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Autore: Iryael    05/05/2022    1 recensioni
Ratchet racconta in prima persona l’esperienza della DreadZone: l'arrivo, la finta libertà dei gladiatori, le giornate scandite dai combattimenti, la fuga.
«All'inizio mi rifiutai di capire che quel che pensavo dei gladiatori, in realtà, era l'immagine che i mass-media vendevano agli spettatori. Ma il mio rifiuto non durò a lungo: bastarono pochi giorni a farmi aprire gli occhi.
Non esisteva paragone migliore del circo: noi gladiatori eravamo le fiere; mentre gli Sterminatori, le brillanti stelle dello spettacolo, erano domatori che si alternavano sulla pista dell'Arena.
Poi c'era lui, Gleeman Vox. Lui che aveva l'abito rosso del presentatore e coordinava la baracca, guadagnando sulla nostra pelle.
Fama, soldi e belle ragazze erano la nostra gabbia dorata. Quella vera, esplosiva, ce l'avevamo chiusa al collo.
Aprire gli occhi mi fece incazzare di brutto.
Nessun circo poteva permettersi di tenere un drago in gabbia. E loro - Vox e compagnia - l'avrebbero capito presto.»

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[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Big Al, Clank, Gleeman Vox, Nuovo Personaggio (Takami Kinomiya), Ratchet] [Probabile OOC]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 15 ]
Sarathos, la Madre dei Leviathan
(Dove la gara principale è l’ultima delle cose da raccontare)
 
«BIIIP!!!»
Mi tirai a sedere ed ebbi un attimo di disorientamento. L’odore chimico e la visuale dall’alto mi mandarono in confusione, poi la mente ricollegò i fatti. Ero nella branda di Takami, ero su Sarathos e Galassia quel fischio ha rotto le palle.
«E basta!» sbottai all’olovisore. Il fischio cessò.
«To’, ho scoperto una cosa nuova...» mormorai, buttando le gambe fuori dalla branda per saltare a terra.
CRACK!
Qualcosa si ruppe sotto il tallone. Tirai su il piede: il pelo era imbiancato e per terra, fra la polvere di ciò che rimaneva, c’era un gessetto.
E questo?
Lo raccolsi. Era lungo una falange e aveva un’estremità smussata. Mi resi conto dopo un istante che non era un gessetto, ma una pillola spezzata.
Spazzai l’aria con la coda; un gesto nervoso. Un medicinale così fuori posto non prometteva bene. Me l’infilai in tasca con l’intento di farla analizzare a Clank... salvo poi ricordare che Clank era fuori uso.
Guardai Takami, che dormiva ancora. Il suo respiro aveva la cadenza lenta del sonno profondo. La cosa mi fece strano: gli effetti del criosonno sarebbero dovuti sparire con la sveglia audio-chimica. Ripensai a Catacrom e mi dissi che sì, quella volta si era svegliata con me. Ma stavolta...
Che sia sonnifero?
Rivolsi un’occhiata interrogativa alla bambina. Perché prendere il sonnifero prima del criosonno? Non aveva senso!
In ogni caso dovevo svegliarla. Mi chinai su di lei e la scrollai per una spalla. Non successe nulla. Non cambiò ritmo di respiro né profondità, niente. Ci sarebbe voluto ancora del tempo.
Avrei dovuto esplorare i dintorni, ma la testa rispondeva col ritardo di chi dorme male. Scelsi di buttarmi sotto la doccia, sperando di riuscire almeno a riallineare le capacità di risposta. Avevamo l’impianto più vecchio delle galassie, ma funzionò: quando uscii, asciutto e pulito, ero pienamente operativo.
Al tavolino c’era Al. Wow, l’acqua nei tubi faceva tanto casino che non avevo sentito muovere la saracinesca. Ci scambiammo un cenno.
Appoggiato davanti a lui c’era il collare audio di Takami. Cos’era, un’offerta di pace?
Si accorse della mia espressione. «Ci serviranno spiegazioni, no? Se non parla e non scrive siamo fregati.»
Il fatto che le volesse da lei mi fece accelerare il battito. «E Clank?»
Al si girò a guardare l’ora sull’olovisore sopra la saracinesca. Lo imitai, scoprendo che erano le nove appena passate. Abbastanza presto, tutto sommato.
«Vieni; ti racconto strada facendo.» disse, alzandosi. «E porta l’onnichiave; ci sarà utile.»
Oh be’. Quelle non erano richieste.
Andai con lui.
* * * * * *
«È in carica.»
Mi voltai di scatto verso Al.
«Clank, intendo. Ora è in carica. Ho fatto del mio meglio, ma... sarò onesto, coi mezzi che ho in cella non posso ripararlo. I giunti iliaci sono spezzati, e le gambe... le hai viste. Andrebbe rifatto tutto da capo. Per ora ho modificato la sua sedia e rappezzato l’hardware. Io...» mi lanciò un’occhiata per indagare l’umore. «Mi dispiace, non posso fare altro.»
Gli assestai due pacche sulla schiena incurvata. Non avevo parole per confortarlo, ma gli ero grato – profondamente grato – per lo sforzo.
«Spero che alla stazione spaziale si riesca ad ottenere qualcosa di meglio.» aggiunse sottovoce.
Ripensai di riflesso al messaggio registrato di Coco. Le parole per Al mi vennero in bocca da sole, ma mi morsi la lingua. Il corridoio era troppo esposto per parlare. «Ce l’avremo.» risposi soltanto, guadagnandomi uno sguardo incuriosito.
