Yuka odiava il Villaggio della Neve.
I lunghi capelli lisci e blu scuro le arrivavano
sotto le spalle e gli occhi color del ghiaccio erano costantemente nascosti dal
velo delle yuki-onna, sebbene lei detestasse celare il suo volto per
sottomettersi alle assurde regole di quella comunità.
Yuka aveva diciannove anni, non era la più abile
nella caccia e non aveva mai generato figli, ragion per cui era considerata
l’ultimo gradino della scala, scavalcata da donne arroganti e tediose nel loro
continuo ricercare le attenzioni di Shirona, il capo di quel clan spregevole.
Lei non era come le sue amiche, non era fagocitata
dalla volontà di preservare una cosa marcia, che sarebbe dovuta morire oppure
aprirsi all’esterno e rinnovarsi.
“Noi, copulare con altri Kemono o con gli esseri umani?” l’aveva apostrofata
malamente Hisame quando aveva avuto l’ardire di dirle come la pensava. Non
l’avesse mai fatto! Uno schiaffo le aveva fatto volare via il velo e sanguinare
il labbro.
Hisame l’aveva guardata. Yuka era forse la più
bella yuki-onna che avesse mai camminato nel loro Villaggio a memoria di
Demone.
La sua pelle era soffice come una pesca matura,
non aveva opposto la minima resistenza alla sua mano dura, callosa, rovinata
dal legno delle frecce e sfregiata dai denti di lupi ed orsi.
Il suo nasino era delicato, così come le labbra.
Gli occhi però, erano determinati, sferzanti,
colmi di quello che sembrava odio, un
sentimento troppo turpe per poter appartenere ad una creatura così efebica, più
somigliante ad una Fata delle Nevi che ad un Demone.
“Non osare più sputare simili assurdità. Noi non
mescoleremo il nostro sangue con quello di bestie impure.”
La bocca di Yuka si era piegata in una smorfia che
a stento conteneva ciò che provava:
“Parli di purezza? Quale, esattamente? Quella che
abbiamo perduto mille anni fa, dopo la guerra con gli umani? Hisame, ci siamo
rinchiuse su queste montagne e ci ostiniamo ad usare i pochi uomini che abbiamo
come animali da riproduzione! Non ti fa schifo una cosa simile?”
Per tutta risposta, la donna più anziana l’aveva
afferrata per il colletto del suo yukata decorato a fini cristalli di neve e
l’aveva minacciata con voce bassa, ma ringhiosa:
“Sai cacciare solo lepri. Non hai ancora generato
figli. Credi che il tuo bel faccino ti farà vivere a lungo? Oggi pomeriggio ti
recherai nella stanza di Shirona e farai il tuo dovere, altrimenti ti
condurremo nella foresta e lì ti lasceremo a morire di stenti, legata ad un
albero.”
Gli occhi di Yuka fissavano il velo di Hisame,
fermi e inamovibili.
Forse sarebbe stato meglio morire.
Nonostante tutto, poche ore più tardi la ragazza
venne condotta a forza nella camera del capo.
Yuka non lo aveva mai visto, almeno fino a quando
non emerse un uomo di mezza età dalla penombra.
Aveva i capelli corti e ricci, bianchi come la
neve, e due occhi gentili, blu come il cielo notturno.
Un tempo doveva essere stato un uomo forte e
fiero, ma la prigionia e i rapporti forzati lo avevano ridotto ad una creatura
timida, che aveva perso forza muscolare e molto probabilmente la voglia di
vivere.
“Tu devi essere Yuka…” le disse, carezzandole il
volto.
Avevano potuto guardarsi negli occhi, e la ragazza
aveva provato una profonda nostalgia in fondo al cuore, e dagli occhi le erano
sgorgate due lacrime.
Non avevano fatto sesso, erano stati a parlare per
due ore.
E così la settimana dopo.
E quella dopo ancora.
Yuka stava rischiando, l’occhio esperto e rapace
di Hisame non l’abbandonava mai, ma lei voleva godersi quel sentimento senza
nome che aveva iniziato a provare per l’infelice e bellissimo Shirona.
Amore, pietà, rabbia, senso di consolazione si
erano miscelati nell’animo di Yuka così come i profumi di sandalo e d’incenso
venivano posti a bruciare per nascondere il puzzo di sudore, di fluidi, di
corpi volgarmente sfregati gli uni contro gli altri.
Yuka non voleva ridurre tutto a quello; Shirona
non era un pezzo di carne, un produttore di sperma.
Era un uomo che un giorno
una di loro aveva portato in grembo e partorito, ma nessuna pareva
ricordarselo. A nessuna importava, un Kemono della Neve che avesse un pene e
dei testicoli non aveva possibilità di scelta, dignità e forse neppure
un’anima.
La terza settimana Yuka si unì con Shirona, ma non
le importava di avere figli, voleva solo donare amore a quell’uomo, invece del solito sesso crudo e disonorato.
Le bastò quell’unica volta per restare incinta, e
ancora non sapeva quanto quella gravidanza avrebbe cambiato drammaticamente il
destino di tutto il Villaggio.
Lei stessa aspettava con trepidazione la nascita
della sua bambina.
Che
errore.
Yuka dava per scontato che fosse una bambina.
Credeva che sarebbe stata una delle tante, una
yuki-onna qualunque che faceva il suo dovere. E invece…
Partorì due bellissimi neonati, maschi.
Avere due nuovi potenziali riproduttori al posto
di uno mandò in visibilio l’intera comunità, e fece fremere dall’orrore la
povera Yuka.
Aveva chiamato il primo dei suoi gemelli Yui, ed il secondo Akira.
Yui aveva i suoi capelli blu, giusto un po’ più
chiari, mentre Akira li aveva azzurri tendenti al bianco.
Entrambi avevano gli occhi azzurri.
La giovane donna non ci stava. I suoi figli non
sarebbero finiti a soddisfare le voglie di donnacce senza scrupoli né morale.
Piuttosto si sarebbe fatta ammazzare.
Così accadde, infatti. Quando Hisame venne a
sapere che Yuka voleva scappare nella notte portandosi dietro i bambini, diede
di matto e la fece crivellare di frecce appuntite. Questo, ovviamente, dopo
averle strappato dalle braccia i suoi bimbi.
Mentre giaceva a terra, nella neve sporca di
rosso, la veterana si era chinata fino ad incontrare i suoi occhi, ancora una
volta colmi di un odio incontenibile.
“Le tue ultime parole?” le aveva chiesto.
“Siate sempre maledette.” rispose, prima di
spirare.
Quando Shirona venne a sapere cos’era successo, la
sua sanità mentale ebbe un crollo spaventoso, e quattro anni dopo la morte
della sua amata Yuka venne preso e chiuso in uno stanzino buio, in mezzo alla
paglia, circondato dai suoi escrementi e dagli avanzi fetidi di cibo.
L’ultimo desiderio di Yuka, il più oscuro, quello che non poteva essere
contenuto nel suo sguardo di ghiaccio, si sarebbe realizzato anni dopo, grazie
al primo dei suoi figli, il ragazzo cresciuto da donne malate con l’intenzione
di ripetere un ciclo infinito di violenza e sopraffazione.