Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: WillofD_04    04/05/2022    0 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ero tramortita, ma non ero morta. Di questo ero quasi certa. Avevo aperto gli occhi, e il senso di bagnato che sentivo addosso era troppo reale perché fossi deceduta. I morti non percepiscono niente, giusto? Inoltre, la mia guancia destra era pressata su una superficie morbida ma allo stesso tempo ruvida. Strizzai le palpebre, d’un tratto infastidita da qualunque materiale stesse graffiando la mia pelle. Avevo dato una bella botta. C’era da capire dove e come.
Prima di compiere qualsiasi movimento, come sempre, mi accertai di non avere nulla di rotto. Tutto sembrava essere al proprio posto e intatto, per fortuna. Quando ripresi pienamente conoscenza, mi resi conto di avere ingoiato una quantità non indifferente di acqua marina e sabbia. Mi issai sulle ginocchia, tenendo le mani appoggiate al suolo, e iniziai a tossire e sputare con poca eleganza tutta l’acqua e la sabbia che avevo ingerito. Rimasi in quella posizione a sputacchiare con la faccia disgustata per un paio di minuti buoni. Quando fui sicura di aver espulso tutte le sostanze che non avrebbero dovuto trovarsi nel mio apparato respiratorio, cercai di rialzarmi. Il fatto che riuscissi a reggermi in piedi era un miracolo. Le gambe mi tremavano, le orecchie mi fischiavano, la bocca era piena di sabbia e sale, la testa mi girava e il cuore per poco non si riversava fuori dal mio petto. Non appena mi fui stabilizzata ed ebbi strizzato i miei vestiti nel tentativo di liberarmi di un po’ dell’acqua che avevano imbarcato, feci una rapida e involontaria alzata di sopracciglia. Supponevo che questi fossero gli effetti collaterali dell’essere quasi morta. Era così che funzionava la mia vita: nella mia sfortuna, avevo comunque fortuna. Riuscivo a cacciarmi in guai più grossi di me e poi, in qualche modo, riuscivo a tirarmene fuori, proprio come Rufy e compagni. Nel ripensare a lui e Usop mi ricordai che probabilmente si trovavano nella mia stessa situazione e mi decisi a cercarli. Mi guardai in giro finché un movimento sospetto alla mia destra mi mise in allerta. Quando capii di cosa si trattava, tirai un enorme sospiro di sollievo. Era il cecchino, steso sulla spiaggia, a una ventina di metri di distanza. Come me, si tirò su sulle ginocchia e si mise a sputacchiare acqua e sabbia. Mi confortava sapere che era finito lì anche lui, almeno c’era qualcuno su cui poter contare.
«Usop!»
«Cami!» Si alzò e venne verso di me. «Dov’è Rufy?»
Scossi la testa in risposta alla sua domanda.
«Dobbiamo cercarlo,» si raccomandò, iniziando a guardarsi in giro.
Lo feci anche io, dalla parte opposta. Un altro movimento sospetto mi mise in allerta. A pochi metri da me, scosso dalle onde che continuavano a riportarlo a riva, c’era il mio zaino. Il mio amatissimo zaino, lo zaino che conteneva buona parte dei miei effetti personali e che credevo di aver perso per sempre mentre ero impegnata a tentare di evitare che il mulinello mi trascinasse sul fondo dell’oceano. Mi affrettai a recuperarlo e ad aprirlo per accertarmi che fosse tutto al proprio posto e che niente si fosse rotto. Fortunatamente c’era tutto, ed era tutto asciutto. Il telefono funzionava ancora alla perfezione. Avevo avuto un’idea brillante nel chiedere ad Usop di rendere la mia borsa impermeabile ed ermetica. Avevo messo in conto che sarebbe potuta succedere una cosa del genere. Non mi aspettavo di certo di essere risucchiata da un dannatissimo vortice, ma comunque avevo fatto bene ad essere stata previdente.
Ricominciai a guardarmi intorno in cerca dell’idiota che mi aveva trascinata in quella situazione scabrosa. Mentre osservavo il posto in cui mi trovavo, in me si fece strada il panico. Non riuscivo a riconoscere nulla dell’ambiente che mi circondava. Mi trovavo su una spiaggia, una spiaggia di un’isola che non avevo mai visto prima. Non mi trovavo più sull’isola Stein e non avevo idea di dove fossi. Il panico aumentò esponenzialmente quando, finalmente, ritrovai Rufy. Qualche metro più in là rispetto alla mia posizione, Cappello di Paglia giaceva immobile, a pancia in giù, sulla riva della spiaggia. Di tanto in tanto il suo corpo veniva trascinato avanti e indietro dalle onde. Sembrava privo di conoscenza.
«Usop!» lo richiamai per la seconda volta. Quando anche lui lo ebbe visto, si mise a correre.
Ci precipitammo verso Rufy e con le poche forze che ci rimanevano gli afferrammo il colletto della camicia e lo trascinammo fuori dall’acqua. Mi inginocchiai accanto a lui e gli girai delicatamente il corpo. Spalancai gli occhi nel notare che aveva le labbra blu. Era cianotico. Cercai di non terrorizzarmi troppo ed accostai l’orecchio alla sua bocca. Non respirava. Gli poggiai indice e medio sul collo, proprio sotto alla mandibola, e restai in attesa. Niente. Niente battito.
«Oddio...» mi lasciai sfuggire, poi, senza temporeggiare oltre, mi tolsi lo zaino, mi posizionai a cavalcioni su di lui e iniziai a fargli il massaggio cardiaco. Se il suo non batteva, il mio batteva al triplo della velocità. Anche Usop era teso come una corda di violino, tanto che sembrava una statua: non si muoveva e non parlava.
