Santiago,
supportato dalla ribelle delle Farfalle, si appresta ad affrontare la
gitana.
Prima
di farlo, su suggerimento della giovane, trova una scusa buona per
attaccare
bottone.
“Andrai
alla grande, fidati” – afferma, convinta, Silene,
entusiasta del consiglio datogli.
L’uomo
bussa alla porta, raccogliendo il coraggio, dopo un bel respiro
profondo, e
aspetta.
Nairobi,
convinta si trattasse della migliore amica, avendo udito un vociare
femminile,
apre senza la minima esitazione.
“In
bocca al lupo” – sussurra Tokyo
all’ispettore, negli attimi precedenti,
dandosela poi a gambe.
Agata
si trova, allora, faccia a faccia non con la sua socia,
bensì con il padrone di
casa.
Alquanto
sorpresa, mantiene le debite distanze, non intenzionata a cedere, come
prima,
alla debolezza emotiva.
“Cosa
succede? Se si tratta di quanto accaduto poco fa, ti prego, Santiago,
dimentichiamolo. Possiamo resettare e far finta di nulla? Io ti chiedo
scusa se
ho avanzato proposte eccessive, tu
però…” – la gitana comincia
una specie di
monologo fatto di puro ed evidente nervosismo; questo accade
perché lei sospetta
il motivo per cui Lopez si trova adesso lì.
“Aspetta,
frena…frena” – la zittisce lui,
indicandole cosa ha con sé – “Io sono
qui per
consegnarti questi, non per altro!” – spiega,
cedendole due buste di cartone di
grandi dimensioni.
“Cosa
significa?” – chiede la mora, constatando che
all’interno di quei sacchetti ci
sono alcuni abiti.
“Beh,
ho pensato che vi sarebbe stato utile cambiare vestiti. Questa roba
apparteneva
a mia madre, ad alcune sue domestiche, e varie cugine che erano solite
trascorrere le estati qui”
“Oh,
non so cosa dire…sei molto gentile” –
risponde lei, imbarazzata di averlo, in
qualche modo, attaccato, pensando chissà cosa. In
realtà, Lopez voleva solo
offrire ulteriore ospitalità, perfino cedendogli dei panni
di seconda mano.
“Tokyo
ha già ricevuto la sua parte, spero vi calzino bene. Per la
fisicità della tua
amica, penso basti la roba della giovane cameriera, magra e
bassina”
“Tranquillo,
anzi. È già tanto quello che fai per noi; io me
li farò andare bene” – sostiene
Nairobi, tirando fuori una maglia e un pantalone di tuta nero. Da
quanto tempo
sognava di poter coprire il suo corpo, mascherando dei difetti che non
ha mai
apprezzato di se stessa.
E
invece ha dovuto muoversi dentro top attillati, minigonne, calze a rete
o peggio.
Finalmente
è libera di mettere su qualcosa di comodo e non appariscente.
“Appena
possibile ve ne comprerò di nuovi” –
aggiunge Santiago.
E
tale premura fa commuovere la gitana che, non distogliendo gli occhi
dal capo
che ha in mano, lo ringrazia timidamente. Più passa il
tempo, più quell’ispettore
la stupisce in positivo.
Mentre
tira fuori, uno alla volta, gli indumenti, sistemandoli
nell’armadio e nei
cassetti, si accorge di un abitino a fiori decisamente minuscolo per la
sua
fisicità.
Il
quarantaduenne, riconoscendone l’appartenenza, confessa -
“Ops, scusami, nelle
buste deve esserci finito, per caso, un vestito di una delle mie
figlie”
“Figlie?”
– chiede, Nairobi, stupita della confessione.
“Si,
mia mamma era solita comprarne svariati, sperando sempre di vedere una
delle
sue nipoti femmine indossarlo. Peccato, questo è rimasto
qui. Credo fosse destinato
a Hanna” – spiega, riuscendo, in tale modo, a
tirare fuori l’argomento prole.
Argomento
che attira l’attenzione della gitana.
“Non
avrei mai scommesso su una tua paternità”
– precisa la zingara, piacevolmente
colpita.
