Anime & Manga > Bungou Stray Dogs
Segui la storia  |       
Autore: Eneri_Mess    13/04/2022    2 recensioni
FINE (Prima parte)
Con il segreto che nasconde, Yokohama è una città dove non si possono dormire sonni tranquilli.
Dal Preludio:
Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole.
«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»
«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!»
Genere: Azione, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 20

Minutes to midnight





 

When my time comes
Forget the wrong that I've done
Help me leave behind some reasons to be missed
And don't resent me
And when you're feeling empty
Keep me in your memory
Leave out all the rest
Leave out all the rest

[Leave out all the rest - Linkin Park]






 

Quel pomeriggio - erano quasi le diciassette - Sigma si trovava in una caffetteria al penultimo piano di un palazzo antistante il quartier generale della Polizia Metropolitana di Tokyo. 

Non si era levato dalla testa il fastidioso cappello da baseball e neanche gli occhiali da sole, e lì nell’angolo dove si era rintanato per avere privacy e tenere d’occhio la situazione era certo che avrebbe restituito l’ideale della persona sospetta. Eppure quella era Tokyo e nessuno aveva sollevato ancora dubbi nei suoi confronti; uno sguardo distratto e qualcuno curioso era tutto ciò che aveva ricevuto. 

Magari credono che io sia un idol in incognito, pensò succhiando rumorosamente il proprio frappè dalla cannuccia. 

La sua attenzione vagò di nuovo sulle strade che si intrecciavano ai piedi dei palazzi e il fiume di persone che le popolavano. C’era qualcosa nelle folle che lo catalizzava e lo respingeva al tempo stesso, eppure non aveva smesso di fissarle nelle due ore che aveva passato lì, in attesa. 

Tokyo era una città che divideva i suoi sentimenti. 

Riusciva a mischiarsi tra i suoi abitanti sembrando un chiunque qualsiasi e camminava lasciandosi trascinare da chi lo circondava, con la parvenza di avere una meta. Quando però si fermava a un angolo e osservava quello stesso flusso continuare a fluire in perpetuo, tornava a essere se stesso e a non sentirsi nessuno. A non essere nessuno.

Sapeva quale fosse il suo lavoro, cosa dovesse fare - e non era perdersi o fare il turista - ma era più forte di lui. Come lo era approfittare di quei momenti di intervallo, di attesa, dove poteva entrare nei negozi e sentirsi una persona normale; oppure riempire le ore spendendo metà del proprio budget in consumazioni al tavolo e assaggiare cibi di cui credeva di conoscere la consistenza, ma che continuavano a essere nuove scoperte. La vaniglia restava tra i suoi gusti preferiti. 

Quando i sapori colpivano le sue papille gustative per la prima volta si sentiva stupido, perché aveva idea di cosa avesse davanti - tramezzini, tartine, una sacher - eppure la sensazione rimaneva quella di assaggiarli per la prima volta. A volte si chiedeva fino a che punto l’amnesia avesse cancellato parti di lui, come se tre anni prima fosse stata fatta tabula rasa di qualsiasi sua esperienza di vita, anche la più banale come quella del sapore di un ingrediente. 

Per quanto ci convivesse da tempo, la tristezza del pensiero lo raggiungeva ugualmente, come la carezza malinconica di una mano a cui non si poteva sottrarre. 

Quello di non ricordare era un peso frustrante che si faceva sentire quando si concentrava sugli altri, li osservava, che fossero passanti distratti, persone impegnate, viaggiatori, commessi, bambini, chi andava, chi tornava… 

Per fare tutte queste cose uno dovrebbe sapere chi è. 

Era un pensiero ricorrente che non lo abbandonava, attaccato come una sanguisuga alle sue emozioni. 

C'erano delle equazioni nella sua mente, teorie su come dovesse essere un individuo che conosceva le proprie origini, che partiva da un punto A e procedeva verso un punto B. Banale, lineare, riduttivo. 

Sigma non aveva una gran esperienza con le persone, eppure pensava che conoscere le proprie radici fosse indispensabile per reggersi sulle proprie gambe. Lui ci riusciva per uno spirito di sopravvivenza a cui non sapeva dare nome. A volte pensava fosse la semplice riconoscenza - e timore, molto timore - nei confronti di Dostoevskij, che si era preso cura di lui e gli aveva promesso di realizzare un desiderio, se li avesse aiutati. Per qualcuno senza passato, senza futuro, e con un presente incerto fatto solo di un biglietto del treno che non sapeva da dove arrivasse o dove portasse, accettare una proposta del genere era avere finalmente uno scopo nella vita. 

Tuttavia, se escludeva quel compito, ciò che gli rimaneva non era sufficiente per avere una ragione per vivere. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene. 

Aveva bisogno di zittire il senso di angoscia che gli provocava avere un'amnesia talmente grave da non ricordare il proprio aspetto. Un'angoscia che peggiorava la situazione perché la sentiva forzata, artificiale. Come se pensare di non avere ricordi fosse una cosa normale invece del contrario. 

Non sarebbe voluto tornare e ritornare su quel punto, ma imporsi solo di pensare alla ricompensa che avrebbe ricevuto una volta concluso quel compito. Il Casinò in cielo sarebbe stato l’inizio della sua nuova vita: un luogo senza giurisdizione, dove le regole le avrebbe fatte lui, decidendo chi far entrare o chi buttare fuori.

Il suo sguardo vagò dove in realtà si sarebbe dovuto trovare per tutto il tempo e notò ciò che, da due ore, stava aspettando - anche se ciò significò la fine del suo intervallo di pace. 

Un’auto governativa si era appena fermata davanti all’ingresso riservato della Polizia Metropolitana. Due uomini stavano parlando - o meglio, uno stava gesticolando con fervore mentre quello che lo seguiva continuava a inchinarsi anche troppo profondamente. Sigma riconobbe il Vice Ministro alla Giustizia, Tonan, e il suo segretario. L’intera scena non durò più di tre minuti e il Vice Ministro si infilò in auto, senza neanche un cenno di saluto. 

Lasciato solo, Sigma seguì il segretario con lo sguardo, vedendolo incamminarsi nella direzione opposta e mescolarsi alla folla. 

Un famigliare brivido colse l’Angelo della Decadenza nel suo angolo della caffetteria. Contò i secondi senza volerlo davvero, come ultima distanza all’inevitabile. 

Dopo venti scarsi - un’agonia - la sedia libera al tavolino venne scostata e Nikolaj Gogol’, in vestiti casual molto fuori luogo rispetto al suo stile abituale, con un lungo trench bianco a sopperire al suo mantello, prese posto con un sorriso che sembrava inciso da un bisturi. 

Senza alcun convenevole, il clown appena arrivato afferrò Sigma per il polso e lo costrinse a infilzare un pezzo di dolce con la forchetta che stringeva in mano, e se lo portò alla bocca senza mai lasciarlo andare. Non fu contento del sapore. 

«Mh, marmellata di arance» commentò con la faccia contrariata, in russo. «Voglio un gelato.»

Sigma passò da una faccia che diceva Ordinatelo! a un’altra più circospetta, atta a cercare in giro sguardi indiscreti nella loro direzione. Con Gogol’ in pubblico, in mezzo alle persone normali, non si poteva mai sapere quando le cose sarebbero scoppiate. 

Finì col fissare scoraggiato la forchetta, indeciso se riprendere a usarla dopo che il compagno se l’era infilata in bocca. Il disagio era sempre annidato lì, dentro di lui, a fargli desiderare che Gogol’ fosse un po’ meno fuori di testa, essendo una delle poche persone all’interno del suo mondo e quella con cui passava più tempo.  

C’erano momenti in cui Sigma avrebbe preferito un ruolo in solitaria, anche se avesse significato trovarsi faccia a faccia col pericolo, e prima ancora con l’ansia di non essere all’altezza. Non riusciva a credere che essere accoppiato a Gogol’ fosse il male minore - in quelle settimane, tra il rischiare di essere scoperti o il finire arrestati, i cambi di personalità del clown erano state le situazioni più pericolose a cui era andato incontro. 