Premevo sul suo petto con così tanta forza che se Rufy fosse stato una persona normale le sue costole si sarebbero frantumate in mille pezzi. Per fortuna non lo era, e potei continuare a premere con tutta la forza che avevo in corpo. Il suo cuore doveva ripartire. Contai con minuziosa precisione le compressioni e mi fermai solo un attimo per sentire se ci fosse il battito quando fui arrivata a trenta. Non c’era. Reclinai la sua testa, gli tappai il naso e gli schiusi la bocca. Poi mi chinai e poggiai le labbra sulle sue, cercando di fargli arrivare quanta più aria possibile ai polmoni. Ripetei la procedura di nuovo e sperai con tutta me stessa che tornasse a respirare. Era stato in acqua per troppo tempo. Io e il cecchino ce l’eravamo cavata perché, a differenza sua, non avevamo mangiato un Frutto del Diavolo, ma nel momento in cui eravamo precipitati in mare lui si era indebolito molto, e chissà per quanto tempo era rimasto privo di conoscenza e quanta acqua avevano inalato i suoi polmoni. Dovevo trovare il modo di rianimarlo. Ricominciai con le compressioni, mettendoci ancora più forza, se possibile.
«Andiamo, andiamo!» gridai a denti stretti mentre l’angoscia si impossessava di me. Lo stavo strapazzando così tanto che il corpo di Rufy aveva formato una piccola conca sulla sabbia. Maledissi il luogo nel quale ci trovavamo. Se il terreno sotto di noi fosse stato più duro e più stabile, la rianimazione cardio-polmonare avrebbe avuto più effetto, perché la sua schiena sarebbe rimasta ferma e io avrei potuto comprimere meglio il petto. Maledissi anche il fatto di non avere con me l’equipaggiamento medico. Forse, se avessi avuto gli strumenti adatti, avrei potuto agire propriamente. Nel mio zaino non c’era niente di utile. All’improvviso, senza quasi rendermene conto, colpii il suo sterno con un pugno, con così tanta forza che la mia mano rimbalzò. Niente. Sembrava tutto inutile, era ancora cianotico. Non potevo arrendermi, però. Appoggiai di nuovo le mie labbra sulle sue e soffiai, fino a sfiatarmi. Ripresi fiato per qualche secondo e lo feci di nuovo. Proprio quando stavo iniziando a perdere tutte le speranze, sotto di me percepii un movimento. La sua bocca si mosse, come se volesse chiuderla, come se volesse protestare per quell’“invasione di campo”. Sollevai il viso e per poco non svenni dal sollievo. Rufy aveva gli occhi aperti. Respirava. Per un brevissimo secondo ci fissammo, i miei occhi gioiosi, i suoi confusi. In quel momento, mentre mi guardava interrogativo, mi fece quasi tenerezza; finché non rialzò la schiena da terra bruscamente, mi spinse via con le braccia e cominciò a sputare tutta l’acqua che aveva nei polmoni. L’operazione durò una trentina di secondi buoni. Aggrottai la fronte, perplessa. Praticamente aveva ingerito la stessa quantità d’acqua marina del Titanic. Se al suo posto ci fosse stata un’altra persona – io, ad esempio – sarebbe sicuramente morta. Lui no, però. Dopotutto, era colui che sarebbe diventato Re dei Pirati. Era sopravvissuto a cose ben peggiori, non poteva farsi mettere ko da un po’ d’acqua.
Quando i suoi polmoni furono liberi, si voltò verso di me e mi rivolse un sorriso a trentadue denti, un sorriso che mi fece aggrottare ancora di più la fronte. Non capivo come facesse a sorridere dopo quello che gli era successo.
«Grazie per avermi salvato.»
Non riuscii a trattenermi dallo sbuffare una risata. Sindrome di Noxyd un corno. Era indistruttibile.
«Sì, grazie! Sei fantastica!» A quanto pareva Usop si era ripreso dal suo stato catatonico. Gli rivolsi un sapiente cenno del capo. Entrambi eravamo esausti per la tensione.
Poggiai una mano sulla guancia di Rufy e gli diedi una leggera pacca, poi gli scostai i capelli umidi dal viso e cercai anche di ripulirlo dalla sabbia. Allungai l’altra mano e gli piazzai due dita sul collo. Dopo che mi fui accertata che il suo battito fosse regolare, mi stesi a terra, stremata.
Iniziai a ridere convulsamente, più per la tensione che avevo accumulato in quei tre lunghi giorni – in particolare negli ultimi minuti – che per il divertimento. Non c’era niente di divertente, in quella situazione. Io, Usop e Cappello di Paglia eravamo quasi morti, e non avevo idea di dove diavolo fossimo finiti, né di come avremmo fatto a tornare dagli altri. Ma al momento non mi importava, perché Monkey D. Rufy era vivo e vegeto, e questo bastava a farmi sentire temporaneamente più tranquilla.
«Cami, perché mi hai baciato?» chiese innocentemente Rufy.
Smisi di ridere all’istante e avvampai. Il mio cuore – tanto per cambiare – perse un battito. Se fossimo andati avanti così mi sarebbe servito un cardiologo al più presto.
«Cosa?» Girai la testa in direzione del moro, la fronte aggrottata e gli occhi spalancati. Era seduto a gambe incrociate e mi stava fissando con la testa piegata e l’espressione da ebete, in attesa di una risposta. Ero convinta che non sapesse neanche cosa volesse dire il termine “baciarsi”. Chi diamine gliel’aveva spiegato? E perché, poi? Credevo di poter stare tranquilla, almeno su questo, e invece...
«No, Rufy, non scherzare. Io non ti ho baciato,» puntualizzai, iniziando ad agitarmi. I pugni di Cappello di Paglia erano pericolosi, ma le sue versioni dei fatti, quelle che poi avrebbe riportato ai suoi compagni e a Law, lo erano ancora di più.
«Tecnicamente sì,» fece Usop, con l’aria di chi la sapeva lunga. In realtà mi stava solo prendendo in giro. Lo fulminai con lo sguardo. Stava mettendo altra benzina sul fuoco.
