Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Exentia_dream2    24/04/2022    0 recensioni
In un universo in cui chi perde la propria anima gemella non vede più i colori, Mikasa decide di chiudersi in se stessa e tagliare i ponti con gli ex compagni della Squadra di Ricognizione. Un ritorno annunciato, però, cambierà il corso della sua vita.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Se tu fossi stato con me t’avrei chiesto scusa. Oppure aiuto. Invece non c’eri; 

incredibile come gli altri manchino sempre nei momenti in cui se ne ha bisogno; passi giorni, mesi, anni interi con qualcuno a cui non hai da dir nulla e nel momento in cui hai da dirgli qualcosa, magari scusami, aiuto,

 lui non c’è e tu sei solo.

 

III.



 

È l'odore di qualcosa che cuoce a svegliarla e, quando apre gli occhi, Mikasa vede il verde militare della giacca di Jean appoggiata allo schienale della sedia — li stropiccia, li chiude, li riapre, ma il colore resta lì: sulla stoffa invecchiata, senza più macchie del sangue che l'ha sporcata.

Non fa in tempo a realizzare che il mondo intorno a lei non è più in bianco e nero, che si è aggiunto un altro colore a quelli che normalmente riesce a distinguere — il nero dell'oblio, il bianco dei ciechi, il rosso di una promessa infranta; non lo sa che il cambiamento che non vuole è nell'intreccio di quei fili che si uniscono in uno schema di cucitura che non conosce — che il verde è speranza e muove ossa e muscoli, spinge ad andare avanti senza che ce ne accorgiamo; è acqua di mare che non ha profondità o forse ne ha troppa e allora ci immerge la testa per farci restare senza aria e morire lentamente, com'è giusto che sia.

Sposta le lenzuole e poggia i piedi sul pavimento, ma Jean entra nella camera e la ferma: ha una ciotola in mano, il vapore a nascondergli il viso. "Ti ho preparato una zuppa, non è niente di ché…" le dice e Mikasa sente che non è giusto, averlo lì, mangiare con lui, dare a se stessa lo sprazzo di una quotidianità che ha vissuto solo e soltanto con Eren: l'unico che l'abbia mai vista vulnerabile con indosso una camicia da notte, fragile con gli occhi gonfi di lacrime e sonno — e incubi troppo reali per essere raccontati, sogni troppo belli per divenire realtà.

È questo pensiero a farle nascondere il corpo con la coperta che qualche minuto prima ha scalciato via: si sente nuda a essere guardata da occhi che non sente appartenerle e non c'è malizia nello sguardo che l'accarezza, ma una preghiera muta di resa e se soltanto ti lasciassi andare, se soltanto capissi quanta stanchezza mi pesa sulle palpebre e, pur di guardarti, metto tra le ciglia mattoni d'amore costruiti solo per te.

Ma Mikasa non ha mai saputo interpretare le righe dell'iride né ha mai capito cosa dicessero i battiti di un cuore e allora si abbraccia da sola e cala il capo.

"Dovresti mangiare" le ripete e tentenna come se volesse tenerle compagnia, ma poi scrolla le spalle e se ne va perché non serve a niente insistere, donarle mani per allentare la morsa del dolore e trovarsi i dorsi con il segno dei suoi morsi.

Lo ha fatto per quattro giorni e, all'alba del quinto, s'è dichiarato stanco. Ha preparato la colazione, ma l'ha consumata da solo al tavolo della cucina e non s'è avvicinato nemmeno con lo sguardo alla porta della camera di Mikasa — potrebbe anche sfondare il legno, vederlo cadere al suolo così come caracollavano i giganti con un taglio tra capo e collo, e vedrebbe soltanto la nebbia fitta dei pensieri di una donna che s'è segregata in un passato che non vuole dimenticare.

"La pazienza è una linea, Mikasa. A volte s'interrompe e ci lascia liberi di essere pazzi, ma tu hai preso la mia l'hai spezzettata come fosse un bastoncino di legno: non ne ho più, è sotto i tuoi piedi e ti manca poco così per trasformarla in cenere" le dice e vorrebbe aggiungere che ha ucciso Eren, gli ha fatto chiudere gli occhi per sempre, ma a lui… l'ha ridotto a un morto che cammina senza una tomba in cui riposare e allora basta, smettila per favore: mandami via, ti va?

