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Autore: Demoiselle An_ne    05/04/2022    13 recensioni
Questa OS si inserisce in un potenziale missing moment e l'idea me l'ha fornita Rosalie, quando durante il suo primo ballo, chiede ad André, quasi retoricamente, se ad André non piaccia - empaticamente, s'intende -Charlotte. Da lì ho immaginato un personaggio che si pone tra i nostri e Charlotte ma che meglio conoscerà quest'ultima e André. Questo non vuole cambiare affatto il corso della storia, è semplicemente uno sguardo più ravvicinato - o distanziato, a seconda della chiave di lettura - a Charlotte e forse André. Spero di non aver osato troppo e ringrazio sin da ora le amiche di tastiera che mi hanno supportata :).
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, André Grandier, Charlotte Di Polignac, Rosalie Lamorlière
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La primissima volta che Gerda Verbeke aveva posato i suoi larghi e svampiti occhi onice sulla contessina Charlotte de Polignac, stava rammendando delle vecchie calze in vista di tempi più freddi; tirava e immergeva l’ago nella stoffa consunta, come se stesse colpendo le malelingue che con tanta solerzia avevano mandato in malora i suoi affari. Là, dove non avevano colpito le dicerie sul suo vetusto e – sebbene da molti - presunto legame con Jan de Lichte*, avevano colpito e affondato le chiacchiere che affollavano la bocca di quella vacua e ciarliera Madame Bertin. Come un mortifero veleno si erano espanse e a poco erano serviti i suoi tentativi, o quelli della vecchia amica Marie, di arginarle: era ormai stata bollata come traîtresse della patria. Ma quale patria? Non l’avevano mai accolta e alla donna neanche interessava, in effetti. No, lei voleva semplicemente svolgere il suo lavoro e voleva farlo senza complicazioni di sorta; era una donna spiccia lei, mica una sciocca sentimentale!
Pensava questo, mentre con furia misurata gettava indietro una ciocca resa grigia e lanuginosa dall’implacabile scorrere del tempo e con l’occhio lievemente sbilenco sbirciava l’ambiente spoglio e semplice che, da anni ormai, le teneva compagnia. Accarezzò con lo sguardo il mobilio recante i morsi dalle tarme, soffermandosi con affetto sull’attrezzatura da lavoro, antiquata ma dignitosa. Per ultimo, con un impercettibile gonfiarsi orgoglioso del petto, studiò con amorevolezza la collezione di vecchie bambole, da lei confezionate, per intrattenere i piccoli clienti; soldati, ballerine, principesse e vezzose damine fasciate nei loro abiti, una volta sgargianti, le rimandavano un’occhiata vuota: “non è colpa tua, né nostra”, parevano dirle e lei era quasi sul punto di annuire quando si riscosse. Il cigolio della vecchia porta, ormai avida d’olio, le provocò un sussulto.

