vi rimase aggrappato con la forza della disperazione. Si apprestava a salire, quando una robusta chela dentata, macchiata di nero, si chiuse attorno la sua caviglia, torcendogliela. Quei granchi erano abbastanza grossi che gli bastava allungare un arto per tirarlo giù.

Fu pervaso d’adrenalina. In un altro contesto avrebbe capito di non essere abbastanza forte per opporsi a quel mostro, ma eccitato com’era di mettersi in salvo tirò comunque. Non poteva finire così. Possibile che di tutte le abilità promessegli lui non potesse usarne mezza? Una rabbia lo pervase, frutto dell’umiliazione al pensare che stava solo dimostrando quanto fenice avesse. Non era altro che un pulcino indifeso. Ebbe un fremito. Il senso di gelo svanì e così la morsa sulla caviglia. Senza perdere l’occasione strisciò in cima al masso poroso e lì rimase, sfibrato, ansimante, le piume arruffate, sporco di fango, pugnalato dalla pioggia e di nuovo rabbrividendo dal freddo. Quell’esplosione di calore era sparita, ma rimaneva nell’aria un odore di polpa carbonizzata.

Provò ad alzarsi, ma il dolore alla caviglia cresceva, così come il gonfiore. Si limitò a levare il capo oltre il masso. Tre granchi lo stavano assediando, leccando l’aria con le antenne e passandosi le chele in bocche prive di lingua. Non erano tutti uguali. Uno di loro era privo di un arto, agitando solo un moncherino fumante. Collegò quello ch’era successo. Era riuscito a irradiare il calore infernale di una fenice, di modo da liberarsi da quella presa, ma come? Si sforzò di ricordare, ma era stato un gesto istintivo, una reazione al pericolo. Però l’aveva fatto e questo lo confortava.

Dopo quella corsa sfrenata la sua bocca era asciutta e i suoi pensieri più lenti. Da quanto tempo non beveva? Si sforzò di voltarsi su un fianco, cercando di attingere alla pioggia stessa. Aprì la bocca al cielo e aspettò, con risultati deludenti, perché piccolo com’era, le gocce lo schivavano. Quando finalmente una gli precipitò addosso, ebbe modo di sperimentare quanto le sue modeste dimensioni influissero sulla sua vita, considerando che gli esplose sul viso, inzuppandolo e non riuscendo a berne nulla. La cosa procedette per molti minuti ancora, fino a che la pioggia non cessò di colpo, tale a come era giunta. Alla fine di tutto ciò non poté neppure massaggiarsi la mascella indolenzita dall’essere stata aperta così a lungo per così poco. La sete non gli era sparita. Si ridusse a leccarsi le piume inzuppate per guadagnare altri liquidi, ma non aveva lingua. Dovette succhiare ogni singola goccia, ma ancora non era abbastanza.

“I pulcini vengono sfamati dalle loro madri” Spaziò la sua mente “Muoiono se lasciati a loro stessi”.

L’atmosfera era umida, giallognola, le nubi si diradavano lentamente e il primo raggio di sole investì il suo corpo dolorante. Era la prima volta che sentiva qualcosa di piacevole dopo un’intera giornata. Il suo occhio scivolò verso la foresta che fioriva nell’ombelico dell’isola. Dove c’era verde c’era acqua. Ma, con una gamba in quelle condizioni, era impossibile raggiungerla prima di essere raggiunto a sua volta dal trio di granchi.

“Se solo ve ne andaste” Desiderò, sdraiandosi e sgranchendo le articolazioni. Alzò la gamba ferita verso il sole. Si era quasi dimenticato di quanto fosse lunga, squamosa e digitigrada. Non gli faceva più male. Non c’era più traccia di alcun gonfiore, poteva aprire e chiudere le falangi senza problemi, non essendo più paralizzate. Appoggiò la guancia alla fredda pietra sopra cui riposava, la stessa dove un turbine di vento lo aveva mandato a sbattere con la nuca. Quando ricevette la botta era certo di spappolato il cervello a giudicare dalla rete di dolore che gli stringeva incandescente il viso, eppure adesso stava benissimo.

«Le fenici sono invulnerabili, non immortali» Più o meno era quello che lei aveva detto. Si sporse. I granchi non si vedevano, spariti, con solo orme nella sabbia e frammenti di chela sciolte a testimoniarne il passaggio. Erano spariti, come aveva desiderato. Si sentì più al sicuro al constatare che i suoi poteri, in fondo, funzionavano, anche se non sapeva come controllarli. Si rimise in piedi e aprì le ali. Ormai aveva quasi capito come muoversi su quelle zampe, ma per volare? La fenice non glielo aveva ancora spiegato. Lo aveva abbandonato prima ancora di insegnargli qualunque cosa. Tanto meglio, non aveva bisogno di lei, se la sarebbe sbrigata da solo come aveva fatto prima. Studiò la sabbia bagnata sotto di lui. In proporzione era proprio come saltare giù dalla scogliera del suo golfo, ma senz’acqua ad attutire il suo arrivo. O volava o si sarebbe fatto molto male. Saltò.