Però non dice niente. Prende la giacca e apre la porta ché purtroppo è ancora vivo e ha bisogno di aria pulita per schiarire la mente — nebbia e fumo, i suoi pensieri che si scontrano con quelli di Mikasa senza fondersi mai lo rendono cieco e lui gli occhi li vuole: è vivo, può prendersi tutti i lussi che la vita gli ha donato e che non intenzione di sprecare.

 

Una sera ha preso le poche cose che aveva portato con sé e se n'è andato: ha messo nella sacca due camicie e un pantalone, la giacca l'ha lasciata sullo schienale della sedia e s' illude che le ali cucite sopra possano donare a Mikasa la leggerezza di cui non è più capace, che a forza di pensare a ciò che non è abbia dimenticato quello che è stata (invece lo sa bene: un'assassina, una vedova che non ha mai avuto marito, un'anima in pena che s'è condannata da sola alla sofferenza eterna); ha scritto un biglietto con poche parole e spera che lei sappia leggere: non si è nemmeno posto il problema quando s'è chinato sul tavolo e ha scarabocchiato quei segni che adesso gli fanno il cuore un po' più pesante di sensi di colpa.

Cammina piano come se non volesse davvero allontanarsi da quella catapecchia che ha cominciato ad avere il profumo di casa anche per lui — non ha capito la scelta di Mikasa di abitare fuori dalle mura finché non lo ha fatto anche lui: è bello, a volte, non sentire racconti che parlano delle gesta eroiche che ha compiuto il Corpo di Ricerca, dimenticare per un po' l'inferno sceso in Terra e così via, ché sembrano giorni lontani, ma a volte tornano a bussare alla porta e pretendono di essere vissuti come fossero istanti di presente di fronte a cui ci si deve inchinare e pagare il prezzo di ogni decisione presa. Quando succede, Jean china il capo e salda i propri debiti — gli incubi sono la spesa meno cara.

Si trascina per le vie del distretto di Shiganshina e gli pare di sentire le urla di uomini e donne condannati al macello da esseri che non erano stati altro che umani sfortunati: con un destino già segnato, piccoli puntini destinati a diventare colossi solo per riempire vuoti di un disegno cominciato da Ymir e mai portato a termine fino all'arrivo di Eren e alla pazzia che ha sterminato quasi tutta la popolazione mondiale. Non vuole farlo, eppure non può farne a meno di immagine tre bambini che scappano da quelle mura per cercare rifugio e arruolarsi con l'obiettivo di vendicare i propri cari: quando si chiede cosa ne sia stato dell'innocenza con cui ogni moccioso dovrebbe crescere, gli occhi di Mikasa gli riempiono la mente ed è tutto nero intorno (come le sue iridi e le sue pupille), quasi gli manca l'aria al solo pensiero che, a qualche chilometro di distanza dalla casa da cui è cresciuta, la donna che ama abbia abbandonato l'infanzia per proclamarsi protettrice di colui che poi, sul finire, ha sacrificato se stesso per difendere tutti loro in silenzio fino al principio della fine, quando il Boato della Terra ha segnato le sorti del mondo intero e, quindi, di ognuno di loro.

Arriva a Trost a notte fonda, poggia le punte dei piedi sul pavimento e trattiene il respiro: dormono tutti svestiti delle loro giacche e delle medaglie ricevute per le missioni di pace che hanno compiuto (per il mondo e mai per loro stessi) e grazie alle quali hanno stretto alleanze con diverse nazioni, tuttavia il silenzio viene spezzato dalla voce di Armin che lo chiama.

"Sei sparito" gli dice e Jean annuisce pur essendo consapevole che al buio il Comandante non può vederlo.

Sono sparito nel vero senso della parola, non so cosa ho lasciato di me nelle mura di una casa che non è mia: quello che vedi è solo un corpo, Armin, e non ne hai già visti tanti come me, ridotti a essere rimasugli di vita e nient'altro, ossa e muscoli che continuano a muoversi eretti soltanto perché nessuno li ha spezzati, calpestati, divorati? M⁴a io vorrei soltanto genuflettermi e chiedere perdono per tutti i peccati che ho commesso: devo aver peccato per forza, altrimenti questo dolore nel petto non so proprio spiegarlo.