“Beh,
e invece sì. Ti stupirò dicendoti che ne ho
addirittura sette?!”
“Cosa?”
– esclama, scioccata – “Non
può essere”
“Lo
è! Guarda” – come fatto in precedenza
con Tokyo, tira fuori dal portafoglio ben
sette fotografie ritraenti i suoi eredi, presentandoli uno ad uno:
tutti di
diversa nazionalità, tutti avuti da donne differenti.
Seduto
sul letto, l’ispettore si racconta, portando, spontaneamente,
Nairobi a fare lo
stesso.
“Sarebbe
bello averli qui con me, però…”
– respira profondamente, buttando fuori l’aria,
liberandosi di un peso che custodisce da tempo, e poi precisa
– “ … sono un
padre sciagurato, un padre di merda che ha preferito crescessero con le
madri, tirandosi
indietro”
“Non
si nasce genitori, si sbaglia, si cade, ci si rialza,
l’importante è provarci”
“Tu
scommetto che sei stata una mamma perfetta per il tuo bambino”
Ma
quel richiamo ad Axel rabbuia Nairobi, che sprofonda nei ricordi di un
doloroso
passato.
“Per
mio figlio ho fatto di tutto, qualsiasi cosa, non mi sono mai arresa.
Ho provato
a dargli il meglio. Ma la vita mi ha sputato in faccia. Ad oggi,
proprio come
te, sono una persona con il cuore a metà e la mente fiaccata
dal pensiero del
mio cucciolo”
Santiago
la osserva, sentendosi in colpa nel tenerle nascosto un dettaglio
essenziale circa
Axel.
Combattuto
se raccontarle o meno il fatto accaduto a Lisbona, Lopez evita
l’argomento a
causa della successiva domanda di Agata che lo porta a centrarsi su se
stesso.
“Da quanto non vedi i tuoi figli? Saranno grandi
adesso”
“Dalla
morte di mia madre” – spiega, incupendosi.
Anche
la gitana, amareggiata, si zittisce, dispiaciuta di aver evidentemente
aperto
una ferita ancora sanguinante.
“Perdonami,
non volevo…”
Lui riprende - “…non li vedo da quando ho deciso
di isolarmi dal resto del
mondo, concentrandomi solo ed esclusivamente sul lavoro… da
quando la mattina
del mio compleanno, ho trovato un biglietto sul tavolo che diceva
“La signora Leticia
è in ospedale. Ha avuto un malore”. La mia
domestica era molto amica di mia
madre e la seguiva come fosse sua figlia. Così mi recai in
ospedale. Il medico fu
chiaro sin da subito: da un tumore al cervello difficilmente ci si
salva. Passai
nottate in bianco, a sentirla gridare di dolore, a vederla consumarsi,
indebolirsi e spegnersi sempre di più. Per una leonessa come
lei, è
inaccettabile placare la grinta e la fame di vita”
“Doveva
essere una gran donna, la tua mamma”
“Lo
era assolutamente!” – commosso al ricordo della
persona più importante della
sua vita, Lopez nasconde il viso tra le mani, non intenzionato a
rivelare
quella debolezza.
Ma
di fronte a tale dolore, Agata non riesce a mantenersi fredda.
Istintivamente,
la zingara si avvicina all’uomo e lo tira a sé.
Il
quarantaduenne si accovaccia al petto di lei, sentendo quel calore
materno che
gli è tanto mancato negli anni.
La
gitana lo stringe, gli accarezza i capelli, e sembra coccolarlo, come
era
solita fare con Axel.
Nessuno
dei due ha la forza di parlare o anche solo di guardarsi negli occhi.
Ciascuno
preso dai rispettivi ricordi e dolori, cede al pianto.
E
dopo aver trascorso svariati minuti stretti l’una
all’altro, senza rendersi
conto dello scorrere delle lancette sull’orologio,
è la donna a rivelare un
dettaglio del suo passato.
“Io
ho sempre odiato la solitudine. Ho trascorso la mia infanzia e la mia
adolescenza convinta di essere sola, poco amata, di essere perfino un
intralcio
per i miei genitori. Così mi sono rimboccata le maniche, a
tredici anni ho
iniziato a lavoricchiare. Ero poco più che una bambina.