Le alternative erano state scartate. Tra i piani elaborati da Dostoevskij non ce n’era nessuno che contemplava l’affiancare Oda - che sarebbe stato come trovarsi in compagnia di un muro. Tra tutti i suoi compagni, era quello che all’apparenza, di primo impatto, ispirava più fiducia, ma Sigma non aveva dimenticato come fosse vederlo in azione e mai avrebbe voluto trovarsi contro di lui. O peggio, con lui e Dostoevskij, perché sarebbe stato ancora più invisibile e insignificante di quanto a volte già si sentisse. 

Nel mentre, una cameriera appoggiò davanti a Gogol’ una coppa gelato esagerata e guarnita di ogni capriccio immaginabile, facendo dimenticare a Sigma i pensieri lugubri e mettendogli di nuovo l’acquolina in bocca. 

«Stanotte il Fantasma Rosso attaccherà i cattivi, ma tu dovresti preoccuparti di Kamui» lo distrasse il clown, osservando l’ordinazione con delizia. «Ti taglierà la testa se non capisci quante chiavi stiamo cercando.»

Nikolaj sapeva sempre cosa dire per chiudere lo stomaco al compagno, anche cianciando con la prima cucchiaiata di dolce in bocca e l’espressione serafica. 

Sigma lanciò occhiate circospette. Per quanto fossero in un angolo abbastanza solitario, aveva sempre l’idea che qualcuno potesse scoprirli da un momento all’altra. 

«Se le persone che troviamo non hanno informazioni utili io non posso farci nulla!» sbottò sottovoce, piccato, e con uno scatto così repentino della testa che gli occhiali da sole gli scivolarono sul naso. 

Aveva spiegato e rispiegato come funzionasse la propria abilità, eppure i suoi compagni continuavano ad aspettarsi sempre troppo da lui. 

Io sono una persona ordinaria, pensò per l’ennesima volta, rabbuiandosi. 

Non era un utilizzatore capace come Gogol’, o intelligente e letale come Dostoevskij. Non possedeva la forza di volontà e la determinazione di Oda, che continuava a evolvere e padroneggiare la propria abilità come un gioco a livelli per bambini. Di Kamui non sapeva praticamente nulla, se non il terrore che gli infondeva, ma era abbastanza certo che anche lui possedesse un’abilità da non sottovalutare. 

Distratto dai propri pensieri, Sigma fu riportato al presente dal rumore netto che fecero quasi dieci centimetri di documenti quando Gogol’ li depositò sul tavolino con nonchalance. Allarmato, Sigma agguantò al volo le cartelline e se le strinse addosso, sperando che nessuno guardasse nella loro direzione. 

«Sei impazzito!?» sibilò, per quanto sapesse che fosse inutile lanciare rimproveri al clown. 

«Ho messo insieme un sacco di altri nomi interessanti grazie agli agganci del Vice Ministro della Giustizia. In settimana avrò anche accesso agli archivi della Difesa e degli Interni. Solo la Divisione rimane inespugnabile, se si è un semplice segretario» cincischiò Gogol’, tra un boccone di gelato e l’altro, come se stesse parlando dei programmi per le vacanze imminenti. «Tonan-chan odia profondamente l’Agenzia, basta alimentare il suo disprezzo e canta come un passerotto, lalalala! Non vedo l’ora di ammazzarlo! Sarà delizioso!» 

Sigma guardò i documenti, incerto anche su come si prendesse un respiro. Lui quell’entusiasmo non lo provava minimamente, tutto il contrario. Sapeva di avere tra le mani l’equivalente di una condanna a morte per i prossimi custodi di chiavi, una volta individuati. Dostoevskij era stato tassativo sulla fine che avrebbero dovuto fare quei guardiani. Nessun testimone e al resto delle prove ci avrebbe pensato il loro cavallo segregato. Sigma aveva dovuto chiedere a Gogol’ per capire perché Dostoevskij chiamasse Mushitarou Oguri in quella maniera. 

Siamo pezzi degli scacchi, tutti quanti! Anche tu! Sei l’altro cavallo!

Non aveva mai capito se fosse un complimenti o cosa implicasse. Non era pratico di scacchi, ma probabilmente non avrebbe seguito il filo logico di Dostoevskij neanche se la similitudine fosse stata con le carte da poker.  

«Il prossimo custode voglio ammazzarlo con un’accetta» borbottò Gogol’, fissando il cucchiaio pieno di crema, prima di cacciarselo in bocca. «Vofhio federe il sangue come sfhiffa

«Potresti non dire cose del genere in pubblico!?» squittì Sigma disperato, stringendo al petto i documenti come se si stesse preparando a una fuga immediata. 

«Hai ragione» concordò Nikolaj. La sua espressione si asciugò di ogni ilarità, rimpiazzata da una serietà che parve rubata a qualcun altro. 

Qualsiasi cosa regolasse le metamorfosi di Gogol’, aveva appena compiuto un altro giro. Sigma aveva imparato a riconoscere quei cambi di atteggiamenti, anche se li accoglieva in egual maniera con lo stesso, spiacevole brivido lungo la schiena. 

Quella era la dicotomia del clown: un momento pazzo, quello dopo una persona normale, e ambo le occasioni avevano sempre una maschera per non lasciar intravedere quale fosse la verità. 

Tuttavia, anche se la avvertiva come l’ennesima presa in giro dell’universo, Sigma si trovava stranamente confortato quando quel Gogol’ serio emergeva. Poteva durare minuti, come ore, o giorni, ma erano gli unici frammenti in cui riusciva a sentirsi meno solo e con davvero un compagno accanto, stabile e stranamente sicuro. Erano i momenti in cui Sigma avrebbe voluto davvero credergli, nella speranza che non se ne andasse.  

«Ti limiti a stringere la mano delle persone che rintraccio e a prendere da solo le informazioni che ci servono come se nulla fosse» riassunse Gogol’, sulla stessa falsariga tranquilla. «Hai mai pensato di improvvisarti detective?»

«… cosa?»

Sigma lo fissò smarrito, pensando che l’illusione del compagno comprensivo fosse già svanita. Per quanto le parole gli suonassero illogiche, non c’era follia o tracce simili. 

«Potresti provare a vedere in prospettiva tutte le informazioni che troviamo. Scoprire la logica per cui sono state scelte certe persone per nascondere le chiavi, come funziona la rete di sicurezza del governo per cui i dipendenti stessi non sanno cosa stia succedendo…» riprese Gogol’, così ragionevole che Sigma non si perse una sillaba del suo discorso, sentendo persino il cuore battere un po’ più forte. 

Nikolaj gli stava chiedendo di provare a essere qualcosa di più, in una prospettiva che sembrava riporre in lui più fiducia. Restò in silenzio, ripetendosi quelle parole con scetticismo e con una punta di imbarazzo. Era come con il sapore delle tartine: sapeva cosa fosse un detective, ma non aveva idea di come funzionasse. 

«C-Cosa dovrei fare?» chiese titubante, osservando la forchettina da dolce che aveva continuato a tenere in mano, sentendosi un bambino. 

Gogol’ abbandonò il cucchiaio nella coppa di vetro ormai vuota e si picchiettò una tempia con aria così pensierosa da risultare credibile. 

«Possiamo prendere una lavagna di sughero, una cartina di Yokohama e tu potresti scrivere su dei foglietti tutte le informazioni che hai avuto finora. Magari scopriresti che sotto c’è uno schema e potremmo arrivare prima ai nostri obiettivi.»

Nella mente di Sigma, l’idea assunse i contorni di uno dei pochi film polizieschi che aveva visto, piazzandolo al centro come protagonista. Non voleva ammettere che fosse una possibilità intrigante - e piena di ansia - ma le guance gli si colorarono contro la sua volontà. 

«Pensi che Fyodor sarà d’accordo?» domandò incerto. «Non sarà una perdita di tempo?»

Gogol’ ridacchiò senza esagerare, più come un amico divertito. 

«A Dos interessa raggiungere lo scopo, non il mezzo. Prima mettiamo le mani sul premio finale, prima…»

Il suo sorriso prese una nota stonata, incrinando l’illusione e riportando a galla il clown. Durò tutto un attimo, come se qualcuno avesse ricucito al volo quello strappo e la menzogna fosse tornata a coprire la verità. O viceversa. 

Sigma assistette impotente come ogni volta che succedeva e tornò a fissare il pezzo di torta abbandonato che non avrebbe mai finito. 

