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Autore: Gaia Bessie    30/04/2022    1 recensioni
[Missing Moment da The Lost Hero | Luke/Annabeth]
Annabeth tiene una fotografia di lei, Luke e Thalia incollata alle parete vicina al proprio letto: le piace pensare che, da qualche parte, lei che fa da scia alle comete argentee delle Cacciatrici e lui, perso chissà dove, la stiano guardando – mentre sfiora il viso di entrambi con il pollice, come a cancellare una macchia che non esiste e che, però, lei si sente ancora attaccata alla mente.
Ogni sera, l’aria diviene soffocante. Quando si rende conto che San Francisco è stata una pessima idea, alla fine di tutto, ma è anche una possibilità.
Non se lo sa dire da sola: che spera che Luke la venga a cercare – ancora.
Anche se non lo può fare più.
[Partecipa alla "To be writing challenge" indetta da BellaLuna sul forum Ferisce più la penna]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Jason Grace, Luke Castellan, Luke/Annabeth
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Torno in un fandom che è stata la mia adolescenza con una canzone di Blanco: quindi, eccomi qui con un MM che volevo scrivere da un pochino.

Spero che vi piaccia.

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Annabeth tiene una fotografia di lei, Luke e Thalia incollata alle parete vicina al proprio letto: le piace pensare che, da qualche parte, lei che fa da scia alle comete argentee delle Cacciatrici e lui, perso chissà dove, la stiano guardando – mentre sfiora il viso di entrambi con il pollice, come a cancellare una macchia che non esiste e che, però, lei si sente ancora attaccata alla mente.
Ogni sera, l’aria diviene soffocante. Quando si rende conto che San Francisco è stata una pessima idea, alla fine di tutto, ma è anche una possibilità.
Non se lo sa dire da sola: che spera che Luke la venga a cercare – ancora.
Anche se non lo può fare più.
 
Blu celeste
 


Quando, quando il cielo si fa blu
Penso solo a te
Chissà come stai lassù
Ogni notte
È blu celeste
 