Al mi guidò senza chiedere attraverso i corridoi, e io lo seguii senza curarmi di dove andassimo. L’aria filtrata era dolciastra e dalle vetrate si notava una recinzione militare di prim’ordine davanti a una piana d’erba e melma.
Sarathos era selvaggio. O almeno così immaginai, non vedendo alcun segno di civiltà oltre la base.
«Vieni, di qua.» fece all’improvviso il mio tecnico, svoltando in un corridoio leggermente più stretto del nostro. I muri, dopo la prima curva, si fecero di cemento grezzo e l’aria divenne sensibilmente più umida. Solo allora mi resi conto che non stavamo andando alla cella con Clank.
«Dove andiamo?» chiesi, accigliato.
«A cercare armi.» rispose lui. «Non possiamo comprarle, ma non vuol dire che non possiamo averle.»
«Cioè stiamo andando a noleggiarle?»
Dopo l’esperienza con la tuta w.a.v.e non ero certo entusiasta di quell’opzione. Non lo ero per nulla.
Al fece schioccare la lingua sul palato. «Io direi più “acquisizione di seconda mano”. Vedrai.»
Aggirammo una serie di curve a gomito e raggiungemmo una porta solitaria, diversa dalle altre per una grata all’altezza delle caviglie. Al alzò il pugno e bussò con cortesia, prima di abbassare la maniglia ed entrare.
Dietro quella porta c’era un’anticamera. Un buco stretto e lungo, col pavimento unto e un odore simile a quello del Magazzino. A far capire la sua funzione, su un lato, c’erano una scrivania e un assistente robotico. Dietro di lui c’era la cosa tenuta meglio di tutto il posto: un consolle a parete. Solo guardarla mi dava uno sgradevolissimo senso di deja-vu.
Il robot – evidente riciclo di un combattente DreadZone – ci riservò uno sguardo incuriosito. «E voi sareste...?»
«Team Darkstar.» ci presentò Al. «Vorremmo il permesso di rovistare nel compattatore.»
Che COSA?!
Bastò quell’ultima parola per farmi leggere la stanza in modo totalmente diverso. La morchia che punteggiava il pavimento assunse un perché, e così anche l’odore dell’aria – filtrata, sempre, ma più pesante. E poi, in ultimo, la consolle dietro la scrivania. Certo che aveva un’aria familiare! Era lo stesso modello che Basher aveva manipolato per ammazzare Skìos!
 
Spazzai l’aria con la coda. Riciclo cominciò a rifilarci un pezzo del regolamento e io lo seguii attentissimo, anche se fu un pippone di “questo non potete prenderlo, quello nemmeno e quell’altro materiale grezzo neppure”. Potete immaginare quanto me ne fregasse, ma ogni cosa andava bene per coprire i sensi di colpa. Dovevo solo concentrarmi sul discorso. Sul discorso e nient’altro.
«...E, se avete compreso quanto ho detto, ho appena ricevuto il permesso di farvi entrare.» asserì in ultimo il robot, accennando alla seconda porta, unta di morchia come il pavimento tutt’intorno. «Se accettate un consiglio, io comincerei a guardare dall’angolo sudovest. Negli ultimi giorni li scaricano lì i cadaveri.»
Vidi Al deglutire a vuoto. Ringraziai per lui e ci avviammo oltre la porta, sotto lo sguardo perplesso di Riciclo che, facendo il suo dovere, chiuse il portello dietro di noi.
La prima zaffata fu un pugno allo stomaco. Dolce, ferro, alcol, metano, piscio, grasso, vomito, benzina e decomposizione. Mi coprii il volto e trattenni un conato a stento. Al non fu così bravo, o forte, o fortunato – dite come volete. Si piegò in due e vomitò la colazione.
Mi guardai intorno, prima al mio livello e poi in alto lungo le pareti, cercando freneticamente i fori di ventilazione. L’aria bruciava le narici ogni volta che inspiravo, ma non avevo il coraggio di respirare dalla bocca.
Al mi diede una pacca sulla spalla e, gesticolando a scatti, m’indicò qualcosa in alto. Ed eccoli lassù, i fori: una lunga striscia di grate grigie a quindici metri dal suolo.
Mi crollarono le spalle. Se la porta era stagna e le bocchette d’areazione erano così in alto...
Cazzo, è una camera a gas!
Mi lanciai contro la porta da cui provenivamo, chiusa da Riciclo e mimetizzata dal lerciume che copriva tutto il muro. Presi il portello a pugni, facendo più casino che riuscii.
Galassia, mi mancava l’aria. Dietro di me Al vomitò di nuovo. Sentii un conato salirmi l’esofago e inghiottii saliva.
Andiamo, apri! APRI CAZZO!
Mi sembrò di battere pugni per un’eternità quando, all’improvviso, il battente si mosse e l’anticamera tornò raggiungibile. Balzai dentro e mi appoggiai al muro con entrambe le mani, inspirando a pieni polmoni per disintossicarmi. L’aria filtrata non fece il miracolo che speravo: a metà del primo respiro fui assalito da un conato e vomitai una chiazza di schiuma gialla.
«Eewww.» fu il commento schifato di Riciclo. «Ora dovrò pulirlo.»