«Non ti ho baciato, ti ho soffiato aria nei polmoni. Ho eseguito una procedura medica per salvarti la vita. Se non lo avessi fatto, saresti morto.» Non mi aspettavo che capisse i meccanismi della rianimazione cardio-polmonare, volevo solo che non andasse in giro a gridare che l’avevo baciato con noncuranza. Non era così.
Se il Capitano scrollò le spalle, il cecchino fece per parlare, ma io lo fermai.
«Se ti azzardi a dire qualcosa di questa faccenda a qualsiasi essere vivente, ti garantisco che ti romperò il naso, questa volta in dieci punti diversi, e poi lo accartoccerò come una fisarmonica.»
«Terrò la bocca serrata.» Mi rivolse il suo solito sorriso sornione.
«Finalmente siete arrivati. Ce ne avete messo di tempo.» Una voce roca e profonda, che conoscevo bene, mi fece scattare in piedi e voltare.
«Zoro!?» gridai, incredula. A quel punto anche gli altri due si rimisero in piedi.
«Zoro!» esclamò Rufy, gioioso.
Lo spadaccino ci stava squadrando con aria perplessa. Qualsiasi cosa gli fosse successa, ne era uscito illeso, al contrario nostro.
«Oh, Zoro!» piagnucolò Usop, correndogli incontro e gettandogli le braccia al collo, come se fosse un’ancora di salvezza.
«Ehi, levati di dosso!» lo richiamò infastidito, tentando invano di liberarsi dalla sua presa.
La scena era piuttosto comica, ma dentro di me stava iniziando a montare la rabbia. Perché, se ci trovavamo in quella situazione, in parte era a causa sua.
«Che cazzo ci fai qui!? Come cazzo ci sei finito in un posto del genere!? Ti abbiamo cercato per mezza isola!» Quando lo raggiunsi cominciai a prenderlo a pugni sul petto. Non reagì, per lui era come se gli stessi facendo il solletico.
«Più che altro...» intervenne Usop, che invece non era adirato per niente. «Dove ci troviamo?»
«Non lo so.» Zoro si rivolse a me. «Dopo che sei sparita, mi sono ricordato che Nami aveva detto di andare a Sud, così sono andato a Sud.»
«A Sud? A Sud di cosa!?» Evitai di puntualizzare che non ero io che ero sparita, era lui che non si era mosso in un contesto di pericolo. Tornare sull’argomento era inutile e non ci avrebbe aiutato a uscire da quella situazione.
«Ti prego, dimmi che non ti sei immerso nelle profondità marine pensando che il Sud fosse sott’acqua...» Usop ormai sapeva bene con chi aveva a che fare.
Lo spadaccino fece spallucce, come se il suo ragionamento fosse scontato e immergersi sott’acqua per andare “a Sud” fosse la cosa più naturale del mondo.
Mi strinsi il ponte del naso con due dita. La verità era che non mi sembrava affatto strano. Anzi, capivo la sua logica. E questo era grave.
«Anche noi siamo finiti sott’acqua,» fece Rufy, tranquillo, come se anche quella fosse una cosa normale.
«Lo so. Altrimenti come avreste fatto ad arrivare qui?» Zoro scrollò di nuovo le spalle.
«In che senso?» Assottigliai gli occhi. C’era qualcosa di strano.
«Oddio...» piagnucolò Usop dopo essersi guardato intorno, d’un tratto terrorizzato. Adesso lo riconoscevo. «Dove diamine siamo capitati!?»
Sentii un’ondata di paura attanagliarmi le viscere. Non ero sicura di volerlo sapere, ma decisi comunque di fare una ricognizione.
«Ma che cazzo...» mi lasciai scappare quando me ne resi conto. Pensavo di averne viste, di cose assurde, ma quella le batteva tutte. Sopra di noi, a un centinaio di metri dalla riva della spiaggia, a farci da volta celeste non c’era il cielo, ma il mare. Era come se ci trovassimo in una bolla d’aria situata tra la superficie e il fondo dell’oceano. L’acqua faceva da cupola a quell’isola e, contro ogni legge della fisica, la sosteneva. A pensarci, però, aveva senso: non eravamo morti annegati perché il mulinello ci aveva portato qui. E non ce ne eravamo accorti subito perché, e questa era la cosa più stravagante, la luce che c’era lì sembrava naturale, come se fosse il sole a illuminare il territorio. Di nuovo, non avevo idea di come ciò fosse possibile. E non mi importava, volevo solo andarmene dall’isola.
Io e il cecchino fissammo Zoro, in cerca di risposte.
«Non si può andare via a nuoto. Ci ho già provato, la corrente è troppo forte, continua a riportarmi a riva.»
Serrai le palpebre. Se la corrente era troppo forte persino per uno forte come il Cacciatore di Pirati, non c’era speranza per me.
«Non puoi, non so, scagliare uno dei tuoi fendenti?» gli chiesi, speranzosa.
Ghignò, contento dell’idea che gli avevo dato. Sfoderò una spada e tentò. Niente. Riprovò, stavolta con più forza. Niente. Tirò fuori la seconda katana e scagliò cinque fendenti. Niente. Sguainò anche la terza spada e se la mise tra i denti. Non riuscì neanche così. Lo strato d’acqua della cupola era troppo spesso perché potesse aprire uno spiraglio. Se in lui aumentava la frustrazione ad ogni tentativo fallito, in me aumentava la preoccupazione, tanto che dovetti pregarlo di smettere.
«Perché non funziona?» chiese il Capitano, la testa piegata da un lato. Anche lui volle provarci. Si mise a scagliare una raffica di pugni contro quel muro liquido che, però, non fecero alcun effetto. Era come tentare di scalfire l’agalmatolite.
«Non usciremo mai di qui! Moriremo in questo posto!» Due mani mi afferrarono le spalle e mi scossero. Me le scrollai di dosso e guardai con fastidio Usop. Non era il momento di farsi prendere dal panico, sebbene anche io iniziassi a cedere. Eravamo bloccati lì.
«Che facciamo?» Stavolta il verde si rivolse al suo Capitano.
«Cerchiamo del cibo.» Rufy fece un sorriso a trentadue denti.