C’è un momento preciso, come in ogni preghiera che si rispetti, una ritmicità: Annabeth impara ad accettare che deve pensare a Luke ogni volta che chiude gli occhi, nella camera che suo padre ha arredato per lei, e vederlo ancora lì. Appollaiato sul davanzale della finestra, pronto a cadere giù.
Il giorno in cui Luke le ha domandato di mollare tutto e fuggire insieme, Annabeth aveva sedici anni e un pensiero dai capelli neri in testa – qualcosa di sicuro.
Gli ha detto di no. Che scappare non è mai la soluzione e, allora, doveva andar via da quel dannatissimo davanzale che, se l’avesse guardata un’ultima volta, probabilmente avrebbe dovuto dirgli di sì. Gli ha detto di no non per il tradimento, non perché non avrebbe voluto abbandonare tutto e seguirlo: gli ha detto di no perché pensava, in una convinzione stupida e infantile, che tutto sarebbe andato magicamente a posto da solo.
Luke era sempre stato bravo a mettere tutto al proprio posto ma, per l’ultima volta, qualcosa l’aveva sbagliato – e con tutte quelle promesse ormai tragicamente infrante, Annabeth che poteva farci?
Non gli aveva concesso nemmeno un ultimo momento di pace, non se l’era concesso nemmeno lei – e, adesso che deve nominarlo nelle proprie preghiere e le si chiude la gola, si domanda se non avrebbe fatto meglio a dirgli la verità.
Le dicono che non è colpa sua ma, quando alla sera vengono i sogni a ricordarle che ha avuto le mani macchiate del suo sangue, Annabeth non ci crede più: ha preferito salvare le apparenze e lasciarlo morire da solo – sconsolato.
Quando ne parla con Percy, lui non sembra capire – che altro potevi fare? – e lei accantona molte mezze verità in favore di cenni del capo che non hanno niente di rassicurante. Qualche volta si domanda se Percy, al pari di Thalia o chiunque altro, abbia davvero percezione di quanto la morte di Luke sia riuscita a segnarla.
Che lo vede ancora, nel cielo blu celeste, quando i pensieri sono troppo liberi di vagare e allora la mancanza sale lungo la risacca, prepotente. Che le manca ancora, come il fratello che avrebbe voluto la crescesse e come il ragazzo che aveva amato, in un tempo che s’è slargato e sbiadito e ora non riconosce, e che soprattutto vorrebbe ancora fosse qui.
La sera, che sia al Campo o a casa di suo padre, osserva il cielo e se lo domanda – se la sta aspettando da qualche parte, se la cerca, se la troverà mai: Luke ha detto che avrebbe provato la via della rinascita ma, quando pensa a quando ha chiuso gli occhi e non li ha riaperti più, qualche volta si domanda se non avrebbe potuto chiedergli di aspettarla. L’avrebbe fatto.
Luke ha rinunciato a molte cose, per lei – mai a domandarle se avrebbe potuto tenerla con sé: l’avrebbe fatto, in un viaggio in fuga da Crono che magari non sarebbe finito mai bene, ma ci avrebbe provato. Luke aveva rinunciato ad innamorarsi, per vederla crescere.
A Percy non glielo sa dire, ma quei sentimenti che cova in petto per lui sono il suo tradimento peggiore: Afrodite gliel’ha detto, un giorno in cui era in vena di discendere tra i mortali per creare un po’ di scompiglio, che lei e Luke erano predestinati. Che l’amore pesca gli amanti da un sacco di biglie e li accoppia per gamma cromatica.
Annabeth non ha domandato – ma è certa, fin dentro le ossa, che le loro due biglie fossero d’un opaco blu celeste, sfumato nel bianco di una nuvola che promette pioggia. E adesso che tutti quei sentimenti sbagliati scrosciano come temporale lungo le vie della sua mente, a Percy non glielo sa spiegare, che ha troppi rimorsi per l’amore.
Che forse sarà blu celeste anche lui, ma di una tonalità sbagliata: troppo terso, per lei che promette tempesta. Afrodite che la guarda e ha gli occhi di ogni donna che s’è trovata nella stessa situazione, più volte.
È possibile, le ha detto, amare un’ombra – basta che non vai a cercarla: chi lo sa, cosa nasconde Ade nel sottosuolo, insieme a sua moglie. Non pensare che Luke Castellan ti abbia rubato la primavera per nasconderla tra tralicci di vite e fiori di pesco.
Non pensarlo, perché non lo ha fatto – i morti non parlano, Annabeth, figurati i vivi.
E lei, che nelle sue preghiere ricorda madre, padre e fratello, si domanda perché: perché il fratello debba essere quella divinità incagliata tra i suoi pensieri e, come un gesso sulla lavagna, lascia traccia. Una traccia inchiostrata, sbiadita, sbavata: un blu opaco, di penna scarica, blu un po’ celeste che comunque s’imprime sulla pagina e non le lascia scampo.
I morti non parlano. Qualche volta, però, ci potrebbero provare – o, almeno, scrivere: e pensa i vivi, Annabeth, pensa ai vivi che muti ti circondano e non sanno dirti che devi smetterla, di cercarlo nelle pause e nelle virgole e nei punti a fine frase. Luke Castellan ha smesso di esistere.
Anche se lei ci crede ancora che, guardando quel cielo che scolora in blu celeste, lui possa ancora risponderle.
Qualche volta lo fa, ma lo sente solamente lei.
 