«Se non lo vuoi più, paghiamo e andiamo. Dobbiamo cercare una cartoleria! Voglio vedere la tua faccia di fronte alle matite colorate!» ridacchiò Gogol’, chiedendo il conto. 

Sigma si lasciò trascinare di nuovo dalla corrente, senza opporre resistenza. 




 

* * *



 

«… cosa non è chiaro quando dico che ci servono i rifornimenti dei magazzini cinquantotto e ottantatre? Se non è di tua competenza fa che lo diventi! Hai venti minuti!»

Chuuya riattaccò la telefonata e non lanciò via il cellulare solo perché era il suo e non aveva il tempo materiale per recuperarne e settarne uno nuovo. A squillare di nuovo, però, fu il telefono fisso dell’ufficio, che Dazai scrutò seduto dalla poltrona del partner. 

Il rosso, dall’altra parte della scrivania, afferrò la cornetta con una bestemmia. 

«Che c’è?»

L’ex detective continuò a osservarlo con espressione placida, il mento appoggiato alle dita intrecciate e un’apparente aria curiosa e tediata da Io il mio lavoro l’ho finito

«… sì, sì ho capito. L’ordine è di congelare le operazioni fino all’inizio della prossima settimana, qualsiasi cosa succeda. Contattate l’intelligence, hanno i loro protocolli. Sì. Grazie.»

La Lumaca riagganciò con meno irruenza, ma il suo cellulare stava già risquillando e Dazai ci appoggiò gli occhi e un sorrisetto sornione. 

«Lo sapevamo dall’inizio che saremmo arrivati a questo punto» disse soave. «Pensa se Red Hood ci avesse colto di sorpresa. Andiamo, non sentivo tutti questi telefoni squillare dal Conflitto della Testa di Drago! Non credevo fossero stati quattro anni così tranquilli.» 

«Senza di te si stava una pacchia» borbottò Chuuya, indeciso se rispondere o meno, ma alla fine cedette, sedendosi sulla scrivania e premendosi indice e pollice sulle palpebre chiuse. Aveva recuperato del sonno durante la notte, legando letteralmente Dazai al letto, ma le stava esaurendo tutte appresso a quelle chiamate no-stop.

«… seh, me ne occupo io. Sì. No, frena, a quello squinternato di Motojirou non dovete dare alcuna autorizzazione oltre il livello quattro, fossimo anche in protocollo nero. No, ovvio che ha falsificato la firma se vi ha chiesto di accedere al magazzino dei prodotti chimici classe S, è bandito da quel posto. Mandalo via a calci nel culo e digli che se non sta buono lo pianto nel pavimento dell’ingresso.»

Chuuya chiuse la chiamata e buttò fuori l’aria dalla bocca in un respiro che tradotto a parole sarebbe risultato una bestemmia. 

«Che personaggio quel Kajii» commentò blando Dazai, ma dal modo in cui il rosso si stava massaggiando le tempie non lo stava ascoltando. L’ex detective gli punzecchiò il fianco con un dito. 

«Però, Lumaca, ne hai fatta di strada. Sei un centralino di riferimento per tutti qui dentro. A me non chiama nessuno.»

Chuuya lo fulminò con lo sguardo. 

«Lo so che hai messo la modalità aerea, stronzo.»

«Oops

Il telefono fisso ricominciò di nuovo e Chuuya sembrò sul punto di incenerirlo con lo sguardo. 

«Sei così efficiente che faresti la felicità di Kunikida, se non aveste due caratteri agli antipodi.»

Il partner perseverò in una nuova occhiataccia, mentre rispondeva. 

«Non paragonarmi a quel… Pronto.»

Quasi nello stesso momento bussarono alla porta dell’ufficio. Chuuya fece un gestaccio, incalzando Dazai ad andare ad aprire e lo Sgombro si alzò di malavoglia, per poi rifletterci un attimo e mimare con le labbra Potrebbe essere Yumiko-chan! La Lumaca roteò gli occhi al soffitto. 

Al di là dell'uscio c’era l’antitesi dell’arredatrice. Akutagawa. E non era solo. 

«Chuuya è alquanto oberato in questo momento, sembra un call center» spiegò lo Sgombro, facendosi di lato per far passare la breve delegazione. Insieme al Mastino della Port Mafia c’erano sua sorella Gin e Hirotsu. 

«Dazai-san» salutò con rispetto quest’ultimo, alzando una scatola elegante. «È arrivato il pacco che stava aspettando.»

«Oh, magnifico! Allora è un segno! In tempo per il grande evento» trillò l’ex detective, guidandoli dentro la stanza. 

«… non me ne frega un cazzo! Ma avete capito quello che sta per succedere!? Fai sistemare quella roba entro oggi pomeriggio o vengo a cercarti!» 

E Chuuya riagganciò l’ennesima telefonata, tirando una bestemmia che fece tremare i vetri. 

«Pensavo che l’ultimo grande spiegamento di forze l’avessimo raggiunto qualche mese fa con l’avvelenamento del Boss, ma era da quelle ottantotto giornate di sangue che non vedevo tanto via vai» commentò Hirotsu, adagiando il pacco per Dazai sul tavolino in mezzo ai divani. 

«Oh! È quello che ho detto anche io!» cantilenò Dazai, mentre il cellulare di Chuuya ricominciava un’altra volta, insieme ai suoi insulti. «Se non cambia suoneria non me la leverò più dalla testa» continuò l’ex detective, incrociando le braccia. «Ma perché non ha degli assistenti? Non li ha trovati alla sua altezza

L’anziano fu bravo a dissimulare il divertimento in un colpo di tosse, affiancandosi al Demone Prodigio mentre fissava anche lui il rosso. 

«A Chuuya-san non piace delegare, ma gestire queste cose personalmente.» 

«Per fortuna che la grande notte è stasera, perché un altro giorno così non lo reggo.»

«Dazai-sama.»

Incisiva, anche se fu poco più di un nome sottovoce, Gin si fece avanti chinando la testa. 

«Via le formalità, Gin-chan» replicò lui, accettando i documenti che la ragazza gli stava porgendo. Li sfogliò in rapidi gesti. Al suo fianco, Hirotsu non tradì una certa curiosità. 

«Dunque è nell’ala sud dei sotterranei che ha fatto allestire la prigione per Oda?» 

«Sono quelle con le pareti più spesse e con meno probabilità per il nemico di farlo evadere» spiegò sommariamente Dazai, leggendo le righe del rapporto. «Anche se dubito che i suoi compagni si preoccuperanno della sua incolumità.»

«Verrà veramente da solo, Dazai-san?» 

A intromettersi nel discorso fu Akutagawa, rimasto in disparte fino a quel momento, anche lui con alcuni documenti sottomano. 

«Certo» fu la risposta priva di esitazione dell’ex detective. I suoi occhi vagarono sulle righe del rapporto, prima di chiuderlo e incrocciare le braccia. Portò lo sguardo sul suo (ex) allievo ed esibì un ghigno d’altri tempi, che tuttavia non impensierì il Mastino. 

«Se prima Odasaku era in grado di occuparsi da solo di venti o trenta uomini armati, dopo quattro anni di addestramento scalerà questo palazzo senza battere ciglio.»

L’atmosfera intorno ad Akutagawa, Gin e Hirotsu si fece affilata e grave, mentre l’ex detective scioglieva la propria in una più noncurante, facendo spallucce. 

«Abbiamo così tanti piani e backup che se ce lo lasciamo sfuggire sarà un’onta senza precedenti, o la fine della Port Mafia, chissà.» 

«Dazai-san, la prego» lo riprese Hirotsu in un blando rimprovero. 

«Che cazzo stai blaterando, Sgombro?» sbottò Chuuya. 

Nessuno dei quattro si era accorto dell’improvviso silenzio dato dai telefoni, ma voltandosi videro il cavo staccato dalla base del cordless. 

«Sei in pausa? Vuoi che ti ordini una tisana?» cinguettò l’ex detective, prendendolo in giro. 

«Apri del vino se non hai un cazzo da fare» lo minacciò il rosso, puntandolo col cellulare, il cui display era in realtà ancora luminoso con una chiamata in entrata, ma la suoneria era stata silenziata. Lo stava deliberatamente ignorando. Si rivolse invece ad Akutagawa, allungando la mano verso i documenti. 