«Cerchiamo del cibo,» ripetei, le orecchie che fischiavano. All’improvviso non ci vidi più dalla rabbia. Era colpa sua se ci trovavamo in questa situazione, io e Usop perlomeno, e lui, invece di cercare una soluzione, pensava a mangiare. Oltretutto era proprio perché aveva fame che ci eravamo cacciati in questo guaio. Gli piantai un gancio destro dritto in fronte e lo stesi. Ancora con la schiena per terra, si portò una mano alla fronte, stupito. Era di gomma, quindi non gli avevo fatto male, ma non se lo aspettava.
«Ehi, Cami, calmati.» Il moro si rimise in piedi e si tolse la sabbia dai vestiti.
Resistetti all’impulso di prenderlo a calci, ma continuai a insultarlo per un paio di minuti buoni, mentre Zoro continuava a ridere. Poi mi tranquillizzai. Mi dissi che non valeva la pena di arrabbiarsi e sprecare le – già poche – energie che avevo per picchiarlo. In fondo, Rufy era fatto così: non si preoccupava di niente, pensava solo a sfamarsi. E, dato che non avrebbe riconosciuto una situazione di pericolo neanche se qualcuno gliel’avesse scritto a caratteri cubitali, non si scusava, neanche quando era colpa sua.
«Sai che c’è?» Le mie iridi si incastonarono alle sue, serie. «Tu hai combinato questo casino, tu sistemerai le cose.»
«Traffy ti ha plasmato bene, in questi anni. Sei diventata la sua copia,» mi disse il verde, un ghigno divertito sulle labbra.
Se dapprima rimasi stupita dalla sua affermazione, dopo sorrisi. Aveva ragione. Anche lui si era comportato così con me quando era finito nel mio mondo: prima aveva attentato alla mia vita e poi aveva ceduto al menefreghismo e aveva lasciato che me la sbrigassi da sola per gran parte del tempo.
Nel pensare a lui, mi ridestai. Volevo tornare sul Polar Tang al più presto.
«Dobbiamo trovare un modo per andare via da qui.»
 
«Non c’è un filo di vento, eppure non fa caldo,» constatai, fissando un punto imprecisato davanti a me. Era tutto statico, anche il tempo sembrava essersi arrestato. Solo le onde si muovevano, dondolando avanti e indietro sulla riva.
Io e Usop avevamo ceduto alla stanchezza e ci eravamo messi a sedere sulla sabbia, le schiene poggiate contro i tronchi degli alberi. Rufy era sparito tra la vegetazione, in cerca di cibo. Sarebbe stato più prudente se lo avessimo seguito e gli avessimo impedito di combinare altri guai, ma non ne avevamo la forza. L’unico che aveva ancora tutte le energie era Zoro, che però non riteneva necessario andare dietro al suo Capitano e se ne stava in piedi a fissare le sue katane, chiedendosi come mai non fosse riuscito a creare un varco nell’acqua. A sentire lui, che era lì da più tempo di noi e aveva già dato un’occhiata generale in giro, l’isola era deserta – sarebbe stato strano il contrario – e priva di pericoli. Era vero che Cappello di Paglia se la sarebbe saputa cavare in ogni caso, ma era anche vero che spesso e volentieri era lui stesso a creare perigli.
«Non mi aspetto niente di meno da un’isola che per quel che ne sappiamo si trova in una bolla d’aria nell’oceano.» Usop emise una flebile risata, e così anche io.
A parte la cupola d’acqua che ci faceva da cielo e la luce naturale che non si sapeva da dove venisse, quell’isola senza nome era una normale isola, di quelle che ci si aspetta di vedere sulla Terra: una spiaggia dorata si estendeva per tutta la costa e faceva da anello alla vegetazione che, mano a mano che ci si avvicinava al centro, diventava più fitta. Erano principalmente palme e alberi esotici. Come avessero fatto a crescere in un posto del genere, rimaneva un mistero.
Fissai il cielo-mare sopra di me, chiedendomi se e come saremmo usciti da lì. Continuai a osservarlo pensando alla stranezza di quel fenomeno e a quanto fosse bizzarra la vita, finché...
«Usop.» Gli artigliai un braccio, facendolo sussultare. «Come... come faceva quell’indovinello?»
«Quale indovinello?» Mi guardò perplesso.
«Quello per trovare il Road Poignee Griffe.»
«Oh.» Sembrò pensarci un attimo. «Dove il cielo incontra il mare, un rubino inizie...»
Si bloccò e mi artigliò il braccio a sua volta.
«Potrebbe essere la volta buona,» disse Usop, gli occhi che gli brillavano. «Sei un genio!»
Annuii compiaciuta e mi alzai insieme a lui per dirigerci da Zoro e comunicargli la nostra intuizione. Prima che potessimo iniziare a parlare, però, Rufy uscì dalla vegetazione e ci venne incontro correndo. Aveva l’espressione estasiata e tra le mani stringeva degli ignoti frutti magenta.
«Ragazzi! Dovete assaggiare questi frutti! Sono buonissimi!» ci gridò, ingurgitandone una manciata.
«Non è prudente mangiare i frutti di un albero che non abbiamo mai visto. Potrebbero essere tossici,» gli gridai di rimando, pur non essendo troppo preoccupata: se c’era qualcuno che aveva uno stomaco di ferro era Cappello di Paglia.
«Sono deliziosi!» Quando ci raggiunse li aveva già mangiati tutti.
«Ti ho già salvato la vita una volta oggi, non lo farò di nuovo,» lo ammonii.
«Perché? Se mi succede qualcosa puoi baciarmi ancora e sarò salvo.»
Mi immobilizzai. Alla mia destra, Usop cercava di non scoppiare a ridere. A sinistra, Zoro mi guardava interrogativo.
«Non l’ho baciato, gli ho fatto la respirazione bocca a bocca. Ho dovuto farlo, stava morendo,» mi affrettai a chiarire al verde.
«No, mi hai baciato,» insistette il moro.