Armin tace e, a un certo punto, si gira dall'altra parte e gli ordina di dormire. Nessuno dei due sa che, oltre le mura, Mikasa è in ginocchio e piange verde militare e rosso, avvolta nella sciarpa di Eren e nella giacca di Jean: ha ricordato che una mano può uccidere ma anche accarezzare, che il silenzio è amnistia ma pure condanna — assordante, ingiusto quello che Jean le ha lasciato dentro.

Da quando se n'è andato, Mikasa si sveglia ogni mattina e guarda la sedia su cui lui ha poggiato la giacca del Corpo di Ricerca. Ha freddo e non la indossa perché crede che facendolo torneranno i ricordi di un passato che vuole dimenticare e allora a cosa sono serviti anni di isolamento volti a scordare visi e voci, corpi dilaniati e urla strazianti?

Pela patate e carote e cucina per due anche se è da sola, nemmeno l'uccello che ogni mattina picchiettava sui vetri della finestra viene a farle visita: lo trova appollaiato su un ramo che disegna un'ombra sulla tomba di Eren — la taglia in un due come un sorriso, come una cicatrice curata male e perciò, ogni volta che rientra, Mikasa prende bende e pomate e cura le proprie: non vuole vederne il solco né vedere il rossore dello squarcio richiuso — , ma non spiega più le ali, non plana per librarsi nel vento e assaporare la libertà che ha agognato quand'era uomo.

Si chiede cosa si provi, a sentirsi liberi, a provare la sensazione di non avere pesi che infossino i piedi nel terreno e, al viso di Eren sempre presente si sovrappone quello di Jean: non è vero, non può essere, si dice, tuttavia, quando alza gli occhi al cielo scorge uno schizzo d'azzurro che le spezza il respiro — lo frantuma, lo riduce in piccole schegge d'ossigeno che sembrano lame nei polmoni; s'accascia al suolo e piange: guarda il terreno e prega chiunque sia a decidere le loro sorti che s'apra e la inghiotta come lei ha fatto con la zuppa che Jean le ha preparato una settimana prima (ne sente ancora il sapore sulla punta della lingua, nessun'altro pasto l'ha sostituito e lei non è stata capace di cucinare qualcosa che lo coprisse). Le lacrime le rigano il viso e sembrano dense come il sangue quando le asciuga e le vede riflettere alla luce fioca del sole: le scie del passato si fanno presente, la voce che le giurava che l'avrebbe sostenuta sempre le fa riecheggiare nella mente le parole scritte sulla lettera che ha ricevuto poche settimane prima — sembra trascorsa una vita, ma quanto dura un giorno se, tutto d'un tratto, le chiazze di colore che  erano solo macchie adesso sono disegni?

Rientra in casa a tramonto inoltrato, quando l'orizzonte si colora di sfumature che ancora non riesce a distinguere e rimane in cucina perché la camera da letto è diventata tutta verde militare e lei si sente soffocare solo a pensarci. Ci pensa da giorni — da quando Jean è andato via — , si siede e prova a raccogliere il coraggio, ma sul finire, le manca tutto e s'addormenta con le gambe incrociate e la testa sulla superficie legnosa del tavolo.

 

 

Le giornate sono tutte uguali: si sveglia, prepara la colazione per due e non mangia; s'inginocchia di fronte alla lapide di Eren e lo prega di spiccare il volo: vattene via, per favore, fallo per me, sussurra e poi si pente l'istante dopo aver parlato.

Quando rimane sola, quando l'uccello che le tiene sempre compagnia avvera la sua richiesta, Mikasa prende e se ne va. Non ha senso, si dice, restare in un posto dove la vita è un mucchio di foglie che si muove nel vento e allora a casa, a pelare patate e carote, a sbocconcellare un pezzo di pane e a guardare la porta: aprila, aprila, ti prego, ma niente. Tutto resta immobile e anche lei che aspetta un ritorno che nega di volere.