«È il resoconto dei sotterranei?» 

«Sì» assentì il Mastino, consegnando la cartellina con un inchino educato. 

Chuuya sbuffò, vedendo quanti fogli fossero. Li sfogliò velocemente, ma da come adocchiava il cellulare - dove intanto era cambiato il mittente - non sembrava intenzionato a leggerli sul serio. 

«Successo qualcosa?» si interessò Dazai, annullando la distanza con il partner e osservando il report da dietro le sue spalle. 

«L’altra notte ci sono stati problemi nei sotterranei» riassunse Chuuya, prima di cacciargli in mano i documenti. «Dei ratti sono morti fulminati rosicchiando alcuni cavi. La squadra di manutenzione ha già ripristinato tutti i sistemi e stamattina hanno eseguito una disinfestazione totale.»

«Mh mh» commentò Dazai, mentre leggeva il resoconto con attenzione. «Qui dice che a dare l’allarme ratti è stata una guardia sostitutiva-»

«Ce ne occuperemo la prossima settimana, come ogni altra cosa che non riguardi l’attacco imminente di stanotte» ringhiò Chuuya, ma era rivolto al cellulare. Accettò la chiamata. 

«Kajii ti avverto, se mi richiamano un’altra volta dal deposito chimico perché hai tentato di…»

E si allontanò nuovamente, andando verso le grandi vetrate in fondo all’ufficio. 

Dazai chiuse il documento con un sospiro. 

Anche questa è andata… 

«Akutagawa!» esordì quindi, cambiando totalmente umore e cogliendo alla sprovvista l’ex protetto. «Ho un regalo per te! Togliti il cappotto!»

A guardarlo spaesato furono tutti, compreso il rosso, che corrugò la fronte rimanendo però al telefono.

Dazai scoperchiò la scatola elegante che aveva recapitato Hirotsu e, una volta scostata la velina, ne tirò fuori quello che sembrava un unico pezzo di stoffa nera pesante.

«Ta-dan! Una mantella drammatica!» nell’esaltarsi da solo, l’ex detective fece fare una mezza ruota in aria al presunto indumento come avrebbe fatto con un lenzuolo, per drappeggiarlo poi sulle spalle di Akutagawa. 

«P-Per che cosa… cosa significa?» chiese confuso il Mastino, le guance leggermente emozionate mentre Dazai continuava a sistemare il colletto e le pieghe del tabarro. 

«Sei cresciuto!» fu la blanda spiegazione dell’ex mentore. 

Akutagawa era ancora più confuso e guardò verso la sorella - che alzò le spalle - e Hirotsu. Quest'ultimo si schiarì la voce, lanciando un'occhiata significativa verso il Demone Prodigio, che se anche se la sentì addosso, non la raccolse.

«Credo che Dazai-san intenda dire quanto riconosca il fatto che è diventato più maturo.» 

C'erano delle cose che solo Hirotsu conosceva - o riconosceva - all'interno della Port Mafia. Segreti che l'intelligence non avrebbe saputo come usare, ma che l'anziano metteva insieme quando serviva tenere unita la famiglia. O spiegare a un giovane adulto che gli venivano riconosciuti i propri sforzi. 

«Hai ancora la mania di ammazzare prima di chiedere e capire la situazione, ma ci stai lavorando» continuò Dazai, per poi abbassarsi in modo che ad ascoltarlo fosse solo lui. «E in questo Atsushi-kun ti potrà aiutare parecchio.» 

Akutagawa fu sul punto di ribattere, ma Dazai gli piazzò un dito sulle labbra, tacitandolo, per poi osservare il proprio operato facendo un passo indietro. 

«Ok, forse deve crescere ancora un po' in altezza, che dite?»

La mantella arrivava alle caviglie di Akutagawa, ricomprendolo interamente. Era elegante, in stoffa pregiata, con degli alamari ricamati in argento sul colletto e altre rifiniture nere che si potevano cogliere solo con l’inclinazione giusta della luce. 

«Sembri un corvo, Ani» scherzò piano Gin, facendosi sentire a malapena in mezzo al blaterare di Chuuya.

Aku abbassò lo sguardo sul regalo e restò in silenzio, nonostante la sua fronte corrugata testimoniasse che ci fossero diverse cose che avrebbe voluto dire, anche contraddittorie. 

«Ohi, qualcuno di voi vada a cercare quel bastardo di Tachihara e capisca dove diavolo si è andato a cacciare!» abbaiò il rosso, richiamandoli all’ordine. 

Sia Hirotsu sia Gin tornarono seri e si congedarono con un inchino. 

Rimasti soli, il Mastino fissò il proprio maestro.

«Dazai-san, per questo regalo…» 

Il grazie che avrebbe dovuto completare la frase Akutagawa lo espresse con un profondo e sentito inchino. Non era una parola che riusciva a lasciare facilmente le sue labbra. 

Si tolse la mantella con estrema cura, ripiegandola su un braccio. Le sue dita carezzarono i ricami come se non fosse in grado di processare che fosse reale e che gli fosse stata davvero regalata da Dazai. 

«Non abbassare la guardia.»

Un brivido corse lungo la schiena del Mastino, facendolo uscire dal limbo onirico dove si stava lasciando fuorviare da quelle strane sensazioni. Quando incrociò gli occhi di Dazai, quest’ultimo era totalmente serio. La mano di Akutagawa tornò a irrigidirsi lungo il fianco, lasciando a intendere che ascoltava. 

«Stanotte Red Hood ci attaccherà. Attieniti alle mie istruzioni, chiaro? Qualsiasi cosa succeda.»

Il più giovane strinse le labbra in una linea sottile, dura, che trattenne delle parole che non era realmente in grado di esprimere, insieme a tutta la propria frustrazione. Dazai, tuttavia, lo spiazzò con un sorriso dalle sfumature malinconiche. 

«Un’ultima cosa. Se mi dovesse succedere qualcosa vorrei fossi tu a dirlo ad Atsushi-kun.»

Akutagawa si irrigidì, ma l’ex detective non gli diede il tempo di replicare. 

«Odasaku non si fermerà di fronte a me. Se le cose dovessero mettersi male, potrebbe esserci la possibilità che mi ammazzi come ha già tentato di fare.»

«Non lo permetterò. Chuuya-san non lo permetterà.»

Akutagawa si espresse confusamente e accorato, lanciando anche un’occhiata all’altro Dirigente, ma si trovava dall’altra parte della stanza, troppo lontano e concentrato per sentirli. Tornò a fissare il mentore con astio, ossia nell’unico modo in cui sapeva esprimere la propria gamma di emozioni. 

«Se Red Hodd dovesse-»

«Qualsiasi cosa dovesse fare, non dovrai farti coinvolgere e non possiamo arrivare al punto di far combattere Chuuya seriamente all’interno dei palazzi della Mafia» lo interruppe Dazai, incrociando le braccia e appoggiandosi allo schienale del divano dietro di sé con un sospiro. «Farlo significherebbe avviare una ristrutturazione totale.» Tuttavia, la battuta non trovò seguito. «Sarebbe un azzardo anche come ultima risorsa.» 

«Dazai-san» riprese Akutagawa, fermo nella propria posizione. «Credi davvero di poterlo catturare vivo?» 

L’ex detective studiò il viso teso del proprio ex allievo, escludendo che fosse una provocazione. Probabilmente in futuro avrebbe imparato a usare il tono giusto per renderla tale, ma in quel momento suonò solo come la più spietata delle realtà possibili. 

E Dazai non amava particolarmente dare ragione agli altri. 

«Stai pensando di ucciderlo? E la tua promessa ad Atsushi-kun?»

Domande in risposta ad altre domande. Se Chuuya li avesse ascoltati, avrebbe smascherato quel bluff con uno dei suoi insulti, ma Akutagawa conservava ancora troppo rispetto nei suoi confronti per azzardarsi a farlo. 