***
 
Il cielo è blu come il tuo nome
Blu come l'inchiostro di 'sta penna
Che scrive parole senza pensarle
E io non posso starne senza
Ho la ragione che rallenta
Ogni mio senso di colpa
E non c'è un mostro che la tolga da me
 
Gli scrive lettere, poesie, pensieri.
Nemmeno ci fa più caso – ha un quadernetto dedicato a quel che le passa in mente e, sfogliandolo, si rende conto che rimarrà un segreto: che se lo facesse vedere ad anima viva, si accorgerebbero tutti che ha mentito e sta mentendo. E che quindi ancora non è stata in grado di perdonarsi.
La morte di Luke è un suo peccato – le scava l’anima come parole non dette e, quando finalmente Annabeth si ferma per respirare, cola sangue da quei buchi: la morte di Luke è più che un peccato, consapevolezza, possibilità (inevitabile).
Si domanda, mai ad alta voce, come faccia il resto del mondo a vivere sereno nella consapevolezza che lui non c’è più, chissà se si ritroveranno mai: predestinati, le ha detto la Dea dell’amore, ma sei stata poco furba. Potendo, tornerebbe indietro.
È quel che vorrebbe urlare quando un ragazzo biondo si presenta al Campo e non è lui – Jason Grace è troppo tempestoso, Luke è finito sotto un cumulo di ricordi perduti (al pari di Percy): e lei, che è tutta una ricerca disperata verso questo o quello, anche quando Percy scompare e tocca a lei seguirne le tracce, mantiene la mani macchiate di inchiostro.
È un rituale, un senso che si sfilaccia nella notte, quando fa spola da casa di suo padre al Campo, come una trottola impazzita – il signor Chase glielo dice: c’è qualcosa che ti turba e ti rende inquieta, ti va di dirmi cos’è?
Lei gli risponde che Percy è sparito (e Luke è perduto) e non sa in che universo spinoso le toccherà recuperarlo, adesso. Aggiunge, silenziosamente, che in quel medesimo cerchio di rovi spera quasi di trovarci Luke – adesso Annabeth ha un nuovo concetto di famiglia, nuove idee, ricordi. Ma, quando suo padre le sorride e la sua matrigna le chiede di giocare con i fratellini, Annabeth sorride solamente per finta.
Ho già un fratello, si ritrova a pensare. Avevo.
E chissà se era fratello, amico o assolutamente niente – Luke è morto nella consapevolezza dolorosa e annichilente della mancanza d’amore e, per questo, non le aveva lasciato in mano nemmeno una promessa inutile (d’aspettarla) e controproducente. Luke era morto e basta, con quella morte che faceva schifo, perché niente fa più schifo della morte dell’eroe.
Eppure, la vogliono tutti – anche Percy e forse perfino lei – ma, quando Annabeth ha visto Luke socchiudere gli occhi con un sorriso pacifico, avrebbe voluto scrollarlo fino a fargli riprendere vita. Prenderlo per le spalle e sbattergli il capo sul pavimento, alla ricerca di quel senno che doveva aver perso. E dirgli, no, urlargli, che se lo era meritato.
Non di morire, ma di sentirsi come s’era sentita lei al tempo del suo grande tradimento – abbandonata, no, tradita, no. Non amata.