Strofinai il dorso della mano contro le labbra, pulendole alla meglio, e mi drizzai. Se il robot aspettava le mie scuse lo lasciai deluso. «Sì, be’, vedi: ci hai spedito in una camera a gas. Non potevi aspettarti altro, credo.»
«Camera a gas?» replicò il robot, perplesso. «Non saprei; non ho l’olfatto. Ma i contatori sono tutti nella norma.»
Ci indicò un punto preciso della parete. Lì, dentro un quadro, si vedevano alcuni manometri; tutti con la lancetta che puntava lo spicchio verde. Al si avvicinò per controllare meglio.
«Le lancette sono inchiodate!» rantolò, sdegnato.
Riciclo non si scompose. Raggiunse il suo tavolo e dopo aver rovistato in un cassetto ci fece vedere due maschere O2.
«Sentite: il punto non è se gli indicatori funzionano. Il punto è l’evidenza che senza queste non potete entrare.» e batté il dito sulla visiera di una. «Potete noleggiarle da me o rinunciare al compattatore; la scelta è vostra. In nessun caso, però, io sono responsabile delle conseguenze.»
Giuro: se avessi pensato alle achta l’avrei devitalizzato all’istante.
* * * * * *
Dieci minuti dopo
 
Con le opzioni lasciate da Riciclo avevamo dovuto piegarci. Indispettiti (e alleggeriti di duecento punti) eravamo rientrati nella discarica. L’obiettivo: trovare armi, o parti di armi, da aggiustare e utilizzare nell’arena.
«Secondo te ci sono cimici nelle maschere?» domandai. Le prime parole dopo una fila di lamentele.
«Ah, ne sono convinto.» Al infilò le mani nei rottami e spostò pezzi di ferraglia senza valore. Tutto ciò che estrasse fu il braccio strappato di un droide ausiliario. Cominciò a rigirarselo fra le mani, studiandone la forma e soffermandosi sui cavi strappati alla piega del gomito. «Ma non credo che siano cimici» bofonchiò lentamente, prima di riprendere la solita velocità. «C’è troppa lega metallica perché il segnale passi il muro. Avrebbe più senso se fossero registratori.»
«E il nostro amico qua fuori analizzerà la chiacchierata quando gli renderemo le maschere.» conclusi.
«Credo.»
«Che schifo...» Non vedevo l’ora di parlargli, e invece guarda lì.
Al mi fece segno di aspettare. Si rovistò nel camice e ne tirò fuori un taccuino e una matita. Scribacchiò velocemente e mi mostrò il foglio.
 
Se troviamo una bladeball posso neutralizzare i registratori.
 
Annuii.
Sganciai la chtanna dalla cintura e, nel momento in cui la impugnai, apparvero le achta. Fluttuarono via, ma non guardai dove andassero. Mi concentrai sulla chiave, sullo spostare un po’ di roba col magnete. Qui c’erano ferri deformi, lì cavi a casaccio, là – ugh – due gambe mozze...
Strinsi i denti. Le ossa che sporgevano dalla carne a brandelli stimolarono un conato, ma non venne su nulla. Merito dell’incursione senza maschera: non mi era rimasto nulla da rimettere.
«Gah!»
Alzai immediatamente lo sguardo. Al lasciò cadere quello che aveva appena raccolto: un torso di armatura...e di gladiatore. Come toccò il cumulo perse una manciata di vermi. Il simbolo di DreadZone rimase voltato verso il soffitto, a brillare come un cerino contro la livrea corrosa. Sembrava un fuoco fatuo.
Un brivido mi accarezzò contropelo. In risposta, le achta schizzarono dentro il moncone di torso. Il simbolo si spense definitivamente.
«Pessima idea, venire qui è stata una pessima idea...»
Sempre più verde in faccia, armeggiò goffamente coi lacci della maschera O2. Quando riuscì a slacciarli si piegò in due e vomitò di nuovo.
Povero Al.
La sua idea era più che valida; solo che... be’, avevamo fatto i conti senza l’oste. Ci eravamo illusi che i cadaveri sarebbero stati interi; che sarebbero stati facilmente evitabili.
Illusi, in ogni senso.
* * * * * *
Dopo che Al si fu rimesso la maschera girai la chtanna e gli offrii il manico. Lui prima guardò la chiave e poi me, con la faccia di chi non capisce.
«Faccio io a mani nude. Prendi qua.» gli dissi.
Lui fece un cenno che non so se fosse un sì o un grazie. Comunque, quando afferrò l’impugnatura, le rune che brillavano sulla chtanna si spensero. Ciliegina sulla torta, quando provò a tirare il grilletto della magnetizzazione non ottenne nulla.
Bofonchiò qualcosa sulla sfiga e si strinse nelle spalle. Certo, magnetizzando i pezzi sarebbe stato meglio, ma andava bene lo stesso anche da bastone. Bastava non trovarsi in mano un altro pezzo di cadavere.
Scavai io a mani nude, almeno finché portai alla luce (si fa per dire) un pezzo di ferro che sembrava una forcella. Con quello in mano mi rimisi di buona lena, stavolta spostando le cose con un movimento a ventaglio.
E sventaglia di qua, sventaglia di là, dopo mezz’ora passata a scartar cadaveri e ferraglia...
«Eccola!»
Parola magica. Ecco l’aggeggio malefico; ritorto, puntuto e mezzo sciolto dall’acido! Che poi in gara se ne trovavano a bizzeffe; non mi sono mai spiegato perché lì faticammo tanto.