Il riferimento a Jinko colpì quel punto di pelle che il Mastino aveva iniziato a scoprire negli ultimi tempi. Dazai si concentrò sulla sua reazione - brevissimi guizzi intorno agli occhi nel sentire il nome del rivale, una piega delle labbra che parlava di incertezza - e si sentì diviso tra soddisfazione e preoccupazione. Quello che si soleva identificare come lama a doppio taglio

«Stai tranquillo» sospirò prima che il giovane potesse trovare una risposta dal garbuglio che doveva avere dentro. «Ho elaborato abbastanza strategie per cui riusciremo a uscirne tutti, in un modo o nell’altro. Fidati di me.»

Akutagawa ebbe difficoltà a farlo per la prima volta in vita propria. Conosceva l’espressione nota stonata, ma era la prima volta che la sentì sulla pelle come un avvertimento che non sapeva come interpretare. 

«Ohi.»

La voce di Chuuya e il rosso stesso si palesarono tra loro due. Aveva spento il cellulare e fissava Dazai con serietà. 

«Riunione d’emergenza dei Dirigenti. Sembra che qualcosa sia cambiato.»



 

* * *



 

Quando entrarono nella Sala del Concilio, Kouyou li accolse con la sottile beffa che aveva iniziato a sfoggiare da qualche giorno, ma che aveva volutamente effetto solo su Chuuya. Erano come due fratelli, la maggiore che prendeva in giro il minore in un gioco infantile ma efficace nel farlo sbuffare. Anche in quel momento dove si respirava tutta la tensione che li separava all’inevitabile. 

Mori era l’unica altra presenza nella stanza, intento a rileggere alcuni documenti freschi di stampa. Verlaine non era in vista e il rosso guardò malissimo la sua poltrona vuota. Non era una novità la sua assenza alla soglia di un momento tanto critico come quello che stavano per affrontare. Ci avrebbe scommesso che il francese non avrebbe alzato un dito quella notte. 

Dazai prese posto lasciandosi cadere contro lo schienale con totale noia, alzando lo sguardo sui presenti come un principino a cui non interessavano i battibecchi della propria nobiltà. Il fatto che il Boss - il Re - fosse all’altro capo della lunga tavolata non scalfì la sua aria tediata. 

«Sembra che i tuoi piani finora abbiano funzionato. Non che ne dubitassi» si complimentò Mori, lasciando cadere il foglio che aveva in mano e intrecciando le dita per appoggiarci sopra il mento. Le similitudini tra Mori e Dazai iniziavano dai pensieri affini e finivano nei gesti, quello che stava in mezzo era buio pesto, a rimarcare quanto si potesse affondare nelle loro ombre. I sorrisetti che si scambiarono, due pennellate d’artista sulle loro labbra, risultarono elettrici e, come pensò Chuuya, fu odioso trovarcisi immischiato.

«Allora potremmo andare tutti a riposare un po’, visto che sarà una notte nera. Abbiamo bisogno di energie» e lo sottolineò sbadigliando in maniera plateale. 

Chuuya dette di nuovo un’occhiata ai documenti sistemati davanti al proprio posto, gli occhi che coglievano solo le parole più nefaste. 

«Ne sei così sicuro?»

«Assolutamente» borbottò Dazai, piecchiettando un dito sulla scrivania. «Se non ci riposiamo non staremo in piedi.»

Il rosso accartocciò il foglio che aveva in mano, pronto a insultare lo Sgombro, ma il Boss alzò la mano in un gesto per calmarlo. 

«Sono d’accordo con Dazai. Stanotte la Port Mafia si troverà ad affrontare la minaccia di Red Hood. Un po’ di riposo ci aiuterà a restare vigili.»

L’ex detective fece la linguaccia al partner come se avesse avuto di nuovo sedici anni. La Lumaca ricambiò con un dito medio. Dall’altra parte del tavolo, Kouyou alzò gli occhi al soffitto, scegliendo di non esprimersi.

«Abbiamo deciso a quale strategia attenerci?» chiese invece, rivolgendosi al più bambino di tutti lì dentro, il loro Boss, che stava osservando le scaramucce tra i due giovani Dirigenti con un risolino e uno sguardo che guardava lontano. 

«Diverse, mia cara. Dipenderà da come il nostro ospite farà la sua entrata in scena» spiegò Mori, roteando un indice in aria. «Ci atterremo alle disposizioni di cui abbiamo già parlato. Per il resto, i piani di Dazai coprono una vasta gamma di possibilità ed emergenze. Anche se…»

Il Boss intercettò lo sguardo del Demone Prodigio, senza tuttavia far trasparire nulla di quello che stava per aggiungere. 

«Temo che prima di riposarti vorrai - o dovrai - apportare alcune modifiche alle tue strategie.»

L’aria si irrigidì appena. Chuuya passò lo sguardo da Mori al partner, corrugando la fronte. L’ex detective si accigliò a propria volta, cercando di capire senza aspettare la risposta. 

«Il nostro accordo rimane valido» iniziò Mori, gesticolando mentre si appoggiava più comodo allo schienale della propria poltrona. «Ma devo chiederti di considerare una pedina in più per questa notte. Non comporterà grandi stravolgimenti comunque.»

«A chi si riferisce?» domandò Dazai, tagliente sia nel tono che nello sguardo. 

Dal sorriso di Mori non ottenne alcuna replica. Questa venne invece dalle ombre alle sue spalle. 

«A me.»

Gli astanti nella sala sussultarono. Nessuno aveva avuto il minimo sentore della quinta presenza tra loro. L’ex detective la riconobbe dalla voce, prima che una figura si staccasse dall’oscurità e permettesse alla luce rossastra di definirne il profilo. 

Fermo nella propria postura, le braccia incrociate e una spada allacciata al fianco, Fukuzawa Yukichi emerse dal fondo della Sala Riunione dei Dirigenti, portandosi a un passo dalla poltrona del Boss. 

«Che diavolo fa lui qui!?» saltò su il rosso, scostando la propria seduta in maniera irruenta, pronto ad attaccare. 

Alle sue spalle, Dazai restò in silenzio, meditabondo, osservando la situazione.

«Rimani al tuo posto, Chuuya-kun. Fukuzawa-dono e io abbiamo parlato delle spiacevoli vicende che hanno colpito Yokohama nell’ultimo periodo e ci siamo ritrovati concordi in un’azione comune.»

«Ma non mi dire» commentò sprezzante Kouyou, occhieggiandoli entrambi con uno sguardo penetrante, mentre la bella bocca era piegata in una curva contrariata. 

«A seguito del caso del Cannibalismo, che ci ha visti coinvolti e ha minato il lavoro fatto in questi anni, abbiamo stabilito un’alleanza temporanea in favore della protezione del Libro.»

Le parole sciolte di Mori non migliorarono la situazione, furono invece benzina sul fuoco e non si fermò nel continuare a versarne. 

«L’Agenzia è stata pesantemente colpita dalla perdita e dalla limitazione dei suoi membri» qualsiasi nota di malizia ci fosse insita o meno fece contrarre per un secondo lo sguardo sia a Fukuzawa sia a Dazai. «E sorte simile è toccata alla Port Mafia in queste lunghe settimane. Da parte del Governo, oltre all’aiuto di Sakaguchi-kun e sporadicalmente del Capo Taneda, non ci potremmo aspettare di più, quindi…» 

Le sue spalle si rizzarono insieme a un dito indice, il tono sempre più sagace e vagamente parodistico nell’imitare un generale, come se il riassunto di quella lista di sfortunati accadimenti fosse niente meno che un’espressione di matematica particolarmente ostica. 

«A fronte di questo e di una minaccia che ci ha messi alle strette su più livelli, Fukuzawa-dono ha gentilmente accolto la mia proposta di tornare a essere la mia guardia del corpo, come in passato, finché questa crisi non sarà rientrata.»

Kouyou non fu colta di sorpresa dalla notizia. Sapeva e tanto le bastò a fare pace con quella nuova disposizione. Lei e Fukuzawa si scambiarono un’occhiata che equivalse a più di mille e più piccati discorsi inutili da intraprendere in quel momento. Non c’era tempo di rivangare il passato.  

Dall’altro lato, Chuuya fu meno propenso ad accettarlo, ma l’occhiata del suo Boss lo tenne a cuccia. 