***

Fu un atterraggio che a definire di fortuna si era generosi. Rimessosi in sesto si avventurò verso il folto della giungla, abbandonando le cocenti spiagge per un umidità permeante e tropicale. Il sottobosco pluviale si rivelò un’ardua traversata, piena di muschi, licheni, funghi e radici, disposti su un terreno irregolare e in salita. Una scalata in pratica, oltretutto quasi al buio, considerando i cumulonembi di passaggio e le fronde fittissime gli celavano il sole. S’imbatté nel cadavere d’un tronco parassitato dall’edera. Se fosse stato ancora umano lo avrebbe scavalcato con una falcata, ma in quella forma si trovava costretto ad aggirarlo. Un tappeto di foglie morte divenne presto il suo sentiero verso la cima. La sete lo opprimeva a tal punto che, se non avesse trovato qualcosa al più presto, sentiva che avrebbe condiviso la loro fine.

“Aringa”.

Il mio nome gli risuonava senza motivo apparente, mentre cercava di issarsi al di là di una rizoma. Un balzo eccesivo gli fece saltare l’intera radice e cadere riverso dall’altra parte. Continuava a dimenticarsi che, per via delle sue proporzioni, la gravità faceva ben poco per ancorarlo a terra. Il mio nome continuava ad assillarlo, poi realizzò. 

“Aringa ha rifiutato tutto questo. La fenice lo ha visitato, deve avergli fatto lo stesso discorso e lui ha comunque avuto il raziocinio di dire no”.

«Nessun inganno» Affiorarono ancora quelle parole «Sei stato tu ad accettare il mio dono».

“Possibile che non mi abbia mai mentito? Che non ci sia stata alcuna ipnosi? Che io abbia assentito di mia volontà a sopportare tutto questo?”

Un insopportabile ronzio gli ruppe la concentrazione, oltre che l’udito. Gli piovve addosso uno sciame di insetti gobbi, pelosi e dalle zampe lunghissime, filiformi, che avanzavano verso di lui con teste allungate, due occhi verdi smerigliati e una proboscide appuntita. Zanzare, grosse quanto la sua faccia. Una gli si azzeccò al collo, quasi solleticandolo al tatto, per poi bucarlo senza complimenti alla gola. Urlò, o almeno fece del suo meglio, cercando di lasciarsele indietro. Comprendendo che non c’era speranza di riuscirci optò per rotolarsi a terra. Non poteva fermarsi, perché, appena accennava a smettere, subito quelle si avvicinavano di nuovo. Perse il senso dell’orientamento in quella frenesia e presto anche la presa sul terreno. Era scivolato giù per una depressione.

Quando toccò il fondo di quella discesa non riusciva neppure ad alzarsi. Forse era invulnerabile, ma la sopportazione del dolore era rimasta la stessa per quanto riguardava sbattere su sporgenze rocciose e fusti di piante. Le pupille trotterellarono da un angolo all’altro del campo visivo, ispezionandolo. Si trovava come sul fondo di un cratere terroso e rossiccio, privo di vegetazione e occupato, poco più lontano, da un bacino d’acqua, privo di fonte. Era lì, dunque, che andava ad accumularsi l’acqua piovana che dava vita all’isola. Era salvo. Tentennò a causa dei lividi, per poi zoppicare a bere. Avrebbe salivato se la mancanza di sete non l’avesse asciugato come una noce. Zampettò. Il terreno si fece molliccio. Zampettò. Ora vibrava. Zampettò. Infine si aprì sotto i suoi piedi. Sprofondò in quel liquame fino alle ginocchia, che per un uccello equivaleva al principio delle gambe. Una miscela pesantissima si chiuse sui suoi arti inferiori, impedendogli di muoverli. Sabbie mobili. 

Se lo sarebbe dovuto aspettare. L’acqua, raccogliendosi in quel cratere senza vie di sfogo, finiva per essere assorbita e impregnare il letto del bacino, rendendolo un impasto simile al cemento, che spingeva il materiale meno denso in superficie, dando l’illusione di un terreno solido. Questo processo glielo aveva raccontato una volta sua madre, purtroppo sorvolando su come uscirne fuori. Prese ad agitarsi, ma non c’era verso, non aveva nulla su cui poggiare o appendersi per uscirne. Osservò davanti a sé quello specchio cristallino e si sentì il deserto in bocca. Che crudeltà morire così, ad un passo dalla meta.