Al la tirò su con aria trionfante, subito prima di togliere pinza e cacciavite dalla cintura porta attrezzi. Aprì la bladeball e ne estrasse le lame, i cavi, una batteria... insomma, la smontò per bene. Dopodiché rimise mano alla cintura e tirò fuori dei componenti elettronici. Guardandoli, immaginai che avesse sventrato qualcuna delle telecamere a bozzolo che teneva sotto il bancone.
A differenza mia Al non si perse in considerazioni ma cominciò a mettere insieme i pezzi. All’inizio rimasi a guardarlo; poi – non comprendendo lo schema che aveva in mente – mi rimisi a sventagliare rottami alla ricerca di qualche arma buttata via.
Cambiai montagnola di rifiuti per lasciare ad Al il suo spazio e mi portai su quella di sud-est, dove trovai per lo più pezzi di doppie vipere e qualcosa che credetti appartenesse a un cannone al magma. (Forse una ghiera di supporto alla canna?)
La gettai alle mie spalle, trovandola inutile. In quel momento, però, mi cadde l’occhio su un’elsa ben nota. «Aspetta, quella è una plasmafrusta?»
Clank aveva detto che i colpi della mia coda armata dipendevano dalle batterie della plasmafrusta che avevamo modificato... doppia batteria poteva significare doppio dei colpi! E data l’indiscussa utilità della modifica... «Tu vieni con me, punto.»
La raggiunsi a passi larghi, affondando ogni volta fino alla caviglia, e la tirai fuori con uno strattone. L’elsa era intera, ma di tutto il resto era rimasto solo il primo metro.
Oh be’, poco male. Non era un decimator, ma era comunque un elemento utile. La buttai alla base della montagnola e proseguii rovistando finché Al mi chiamò di nuovo. Allora mollai tutto e tornai sul cumulo di nord-ovest.
Davanti a lui non c’erano più pezzi sparsi. O meglio, da una parte c’erano ancora componenti scollegate, ma ad attirare l’attenzione era l’aggeggio che giaceva davanti alle sue ginocchia. Mi si alzò un sopracciglio che nemmeno me ne accorsi. «Uno stickman?»
E pure uno brutto, fatto di cavi a nastro e... gomma da masticare? Sul serio???
Al mi indicò il suo blocchetto.
 
Dammi la maschera. Ci vorrà un minuto.
 
Storsi il naso. Non volevo tornare a respirare l’aria fetida di quel posto. Non volevo nemmeno che il mio naso tornasse a contatto con quella miscela nauseante di gas. Eppure, contro tutto quello che provavo, portai una mano al laccio e aprii la chiusura. Presi un bel po’ d’aria prima di staccare la maschera dal volto e fissai Al con un messaggio chiaro scritto in faccia: meglio per te se ti sbrighi.
Fu di parola.
Infilò la lama della bladeball fra l’involucro esterno e il rivestimento interno della maschera, fece leva e discostò le due parti, mettendo a nudo il filtro e tutto ciò che ci stava intorno. Finsi di non vedere che il filtro era color muschio (di norma un filtro sporco è grigio; verde significa che sta per prendere vita). Mi concentrai sui movimenti di Al, che puntò uno scatolino fissato nella guancia destra. Lo aprì, rivelando un circuito audio, e lo richiuse borbottando qualcosa come “sì, è lui...”
Appiccicò con la gomma da masticare le estremità dello stickman su due lati dello scatolino e lasciò lunga una delle propaggini di filo, piegata in due in modo che, quando richiuse il tutto, dalla maschera uscisse un occhiello.
Indossai la maschera modificata in un baleno, soffiando l’aria nel momento stesso in cui la guarnizione mi sfiorò il volto. Filtro verde? Chissenefrega, avevo bisogno di aria.
«Adesso siamo al sicuro. Vedrai che scherzetto gli combineremo, al nostro amico.» fece Al, porgendomi indietro anche la chtanna. «Trovato niente, prima?»
«Solo un pezzo di plasmafrusta.» Ripresi la chtanna e le achta si accesero intorno alla mia mano. Al le guardò storto.
«Dannato affare, con me non ha funzionato...»
Ridacchiai nervosamente.
A quel punto lui si ricordò di qualcosa e, dopo aver rovistato nelle tasche del camice, mi passò una micro card.
«Dato che possiamo: ecco la tua richiesta.»
Non capii. Lo guardai come se gli si fosse gonfiata la testa. «Ehm...»
«Il filmato.»
E a quella parola, in ritardo, ebbi l’illuminazione.
«Ah! Giusto, il filmato!» Calai lo sguardo sugli intagli del chip e li studiai con attenzione. Il tono tornò basso in un lampo. «Lo hai visto?»
Lui infilò le mani in tasca e grugnì una sillaba frustrata. «Te l’ho detto che sono arrugginito... e non consegno lavori meno che decenti.» disse a denti stretti. «Chiamalo effetto collaterale.»
«Ah, ma in realtà è perfetto. Ha già raggiunto il destinatario.» Guardai il circuito sulla micro card per l’ultima volta, prima di gettarla su una lamiera e friggerla con una scarica della chtanna.
A quel punto gli spiegai perché avessi scelto di farglielo vedere anziché dirglielo.
Gettare le carte in tavola fu liberatorio. E credo che, per quanto gli avessi raccontato delle balle, alla fine la sceneggiata fu la scelta giusta.