«Se Fukuzawa-san ha come compito quello della guardia del corpo non ci saranno grandi cambiamenti da apportare ai miei piani» replicò Dazai mellifluo, massaggiandosi una tempia solo per restituire l’impressione di quanto fosse stanco. Nel passare lo sguardo sui presenti non sembrò però incline a risparmiare nessuno per quel rivolgimento. Si fermò a guardare il suo ex Presidente e i due condivisero una breve occhiata, reciproca nel nascondere i propri scheletri. 

«Ha davvero lasciato le redini dell’Agenzia a Kunikuda? Non pensa che si intrometterà?» 

«Qualsiasi decisione prenderà Kunikida mi fido di lui e degli altri» replicò solenne Fukuzawa, e la sua voce profonda suonò come un rimprovero. L’ex detective se la fece scivolare addosso con un risolino, ma la tensione non subì variazioni.

«Povero Kunikida… sarà interessante metterlo alla prova» commentò con una cattiveria così gratuita, tra le dita premute sul viso, che Chuuya gli lanciò un’occhiata incerta. 

«Spero che Mori-san l’abbia messa al corrente del fatto che Red Hood non sia da uccidere, ma da catturare vivo. In caso, dovrà farsi mettere alle strette una seconda volta, Shachou

Fukuzawa assorbì la frecciatina di Dazai, ma non ne rimase scalfito. 

«So a chi vado incontro, ora. Il mio compito sarà proteggere Mori-sensei» replicò con lo stesso tono monocorde, ma senza mai staccare lo sguardo da quello del suo ex detective. «Il vostro sarà fare in modo che non arrivi a lui.»

Chuuya si trovò costretto a buttare fuori l’aria in uno sbuffò dal naso, stringendo i pugni. L’atmosfera era una cappa tesa e ricolma di faziosità, un pessimo inizio per quella che sarebbe stata una notte lunga ed estenuante. La presenza del Presidente dell’Agenzia aveva dato una piega storta all’umore di Dazai, il rosso poteva sentirlo a pelle. 

«Benissimo» concluse lo Sgombro stesso, alzandosi. «Prima di stanotte voglio davvero farmi una bella dormita. Per i preparativi non mi contate, gli uomini della Black Lizard saranno sufficienti.» 

Era sulla porta, quando si bloccò, girando appena il capo. 

«Ah… visto il problema avuto nei sotterranei, forse sarà il caso di mandare qualcuno a controllare che non ci siano dei ratti anche nel sistema fognario. Sarebbe una brutta sorpresa farsi fregare così.»



 

* * *



 

Chuuya aveva mandato al diavolo le apparenze. La sua pazienza aveva aspettato meno di cinque minuti per spingerlo a defilarsi dalla Sala Riunioni e rincorrere Dazai. 

Tentare di capire che ti gira per la testa è questione di sopravvivenza personale

Un pessimo presentimento gli si era annidato alla bocca dello stomaco, punzecchiandolo con l’idea che non stesse considerando qualcosa, che tutto stesse filando fin troppo liscio. 

Dazai aveva lasciato la giacca del proprio completo sulla poltrona all’ingresso dell’appartamento del rosso, mentre la cravatta era stata abbandonata poco distante. Chuuya lo trovò intento a frugare con lo sguardo la sua libreria, indolente, menefreghista, ma con i muscoli facciali irrigiditi. Avrebbe riconosciuto quella sua espressione stranita anche al buio. 

«Sputa il rospo. Che diavolo ti sta passando per la testa? Ormai ci siamo.» 

Chuuya lo affiancò, cercando il suo sguardo. Dazai non glielo negò, ma tornò a fissare le costine dei libri, un dito che tamburellava su una di queste. La sua bocca non sembrò intenzionata a iniziare un discorso e la Lumaca non riuscì a tollerare quel silenzio.

«Ti ha sconvolto così tanto rivedere il tuo ex Boss? O che Mori-san abbia stretto questa alleanza all’improvviso?» tentò, sapendo fosse la strada sbagliata. Non lasciò il tempo a Dazai di rispondergli. «Che cazzo ti sta innervosendo? Non avevi tutto pronto stamattina!?»

«La cella per Odasaku è stata allestita» iniziò a dire l’ex detective, rammentando il documento che Gin gli aveva consegnato. «Sarà segregato e rimarrà lì tutto il tempo necessario a capire se c’è qualcosa di recuperabile.» 

Il dito smise di battere sul dorso del libro e Dazai lo estrasse, osservandone la copertina con studiato interesse, ma Chuuya non se lo bevve. Respirò più forte e attese che il partner continuasse. 

«Cercherò di fargli tornare la memoria e gli farò confessare il piano di Dostoevskij, questo è parte dell’accordo con Mori-san. Me ne occuperò soltanto io, nessun altro dovrà avvicinarsi.»

Chuuya avvertiva un fastidioso sibilo tra i pensieri, come l’infisso difettoso di una finestra che provocava il fischio del vento. Immaginare la prospettiva di quella situazione non lo aiutò a sciogliere il nodo allo stomaco, ma c’era un maledetto ago nel pagliaio che doveva trovare. 

«E se non riuscissimo a catturarlo?» 

Dare voce alle possibilità era odioso tanto quanto pensare al fallimento. I minuti stavano scorrendo, quel pomeriggio non sarebbe durato in eterno. Era tardi per i dubbi.

«Se il Boss decidesse che Odasaku sia da eliminare?»

Dazai non lo guardò. Alzò lo sguardo sulla libreria, spostandolo sui diversi titoli, come se questi potessero suggerirgli le risposte a quegli interrogativi. C’era un sorriso piegato da più di un’emozione sul suo viso, che non riusciva a reggerle tutte. 

«Abbiamo avuto una conversazione simile quando sono tornato, ricordi? La situazione era più bagnata e tu eri davvero intenzionato a strangolarmi. Non è accaduto neanche un mese fa, vero?»

Chuuya rispose facendosi più vicino, ma Dazai si ritrasse di poco. Un pugno in faccia avrebbe fatto meno male; il rosso avvertì qualcosa di invisibile morderlo e ricordargli chi avesse davanti. 

Quel mondo sottosopra a cui avevano dato origine sul tetto conservava ancora tutti i punti ciechi e gli spigoli che si trascinavano dietro da ciò che erano sempre stati. Anche se c’erano delle incrinature che avevano permesso la collisione dei loro mondi, questo non significava che si fossero fratturati anche i muri con cui il Demone Prodigio si proteggeva. 

«Gli scenari possibili sono pochi…» riprese Dazai. «Ma è sufficiente dire che se Mori-san farà qualcosa di irreparabile a Odasaku, di nuovo, io mi metterò contro di lui.»

Non era una risposta che Chuuya non aveva previsto, ma c’era sempre un divario netto tra l’immaginare una cosa e sentirla reale. 

È la fedeltà del tuo cuore che mi preoccupa.

Rammentare l’avvertimento di Kouyou fu solo l’ennesima stilettata spiacevole. Strinse la mascella, col bisogno fisico di reagire, ma quello era un terreno minato e pieno di fili; in qualsiasi modo cercasse di muoversi, sarebbe rimasto impigliato e avrebbe dovuto subirne le conseguenze. 

«Le possibilità che Mori-san ritratti sono poche» continuò l’ex detective, con qualcosa che sembrava dovesse imitare una rassicurazione. «Esistono, ma non sono vantaggiose, più soggettive, e le scelte personali a discapito della Port Mafia non sono un elemento che piace al Boss. Lo scenario peggiore in realtà resta quello in cui non riusciamo a catturare Odasaku e lui scappa… ma ho davvero cercato di calcolare tutti i margini possibili di errore.» 

«Odasaku è troppo importante per te, Dazai. Sei compromesso.»

Chuuya lo affrontò a viso aperto, pronto ad agguantarlo se fosse stato necessario a non farlo scappare. Non si aspettò di essere finalmente guardato in faccia. A chiedersi se fosse lui quello pronto a un’eventualità divenuta da qualche giorno sempre più sbiadita e remota. 

«Lumaca, rispondi tu a questo: se Mori-san ti chiedesse di uccidermi, lo faresti?»

Il rosso incassò irrigidendo le spalle e sgranando lo sguardo. 

«Il Boss non ti vuole morto» svicolò, ma era inutile tentare di arginare la rottura di una diga a mani nude. «Non sarebbe… conveniente per lui. Per la Port Mafia.»