Aiutavo una vecchia
sarta a sistemare abiti di seconda mano. Nel mio barrio si faceva la
fame. Una sera,
stavo rientrando, e mi accorsi di un vociare e di musica. Proveniva da
un
accampamento poco distante casa mia. Fu allora che mi innamorai del
flamenco. Da
quel momento in poi, mi recavo lì, a fine turno per guardare
il ballo di quella
signora, per me magica. La ricordo ancora oggi, bellissima e
dolcissima. Una
sera mi beccò, sai?”
“E
cosa successe?” – chiede, curioso di conoscere la
vita di Agata, appassionato al
suo modo di raccontare. Non la sta guardando in volto, ma stretto al
suo petto,
avverte l’accelerazione del battito cardiaco, segno di una
forte emozione
attivatasi al ricordo di qualcosa che la rendeva libera. E non esisteva
altro di
meglio per Nairobi se non la libertà.
“Beh,
mi prese sotto la sua ala protettrice. mi chiese di partecipare, di
provare a
danzare con lei e le sue alunne. Era una danzatrice in piena regola.
Per noi
del barrio, averla era un lusso. Nessun altro quartiere gitano, vantava
la
presenza di una professionista. Si chiamava Alba, ed è stata
seriamente, per me,
l’alba di un nuovo giorno. Ho scoperto tanto di me. Mi
regalò un suo abito…”
“Quello che hai indossato quando ti ho vista
ballare?”
“Già”
– risponde, giocherellando con i capelli
dell’ispettore – “Però i miei
scoprirono
il fatto e mi impedirono di frequentarala”
“E
perché mai?”
“Era
impensabile per una ragazzina come me tornare a casa a tarda ora, e
danzare in
quella maniera, istigando uomini di ogni età… mi
ripetevano questo, però io sapevo
benissimo le vere ragioni. Loro non avrebbero mai permesso che io mi
guadagnassi un posto nel mondo, in quanto donna. Per loro dovevo
sposarmi, fare
figli, restare a casa, crescerli…”
“Nairo,
ora intuisco come mai avverti, con forza, questo desiderio di
libertà”
“Io
odio essere chiusa in gabbia. Odio che mi venga imposto di fare
qualcosa. Sì,
sarò una farfalla, ma una farfalla che cerca di volare
lontano, e non una
farfalla che viene catturata per essere messa in bella mostra
affinché qualcuno
possa tirarle via le ali per sempre!” – la
confessione, nuda e cruda, di Agata
dà a Santiago la chiara conferma della forza insita nella
gitana e di quanto,
proprio tale forza, gli abbia fatto perdere la testa per lei.
“Sei
un vulcano, lo sai? Non ho mai conosciuto nessuna speciale come
te!” – le dice,
riuscendo a lusingarla senza apparire un playboy.
“Le
regole di casa mi hanno limitata nella vita. Addio flamenco, addio
lavoro,
addio tutto. Avevo pronto per me un promesso sposo a cui, a detta dei
miei,
avrei dovuto sottostare a vita”
“Cazzo,
è inaccettabile che esistano ancora condizioni
simili”
“Purtroppo,
sì. Ed essere genitori, non è mai facile,
specialmente in contesti come quello
dove sono vissuta”
Segue
silenzio. Un silenzio interrotto dal prendere parola di Lopez.
“Io
invece ho avuto un padre del tutto invisibile, sono cresciuto con mia
madre e
la sua domestica del cuore. E sai perché mi considero un
padre di merda? Perché
ho seguito le orme del mio”
“Puoi
riscattarti, cercando di riallacciare i rapporti con i tuoi figli. Non
tutto è
perduto. Non so, magari pian pianino, prova a rientrare nelle loro
vite”
“È
dura, quando hai delle ex pronte a sbatterti la porta in
faccia”
La
questione Axel, di cui Nairobi ancora non fa cenno, viene toccata,
delicatamente, dall’ispettore, desideroso di saperne di
più. E così’ torna sulla
faccenda della zingara.
“Com’è
finita poi con i tuoi genitori? Perché, scommetto che,
avendo avuto un bambino,
ti sarai sposata come loro prevedevano, no?”