«Senti...» Al si prese un attimo per cercare le parole giuste. «Sarò onesto, quindi non prendertela. Capisco perché non la vuoi cambiare, e credo sinceramente che sia nobile. Però ci fai poco, da morto, con la nobiltà d’animo. Takami... la sua cupola è un pericolo, e tu ci sei invariabilmente sotto.»
«È per questo che ho preso la tuta di Rop’Roc.»
«Ma per favore! È un miracolo che non si sia bruciata!»
Mi morsi l’interno della guancia cercando di non tradire emozioni. Non era il caso di dirgli che si era bruciata senza che i suoi sensori lo segnalassero.
«Quella roba è troppo rischiosa. T’ha già ucciso una volta, e sappiamo entrambi che la botta di culo numero due non verrà mai.»
«Però non ho scelta. Non ho le armi giuste per i leviathan, e non ho manco i soldi per comprarle. Il Ruggito mi serve, qui più che su Catacrom.»
«E a noi servi tu.» rimbeccò, fulmineo quanto inflessibile. «Sai cos’ho davvero compreso all’Hiring Show? Il fatto che quando tirerai il calzino io e Clank perderemo la migliore – e forse l’unica – possibilità di andarcene. Poco ma sicuro verremmo divisi, e chissà se le persone con cui lavoreremo avranno voglia di andarsene di qui.»
Fece una pausa. Si guardò intorno, e quando tornò a parlare calò il tono. «Non è che “ce l’ho con lei”. Non voglio nemmeno importi scelte. Però vederti crepare per nobiltà d’animo non è un’opzione, e Clank è troppo influenzato per metterti del sale in zucca. Tocca a me, e puoi stare certo che farò tutti i passi necessari a tirarci fuori da qui.»
«E allora dimmi: supponendo di eliminare dall’arsenale anche il Ruggito, una volta nell’arena cosa dovrei fare? Ballare la macarena?»
«Ho tutti gli schemi per costruire le armi partendo dai resti gettati via. Troviamo i rifiuti giusti e avrai le tue armi.»
...Ah.
Mi guardai intorno. Intossicazione a parte quel piano era semplice. Efficace, pure. Mi piaceva.
«...E dimmi: di cos’è che hai bisogno, di preciso?»
* * * * * *
Due ore dopo avevamo i pezzi essenziali per un decimator B-6 e qualche materiale extra. Stanchi, soddisfatti e sporchi oltre ogni aspettativa, ci avviammo all’uscita. Provai a immaginare in che modo Al avrebbe tirato fuori un’arma da quelle cianfrusaglie, e mi ricordai dell’accendino-registratore fra un ponte mentale e l’altro.
Gasp! «Aspetta!»
Troppa foga. Allarmai ancora di più un già oppresso Big Al. «No, scusa, non è così grigia.»
 Sguardo confuso di risposta. Continuai: «Hai presente quando prima hai detto di Clank? Del fatto che andrebbe ricostruito da capo?»
«...E quindi?»
«Ieri sera, quando sono tornato in cella, c’era questo.»
Gli mostrai l’aggeggio di Coco e gli feci ascoltare il messaggio: la voce saccente della xarthar mi rimproverò di nuovo e riassunse l’accordo “buono per il mio androide”: akelite in cambio della ricostruzione degli arti.
«Akelite? Diamine, mica ci cresce in tasca!»
«Chissenefrega di quella roba! Dovremmo cercare di capire chi è Dynamo!»
«Basta fare una ricerca nel database; non è certo un problema!» mi rimbeccò. «Ma l’akelite... cazzo, quella sì!»
Mi prese in contropiede tutta quella veemenza. Per cosa, poi? «Sul serio è una roba così difficile da trovare? Anche sottobanco?»
«È rara... dannatamente rara già fuori da qui, figuriamoci in questo schifo di buco.» Ci pensò su nel tempo di un respiro profondo. «E poi è rognosa da lavorare. Ma rognosa tipo “se vuoi un lavoro con quella roba me lo paghi dieci volte tanto”.»
«Oh.»
Non avevo mai avuto il sentore che Cocobìt volesse tirarmi una fregatura, ma in quel momento fu esattamente ciò che pensai. Se era così rara e così rognosa che senso aveva chiederla?
Mi persi a riflettere su questa prospettiva, quando Al mi poggiò una mano sulla spalla.
«Penseremo a qualcos’altro per Clank. Ci sono tante leghe che possiamo riutilizzare.»
Alzai lo sguardo e mi trovai di fronte un’espressione amara, ma non incarognita quanto prima.
«Vogliamo andare?»
Annuii. Di sicuro non volevo restare.
«Dai, che è ora dello scherzetto.»
Lo guardai infilare un dito nell’anello di cavo che penzolava dalla maschera. Tirò con delicatezza, sfilando pochi centimetri alla volta, finché dalla fessura non uscirono gli estremi e la gomma masticata.
Provai ad imitarlo, ma non feci più che infilare il dito nell’anello. Mi prese l’avambraccio con una mano e con l’altra si batté il petto due volte. Ci penso io. Allargai le braccia con una smorfia. Prego, fai pure.
Ci pensò lui a sfilare il cablaggio abusivo. Prima udii un Toc arrivare dalla curva della mascella; poi ci fu un Clack quando, dopo aver estratto tutto, pizzicò i due versanti della maschera per richiuderla. Dopodiché rimosse la gomma dai cavi con cura certosina e se ne disfece fra la spazzatura. I cablaggi, invece, li infilò nella carcassa mezza sciolta del decimator di recupero.