«Rufy, un bacio è un’altra cosa. È quando due persone...» Mi misi a gesticolare, non sapendo bene come spiegarmi.
«So cos’è un bacio, me lo ha spiegato Sabo,» mi interruppe, gli occhi vispi e l’espressione tranquilla.
«Oh. Ora capisco tante cose...» mi lasciai sfuggire, ridacchiando. Per fortuna nessuno mi udì.
Rufy sparì di nuovo tra le palme e ritornò poco dopo con altri frutti magenta. A quanto pareva li producevano le palme; erano grandi la metà del mio palmo e la loro forma ricordava vagamente un cuore. Li offrì a ciascuno di noi, ma rifiutammo tutti. Secondo lui, però, erano così buoni che dovevamo assaggiarli a qualsiasi costo. Infatti ne infilò un paio a forza nella bocca del suo amico.
Il cecchino sbiancò, e così anche io. Se quei frutti fossero stati velenosi, non avrei avuto modo di curarlo, sarebbe potuto morire. Fece un passo indietro, mugolò qualcosa e crollò al suolo. Spalancai gli occhi, mi precipitai verso di lui e mi inginocchiai accanto al suo corpo. Lo sapevo, ci mancava solo questa.
«Usop?» lo richiamai, senza ottenere risposta. Aveva gli occhi chiusi e sembrava aver perso conoscenza. Gli piazzai due dita sul collo e controllai il battito. Era regolare. Non era morto, perlomeno.
«Usop, rispondimi. Dimmi qualcosa!» Ero sempre più preoccupata. «E tu perché te ne stai lì a non fare niente!? Aiutami! Potrebbe morire!»
Rufy era sfrecciato via per l’ennesima volta, ma Zoro era accanto a me. Non solo non aveva mosso un dito, ma appariva anche piuttosto seccato.
Il moro rimase immobile, inerme, facendo crescere la mia angoscia. Poi lo sentii afferrarmi un polso. Aprì piano gli occhi.
«Vedo...» iniziò, sussurrando appena. Era in grado di parlare, per fortuna. Avvicinai l’orecchio alla sua bocca per sentire meglio.
«Cosa vedi!?» lo incitai dopo un po’ che non diceva nulla. Anni di contatto con Law mi avevano insegnato ad odiare chi mi teneva sulle spine.
«Il mare... al posto del cielo...» Alzò teatralmente un braccio e guardò un punto imprecisato sopra di lui.
Sollevai un sopracciglio, sopprimendo la voglia di dargli un pugno sul naso e accartocciarglielo – di nuovo – ben bene.
«Il mare al posto del cielo, eh?» Gli afferrai le bretelle e lo strattonai. «Rialzati, idiota, prima che ti faccia rialzare io a suon di schiaffi.»
Mi tirai su e mi portai le mani ai fianchi, in attesa che anche quel cretino lo facesse. Oltre allo spavento che mi aveva fatto prendere, ci aveva anche fatto perdere tempo. Con la coda dell’occhio vidi che Zoro stava ghignando. Si stava prendendo gioco della mia stupidità, e aveva ragione a farlo, ma lo guardai male lo stesso.
«Quei frutti non sono velenosi, li ho mangiati anche io prima che veniste qua,» mi spiegò, continuando a sogghignare.
«E perché non l’hai detto subito!?» Allargai le braccia, esasperata.
Fece spallucce. Sbuffai infastidita. Se non ce ne fossimo andati presto da quel posto sarei impazzita.
 
Dopo che io e il cecchino avemmo spiegato la situazione agli altri, decidemmo di esplorare l’isola, in cerca del Poignee Griffe ma anche di una via d’uscita. Il territorio non era esteso ed era tutto in pianura, perciò non avremmo dovuto avere difficoltà a perlustrarlo. Scegliemmo di non separarci: se fosse successo qualcosa Rufy e Zoro ci avrebbero protetto, mentre io e Usop ci saremmo assicurati che quei due non combinassero danni. Una squadra vincente, la nostra.
Continuammo a camminare senza fermarci per un paio d’ore. Ci eravamo addentrati nella vegetazione più fitta. Ciascuno di noi, come se fosse un disco rotto, si lamentava di qualcosa: io della stanchezza, il cecchino dei dolori articolari, lo spadaccino di non avere del sake con cui “bagnarsi le labbra” a disposizione e il loro Capitano della fame. I frutti non lo saziavano, lui voleva la carne. Non potevo dargli torto, anche io iniziavo ad avere fame e avrei voluto mettere nello stomaco qualcosa di sostanzioso. Non sapevo quante ore fossero passate da quando eravamo scomparsi, né se qualcuno si fosse accorto che mancavamo all’appello, ma l’ultima cosa che avevo mangiato era stata una bistecca congelata che non mi ero goduta e non mi aveva sfamato. Avevo bisogno di cibo per carburare. Come a confermare i miei pensieri, il mio stomaco emise un brontolio. Si girarono tutti a guardarmi. Rufy mi rivolse un sorriso sornione, poi allungò un braccio verso una palma, recuperò dei frutti magenta e me ne porse uno. Ci pensai un attimo prima di accettare. Non era prudente, ma avevo fame e nessuno di loro era morto nell’ingerire quei frutti.
«Di cosa sanno?»
«È un sapore simile a quello delle ciliegie,» fece Usop.
«Sanno di prugna,» affermò invece Zoro.
«Sono buoni, mangiali,» mi incitò Rufy, sorridendo.
Alla fine li mangiai, e nel momento in cui lo feci percepii le mie pupille dilatarsi.
«È buonissimo.» Probabilmente era la fame a farmelo dire, però avevano davvero un buon sapore. Era un sapore familiare, che non avevo mai provato prima d’ora, ma che mi ricordava qualcosa. Era il giusto compromesso tra dolce e aspro, rinfrescava e saziava allo stesso tempo. «Direi che avete ragione tutti e tre. È un misto tra una prugna e una ciliegia.»
