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Autore: Padme Mercury    16/05/2022    0 recensioni
Una serie di brutali omicidi solletica l'interesse di Sherlock Holmes e del suo amico John Watson. All'apparenza slegati l'uno dall'altro, sono dei biglietti molto particolari che li uniscono sotto il nome di un unico assassino.
I segreti si estendono a tutta la famiglia Holmes: l'entrata in scena della giovane Charlotte cambia gli equilibri dell'appartamento al 221B di Baker Street, forse per sempre.
Sherlock si troverà davanti ad una scelta difficile che aveva sempre cercato di evitare: cuore o cervello? A cosa darà ascolto il detective?
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[N/A
La timeline è modificata rispetto alla serie originale. John è sposato con Mary anche se Moriarty è ancora vivo. Reichenbach non è ancora successo. L'età dei personaggi è leggermente modificata, così che Sherlock, John e Mycroft si trovino tutti tra i trentadue e i quarant'anni]
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo diciotto


Tornare a vivere a Baker Street significava soprattutto lavorare 24 ore su 24. Andare in ambulatorio era ogni giorno più difficile perché era costretto a vedere e parlare con Mary, che lavorava lì come infermiera. Lei gli lanciava delle occhiate quasi imploranti, sembrava spesso sul punto di entrare nel suo studio e parlare di loro, del loro rapporto, ma bastava uno sguardo torvo da parte di John per farla desistere. John, dal canto suo, trovava difficile resistere a quegli occhi tristi, si costringeva a non alzarsi e andare a stringerla tra le braccia, sacrificando il suo amor proprio in nome della stabilità.
Ma in fondo John non voleva perdonarla così facilmente. Quello che Mary aveva fatto era terribile, gli aveva mentito sin da quando si erano conosciuti e ora gli sembrava di essere sposato con un'estranea. Se l'avesse perdonata in poco tempo, avrebbe iniziato ad insospettirsi. Avrebbe dovuto ammettere quello che era successo con Charlotte, dirle che quello che provava per la ragazza era così diverso, così nuovo, così... forte. Non voleva però dirglielo, farle vedere che anche lui era capace di mentirle e di mostrarle anche le sue debolezze. Aveva quindi deciso di lasciar perdere, di continuare a tenere su quella pantomima fino a quando lo avesse ritenuto opportuno.

La situazione in casa non era di certo più rilassante o rassicurante. Sherlock passava la maggior parte del tempo a cercare di sbrogliare la matassa del caso, di capire chi potesse essere la prossima vittima e cosa collegasse le tre precedenti. Una banchiera, un prete e un professore universitario. Figure più lontane non potevano esistere, eppure ci doveva essere sotto qualcosa di importante. Considerare le loro famiglie come punto di unione aveva portato Sherlock a cercare tutte le informazioni che Internet potesse dargli riguardo quelle persone. Trovò un paio di articoli su Lacrosse, una piccola indagine riguardo ad una presunta compravendita di voti andata nel dimenticatoio per mancanza di prove. Per il resto niente, silenzio stampa su tutti i fronti e John riusciva a vedere che Sherlock non sopportava quella situazione. Ammirava l'assassino, non c'erano dubbi, lo notava nel luccichio dei suoi occhi, ma non riuscire a fare passi avanti senza ricevere una spintarella lo mandava fuori di testa.
John aveva capito che in queste situazioni era meglio stargli a debita distanza. Bastava una parola o addirittura un respiro per essere investiti dal fiume di deduzioni nervose e poco gentili che sarebbero uscire dalla bocca di Sherlock, la maggior parte delle quali dette solo per frustrazione. Stava quindi sulla poltrona a leggere un giornale o un libro, oppure si sedeva al tavolo con il computer acceso per fare ricerche che riteneva utili e per aggiornare il suo blog e controllare commenti ed iscritti.
Passava anche molto più tempo al piano di sopra, in camera sua. Rimaneva semplicemente lì, sdraiato sul letto o seduto sul davanzale della finestra a guardare la strada sottostante. Osservava la gente che camminava sul marciapiedi, innamorati stretti gli uni agli altri, lavoratori che correvano per non tardare, turisti che cercavano il Madame Tussaud's o l'entrata a Regent's Park. Visti dall'alto sembravano senza pensieri, felici e soddisfatti delle loro vite, ma quali timori si nascondevano nelle loro menti? Quante bugie, quanti cuori spezzati? Sospirava, John, quando pensava a quelle cose. Non era da lui essere così cinico. Anche quando era tornato dalla guerra, rotto e senza uno scopo nella vita, continuava a nutrire fiducia nelle persone, nella loro bontà e sincerità. Ma in quegli ultimi giorni, non poteva fare a meno di pensare che non esistesse nessuno di puro, che tutti nascondessero qualcosa. Che il cuore di tutti fosse macchiato di un'oscurità forte e invincibile.