Gerda pensò che quella bionda signora benestante, ma non troppo - se doveva rivolgersi a lei e non a quella smorfiosa della Bertin - dovesse aver ingerito in quell’istante un boccone amaro: l’espressione di alterigia e fredda, quanto cortese, superiorità pareva agitarsi nelle pupille chiuse dalle iridi chiare con grande insoddisfazione davanti al suo misero regno di legno, tessuti e bambole.
Poi la vide, dietro di lei, stretta alle gonne della madre, una bambinetta di non più di nove anni. Charlotte, come la madre, aveva tratti gradevoli e uno sguardo luminoso identico alla genitrice ma privo di alcun guizzo malizioso. Si fissarono le due, l’anziana e la bimba, e si capirono, si trovarono: erano creature aliene a quel contesto e nella loro diversità sembrarono stringersi.
Nonostante i primi capricci Charlotte si lasciò vincere da quelle bambole e in particolare una la conquistò: gli occhi dello stesso azzurro limpido e i capelli color grano bagnato da un sole estivo, le somigliava incredibilmente.
Sebbene la Contessa sua madre apparisse scontenta – ma qualcosa l’aveva mai sinceramente contentata? – il modo quieto in cui Charlotte si lasciò ammantare dai tessuti buoni, tenuti da parte e in modo così docile si fece misurare e punzecchiare, convinsero la donna a tornare. Quello che nessuna di loro aveva previsto erano le visite settimanali, talvolta senza alcun motivo, che la più giovane faceva sovente a Gerda; dopo un primo momento di spaesamento la sarta si abituò e anzi trasse conforto da quelle incursioni – certamente lo erano, secondo lei– segrete.
Da quanto era che dei bambini non la venissero a trovare? Tantissimo, forse da quando Marie le portava suo nipote e il giovane Conte. Il primo era tornato e talvolta tornava ancora per offrirle l’ausilio dei suoi occhi dove il suo sguardo non riusciva più; l’altro no, ma aveva potuto spiarlo da una distanza di sicurezza quando aveva scortato l’Austriaca. Li ricordava piccoli, André e il Conte, sebbene lei sapesse essere una contessa, sempre intenti ad azzuffarsi e a giocare: dove finiva uno cominciava l’altro. Qualcosa di lei le rimandava dei riverberi mentre osservava Charlotte che, silenziosa e signorile, le sedeva accanto intenta a ricamare e giocare con trasporto. Gerda non sapeva esattamente dire cosa, ogni volta che le veniva in mente una similitudine questa pareva sfuggirle come sabbia tra le dita. Che fosse il temperamento? Figurarsi! Quella Oscar una volta le aveva quasi morso una mano quando, con il fare assertivo e condiscendente che si rivolge ai bambini, le aveva sventolato un dito sotto il naso con l’invito a sfilarsi gli abiti per provare ciò che lei aveva alacremente cucito. Doveva essere l’atteggiamento delle spalle che le due giovani, forse inconsapevoli, assumevano; dal basso della sua ignoranza e con quella voce che spesso risucchiava le lettere, retaggio della lingua madre mai abbandonata completamente, la donna scorgeva lo stesso piegarsi alla volontà genitoriale. Charlotte era facile da amare, voleva compiacere ed essere ammirata; Oscar no.
Lei voleva valicare i confini impostile dal suo sesso e giungere al compimento degli spasmodici e gloriosi sogni paterni per poi farsi apprezzare, forse addirittura amare, ma solo ed esclusivamente dal padre e da André. Del primo sembrava avvedersene, dell’altro no; ma lei, la vecchia sarta, se n’era accorta e mentalmente ringraziava il giovinetto che l’aveva convinta a seguire le richieste di Gerda.
Dopo il tentativo di azzannarle un indice, infatti, Oscar era stata trascinata giù dallo sgabello da André e questi – col tocco gentile di un gentiluomo in miniatura e lo sguardo smeraldino incredibilmente vispo e saggio – le aveva sussurrato qualcosa all’orecchio e lei, Oscar, sebbene lievemente contrariata, come testimoniava la lieve piega delle sopracciglia chiarissime, si era poi concessa un lieve sorriso e un cenno di assenso col capo.
Il modo di comunicare di quei due, quando non le mettevano a soqquadro la bottega, era un fatto che ne irretiva sempre l’attenzione: pareva vi fosse cura, premura e qualcosa che lei – sempre dal basso della sua scarsa conoscenza – aveva etichettato come amore.
Lo vedeva nel modo in cui si lanciavano in grandi bisticci su chi dovesse farsi “infilzare a morte dai pugnali” di Gerda (“quante storie per due spilli!” bofonchiava lei); nello sfiorarsi lieve dei gomiti mentre giocavano e nel muto accordo che stipulavano quando toccava scegliere chi si sarebbe accaparrato il soldato dalla divisa d’alabastro della sua collezione di bambole nell’attesa delle migliorie ai loro abiti.
Questi erano i pensieri che di volta in volta, tra passato e presente, si affastellavano nella mente della vecchia signora ogni qual volta si ritrovava a studiare Charlotte.
Lei, però, pur consapevole del lignaggio della piccina, non la chiamava con titoli di nessun tipo, era qualcos’altro che la spingeva a darle il soprannome di “Ma chérie la Poupée”**; qualcosa che Oscar aveva e a Charlotte mancava: la tenerezza di un amore disinteressato.
Ne avevano discusso spesso lei e André dopo che il giovane le aveva trovate insieme e Gerda non si era affatto sorpresa nello scoprire che i due si conoscessero, sapeva che André e il Conte frequentavano Versailles e in quali vesti e, dopo che la madre di Charlotte non si era fatta più viva, nonostante la ragazzina avesse fornito una scusa gentile, sapeva che il cambiamento era da imputarsi al fatto che anche loro ora vivessero lì.
Era inciso nella carrozza più preziosa, ricalcato nei ricami più pregiati dell’abito della sua Poupée e impresso nello sguardo più spento di quella bambina che voleva solo giocare con delle vecchie bambole.
“Sai, Gerda? Charlotte non è come sua madre: l’ho vista giocare nei giardini l’altro giorno e ha un’innocenza che temo presto potremmo non scorgere più. Sua madre parla di darla in moglie, si vocifera. Ma ci credi?” – André aveva parlato con tono cauto ma preparato, voleva che anche lei lo fosse, al distacco. E Gerda? Gerda poteva accettarlo?
No, non poteva e non avrebbe voluto immaginare una scena già vista altre volte: una schiena fatta di foia che ghermisce con cupidigia un corpo sin troppo giovane, era il destino di tante. Troppe.
Lei per prima lo aveva sperimentato, ma Charlotte? No, lei ne sarebbe morta, ne era certa e la cosa le procurava un dolore che non era disposta a tollerare.
Ripensò a quando André le aveva raccontato di come l’aveva vista prendersi cura del fratello minore***, a come lasciava che le sue vecchie mani artritiche le strecciassero i capelli con una delicatezza inusuale e l’ausilio della consunta spazzola e ripensò a quanto spesso André le avesse raccontato di come cercasse di mitigare – con scarso successo – le scortesie materne verso Oscar.
Un giorno si fece coraggio, quando ebbe saputo che la bambina mai più sarebbe potuta correre a trovarla e che l’inevitabile era giunto, e lo chiese ad André. Lo fece davvero!
“André, non c’è nulla che tu o il Conte possiate fare per la Poupée?”
André si interruppe nell’atto di sistemare uno sgabello e, come a prendere tempo, si grattò assorto il mento.
“Intendi per la Contessina Charlotte? E cosa potrei io? Io sono come te e Oscar…lo sai, no? Non gode delle simpatie della madre…”
Un colpo secco che gettò a terra un vecchio doppiere.
“Ma la tua Oscar ha le simpatie dell’Austriaca, non bastano?”
Di colpo André abbassò lo sguardo sul pavimento, colto in fallo da quel “tua” e dall’ineluttabilità della situazione. Che credeva, Gerda, che lui non ci avesse pensato? Voleva bene a quella ragazzina, gliene voleva da quando l’aveva incontrata lì e tra loro era nato quel tacito e innocente patto. Ciò che più di tutto lo feriva era vedere un destino analogo, per certi aspetti,  a quello che era toccato ad Oscar: l’impossibilità di scelta e l’articolata finzione di una miriade di opportunità per loro. Con le pupille abbracciò tutte le bambole di quella stanza e con un risolino di rabbia che gli si inerpicava con impertinenza su per la gola pensò – Siamo tutte bambole, io per primo, e nessuno di noi ha veramente scelta. Pensi che Charlotte soccomberà, vecchia Gerda? Spero di no, ma lo temo anch’io. Esattamente come non ho potuto dire ad Oscar che, per quanto ci provi, mai potrà essere un uomo, non posso dirla a te una verità così scomoda. –
Chinò il capo in un muto grido intriso di diniego e frustrazione, la bocca una linea di amara rassegnazione.