Poi se lo era anche dovuto domandare – chissà in che risposta sperava, chissà se cercava una negazione o l’assenzio che brucia la gola e ti fa ubriacare – e, dentro di sé, non aveva trovato una risposta valida, se non che Luke semplicemente cercasse un pretesto per infiocchettare la propria morte con il sentore di tragedia. Abbandonato o con il cuore infranto, Luke Castellan rimane nei brandelli di poesia di Annabeth, scritti in alfabeto greco, lungo i margini.
E lei, che adesso ha dedicato tutta la sua vita a uno sforzo costante verso il miglioramento (e verso Percy), non si ferma mai. Lo facesse, dovrebbe fare i conti con la prospettiva di aver abbandonato quella che, per anni, era stata casa sua.
Qualche volta la sente, una sensazione precisissima, due braccia che l’avvolgevano quando aveva troppo paura per dormire da sola – se Luke non fosse fuggito via, probabilmente Annabeth non avrebbe mai smesso di intrufolarsi nel suo letto per nascondergli il viso nel petto, alla ricerca del ritmo dei suoi battiti. Ha quaderni pieni, di quella sensazione. Piccoli momenti rubati, che non si sa spiegare.
Così, quando porta Jason Grace e i suoi amici al Campo Mezzosangue, Annabeth ha le costole che tremano a ogni respiro – scopre la somiglianza con Thalia, ma non ne è convinta: ha i capelli biondissimi e, quando lo guarda controluce, le pare di rivederselo davanti.
Luke che le viene incontro, posando i piedi sulle sue impronte, pronto a dirle che la ama e la perdona – e lei sta diventando pazza, si dice, perché anche in una scritta un po’ storta o negli occhi del figlio di Giove riesce a leggerci il suo nome.
A volte, anche adesso che la sua assenza è pressante come una maledizione, Annabeth si domanda se Percy sarebbe in grado di comprendere: che lei passa le notti a sognare quel sangue che le cola addosso, il pugnale che Luke le aveva regalato, quegli occhi che lentamente si sono scolorati nella morte e nel rifiuto (il suo). Annabeth non se lo sa spiegare – come quelle parole le siano uscite di bocca: ha passato metà della sua vita a idolatrare Luke e, di questa metà, chissà quanti a pensare d’essere innamorata di lui. E, infine, oltre il pensiero – a esserlo per davvero.
Percy le ha sempre detto che è coraggiosa come poche altre persone – ma, quando si è trattato di confessare, Annabeth ha inghiottito mille verità e ha detto una mezza bugia che ha ferito tutti quanti (specie lei): e adesso che Luke è morto e a lei non rimane altro che un pezzo di cenere, un pugnale sporco di sangue e la speranza (vana) che lui possa aspettarla o ricomparire per magia tra i vivi, Annabeth si mastica le ossa alla ricerca di un filo che la tenga insieme.
Percy – il filo è lui.
Ed è per questo che è inquieta, per questo che dice a Jason che lo devono ritrovare, per questo che insiste e macera su quei pensieri: il motivo è lui – quello per cui ha mandato tutto a puttane, anche il suo lieto fine da favola, ridipingendolo in tragedia.
 