Spesso rimaneva a guardare fuori dalla finestra anche alla sera, prima di andare a dormire. Pareva quasi che stesse aspettando qualcuno, una persona che non voleva mai arrivare ma che lui attendeva con speranza. Guardava la strada e il cielo bui, illuminati dai lampioni e le luci di locali e case. Quando pioveva, le gocce d'acqua creavano dei riflessi luminosi dall'aria malinconica.
Pioveva quella sera. Non era un grande temporale, solo una leggera spruzzata d'acqua, la tipica pioggia inglese leggera e gelida. Il vetro era freddo e leggermente appannato e John si era alzato solo quando aveva cominciato a sentire le giunture irrigidirsi. Si era infilato a letto, sotto le coperte, che era da poco passata la mezzanotte. Non riusciva a dormire bene in quei giorni, gli incubi lo tormentavano per tutta la notte. Sognava di nuovo la guerra, quel terribile giorno in cui gli avevano sparato, e poi sognava Mary, la sua confessione, tutto il suo mondo che gli crollava davanti agli occhi. A volte aveva anche sentito la voce di Charlotte ripetergli più volte di non ricordarsi come si suona, di aver sentito qualcuno in casa, ma non durava mai più di pochi secondi prima che si svegliasse.
Appena scivolava nel sonno, vedeva addensarsi attorno a sé le immagini dell'Afghanistan, del suo campo. Immagini così reali da convincerlo di essere ancora lì, ma con un dettaglio sbagliato e disturbante. Spesso era un bambino senza il braccio sinistro e con la mascella mancante, un povero bambino che John aveva visto arrancare e poi morire durante una delle missioni. Gli aveva guardato gli occhi, due pozze nere e umide, e il corpicino che sussultava mentre cercava di respirare e urlare attraverso quei lembi di pelle insanguinata che dondolavano dove una volta c'era l'arcata inferiore dei denti. Era un medico, avrebbe dovuto salvarlo, ma era rimasto spaventato da quella visione e non si era mosso. Lo aveva guardato morire, fare versi che volevano essere parole, una preghiera, una richiesta d'aiuto.
Quella notte il bambino non era apparso. Stava rivivendo il giorno in cui gli avevano sparato, il dolore alla spalla e la convinzione che sarebbe tutto finito lì. Sentiva il sapore della terra afghana in bocca, il caldo appiccicoso sulla pelle e... un telefono? Non avevano telefoni in guerra, non durante le missioni. E poi... Quello non era il rumore che facevano gli apparecchi che avevano dato loro in dotazione.
Si svegliò, mettendosi ritto a sedere sul letto, e notò lo schermo del cellulare illuminato. Erano le 3.30 di notte e fu combattuto tra il maledire e il benedire la persona che lo aveva disturbato nel mezzo della notte. Rispose, senza neanche guardare chi fosse, e biascicò un "pronto" con voce impastata dal sonno. Rimase in attesa di qualche risposta dall'altra parte, ma sentiva solo un respiro affannato e bagnato dal pianto. Spostò il cellulare dall'orecchio e guardò il mittente tenendo le labbra appena separate.

"Char?" sussurrò, ottenendo in risposta solo un singhiozzo. "Char, che succede?"

"J-john..." si lamentò, senza riuscire ad aggiungere altro. Respirava a fatica, John riusciva a percepire che era nel mezzo di un attacco di panico. Doveva essere successo qualcosa di grave, molto grave.

"Calmati, respira con me, mh?" le disse, facendo seguire a quelle parole un respiro rumoroso e lento. Continuò così finché non la sentì imitarlo e tornare pian piano ad un ritmo più normale. "Va meglio?"

"Un... Un pochino..." sussurrò, tirando su col naso. "John, è... è successa una cosa." aggiunse. Il medico riuscì a capire che si era morsa un labbro per trattenere un singhiozzo.

"Dimmi, scricciolo. Ti hanno fatto del male? Posso essere lì in un'ora, Charlotte, dammi il tempo di-" gettò le coperte di lato e si spostò sul bordo del letto, pronto ad alzarsi.

"No, no! Non serve, io..." sospirò e rimase in silenzio per qualche istante. John non fiatò, i piedi piantati sul pavimento freddo e le dita che stringevano convulsamente il cellulare. "Ho fatto una cosa. O almeno... Credo di averlo fatto io..."

John si passò una mano sul viso, alzandosi. Non riusciva più a stare seduto, fermo, allora cominciò a camminare avanti e indietro. Diede un'occhiata fuori dalla finestra, cercando la calma e la forza di parlarle senza far tremare la voce.