A quel punto bussammo contro il portone bisunto. Riciclo ci aprì con quella sua faccia da schiaffi e individuò subito il nostro bottino. Be’, non che il camice usato come un sacco fosse esattamente antisgamo. Così ci indicò la scrivania. «Posatelo là per il controllo. E dovete ridarmi le maschere.»
Eseguimmo. Poggiai il camice sul suo tavolo, poi procedetti a slacciare le fibbie che tenevano la maschera O2 sulla mia testa. L’appoggiai accanto a quella di Al con più forza del dovuto. «Per quanto le abbiamo pagate dovrebbero essere nostre.»
«Potevate contrattare.» rispose senza manco guardarmi. Continuò a disfare il sacco improvvisato, e quando arrivò al contenuto emise un fischio. «Un decimator, interessante. E... una plasmafrusta?»
Sollevò il moncherino che avevo trovato all’inizio e lo fece dondolare mollemente. «L’articolo 75, sezione K, comma 29 del regolamento stabilisce che non si possano fondere armi tra loro.»
«Lo sappiamo.» replicò Al. «Ma il giunto basale è l’unica cosa utilizzabile. Ci verrà utile.»
«Hm...»
Non c’era un granché da obiettare. Non avevamo preso nulla che fosse vietato, ragion per cui Riciclo fu costretto a lasciarci andare.
Abbandonammo i corridoi di cemento grezzo e tornammo fra i tubi di vetro. Prendemmo la direzione da cui eravamo venuti e immaginai che stessimo tornando alla mia cella. Invece, a un certo punto, i corridoi cominciarono ad avere dei tratteggi gialli in terra.
«Dove andiamo?»
«Da Clank.»
Non servì altro.
* * * * * *
Lo seguii fino alla loro cella. L’aria, dentro, odorava di metallo bruciato. Clank era là, steso sul bancone. Un grosso cavo arancione, derivato dal soffitto, si infilava dentro la sua pancia. Mi domandai se fosse già sveglio.
«Oh, eddai.»
Il tono scontento di Al, fermo davanti allo schermo, conteneva tutti gli avvertimenti necessari. «Solo il trenta percento? Dev’esserci una dispersione da qualche parte.»
 Aggirai il bancone per avvicinarmi senza stare fra i piedi. Al mollò a terra il camice coi pezzi e scollegò il cavo arancione.
«Posso aiutare?» gli chiesi.
«Passami il tester, è là dietro.»
Feci come detto, poi Al si zittì. Lo guardai armeggiare per un po’, mentre mugugnava tra sé di calcoli, impedenza (credo) e altre cose che non riuscii a distinguere.
Rimasi in attesa a lungo, passando strumenti di tanto in tanto. Al era un vulcano di borbottii: ragionava in continuo a bassa voce, e nel frattempo saltava dal tester a qualsiasi attrezzo gli servisse. Sembrava schizofrenico, ma col suo modo di fare trovò l’origine della dispersione.
Riparammo il guasto, dopodiché ricollegai il cavo arancione alla batteria di Clank. Non rimaneva che attendere, così noi due andammo a pranzo.
* * * * * *
Dopo che avevamo cominciato a mangiare il discorso non aveva impiegato molto a tornare sul contenuto dell’accendino-registratore.
«...Più che altro Cocobìt fa un nome preciso.» obiettò Al. «Mi chiedo come faccia a puntare il dito. Ha dei video, o qualche testimone?»
Alzai le spalle. «Parla anche di un accordo con Takami. Se consideriamo com’era messa quand’è arrivata, come diamine hanno fatto a stringerlo?»
Al arricciò il naso. «L’ennesima cosa che la tua Spalla ci dovrebbe dire...»
Vero. «Menomale che hai riparato il collare.»
Sbuffo sarcastico. «Riparato? L’ho ricostruito da zero. La circuiteria era completamente fusa. Inservibile.» e infilzò la sbobba con la forchetta.
La sua espressione si corrucciò e, con la mente chiaramente altrove, portò il cibo alla bocca.
«Pensiamo a quello che possiamo sistemare.» dissi. «Aggiustiamo Clank e cerchiamo di costruire qualcosa dai rottami. Il resto verrà dopo.»
Al annuì, ma la sua mente rimase altrove.
* * * * * *
Passai tutto il pomeriggio con lui. Mentre Clank si ricaricava mi mostrò il database con le cianografie delle armi. I progetti a disposizione non erano completi (come avrebbero potuto lucrarci sennò?); però in quel che si poteva vedere, come aveva detto Al, c’erano tutti i dettagli per mettere insieme un’arma partendo dai rottami.
Il lanciagranate in nostro possesso non aveva più il rivestimento di colore sgargiante che definiva la bocca e il dorso, ma le barre di controllo e i loro alloggiamenti erano intatti. L’impugnatura principale era a posto; mentre quella ausiliaria la ricostruimmo con un tondino da venti che Al aveva in un cassone sotto al banco. Al momento dei cablaggi, invece, lasciai lavorare l’esperto. Io mi misi a una consolle e cercai nel database il volto del famigerato Dynamo.
Non sapevo come fosse scritto, quindi mi ci volle qualche tentativo, ma alla fine eccolo lì. Conundrum Dynamo: umano, mezz’età, elettrocineta. Studiai a fondo la sua fisionomia, imprimendo nella memoria i suoi occhi scuri, il naso aquilino e gli zigomi alti. Il cranio era ricoperto da un intricato tribale, e agli angoli della bocca si era fatto tatuare due zanne all’insù.