“No” Si ricredette, illuminato dalla disperazione “Non morirò neppure. Resterò qui a fissare quella dannata acqua fino a seccarmi come uno scheletro e neppure allora morirò. Neanche quando gli avvoltoi mi staccheranno la testa a morsi morirò e così per cinquecento anni a seguire. Diavolo Aringa, te la sei spuntata rifiutando quest’offerta”.

Ormai il liquame gli aveva ghermito anche le ali e il collo. Stramazzò arreso, contemplando la sua miseria. Di solito avrebbe pensato a sua madre in momenti come questo, e così fece, ma non più la stessa.

“Sono stato uno stupido a volermi assumere un incarico più grande di me. Sono stato uno stupido a contraddirti. Mi senti? Hai vinto tu, maledizione, hai vinto tu! Giuro che d’ora in poi ti ascolterò sempre, farò come mi dirai, non avrò nulla da ridire; sarò l’erede obbediente che volevi, ma ti prego, salvami!”

Nulla. La giungla rimaneva silenziosa. Era un microbo nel vuoto. Di scatto alzò la testa al cielo, quasi da spezzarsi il collo e starnazzò con la voce rauca, alitando appena una preghiera a chi lo stava osservando dall’alto.

“Mamma!”

Nessuno venne. La fenice aveva ragione anche su questo: Le preghiere sono solo parole buttate al vento. Aveva bruciato tutto quello che aveva in corpo. Cadde riverso, faccia sprofondata a terra, immobile. Avrebbe voluto pigolare ancora, ma neppure il becco gli si apriva più. Gli occhi socchiusi miravano la terra rosso sangue, lo stesso che non scorreva più nelle sue vene, ma sangue d’oro di fenice, la creatura a cui l’universo si piegava. Eppure eccolo lì, una carcassa vivente piegata dall’universo. Il sole che bramava per scaldarsi era allo zenit. Lo avrebbe visto morire e sorgere molte volte, parodia beffarda della sua natura, e lui sarebbe rimasto a guardarlo per cinque secoli almeno, impazzendo ogni minuto, sempre più deperito, divenendo polvere ancora prima di morire. I suoi pensieri si fecero sempre più sconnessi.

“Ho fallito il mio apprendistato. Ti ho delusa” Pianse senza un grido o anche solo una lacrima a solcargli quegli occhi da animale impagliato “Mi dispiace mamma”.

Il sole scese dal cielo. Un calore avvampante investì il cratere, mentre l’acqua divenne specchio d’una palla di fuoco. Qualcosa gli atterrò di fronte senza fare rumore, senza proiettare ombra, senza neppure piegare le sabbie sotto il suo peso. Un canto in versi liberi levò la cappa di silenzio, esprimendosi in una voce che sapeva di latte e miele.

—Ho sentito ogni tuo battito, piccolo mio. Sono orgogliosa che tu abbia imparato ad accettare il mio amore. Vieni con me ora.

La fenice lo afferrò, com’era solita, per il collare, tirandolo via dal fango come se niente fosse. Con la stessa noncuranza camminarono sulle sabbie mobili, fino a raggiungere il laghetto, dove essa si lasciò galleggiare come un cigno. La figura sporca, derelitta di Farfalla, rimase rigida, limitandosi a osservare l’increspare delle acque sotto di lui.  Nel profondo, gli occhi vuoti, si riflettevano in quello specchio.

―Sei pronto per un bagnetto?

Non replicò, era annichilito. Non trattenne neppure il fiato. Venne immerso nell’acqua e reagì come una spugna, risvegliandosi del tutto. Aprì il becco e ingoiò d’un colpo quanto più potesse bere. La fenice lo trasse su, vedendo movimento sotto la superficie. Farfalla si era quasi strozzato.

―Fai con calma― Rise muta la fenice. Dopodiché, senza immergerlo, lo appoggiò al pelo dell’acqua. Prima che se ne rendesse conto era stato lasciato, libero di galleggiare anche lui. Fece attenzione a non rovesciarsi e bevve ancora a lungo. Sazio, alzò gli occhi a lei per la prima volta da quando era riapparsa. I suoi lineamenti più dolci erano rimasti, dalle lunghe ciglia al sorriso. I due grossi occhi bianchi erano cambiati invece, ora dotati di un’iride rossa che lo puntavano nelle sue pupille ―Ho gradito molto le tue scuse. Sei perdonato.

“Era davvero necessario, mamma?” Le si avvicinò, agitando le zampette. Lei replicò, mordendogli giocosa la cresta

―Ho dovuto mettere in chiaro il nostro rapporto prima che l’apprendistato potesse andare avanti. Tu sei la mia piccola fenice e io la tua mamma: Senza di me tu saresti perduta, per questo dovrai sempre dipendere da me. Spero tu l'abbia capito.

Annuì. La fenice gli guardò nel cuore e non vide bugie, solo la più pura delle intenzioni.