"Sei a casa?" chiese e rimase col fiato sospeso prima di sentire un verso di assenso dall'altra parte della cornetta. "C'è qualcuno con te? Char, se sei in pericolo, se hai bisogno che ti mandi qualcuno, devi solo-"

"No." lo interruppe quasi urlando. Riprese fiato a fatica dopo, John poteva immaginare le sue esili spalle scosse dai tremiti e i singhiozzi. "C'è sangue, John... Ce n'è tanto..." sussurrò.

John si strinse la radice del naso tra le dita e piegò la testa all'indietro. Fece appello a tutte le sue forze per non correre di sotto, svegliare Sherlock e letteralmente volare a Oxford da lei. Con o senza il suo migliore amico, non gli importava. Il cuore gli batteva talmente forte che pareva assordarlo e la mano sinistra gli tremava leggermente.

"Se è tuo, riesci a dirmi da dove viene?" le chiese con la voce bassa, cercando di calmare prima sé stesso per poter fare lo stesso con lei.

"Dal... Dal braccio. C'è un paio di forbici, mi sembra, più o meno in mezzo all'avambraccio... Vicino al gomito..." riuscì a dire a fatica, e John vide nella sua mente Charlotte a terra, le forbici conficcate appena sotto l'olecrano e il sangue che le tingeva il braccio e la mano. "Ma io non mi ricordo di averlo fatto... John, te lo giuro, non so come sia successo!" singhiozzò nel ricevitore.

Mentre lei parlava, John aveva già iniziato a scendere le scale. Nel salotto c'era il telefono fisso, avrebbe chiamato un'ambulanza o un taxi, avrebbe deciso una volta di sotto.

"Ti credo, piccola, non preoccuparti. Ma devo chiamare l'ambulanza, devono metterti i punti." le disse e si stupì lui stesso della calma con cui pronunciò quelle parole. Era forse il suo lato medico che aveva preso il sopravvento, quella leggera freddezza che gli permetteva di non prendersi troppo a cuore i propri pazienti e soffrire per loro.

"No, ti prego, non farlo! Posso... Posso fare io, mi dici come fare... Per favore..." lo implorò.

John sospirò e scosse la testa. Sentiva la paura nella sua voce, un tremolio preoccupato che la faceva tornare ad essere la bambina di tanti anni fa. Di sicuro aveva paura che Mycroft lo avrebbe scoperto, che l'avrebbe sgridata o si sarebbe preoccupato. Se c'era una cosa che aveva imparato di lei in quei mesi, era che voleva essere d'intralcio il meno possibile. Preferiva defilarsi, farsi del male piuttosto che provocare il benché minimo disturbo negli altri. Doveva esserle costato molto fare quella telefonata, coinvolgere John e farlo entrare in quel piccolo labirinto, ma si era accorta che non poteva sistemarlo da sola. Non quella volta.

"No, tesoro, non potresti farlo da sola. Rischieresti di farti ancora più male..." le disse scendendo le scale e entrando nel salotto. "Dammi ascolto per questa volta, Char..." la ammonì piano, prendendo in mano il telefono fisso. La sentì esitare dall'altro capo.

"Poi lo sapranno..." pigolò e John sollevò un angolo della bocca.

"Se Mycroft o Sherlock dovessero venire a saperlo, me ne occuperò io, ok? Fidati di me. Sai che puoi farlo."

Charlotte esitò ancora qualche istante, poi sospirò e annuì, anche se non poteva vederla.

"Va... Va bene. Ma non mettere giù, ti prego... Ho... Ho bisogno di sentire la tua voce."

John sorrise e le assicurò che non avrebbe chiuso la chiamata. Col fisso compose il numero del pronto intervento e chiese un'ambulanza per il 122 Tudor Avenue, Oxford. Quando appoggiò nuovamente il cellulare all'orecchio, notò con la coda dell'occhio un'ombra nel piccolo corridoio di casa. Sherlock lo aveva sentito e si era avvicinato, aveva capito che parlava con Charlotte e doveva anche aver intuito che non fossero buone notizie.

"John, mi gira la testa..." biascicò appena.

"Merda!" imprecò sottovoce. Sentiva che Charlotte stava perdendo le forze, era sempre più debole. Probabilmente stava perdendo troppo sangue, soprattutto per le sue condizioni delicate. "Continua a parlarmi. Andrà tutto bene, ok? L'ambulanza sta arrivando, ti metteranno due punti e sarai come nuova, mh?"