Nella foto si intravedeva un’armatura blu, il colore dei terzi livelli, i cosiddetti Crociati. E quando lessi il nome della sua Spalla, ricordai perché mi sembrava di averlo già sentito.
Dopotutto, lui era l’Eroe di Rop’roc.
* * * * * *
«E così hai scoperto chi è Dynamo. Interessante.»
La sensazione di smarrimento, quella volta, era giustificata. Era sicuramente il pianeta su cui avevo incontrato Chaos, ma... be’, non ci somigliava.
Non ricordo come avessi passato la soglia dell’âdytôn. Ricordo però che nell’âdytôn ero molto in alto; sulla terrazza di una scala antincendio. Unica vista: una zona distrutta. Guardando a destra e a sinistra si vedeva un margine circolare: all’esterno c’era la città; all’interno ciò che resta dopo un bombardamento. Niente palazzi fighi, niente viali alberati, niente rumori. Solo calcinacci, ferri torti e polvere. E quello fu sufficiente a mettere da parte Conundrum Dynamo.
Cos’era successo?
Chi era stato?
E che ne era stato della gente che vi abitava? Era per quello che non si vedeva mai nessuno? Erano migrati dopo il bombardamento?
 
Chaos, che era in piedi con me sulla terrazzina, si appoggiò con gli avambracci alla ringhiera.
«Un posto singolare, Ratchet di Veldin. Non credevo che ci avresti portati ai confini della negazione coercitiva.»
Tenni lo sguardo al suolo cercando di scorgere qualcuno, o un segno che qualcuno fosse là sotto. Risposi solo quando fui certo che non c’era nessuno. «È così che chiamate i bombardamenti voi?»
La donna di fumo arricciò il naso.
«Non mi esprimo con nomi impropri, mortale. Questo è un âdytôn, e come tale ha i suoi meccanismi. Primo fra tutti: esso rispecchia ciò che succede nel piano materiale. Se vivi felice l’âdytôn fiorisce; se vivi nelle difficoltà, invece, si crepa. E se vivi tragedie più grandi di quanto tu possa sopportare, ecco che s’innesca il collasso. Da qui si sviluppano due scenari.» contò uno «Il primo, in cui il collasso non viene fermato e il risultato è ciò che voi mortali chiamate “crepacuore”; oppure» contò due «il secondo, in cui l’anima reagisce bruciando parte della sua energia – che poi è la vita residua sul piano materiale – per distruggere il ricordo e tutte le sensazioni che stanno facendo collassare l’âdytôn. Una negazione del trauma che forza il collasso a fermarsi. Una negazione coercitiva, per l’appunto.»
Si girò a controllare la mia reazione, ma non avevo granché da offrirle. Era uno spiegone non richiesto, ero già educato a non sbottare di tagliare corto.
Poi Chaos si rivolse di nuovo all’orizzonte. «Non fraintendermi: anche se praticare la negazione coercitiva sembra ovvio, in realtà è un azzardo tremendo. Non è affatto scontato che vada in porto, ma quando lo fa...» Allungò le braccia, indicando il panorama davanti a noi. «...lo vedi anche tu, è una cicatrice indelebile. Però l’anima e il suo corpo mortale sopravvivono.»
Aggrottai le sopracciglia. «Woooww...»
Esagerai apposta l’apertura della bocca per massimizzare il sarcasmo. Chaos sbuffò una risatina.
«Mi piace il tuo temperamento, Ratchet di Veldin. Mi diverte. Con te forgerò un Araldo degno di questo nome, una volta sistemata la tua ignoranza.»
Seh, come no. Alzai le spalle. «Sono uno studente tremendo; lascia perdere.»
«Hai solo bisogno di sperimentare. Non c’è nulla di male in questo.» Mi accennò al ground zero ai piedi del grattacielo. «Vogliamo scendere? Sarathos merita un discorso dettagliato, ho un lavoro da fare e non ho voglia di stare scomoda.»
Adocchiai la porta, unico divisorio fra noi e l’interno del palazzo. Era tagliafuoco: non c’era maniglia e si apriva verso di noi. Alzai gli occhi al cielo e mi preparai al milione di scalini da scendere.
* * * * * *
In realtà scendemmo solo due rampe. Alla terza piattaforma non c’erano più gradini.
Mi sporsi appena e vidi che il resto della scala era accartocciato al suolo. Doveva essersi rotto nel disastro.
«Strada bloccata.» dissi, adocchiando la porta tagliafuoco sul pianerottolo. Anche questa era senza maniglia.
Chaos mi sgusciò di lato, si appoggiò all’ultimo moncone di ringhiera e mise il naso oltre il limite dei ferri strappati. Quando si tirò indietro mi rivolse un sorriso materno. «Molto bene, è ora della prima lezione.»
Alzai un sopracciglio. «”Aprire le porte con la forza del pensiero”?»
«Lôfko.» [1]
* * * * * *
DING!
Quando ripresi controllo di me ero in caduta libera. L’aria mi sferzava il corpo, le finestre scorrevano come la mezzeria di un’autostrada e il cumulo degli scalini caduti si avvicinava. Di fianco, testa avanti, Chaos mi accompagnava spandendo fumo come un missile in avaria. Mi disse qualcosa, ma il sibilo della caduta lo coprì.