Per nessuno

Chuuya era consapevole che Dazai Osamu fosse importante per i segreti di quel mondo quanto lui lo era come arma umana. Erano due persone che nessuno avrebbe eliminato con leggerezza o per capriccio. 

Questo non servì però a eradicare il dubbio. Mori aveva sempre un piano per tutto e contava meticolosamente le perdite, riconoscendo a ognuna un vantaggio sul breve o lungo periodo. 

Ma arrivare a sacrificare Dazai…? 

«Mori-san non mi vuole morto finché non sono un pericolo per il suo impero» semplificò lo Sgombro. «Ma se decidessi di passare dalla parte di Odasaku?» 

«Smettila di sparare stronzate!» abbaiò Chuuya. Ciò che vibrò nella sua voce lo tradì con più sfaccettature. Erano quei sentimenti che danzavano con la rabbia, lasciandosi solo intravedere, ma sempre presenti. La rabbia. La delusione. «Non staresti dalla parte di Dostoevskij!»

Dazai lo fissò confuso, divertito quasi. 

«Te lo sei già dimenticato? Eppure è successo pochi mesi fa con Shibu-»

«Avevi già premeditato tutto! Non dire cazzate!» insistette il rosso a denti stretti. «Tu e i tuoi piani folli… ti sei fatto quasi uccidere.»

«Il bello della fiducia è anche questo. Chiudere gli occhi e sapere di poter fare un passo nel vuoto.»

Quelle parole restituirono a Chuuya un’immagine precisa - la loro notte sul tetto del mondo - il momento in cui tra lui e il suo partner le cose erano cambiate. Quel lento scivolare verso l’abisso, tendendogli le mani. La scelta di afferrarlo. Non c’entrava nulla il caso di Shibusawa.

Ma Odasaku sì. Era ovunque in quelle parole. 

«… Cristo, cos’è che non mi stai dicendo!?»

Dazai mise a posto il libro che aveva in mano e iniziò a cercarne un altro.

«C’è una cosa che non compare nel rapporto sulla Mimic» iniziò, senza guardarlo.

«Gide dichiarò che avrebbe fatto comprendere a Odasaku il proprio desiderio di morte. Avevo capito che uno degli obiettivi per farlo fossero gli orfani di cui si occupava.»

L’amarezza tirò gli angoli della sua bocca, mentre fingeva di interessarsi ad alcune raccolte di poesie sugli scaffali. 

«Non ci troverai scritto che a nasconderli fui io. Un posto sicuro, a conoscenza di pochi e sorvegliato… Ma sono stato cieco. Non ho compreso che ero una pedina a mia volta, nelle mani di Mori-san. Non ho immaginato che la minaccia sarebbe arrivata dall’interno. Il resto sai com’è andato.»

«… ti senti responsabile per quello che è successo a Odasaku?»

«Non mi sono neanche posto il dubbio che ci potesse essere un piano più grande dietro. Ho perso tutto quello che avevo.»

Dazai gli lanciò un’occhiata e Chuuya se ne sentì investito. Cercò di dire qualcosa - si domandò stupidamente se quel tutto comprendesse anche lui - ma la sua mandibola non rispose. 

«Ho le mani sporche di sangue di così tante persone che cinque bambini a malapena conosciuti si aggiungono soltanto agli atti di una tragedia di cui so a memoria ogni scena… ma per Odasaku loro erano importanti. Più importanti di… qualsiasi altra cosa.»

Il rosso avvertì vibrare un finale diverso per quella frase, ma lo tenne per sé. Non riusciva a capire dove il discorso volesse andare a parare; tuttavia, non aveva mai sentito dallo Sgombro tanta confidenza, tanta intimità. Non erano discorsi filosofici sulla vita e la morte, o racconti stupidi con pozzi di verità. Quella era la ferita più scoperta e sanguinante che Dazai nascondeva sotto le sue bende. 

«Vuoi sapere cosa mi ha spinto a lasciare la Port Mafia?» 

L’ex detective era retorico, ma Chuuya assentì ugualmente. Dazai tirò fuori un altro libro dallo scaffale e se lo rigirò tra le mani.

«Mentre moriva, Odasaku mi disse una cosa. Più di una in realtà… Mi disse che nulla avrebbe riempito il mio vuoto. Non importava che mi trovassi dalla parte di chi uccide o di chi salva le persone, la solitudine che sentivo dentro non sarebbe mai stata riempita. Mi disse che sono destinato a vagare nell’oscurità per sempre…»

Chuuya aveva creduto di essersi fatto un’idea di chi dovesse essere quell’amico che tanto, tanto, troppo, aveva catturato l’attenzione del suo partner - ormai poteva parlare di come gli avesse invaso il cuore - ma quella confessione gli scivolò dentro come un cubetto di ghiaccio. 

Aveva già avuto modo di capire che tra sé e Odasaku ci fosse della distanza, come tra sé e Dazai. Ma solo in quel momento comprese che si trattava di voragini. 

Ebbe l’impulso di afferrare lo Sgombro, come se temesse di vederlo sparire in un battito di ciglia, ma le sue dita non si mossero. 

«Volevo sapere cosa avrei dovuto fare» riprese Dazai sottovoce, accarezzando la copertina del libro mentre, stanco, appoggiava la fronte contro la libreria. «Per la prima volta in vita mia volevo qualcosa disperatamente… e Odasaku stava morendo tra le mie braccia. L’unica persona che fino a quel momento era riuscita a leggere la mia solitudine, come fosse stata scritta nero su bianco, stava scomparendo… e io non sapevo cosa fare.» 

Chuuya diede retta all’istinto e afferrò Dazai. Lo fece maldestramente, senza pensarci, chiudendo le dita sul suo braccio. Odiava le parole, odiava sentire la bocca arida e la gola chiusa e l’assurdità più grande era quanto gli stesse importando di quella sofferenza. Di quanto gli stesse importando di Dazai. Di quanto stesse sentendo tutto sotto la propria pelle. 

Lo Sgombro non gli diede peso e continuò. Continuò con ciò che fece più male.

«Le persone vivono per salvare loro stesse.» 

L’ex detective lo disse delicatamente. Il rosso lo visse come se lo avessero appena investito. 

«Ho lasciato la Port Mafia perché Odasaku mi disse che dal lato di chi salva le persone è tutto un po’ più bello. Sembra stupido, non trovi? Ma aveva ragione. Ci credo però che tu mi odi per gli ultimi quattro anni.» 

Chuuya lasciò andare il braccio di Dazai. Le sue mani salirono fino al viso del partner, chiudendosi sulle guance e voltandolo verso di sé. 

Dazai non stava piangendo, ma il suo viso ne portava tutti i segni. Mancavano solo le lacrime. 

Ci aveva messo delle settimane, ma il rosso si arrese a quella verità a cui aveva continuato a voltare le spalle, a nascondere dietro una tenda, a spingere via ritenendola impossibile. Folle. Incompatibile e incomprensibile. 

«Cristo…» esalò, guardandolo in quegli occhi che pensava di non aver mai davvero capito, ma che erano sempre stati la parte più sincera di Dazai. 

«Tu… tu sei davvero cambiato.»

Dazai lo fissò senza capire e non ebbe il tempo di comprendere o chiedere. 

Il rosso gli lasciò andare il viso e, senza alcun preavviso, in un gesto deciso, se lo caricò in braccio. 

«Uooah… Ok, Lumaca, che significa? Non pensi siamo un po’ ridicolo?» ridacchiò Dazai, facendo cadere il libro in terra per reggersi alle spalle del partner e tenersi in equilibrio. «Andiamo a riposarci o vuoi consumare di nuovo il letto?»

Chuuya lo ignorò. Lo fissò dal basso con la voglia di parlare, di tirare fuori tutte le emozioni che lo Sgombro gli aveva appena fatto ingoiare. Per la prima volta, voleva ascoltarlo mentre raccontava di sé, voleva sapere tutto, cavarglielo di bocca non con cattiveria, ma con il bisogno primario di conoscerlo

Tuttavia, l’orologio ticchettava. Avevano una tabella di marcia da rispettare. Quella notte si sarebbero giocati tutto. 

«Posso fidarmi di te, Dazai?»