«Te l’avevo detto,» fece Rufy, sogghignando fiero. Poi i suoi occhi si illuminarono. «Abbiamo scoperto un nuovo frutto! La pruliegia!»
Scoppiammo tutti a ridere. Poteva sembrare assurdo mettersi a sghignazzare per della frutta in una situazione del genere, ma i Mugiwara erano fatti così e la loro follia era contagiosa. Inoltre, non avevamo di meglio da fare: non avevamo trovato né il Poignee Griffe né una via d’uscita, sebbene avessimo quasi finito di perlustrare l’isolotto. Era un modo per mascherare la frustrazione che si stava facendo strada in noi.
 
Alla fine decidemmo di fermarci a riposare in una piccola radura al centro dell’isola. Eravamo incappati in quello che sembrava un sito archeologico antico, con quattro pietre monolitiche disposte a quadrato. L’ennesima stranezza da aggiungere alla lista. Ma ormai ci avevamo fatto l’abitudine.
Non sapevamo quanto tempo fosse passato, lì la luce non cambiava mai, quindi non avevamo un riferimento. Sapevamo, però, che avevamo esplorato tutta l’isola e del Poignee Griffe non c’era traccia. Zoro aveva provato a scagliare di nuovo i suoi fendenti contro la cupola d’acqua, ma non aveva avuto successo. Ci trovavamo in una situazione infausta. Io stavo morendo di preoccupazione, ma non volevo darlo a vedere: non volevo che pensassero che fossi ancora la ragazzina che aveva paura di tutto.
Ci eravamo detti che forse, a mente più fresca, avremmo ragionato meglio e avremmo trovato ciò che stavamo cercando. Non era escluso che la pietra rossa o che la via d’uscita fossero nascoste.
Zoro e Usop erano crollati subito, mentre io, sebbene mi si chiudessero gli occhi per la stanchezza, non riuscivo a prendere sonno: ero troppo inquieta. Anche Rufy era stranamente sveglio.
Tirai fuori dallo zaino la bottiglia d’acqua e ne bevvi un sorso prima di tentare di coricarmi, ma mi accorsi che ne erano rimaste poche gocce.
«Grandioso, adesso abbiamo finito anche l’acqua.» Sbuffai e lasciai ricadere indietro la testa, sulla fredda pietra.
«Non preoccuparti, Cami. Usciremo di qui,» disse Rufy, sorridendomi. Aveva gli occhi chiusi e l’espressione pacifica di chi si sta per addormentare.
Era un po’ difficile non preoccuparsi, ma apprezzai il tentativo di rassicurarmi. Se lo diceva lui – e ci credeva – stava a significare che eravamo un passo più vicini a riuscirci.
«Rufy...» lo richiamai, facendogli riaprire gli occhi. Ero riluttante all’idea di dover affrontare un discorso del genere con lui, ma dovevo farlo, era tutto ciò che potevo fare per lui. E dovevo approfittare di quel momento di quiete. «Non sta a me dirti cosa fare. Però... vacci piano con i combattimenti, per un po’. Non sottoporre il tuo corpo a uno stress maggiore di quello che può sopportare. Se continui così potresti non...»
«Lo so,» mi interruppe. Fu un colpo al cuore sentire quelle parole. Quindi sapeva. Eppure le sue iridi erano limpide, come se tutto quello non lo riguardasse. «Stai tranquilla, Cami,» mi rassicurò, per poi sorridermi. I suoi sorrisi erano così rassicuranti che non si poteva obiettare. Dovevo fidarmi di lui.
Si addormentò dopo due secondi, di punto in bianco. E, poco a poco, cedetti anche io alle avances di Morfeo. Prima di farlo, però, osservai i tre ragazzi e non potei fare a meno di pensare al giorno in cui li avevo incontrati. Nel vederli dormire così pacificamente mi era sembrato di essere tornata ai vecchi tempi. In quel periodo i nostri problemi più grandi erano il caldo e la noia. Adesso invece era cambiato tutto, io per prima ero cambiata. E se da un lato non mi dispiaceva, dall’altro avrei voluto che le cose tornassero a essere semplici come lo erano allora.
 
Mi svegliai soltanto perché dovevo fare la pipì. Altrimenti, stravolta come ero, avrei continuato a dormire per altre trenta ore. Mi allontanai dal gruppo, trovai un posto isolato e feci quello che dovevo fare. Quando tornai alla radura, notai che Usop si era svegliato. Stava fissando il cielo-mare con aria perplessa.
«Guarda,» mi incitò quando si fu accorto della mia presenza. «Lo vedi anche tu?»
Alzai la testa. «Sì...»
«Dove il cielo incontra il mare, un rubino inizierà a brillare. La rotta finale verrà tracciata e la sorte del mondo ribaltata,» recitò pensieroso, come un mantra. Capii subito ciò che voleva dire e mi augurai che stavolta fosse l’intuizione giusta.
Sopra di noi, sul punto più alto della cupola, c’era una luce rossa che risplendeva. Nessuno di noi se ne era accorto prima perché era visibile solo dal centro dell’isola.
«Che facciamo?» chiesi, senza distogliere lo sguardo da quel puntino vermiglio.
«Credo che dovremmo cercare di colpirlo in qualche modo.»
«Sappi che ti stai prendendo la responsabilità di qualsiasi cosa accada,» lo avvisai, per poi fare un salto e recuperare alcune “pruliegie” dalle palme.
Annuì solenne e prese la sua Kabuto. Non lo avevo mai visto così serio e deciso. Aveva la mia fiducia. Gli passai i frutti e sperai che andasse tutto bene. Avevamo bisogno che qualcosa andasse bene.
Usop prese la mira e scagliò una pruliegia nel cielo. Mi scappò un’esclamazione di sorpresa quando ci azzeccò al primo colpo. Avrei dovuto aspettarmelo, dopotutto era uno dei migliori cecchini in circolazione, ma era un piccolo punto distante un centinaio di metri da noi, non era facile centrarlo.