***
 
E mi metterò al riparo
Mentre imparo ad accettarlo
Che se il tempo lo ha già fatto
Ora sei un mio ricordo
Un mio ricordo immaginario
Del fratello che vorrei
Nato nel mese di acquario
Sarei il pesce e tu lo squalo
 
La notte, Annabeth continua a sognare Percy – è sparito da nemmeno tre giorni, lei è inquieta come fossero tre anni: lo fraintendono per quell’amore che il figlio di Poseidone è certo di meritare. Ma non è quello, non solo.
Annabeth, quando si sveglia nella notte con il fiato incagliato in gola e un pensiero in testa, è incastrata in una singola urgentissima frase – non di nuovo. Non lasciare che mi portino via anche lui, madre, ti prego. E prega madre, padre, fratello.
Muti – tutti e tre.
E si alza alla mattina e vaga per il Campo, in attesa che le sia permesso andar via di lì (lontano): Clarisse è l’unica che ha le palle di suggerirglielo, in un sussurro – impara ad accettarlo.
Non specifica cosa, ma ad Annabeth sembra chiaro: che Percy è scomparso e dovrà ricomparire (e che Luke non tornerà mai più indietro), impara ad accettarlo che ormai sono tutti ricordi. Ha fatto a pezzi il lieto fine, lo ha gettato contro la lama del suo pugnale e, alla fine, non le è rimasto che un brandello di infantile senso di colpa – stupida, stupida, stupida.
Nessuno domanda mai – nemmeno Clarisse, che finalmente comprende che un limite all’umana tolleranza esiste, riesce a chiederle perché. Che fine abbia fatto il suo amore sprecato e perché non riesca ad imparare ad accettarlo.
Annabeth prega, una litania sorda e muta, madre, padre, fratello: la madre (muta) la guarda, il padre (sordo) pure, il fratello ormai è perduto. Tutti i sogni si sono rotti e, così, Annabeth conta i giorni – ormai Luke è solamente un suo ricordo, immaginario, del fratello che avrebbe voluto avere.
Le dice che non tornerà, Clarisse, quando Annabeth prende armi e bagagli per andare a cercare Percy: con un pizzico di veleno le dice – sei fatta di persone che se ne vanno: Luke Castellan è solamente un frammento di ricordo e, adesso che è scomparso dalla terra, chi ne sentirà la mancanza?
Qualche volta, le più giovani figlie di Afrodite parlano. Dicono che c’era un ragazzo bellissimo e pieno di scelte sbagliate (tu non lo subisci mai il fascino del cattivo ragazzo, sì?), che c’era un ragazzo innamorato e a cui non è stata data nemmeno la consolazione di un amore sul finire.
Luke è spettro che s’aggira tra le baracche del campo – dicono di no, ma lo ricordano tutti quanti: se fosse qui, in questo momento, anche Percy lo farebbe. Ricordarlo, come quel fratello in cui aveva creduto, come l’amico cui si era affidato (tradito).
Percy non saprebbe perdonarlo, Annabeth sì. Se è vero che la predestinazione funziona come una pesca armocromatica di biglie, lei vede il mondo in blu celeste: un azzurrino sfumato male che era gli occhi di Luke e tutto quello che vi stava dentro quando la guardava.
Non se ne era accorta – o aveva finto: il giorno in cui Luke s’era presentato a casa sua, a San Francisco, arrampicato sul davanzale e con i piedi che tremavano e le ginocchia che a malapena riuscivano a tenerlo su.
A febbraio compio gli anni, le aveva detto, sai quanti ne ho sprecati: se vieni con me, forse riuscirò a trovare un senso a questa vita spaiata che mi sono creato.
Lei aveva detto di no, senza alcuna spiegazione – che quella vicinanza, che lui che allungava la mano per sfiorarle il capo, faceva male quanto un bacio che avrebbe voluto e non aveva domandato mai.
Luke le aveva chiesto di pensarci, Annabeth lo aveva fatto per davvero. Fino allo sfinimento e anche oltre aveva pensato di dirgli sì, fuggiamo insieme, lo sa Dio dove andremo – bastiamoci, ti va? – e se ne usciremo vivi. Di spezzare il cuore a Percy, non se l’era sentita.
Di rinnegare i propri principi in nome di quell’amore bugiardo che l’aveva spinta a concedergli mille assoluzioni (una di troppo), nemmeno.
Il compleanno di Luke era passato, mese che mangia mese, e lui non aveva potuto festeggiarlo: data di nascita, inutile, sbiadita rispetto a quella della morte. Lei aveva spento una candelina su un muffin e non aveva dato spiegazioni, nemmeno a sé stessa.
Quando aveva rubato un muffin dall’infornata della sua matrigna, suo padre aveva sorriso benevolo, prestandole un accendigas: Annabeth non gliel’ha detto mai, che cos’ha sconvolto le sue nottate dalla morte di Luke, ma ormai ci sono arrivati tutti quanti. Che Annabeth ha perso qualcosa, qualcuno, suo fratello maggiore. Basta così.
Se il destino è un bambino che gioca a biglie da solo, separandole per gamma cromatica, Annabeth ha perso la partita – le ha frantumate, in un sussurro, quando le ha scagliate sul pavimento al ritmo di una frase (che tutt’ora le rimbomba in capo quando lascia i pensieri liberi di scorrer via, di lacrimarle giù dalla pelle come acqua di scolo).
Annabeth se le sente addosso, a colpirle la pelle facendole venire i lividi – colpa di quell’amore sprecato, si dice, colpa del fatto che non è riuscita a salvarlo, dicendogli no quando lui le aveva domandato aiuto.
Fa malissimo.
Sentirlo parlare quando chiude gli occhi e guardandola lo ripete, in un loop infinito, dicendole che.
Annabeth, mi hai mai amato?
No, Luke… per me eri un fratello.
 
 
Quando il cielo si fa blu, penso solo a te
Chissà come stai lassù ogni notte
È blu celeste, è blu celeste
È blu celeste
(Blanco, Blu celeste)
   
 
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