Poi, di colpo, aprì un paracadute e sparì dalla mia visuale.
Quell’infame! Quella figlia d’un Qwark!
La mia mente annaspò alla ricerca di un’idea per uscire da lì, ma il pensiero che mi venne più spesso fu “È un sogno!”. Mi ci aggrappai con tutto me stesso. E quando fui a un soffio dal verificarlo... fui respinto. Come quando ci si tuffa, quando in immersione l’acqua ti rallenta, ti ferma e ti respinge verso l’alto. Provai la stessa sensazione, ma a differenza del tuffo non tornai a galla. Al contrario, dopo il punto di massima decelerazione una forza invisibile mi poggiò delicatamente al suolo. Solo allora la gravità tornò a posto.
Col peso tornato sulle gambe sentii le ginocchia tremare. Oh galassia..! Mi venne istintivo alzare lo sguardo al cielo, verso il terrazzino. Non ci arrivai. Vidi prima Chaos, e del balcone me ne scordai totalmente.
Altro che paracadute! Quelle erano ali!
La guardai con gli occhi a palla mentre atterrava; la osservai mentre sbatteva per l’ultima volta le lunghe penne da rapace, per poi ripiegarle contro la schiena come un qualunque xarthar.
«Come...» borbottai spaesato, ma ci rinunciai. A quel punto era ovvio che fosse un sogno.
«Prima lezione, Ratchet di Veldin. La lingua dei toksâme plasma ogni cosa, volontà compresa.»
* * * * * *
Dopo che ci fummo sistemati sotto un gazebo come la volta prima (Chaos era davvero patita!), la donna di fumo riprese la conversazione con la solita verve.
«Sai perché Sarathos non è mai stato terraformato?»
Alzai le mani in segno di resa. Dopo il salto non avevo voglia manco del sarcasmo.
«Il motivo è uno soltanto: akelite.» Drizzai le orecchie, e lei allungò le labbra in un mezzo sorriso. «Si estrae dalla coda dei leviathan, che sono la specie dominante del pianeta. Terraformarlo avrebbe distrutto il loro habitat naturale, e dunque danneggiato la miniera.»
Mi ritornarono alla mente le parole di Al su quanto quell’affare fosse raro. Ma se le cose stavano come diceva Chaos...
«Certo che stanno come dico io, mortale. O forse Catacrom non ti è bastato?»
Ullallà, qualcuno aveva i nervi scoperti...
«Cocobìt O’Can-do ti ha certamente riferito che i leviathan di Sarathos spruzzano acido dal pungiglione. L’acido matura lungo la coda, in alcune sacche in cui l’akelite fa da rivestimento e da catalizzatore. Sono quelle pepite e quegli strati di minerale a renderlo uno degli acidi più forti presenti in natura, e tuttavia, nell’arte metallurgica, quelle stesse pepite originano leghe anticorrosione di qualità suprema.»
Intuii che fosse un materiale di valore.
«Oh, sì, il valore pecuniario è altissimo. Però, sull’altro piatto della bilancia, bisogna mettere le difficoltà del gestire quelle bestie.»
«...Che suppongo non perdano akelite come i cervi di Palavar perdono le corna.»
Chaos allungò un sorriso sghembo. «Sei perspicace.» E si mangiò un pasticcino. «No, i leviathan non espellono akelite. Bisogna allevarli fino alla prima età adulta, poi ucciderli e infine scalcargli la coda.»
«Ugh.» Arricciai il naso, schifato.
«Guarda il lato positivo» rispose, divertita «Gleeman Vox ha delegato le operazioni di macello ai gladiatori. Il tuo unico scopo è abbatterli. È un compito semplice, soprattutto sapendo che il loro punto debole è la bocca.»
Cocobìt mi aveva parlato delle loro dimensioni e delle loro corazze. Tutto ciò che potevo concludere, considerando il mio arsenale, era “semplice proprio per nulla”.
«Dopo ogni gara gli inservienti portano le carcasse al centro per lo smaltimento. Padiglione Z, è lì che si trovano i minerali. Ci sono quattro magazzini, ma i nomi sulle porte sono ingannevoli. Entra nel penultimo. L’akelite più performante è in una vecchia scatola senza etichetta.»
All’improvviso, in lontananza, si spanse il richiamo di un corno da caccia. Chaos si girò verso est.
«Ah, è già ora.» cinguettò. «Sai, la Protetta ha deciso di ricorrere al lascito di Nokki di Mirion. Mi dispiacerebbe se tu glielo impedissi.»
Caddi dalle nuvole. Il cuscino di riccioli? «Quale lascito?»
La sua espressione si addolcì, le labbra si allungarono di nuovo in un rassicurante sorriso materno. «Vedrai.»
Oh no.
«Sîlko quê omjâso ûm tâ’, Ratchet pê Veldin. Ilt-âso fô micô-eämi jaïs-ekêdo. Fôljeö d’jî êf kûä jâsta setâle ve-d’jî mâm kâjjo ôffo Tsakîkko. Tâë, fô tsâlleno dâfko, nê pesôë.» [2]

[1|⇑] Salta.
[2|⇑] Resta qui ancora un po’, Ratchet di Veldin. Esplora la negazione coercitiva. Lascia che il tuo corpo riposi finché non tocca alla Protetta. Poi, la prossima volta, mi dirai.

 

   
 
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