Quattro raggi cremisi si irradiarono nel cielo e finirono ciascuno su un monolite. Nel momento in cui toccarono le pietre, queste emisero un rumore strano, meccanico, e poi iniziarono a ritrarsi. Sotto di loro si aprì un varco. Io e il cecchino facemmo appena in tempo ad afferrare Rufy e Zoro – che avevano continuato a dormire beatamente – e a impedire che cadessero nella voragine che si era creata. Pochi secondi dopo, un blocco rosso cominciò ad emergere dalle profondità dell’isola. Sia io che Usop sorridemmo.
«Il Road Poigne Griffe,» dicemmo all’unisono, gli occhi meravigliati. L’avevamo trovato.
Entrambi ci abbandonammo a una risata che sciolse la nostra tensione, poi il moro mi guardò con aria fiera. «Che ti avevo detto? Troviamo sempre ciò che cerchiamo, alla fine.»
Annuii e sorrisi. Aveva ragione. «Se trovassimo anche un modo per uscire di qui, sarebbe perfetto.»
«Prima dobbiamo trovare un modo per copiare il Poignee Griffe.»
Emisi un mugugno d’assenso. Aveva ragione anche su questo. Non potevamo lasciarcelo sfuggire dalle mani. Robin era l’unica che poteva leggere quei caratteri e, anche se avessimo trovato un modo per andarcene da quel posto, sarebbe stato un rischio farlo senza aver copiato il testo della pietra. Non era un’isola facile a cui accedere, probabilmente non saremmo mai più stati in grado di approdarvi. Forse, però, non era necessario copiarlo. Non con il metodo tradizionale, almeno. Cercai il cellulare nello zaino.
«Possiamo usare questo.»
Usop assunse un’espressione diffidente e fece per parlare, ma io glielo impedii.
«È l’unico metodo che abbiamo a disposizione. Io mi sono fidata di te, tu dovrai fidarti di me.»
Mi rivolse un cenno d’assenso e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Sapevo che avevo la sua fiducia. Cliccai sulla fotocamera e misi a fuoco. Prima di scattare la foto, però, mi persi a contemplare la pietra. Non ne avevo mai vista una dal vivo prima. Era così imponente, così maestosa. Su di lei c’erano scritti i segreti del mondo, di un’intera civiltà. Secoli e secoli di storia. Tutti la bramavano, tutti avrebbero fatto carte false pur di decifrarla o distruggerla, ma l’avevamo trovata noi. Solo noi. E mi resi conto che ora non c’era più una via d’uscita. Avevamo localizzato il Poignee Griffe, perciò non c’era più niente che ci trattenesse dall’andare a Wa e combattere contro Kaido. E il peso di quel pensiero mi schiacciò.
«Usop,» lo richiamai mentre mi accingevo a fare la foto. Mi costava molto dirgli quello che stavo per dirgli, ma sapevo che poteva capirmi. «Ho paura. Della guerra con Kaido, intendo.»
Non sembrò per niente sorpreso dalla mia confessione, ma aspettò prima di parlare, probabilmente doveva trovare le parole giuste.
«Se non la avessi ci sarebbe qualcosa che non va in te,» mi disse, piazzando una mano sulla mia spalla.
«Bene, perché me la sto facendo sotto.»
«Per quelli come noi, quelli che non hanno una forza sovraumana o che non hanno mangiato un frutto del diavolo potente, è normale avere paura. Non è un segno di debolezza, ma di sanità mentale.» Sollevò un angolo della bocca e mi guardò con eloquenza. «Anche io me la sto facendo sotto,» sussurrò poi, facendomi ridere. Non avevo dubbi. Sapeva di poter essere onesto con me, non aveva bisogno di recitare la parte del coraggioso Guerriero dei Mari. Insieme a Nami e Chopper, noi eravamo i più paurosi del gruppo, i più “umani”. Nessuno di noi giudicava gli altri; anzi, ci comprendevamo e ci consolavamo a vicenda. Non per niente, nel momento in cui lo ammise mi sentii sollevata. C’era qualcuno che si sentiva come me, che ammetteva di avere paura, di non voler combattere.
«Se le cose dovessero mettersi male, potrai sempre contare su una compagna di fuga.» Gli misi una mano sulla spalla a mia volta. «Ma sono sicura che la tua ciurma di ottomila uomini ti aiuterà.»
«Ci puoi scommettere.» Annuì, fingendosi serio. Dopodiché scoppiammo entrambi a ridere.
Sarei potuta rimanere per ore a parlare con lui di quanto fossi spaventata, ma non volevo farlo. Non volevo alimentare la mia paura.
 
Dopo che avemmo svegliato Rufy e Zoro e che avemmo spiegato loro la situazione, ci incamminammo verso la spiaggia. Erano stati entrambi contenti che avessimo trovato il Poignee Griffe e un modo per riportarlo a Robin. Non erano riusciti a vederlo perché la pietra era rientrata nella voragine dopo qualche minuto, prima che li svegliassimo, ma avevo mostrato loro le foto. Ci eravamo riusciti. Zoro aveva borbottato qualcosa sul fatto che fosse un metodo alquanto complicato per trovare un Poignee Griffe, e non gli si poteva dare torto. Però, se fosse stato facile, lo avrebbero trovato tutti. E non era questo che volevano coloro che li avevano incisi.
Adesso era tempo di trovare una via d’uscita una volta per tutte. Tornare alla spiaggia significava tornare al punto di partenza. Da lì avremmo ripercorso tutti i nostri passi finché non avessimo scovato una soluzione.
«Sapete, dovremmo dare un nome a quest’isola. Voglio dire, è giusto che chiunque approdi qui sappia che ci siamo stati prima di loro,» disse Usop una volta che fummo arrivati a destinazione. Le sue parole mi fecero realizzare che non eravamo gli unici ad essere finiti lì, che prima di noi, per forza di cose, c’era stato un certo Gol D. Roger: avevo camminato dove aveva camminato il Re dei Pirati, mangiato i frutti che aveva mangiato lui, toccato ciò che aveva toccato lui. E questo, nonostante i mille guai, non aveva prezzo.