Si giustifica dicendo che il dolore pesa di meno se condiviso con qualcuno, ma Jean il suo dolore non lo ha mai voluto: le ha fatto assaggiare un attimo di leggerezza e poi gliel'ha ridato perché gli è bastato aver attraversato il proprio, aver patito notti intere trascorse a ingoiare lacrime e a martoriarsi il labbro inferiore a sangue pur di non urlare la disperazione e gliel'ha detto quando lei ha dato voce a una domanda che le ha consumato l'anima: ma come si fa a lasciare andare chi non ha fatto altro che salvarci dal mondo e da noi stessi? Come si fa a vivere se si ha paura di morire?

"Io lo so, che sei morta anche tu e ti sei seppellita accanto a ciò che è rimasto del suo corpo. Ma respiri ancora e non hai il diritto privarti di un privilegio che molti dei nostri compagni non hanno avuto. Non hai paura di morire, ma non stai vivendo" le ha risposto e lei si è resa conto che è vero: vive a metà tra il passato e il presente che passa inesorabile e del futuro non ha un'idea che sia una — forse, nemmeno una speranza.

Però qualcosa arriva e sembra un soffio d'aria fresca: bussano alla porta e lei si precipita ad aprire. É Armin che le sorride e non muove un muscolo perché è sempre stato così da quando Eren non c'è più: Mikasa ha rifiutato troppi abbracci e quindi si ferma e aspetta che sia lei a fare il primo passo che lui imita immediatamente (questa volta  un sorriso).

Restano per un po' in bilico sui silenzi — il tempo per lui di decifrare le domande che lei ha negli occhi, il tempo per lei di raccogliere il coraggio per ascoltare tutte le risposte.

"Jean è tornato a Trost" le dice e non gli sfugge il fremito che l'attraversa perciò attende che lei dica qualcosa ma niente.

Pare sia trascorso un tempo lunghissimo quando Mikasa si sposta e lo invita a entrare e lui accenna un inchino prima di accomodarsi sulla sedia che fino a poco prima aveva occupato lei: vorrebbe dirle tante cose, raccontarle cosa significhi essere adulti e assumersi responsabilità che fanno piegare le spalle e invece — come stai, Mikasa? E non mentire, per favore.

La scopre a fissarlo per qualche istante di troppo, ma non reagisce in alcun modo fino a quando non è lei a spezzare la catena di parole che nessuno dei due dice.

"Hai gli occhi azzurri" sussurra. "L'avevo dimenticato. Non vedevo i colori da quattro anni, Armin: era tutto in bianco e nero, a parte la sciarpa. Ora vedo l'azzurro dei tuoi occhi e il verde del-" s'interrompe perché continuare significherebbe ammettere sentimenti che conosce a fondo e che le sembrano estranei se provati verso qualcun altro; tace perché pronunciare il nome di Jean vuol dire riportare alla memoria quelle settimane che hanno condiviso sotto lo stesso tetto – i segreti, le accuse, tutto — e fa male in maniera diversa eppure identica a quella che ha provato quando ha seppellito l'unica reliquia che le era rimasta di Eren.

Quando fuori è buio pesto e lei sprofonda nella paura che il suo mondo torni a essere a colori, Mikasa si rintana sotto le coperte e fissa la sedia che ha di fronte al letto: è tutto uguale a una settimana prima, persino i granelli di polvere hanno smesso di sfidare il tempo e la gravità e sono lì dov'erano, però adesso c'è qualcosa che stona, che le fa male al centro del petto e cos'è che le fa battere il cuore così forte se non la consapevolezza di essere lontana dalla guarigione? Il dolore è un velo che si solleva dalla retina. Mikasa se ne rende conto quando vede ancora il verde militare della giacca del Corpo di Ricerca. Strizza gli occhi, li richiude e li riapre, ci passa le mani sopra e li serra, conta cinque, dieci, trenta secondi, ma quando li apre il colore è ancora sull'indumento. Allora guarda fuori dalla finestra e spera di annegare dal nero della notte e non riemergene più. 





 

Prompt scelti:

 

09) Colazione insieme

29) Fare qualcosa di caldo

   
 
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