La
gitana scuote il capo. Slega le braccia dal collo
dell’ispettore, che aveva stretto
a sé fino a pochi istanti prima, e solleva lo sguardo.
Finalmente
trova la forza di guardarlo negli occhi e mettersi a nudo –
“Sono rimasta
incinta a ventitré anni, di un uomo che mi promise le
stelle, ma si rivelò tutt’altro”
Il
volto stranito e confuso del quarantaduenne porta Agata ad andare nel
dettaglio
– “Ero vogliosa di trasgressioni. Basta regole,
basta no, basta imposizioni
familiari. Così una notte, con delle amiche, siamo andate in
discoteca, qui a Madrid.
Io, sì, ero promessa in sposa a un tizio, che conoscevo
appena. Però me ne fregai.
Mentii ai miei dicendogli che avevo un appuntamento proprio con questo
presunto
fidanzato. Invece lì conobbi un giovane di
bell’aspetto. Lui mi offrì da bere,
mi lusingò e riempì di attenzioni tutta la
serata. Fui io a baciarlo, in pista.
E di certo non mi limitai al bacio a stampo” –
mentre racconta, le sue guance si
colorano di rosso acceso, come se, al solo ricordo, avvertisse quello
stesso
calore fisico.
“Ehm…
ok, quindi lo avete fatto e sei rimasta incinta, penso di aver
intuito” –
taglia corto l’uomo, alquanto infastidito dall’idea
che qualcuno potesse toccare
Nairobi e potesse baciarla come stava sognando lui di poter fare.
“No,
non quella sera. Trovai varie scuse per uscire di casa. Ci vedemmo per
un mese
intero. Quando rimasi incinta, quello stronzo aveva già
lasciato la Spagna con
la sua mogliettina”
“Cosa? Cazzo, era sposato?”
“Si,
di lui non ho saputo nulla, tantomeno voglio saperne. Axel, mio figlio,
fu ciò
che mi rimase. Probabilmente la sola cosa bella fatta in vita mia. I
miei si
infuriarono. Mi chiusero in casa settimane, contrattarono con la
famiglia del
mio promesso sposo. Insomma, alla fine mi obbligarono ad
abortire”
“Aspetta,
aspetta, aspetta… ma voi zingari non siete contrari
a...?”
“Appunto!
Io mi rifiutai. Presi uno zaino, poca roba, e andai via. Lì
cominciò il mio
calvario”
“Fu
allora che hai trovato il Mariposas?” – esclama
scioccato il quarantaduenne. Facendo
due conti, Nairobi vivrebbe quell’inferno da ben dieci anni?!
“Quel
locale fu la mia salvezza, per i primi anni. Mi venne promesso che, se
avessi
rispettato le regole di convivenza civile, sarei potuta rimanere per un
po', ben
tutelata. E ti giuro che fu così. Partorii tra quelle mura,
poi le cose cambiarono.
Ho tenuto Axel con me per tre anni, poi mi fu tolto”
“E
come mai? Che vuol dire che le cose cambiarono? Ci fu un cambio
gestione? Qualcuno
ti ha minacciata togliendoti il piccolo?”
Davanti
a così troppe domande, Agata non si sente più a
suo agio e una conversazione
nata con naturalezza assume i toni di un interrogatorio.
È
lei, così, a chiudere, alzandosi dal letto –
“Direi anche basta, adesso! Pensavo
ci stessimo raccontando”
“Lo
stiamo facendo”
“No,
che stupida che sono! Hai trovato un modo per farmi parlare? Cosa
volevi? Notizie
su quanto mi è accaduto?”
“Ti
prego, non prendertela, non volevo ferirti”
Cerca
in ogni modo di ristabilire la sintonia di poco prima.
E
mentre Agata, muovendosi confusa e agitata, nella stanza, non
è intenzionata a
cedere, l’ispettore aggiunge – “Vorrei
che tu sapessi una cosa importante”
Ma
la gitana non replica, sembra piuttosto ignorarlo.
“Ascoltami…
io per te sono disposto a tutto…ho perfino deciso di usare
un nome di città…”
Tali
parole fanno ridere la donna – “Hai voglia di
prendermi in giro, adesso?”