Quando André vide il corpo di Charlotte in quella posizione innaturale, qualche sera dopo, coi capelli d’oro sparsi intorno, si sentì responsabile. Non più di altri, certo in piccola parte,  ma lui come molti aveva posato il suo sguardo su di lei e poi lo aveva voltato per non assistere al disfacimento che si stava svolgendo, di giorno in giorno, davanti a lui, di quella giovane vita. Per un momento, lui, che non odiava mai nessuno, sperò che Rosalie uccidesse la Polignac, lo desiderò davvero. Sentì lo sfarfallio del proprio cuore accelerare nel petto e chiedere quella vendetta ma non diede voce a tale anelito.
Fece suo il dolore di Rosalie e quella sera, quando rientrarono, ormai soli davanti al camino, le carezzò una ciocca di capelli ormai sfuggita dall’acconciatura distrutta e le disse: “Lo sai, Rosalie? Avevi ragione, la Contessina mi piaceva molto: le volevo bene. Puoi non credermi forse, ma aveva la stessa trasparenza di Oscar, non la sua forza purtroppo.”
“Lei non aveva te, però, André. Sai che Madamigella è forte grazie anche a te? Mia sorella non aveva questa fortuna. Non è colpa tua né mia, ma della Contessa di Polignac. Solo sua, non dimenticarlo André…” –Ingollando un ultimo sorso di vino, André trovò conforto in quel pensiero e si coricò un po’ risollevato, sperando di riuscire a dare la notizia a Gerda senza arrecarle troppo dolore.