«Isola a Sud.» Non il più fantasioso dei nomi, ma almeno Zoro era pratico.
«Isola delle Pruliegie,» propose Rufy dopo averci pensato un attimo.
«Io proporrei di chiamarla “Great Usoland”, dopotutto sono io che ho scoperto il Poignee Griffe,» fece il cecchino, portandosi le mani ai fianchi con orgoglio.
«Io sono approdato qui per primo.»
«E io sono il Capitano!»
Andarono avanti a discutere su chi avesse il diritto di dare il nome all’isola per cinque minuti. Mi fecero venire il mal di testa. Io ero rimasta zitta perché non aveva senso mettersi a discutere con loro, era una battaglia persa. Mi era passato per la testa di chiamarla “Isolachenoncè”, perché era nascosta agli occhi del mondo, non faceva mai buio e il tempo sembrava fermarsi, ma la verità era che chiamarla così sarebbe stato uno spreco: non era abbastanza maestosa da poterle assegnare tale nome.
«Visto che non riusciamo a raggiungere un accordo, facciamo una votazione,» propose Usop, per calmare gli animi. «Nessuno potrà votare per la propria proposta.»
«Io voto per “Isola delle Pruliegie”,» si affrettò a dire Cappello di Paglia.
«Ti ho detto che non si può votare per la propria proposta!»
«Non ne usciremo più,» commentò Zoro, appoggiandosi al tronco di un albero.
Lui non poteva avere ragione e noi non potevamo perdere altro tempo per uno stupido nome. Volevo andarmene da quel posto, sentivo che più rimanevamo lì e più il senso della realtà scivolava via dalle nostre mani.
«Sentite, ho un’idea. Perché non la chiamiamo “Isola CRUZ”?» esordii, guadagnandomi le occhiate perplesse dei tre. «Sono le iniziali di tutti i nostri nomi in ordine alfabetico. Così lasceremo qualcosa di noi, di ognuno di noi, a chi verrà qui. Dopotutto, abbiamo fatto un lavoro di squadra: Zoro ha scoperto l’isola, Usop ha trovato il Poignee Griffe, io ho fornito un metodo per farlo leggere a Robin e Rufy si è assicurato che non morissimo di fame.»
Ci rifletterono un attimo, poi ghignarono.
«Abbiamo trovato un nome,» annunciò Rufy, facendomi tirare un sospiro di sollievo. Adesso potevamo pensare a trovare un modo per andarcene.
 
«Una sola spada?» chiese Usop, titubante. Zoro aveva insistito perché, prima che esplorassimo di nuovo l’isola, lo lasciassimo riprovare a tagliare l’acqua.
«Funzionerà,» rispose deciso lo spadaccino, per poi fare un ghigno malefico. Nei suoi occhi c’era una determinazione che non gli avevo mai visto.
«Funzionerà,» ripeté Rufy, anche lui sembrava convinto.
«Ittoryu: Sanjuroku Pound Ho
E funzionò. Il mare si aprì in due, tanto che si riusciva a vedere il cielo – il vero cielo – sopra di noi. Era assurdo. Perché non era riuscito a farlo prima? Era come se quel posto avesse voluto tenerci lì fino a che non avessimo scoperto il Poignee Griffe. Era possibile che un luogo facesse una cosa del genere?
Prima che potessi fare ulteriori riflessioni, percepii una mano arrotolarsi attorno alla mia vita. Poi la terra venne a mancarmi sotto i piedi. Qualcuno gridò. Forse ero io. Mi sembrava di stare su un Roller Coaster: il mio corpo si capovolse così tante volte che fui contenta di aver mangiato solo qualche frutto nelle ultime ore. Vidi il cielo, poi il mare, poi un pezzo di quella che mi pareva l’isola Stein. Infine udii Cappello di Paglia gridare: “Gomu Gomu no... Fusen!”
Rimbalzammo tutti sullo stomaco gonfio di Rufy, per poi ricadere al suolo. Neanche a dirlo, l’unico che atterrò in piedi fu Zoro. Io e Usop ci ritrovammo sbalzati in direzioni opposte. Non lo vidi, ma udii il tonfo. E se io arrivai per terra di schiena, lui lo fece di faccia, perché lo sentii lamentarsi di aver di nuovo battuto il naso.
Rimasi a osservare il cielo per qualche secondo: a giudicare dalla posizione del sole e dalla tinta cerulea, doveva essere quasi il tramonto. Gli insegnamenti di Bepo tornavano sempre utili.
Quando mi rialzai, mi resi conto di essere stordita. Non solo per la botta, anche per tutto quello che era successo in quei giorni. Ero cresciuta seguendo le avventure di Rufy e compagni. Ma leggerle e viverle sono due cose totalmente differenti. E avevo avuto modo di sperimentarlo sulla mia pelle.
«Abbiamo ciò che ci serve. Ritorniamo alla nave!» esclamò il Capitano dopo che ci fummo accertati di essere sull’isola Stein.
Era fatta. Eravamo salvi. C’era solo da sperare che non venissimo disintegrati da un geyser o mangiati da qualche insetto gigante. Con Rufy e Zoro al mio fianco, però, ero un po’ più tranquilla. Sarebbe andato tutto bene.
Mentre seguivamo il sentiero che ci avrebbe condotto alla Sunny, sulle mie labbra comparve un sorriso. Era stato estenuante, ma anche gratificante. Adesso un pezzo di noi viveva su quell’isola nascosta nelle profondità dell’oceano. Prima di andarcene, avevamo inciso su un albero:
 
Questa isola si chiama ‘Isola C.R.U.Z.’ È stata scoperta da Cami, Rufy, Usop e Zoro.

E poi, sugli alberi vicini:
 
Il Re dei Pirati, lo spadaccino più forte del mondo, il grande Guerriero dei Mari e uno dei migliori chirurghi mai esistiti sono stati qui.
   
 
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