“No,
non lo farei! Ti amo troppo per giocare con i tuoi sentimenti”
Un
Ti amo, pronunciato senza consapevolezza, spiazza, definitivamente
Nairobi.
“Cosa
mi hai appena detto?”- gli
chiede di
ripetere.
Basta
freni…Santiago con una forte morsa allo stomaco si espone in
tutto e per tutto –
“Mi sono innamorato di te! Ti amo e voglio averti nella mia
vita, non mi
importa se ci saranno difficoltà, problemi insormontabili,
me ne fotto. Io ti
voglio, sogno di averti di fianco a me ogni mattina, quando apro gli
occhi;
sogno di baciarti ogni sera prima di andare a dormire; sogno di fare
l’amore
con te, in ogni dove; di accarezzarti; di sussurrarti quanto mi fai
stare bene…
Nairobi, sei la donna che aspettavo da tutta una vita. Ti prego, non
alzare
muri, di nuovo!” – una confessione in piena regola,
carica di sentimento, di pathos,
e di lacrime.
Molte
lacrime.
Lacrime
che uno schivo come Lopez ha sempre evitato di mettere in mostra.
La
sua sincerità traspare dagli occhi, dal movimento del suo
corpo, dalle
espressioni del suo viso.
Ciò
è la prova che Agata cercava. Trattenuto il pianto troppo a
lungo, la donna crolla.
Si
avvicina, lentamente, all’ispettore.
La
sua espressione tesa si rilassa, e un sorriso radioso le si disegna sul
volto.
Accarezza
il viso del compagno, asciugandolo teneramente, adagiando poi la sua
fronte su
quella di lui, il quale, a sua volta, non riesce a toglierle gli occhi
di dosso.
“Mi
credi se ti dico che stavolta hai toccato il tasto giusto?”
– sussurra lei,
abbassando ogni difesa.
Appoggiandosi
ad una parete, lo tira a sé e i due, finalmente, si
scambiano il bacio tanto
atteso, un cercarsi e incontrarsi, una fiamma che divampa.
Avevano
già sperimentato l’unione carnale. Ma di amore
c’era ben poco… adesso invece quello
che provano è dettato dal cuore.
E
quando entrambi sono pronti al passo successivo, che viene vissuto in
piena
spontaneità, è proprio Agata a dare conferma dei
suoi di sentimenti.
“Accidenti,
ispettore, ci sei riuscito, sai?”
“A
fare cosa?” – chiede lui.
“A
farmi innamorare di te!” – ridacchia, imbarazzata.
Spiazzato
da tali parole, Lopez sente di toccare il cielo con un dito.
Vivere
quel momento così intimo gli restituisce la fiducia nella
vita.
Esiste
davvero, come diceva anche sua madre, una persona per l’happy
ending – “A
proposito..” – precisa, quando ormai esausti, si
tengono stretti, a letto,
coperti dal solo lenzuolo bianco – “Ti avevo detto
che ora ho un nome di città
anche io”
“E
quale sarebbe?” – domanda, incuriosita, guardandolo
con una luce diversa nello
sguardo, come una ragazzina alla prima cotta.
“Bogotà!”
– rivela lui, accarezzandole, delicatamente, la schiena nuda.
Che rabbia vedere
quei lividi e non poter sapere cosa le è accaduto.
Però
attenderà, non ha altra scelta. Adesso che Agata ha aperto
il suo cuore,
troverà anche la forza per far venire a galla tanti segreti.
Entusiasta
della scelta, la gitana conclude – “Bella scelta,
allora da adesso in poi,
sappi che non sarai più Santiago l’ispettore.
Sarai solo e semplicemente il mio
Bogotà”
I
momenti successivi sono dedicati alla scoperta del loro amore, al
viversi, all’accettare
di esserci l’uno per l’altra.
E
questo, per Nairobi, è un nuovo inizio. I lividi sul suo
corpo, le ferite del
suo cuore, possono diventare ricordi da cancellare. E lei lo sa
bene…oggi solo il
suo uomo e l’amore nei suoi confronti l’aiuteranno
su questa strada.