Non vi fu tempo però di dare nessuna infausta notizia, né di lasciare che il vecchio dolore s’assopisse. Come se Gerda lo avesse saputo prima di tutti loro, si era spenta in un sonno pacifico e tra le mani la bambola preferita di Charlotte. La stessa che lei non aveva voluto portare con sé, perché, così le aveva detto con mestizia, l’ultimo giorno che si erano viste: “Maman non vuole, presto sarò una donna”.

André diede una rapida occhiata alle tombe spoglie lì intorno e, mentre Rosalie – che aveva insistito per andare con loro – confortava sua nonna, lui lasciò scivolare sulla tomba la Poupée e la rosa bianca che Oscar gli aveva consegnato. Adesso Gerda e Charlotte erano insieme e per quanto lo riguardava quella era la sepoltura di entrambe. Non era voluta venire lei, Oscar, e André sospettava fosse perché non amava farsi vedere così vulnerabile e terrena da altri che non fossero lui. “Piangi, Oscar” - pensò – “non è mai un problema farlo, ma sappi che non permetterò mai che a te accada una cosa come questa. Mai.”




*Jan de Lichte (Velzeke, aprile 1723 – Aalst, 4 novembre 1748) è stato un brigante fiammingo e ho immaginato che la mia Gerda, in quanto immigrata fiamminga, potesse essere vista come una figura potenzialmente imparentata con lui, la scelta la lascio ai potenziali lettori e, se vi va, vi consiglio la serie di Netflix “I banditi di Jan”, una piccola scoperta che a me è molto piaciuta.
** Sì, ho spudoratamente attinto da “Caro fratello” della Ikeda per il nomignolo che Gerda dà a Charlotte.
***Armand Jules Marie Héracle de Polignac è l’effettivo fratello minore di circa tre anni della vera Charlotte (in realtà Aglaé) e se non erro si fa un vago riferimento a potenziali fratelli nella versione giapponese dell’anime.


Angolino autrice: Questa storia non mi convince neanche un pochino ma manco da questi lidi da tantissimo tempo e per questa spinta di ritorno devo assolutamente ringraziare Etienne86 e Settembre17 (sei preziosa, lo sai vero?) che tanto ci hanno creduto e tanto mi hanno motivata…spero veramente di aver meritato tanta premura! Senza di voi neanche ci avrei provato, lo sapete. Inoltre volevo ringraziare Galla e Dorabella che con le continue e stimolanti chiacchierate mi hanno fatto tanta compagnia e dato – inconsapevolmente – nuovi spunti. Questo racconto nasce dall’idea che mi sono fatta alla domanda che Rosalie, durante il primo ballo, porge ad André. Sarà un’idea bislacca forse, ma volevo creare una sorta di figura materna e di conforto parziale per la piccola Polignac e un fugace sguardo esterno ai nostri amati. Non so se tornerò a scrivere tanto presto, ma da qualche parte si deve pur cominciare, no? 😉 Grazie a chiunque decida di leggere, commentare o dedicare del tempo a questa OS: significa tanto per me.
Un saluto, 
A.

  
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