―Ma si tratta anche d’altro. Tu hai sperimentato in prima persona che razza di pianeti io ti lasci da amministrare. Pianeti dove la vita è percossa dal freddo, la pioggia, il vento. Dove gli animali si uccidono a vicenda per sopravvivere, si parassitano. Dove si muore lentamente di fame e sete. Dove il paesaggio stesso si rende inospitale. Questi sono gli orrori con cui una fenice deve convivere per cinquecento anni. Col tempo ti desensitizzerai alla violenza, in quanto strumento indispensabile per mantenere l’ordine.

“Mamma” Le si premette contro, affondando il viso nel suo piumaggio aureo e soffice come zucchero filato “Da grande voglio diventare come te”.

***

―Che razza di storia― Mormorai, sgranchendomi la schiena dopo aver posato sopra un masso così a lungo. Farfalla si pose un dito sulla guancia.

―Ma come, non mi credi?

―Certo― Ammisi, rivestendomi dei miei abiti, ormai asciutti ―Tu sei Farfalla e in tutti questi anni non sei cambiato di una virgola. Tuttavia un fatto assurdo non ne giustifica un altro. Andare a scomodare le fenici poi…

―Forse non mi crederai, ma quantomeno penso che sia una bella storia.

―Fantasiosa lo è sicuro― Borbottai ―Ma che bisogno c’era di infilarci dentro anche me?

―Tu c’eri, anche se non ne hai ricordi. Vuoi che ti spieghi di nuovo il motivo?

―Certo, la fenice mi ha cancellato la memoria, come no― Lo vidi alzarsi e dirigersi verso l’uscita della grotta ―Ma come, è già finito il racconto?

―No, tutt’altro, ho passato un intero anno con lei, il più importante della mia vita, che mi piaccia o meno.

―Non capisco come tu possa parlarne così bene― Lo inseguì, mentre faticavo a infilare le gambe nei pantaloni ―considerando tutto gli abusi che ti ha fatto passare. Quella lì non me la conta giusta.

Lui si voltò raggiante.

―Ne parli come se ci credessi.

―Sto sospendendo la mia incredulità in modo da farti sputare l’osso. Insomma, non ho ancora capito se sia buona o cattiva.

―È complicato, posso dirti solo questo― Si affacciò al mare. Non vi era più alcun uragano, solo una coperta piatta, verde, che respirava piano.

―E il resto della storia?

―Te lo racconterò un altro giorno. Il tempo è migliorato, posso proseguire il mio viaggio.

E avvenne. Sotto i miei occhi da scettico posso giurare di averlo visto tramutarsi. Non ho parole adatte per restituire metà della mia meraviglia. Ci fu un bagliore, più intenso di quello che aveva generato precedentemente, ma potei vedere distintamente un collo mostruoso tendersi dalle sue spalle, le sue dita rientrare sotto pelle e poggiare su punte di piedi non più plantigradi. Sparito il bagliore, così gli abiti. Di fronte a me stava un uccello regale, non il pulcino che aveva affermato di essere cinque minuti fa. Quella bestia voltò verso di me un viso spaventosamente espressivo, serafico, incoronato da una cresta che balenava come fiamma. Giunse una voce senza direzione, senza riverbero da caverna, direttamente nel mio cervello.

―Molte altre cose accaddero e sarò lieto di raccontartele. Ora devo andare, faccende più importanti mi attendono oltre l’orizzonte, ma tornerò presto a trovarti. È stato un piacere parlare con te Aringa.

Senza alzare un filo di vento prese il volo. Sbigottito potei solo seguirlo con lo sguardo trafelato, toccandomi la fronte pezzata di sudore. Nel vedere quella coda di nastrini librarsi in aria potei finalmente comprendere perché gli slavi lo chiamassero l’uccello di fuoco. Tante domande, nessuno più a rispondermi. Chiamai a lungo invano il suo nome dal bordo degli scogli. Farfalla sarebbe tornato presto, me lo aveva promesso. Ma quanto valeva “presto” per una fenice di cinquecento anni? E come avremmo fatto a trovarci in una terra troppo grande per due amici così stretti?

Alzai un pugno. Senza rendermene conto stringevo la piuma dorata che avevamo raccolto in quella stessa caverna anni fa. Se era vero che una fenice ritrovasse sempre le sue piume allora non ci sarebbero stati problemi, pensai, infilandola nel taschino. Avrei potuto incamminarmi per tornare a casa ma mi trattenni a guardare l'alba schiudersi dal mare. Da qualche parte, oltre l'orizzonte, un uccello di fuoco si librava nel cielo. Il mio cuore era in pace.

La brezza soffiava sulla candida spuma.

***

Bastarono un paio di stagioni a rapirmi lo stupore.
 

***

AUTORE: Cladzky

   
 
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