«Alla fine lo farai comunque» e anche se ghignò, Chuuya scorse ugualmente quell’ultimo segreto sul fondo dei suoi occhi. Lo Sgombro aveva ragione. 

Il bello della fiducia è anche questo. Chiudere gli occhi e sapere di poter fare un passo nel vuoto.

Anche se con lui era più un atto di fede. 



 

* * *



 

Haruno Kirako scambiò un ultimo sguardo, e un sorrise triste, con Naomi, prima di chiudersi la porta dell’Agenzia Armata di Detective alle spalle andarsene insieme alle colleghe segretarie. 

Nella Stanza della Follia, Kunikida aveva indetto una riunione per i soli detective rimasti. La presenza mancante di Fukuzawa, Yosano e Dazai intorno al tavolo alimentò il senso generale di sconfitta. 

Nessuno proferì parola, mentre Ranpo chiudeva col pennarello l’ultimo cerchio di Red Hood sulla cartina. Non avendo più Dazai dalla loro non avevano potuto confermare l’effettivo legame tra i luoghi colpiti e la Port Mafia, ma la geometria parlava da sola. 

«Non riesco a credere che la sedia del Presidente sia davvero vuota» esordì Tanizaki, esprimendo quello che era un pensiero comune che nessun altro sembrava in grado di tradurre concretamente. «Se ci avessero avvertiti che l’Agenzia si sarebbe ridotta così, io…» ma non terminò la frase, sgonfio di qualsiasi prospettiva. 

«Non abbiamo nessuna novità di come stia?» domandò Kenji, un’altra questione sospesa sulle loro teste. 

«Ha spento il cellulare» rispose Kunikida, restandosene con le braccia incrociate e contro il muro, incurante di schiacciare foto e appunti affissi. «Le sue disposizioni…» si bloccò, lanciando un’occhiata agli altri detective, per poi fissarsi sul capotavola vuoto. «Le sue disposizioni sono rimaste invariate. Finché Red Hood non terminerà il suo operato ai danni del Boss della Port Mafia, il Presidente rimarrà in congedo dall’Agenzia.»

«E quando-»

«Stanotte.»

Ranpo interruppe e rispose a Kenji, buttando il pennarello in mezzo ai documenti disordinati sulla scrivania. Prese posto, accavallando i piedi sul piano in legno e incrociando le braccia. 

«Odio l’idea che il Presidente sia di nuovo al fianco del Boss della Port Mafia. Odio l’irrazionalità.»

Raccolse su di sé gli sguardi di tutti, ma non c’era nient’altro da aggiungere. La storia che legava Fukuzawa e Mori, o almeno la superficie di quei ricordi, era stata scalfita e raccontata durante il caso del Cannibalismo. Ranpo aveva qualche dettaglio in più, ininfluente per il caso, ma utile per sapere che quella dell’ex medicastro e dell’ex guardia del corpo era una miscela rischiosa da rimescolare insieme dopo tanto tempo. 

Atsushi tornò a fissare il posto vuoto di fianco a sé, dove si sarebbe dovuto trovare Dazai. 

«Dovremmo andare ad aiutarli» disse, voltandosi verso il loro Presidente ad interim. «Non possiamo restare fermi a guardare. Sappiamo cosa sta per succedere. Non possiamo restare qui in attesa e… e basta.»

Kunikida non rispose. Non ricambiò neanche l’occhiata del ragazzo, restandosene a fissare un punto impreciso di fronte a sé, anche se le sue dita strinsero la stoffa della camicia. 

«Davvero Red Hood attaccherà stanotte?» rilanciò Tanizaki, guardandoli tutti e allargando le braccia incredulo. «Cioè stanotte stanotte!?» 

«Sì, stanotte» ripeté Ranpo, lasciando trapelare una vena irritata che rimise al proprio posto il ragazzo. 

«Penso che Atsushi abbia ragione» disse piano Kyouka, ma priva della sua solita incisività, mentre anche lei preferiva fissare qualcosa di poco concreto, e non il vero problema che sedeva sulle sedie vuote dei loro compagni assenti. La loro inutilità.  

«Dobbiamo fare qualcosa!» si impuntò Atsushi, alzandosi in piedi e cercando l’assenso degli altri, ma senza ottenerlo. Strinse i pugni. «Come facciamo a rimanere qui con le mani in mano quando potrebbe succedere qualcosa al Presidente e a Dazai-san mentre-»

«SMETTILA!»

La voce di Kunikida si esaurì lasciando l’eco della sua stanchezza. Il fiato restò bloccato nelle gole di tutti i presenti, esterrefatti da quell’uscita improvvisa e carica di risentimento. 

Atsushi per primo ne restò paralizzato. Nel suo sguardo ferito balenò un sentore di sbagliato che riemerse dagli angoli bui della sua vita in orfanotrofio e servì al maggiore per calmarsi. 

«Scusami» mormorò Kunikida, togliendosi gli occhiali e passandosi una mano sulla faccia. Si prese qualche momento, conscio di avere i nervi a pezzi.  

«Non interverremo» disse in tono più contenuto, nonostante la voce gli fosse uscita priva dell’usuale fermezza. «Se ci avessero voluto lì ce lo avrebbero chiesto.»

Non fece nomi, ma tutti sentirono lo stesso risuonare sia quello di Dazai sia quello di Fukuzawa. 

La verità è che siamo stati lasciati in panchina.

Era ciò che l’espressione di Kunikida comunicava. Era una realtà che Atsushi faticava ad accettare, ma sapeva di non poterla neanche rifiutare. 

«Kunikida ha ragione» intervenne Ranpo con uno sbuffo, stringendo ancora di più le braccia. «Se ci presentassimo adesso diventeremmo solo delle variabili non calcolate nei piani di Dazai, col rischio di mandare all’aria qualsiasi strategia avrà progettato per affrontare questo attacco. Non che io non sarei in grado di capirlo in meno di un minuto» aggiunse, ma sgonfio di entusiasmo, tornando subito serio. «Ora come ora, l’unica cosa che possiamo fare è fidarci di lui.»

«Come faccio a restare qui mentre loro rischiano la vita!?» mormorò Atsushi, stringendosi la testa tra le mani. Kyouka tentò di confortarlo con una mano sulla spalla, ma il momento sfumò rapidamente. 

La porta della stanza si spalancò, facendoli sobbalzare. Naomi entrò trafelata, prendendo a malapena fiato. 

«Dovete vedere una cosa! Adesso!»

In meno di due minuti, il gruppo salì le scale e uscì sul terrazzo del palazzo, nella frescura della notte già iniziata. La prima cosa di cui si accorsero fu il mormorio sommesso che si percepiva nell’aria. Sporgendosi dalla ringhiera, Atsushi notò un sacco di gente per strada. Le auto erano ferme, non per via del traffico, ma perché molti dei guidatori erano scesi. Tutti indicavano in una direzione. 

Alzando lo sguardo, il Ragazzo Tigre frugò nel panorama alla ricerca di quello che stava attirando l’attenzione di tutta Yokohama. Fu accorgersi di cosa mancasse che capì e la pelle d’oca gli morse collo e braccia con un brivido. 

Era come se al centro della città ci fosse un immenso buco nero. 

I cinque palazzi della Port Mafia erano completamente al buio. 

«È iniziata» mormorò Ranpo. 



 

To be continued




 

Sono viva! Il Cowt è finito e anche il Romics è passato! Qualcuno di voi era lì? Magari vi ho venduto una spilla e non lo sapevate! (???) 

Avrei diverse cose da dire su questo capitolo, ma ora non me ne viene nessuna! Viva Sigma (anche se un quarto di capitolo sono le sue seghe mentali), viva Dazai che regala la mantella drammatica (tratta da una storia viera) ad Akutagawa! Viva Chuuya e Dazai che parlano di Odasaku e da dialogo insulso negli appunti è diventato uno dei miei preferiti! Viva Atsushi che non riesce a fare a meno di lamentarsi! 

Mancano i Capitoli 21, 22 e 23, ormai lo sanno anche i muri, siamo alla fine prima parte! 

Poi cosa succederà? 

 

Buonanotte!
Nene 


Prossimo capitolo → The Darkest Night (Prima Parte) 
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Bungou Stray Dogs / Vai alla pagina dell'autore: Eneri_Mess