Puntò lo sguardo negli occhi chiari di Sherlock, che aveva deciso di entrare in salotto. Lo stava guardando apparentemente freddo come sempre, ma John lo conosceva bene. Fin troppo bene. Poteva vedere che era preoccupato, quasi riusciva a percepire il battito accelerato del suo cuore e il suo cervello lavorare per capire. Senza dire una parola, John premette un tasto e mise il vivavoce, poggiandosi un dito sulle labbra per intimarlo a stare zitto.

"Char, mi vuoi dire come è successo? Quello che ti ricordi, non ti preoccupare..." la incitò con un tono basso e dolce, a sottintendere che non doveva avere paura.

"Io... Non lo so, davvero... Stavo sistemando gli appunti e poi... Poi avevo le forbici in mano e guardavo il braccio ma non era il mio. Cioè, era il mio ma non il mio, non so se ha senso... Vedevo... Vedevo la mia mano muoversi e volevo fermarla ma non ci riuscivo. Era come se fosse qualcuno a farlo con la mia mano e il mio braccio, capisci?" raccontò e John alzò la testa per guardare Sherlock. Voleva vedere le sue reazioni, ma era perfettamente immobile, le sopracciglia corrugate e lo sguardo perso da qualche parte. "Non mi fa neanche male, sai...?" sussurrò alla fine. John sospirò e si passò una mano sul viso.

"Ho capito... Ascolta, andrà tutto bene, ok? Riuscirò ad aiutarti, è una promessa." riuscì a dirle, prima di sentire dall'altro lato l'arrivo dei soccorsi.

Chiusero quindi la chiamata solo quando John fu sicuro che si trovasse in buone mani. Lasciò il telefono sul tavolino e si fece cadere sul divano, poggiando i gomiti sulle gambe e coprendosi il viso con le mani. Aveva mantenuto la calma mentre parlava con lei, ma ora tutta la preoccupazione gli era caduta addosso in un colpo. Sentiva le gambe e le mani che tremavano, il cuore che batteva così forte da fargli pulsare dolorosamente le tempie. Appena chiudeva gli occhi, vedeva l'immagine di Charlotte sola, rannicchiata in qualche angolo di casa sua, ferita e piena di sangue. Lui aveva fatto quello che poteva, ma non riusciva a scacciare dalla mente l'idea che lui doveva essere lì, con lei.
Alzò appena la testa, vedendo Sherlock ancora fermo in mezzo al salotto. Studiò il suo viso, le piccole rughe che gli si erano formate alla radice del naso e l'angolo della bocca torto in una smorfia preoccupata e quasi colpevole. Stava pensando alle sue stesse cose? Aveva visto come si preoccupava di sua nipote, il loro rapporto. Era molto probabile che anche lui si stesse rimproverando per averla lasciata da sola, per non aver previsto quello che sarebbe successo. Avrebbe dovuto dire qualcosa, magari avvicinarsi e prendergli una mano o passargli un braccio attorno alle spalle, era il suo migliore amico, dannazione! Ma sapeva che se si fosse alzato, le gambe non lo avrebbero retto e aveva paura di sentire la sua voce tremare se avesse provato a dire qualcosa.

"Sherlock..." si azzardò, tenendo un tono talmente basso da non permettere di sentire la benché minima incertezza.

Sherlock girò la testa nella sua direzione e John sentì il sangue abbandonargli le guance. Aveva gli occhi appena bordati di rosso e le iridi luccicavano come due pietre dure dal colore cangiante. Era la prima volta che John lo vedeva così vulnerabile, che poteva leggerlo, sentire tutte le sue emozioni. Era la prima volta che gettava del tutto la maschera davanti a lui. Quella piccola fiamma di rabbia e risentimento che aveva provato nel non sentirsi partecipe di quello che succedeva si spense.

"Che cosa è successo?" chiese piano, consapevole che era una domanda stupida. Ma il medico era sicuro che Sherlock avrebbe capito, lui capiva sempre.

Il detective infatti abbassò lo sguardo per un istante, poi prese un grosso respiro. Alzò gli occhi, facendoli saettare da un lato all'altro del soffitto.

"Te l'ho detto, John. Non lo so. Aveva già tentato il suicidio e hai visto anche tu i segni di autolesionismo. Ma questo..." sollevò un angolo della bocca in una mezza risatina nervosa. "Questo è oltre. È automutilazione e non so da cosa derivi. Io non..." si bloccò e sbatté gli occhi un paio di volte.

John scivolò appena sul bordo del divano, le labbra appena separate. Era rimasto colpito più di quanto volesse dare a vedere. Era possibile si sentisse in colpa per tutto quello che le aveva fatto? Per non essere stato con lei più tempo? La amava in maniera indescrivibile, John non aveva dubbi, ma conoscendo Sherlock non le aveva mai fatto neanche capire fin dove si estendeva quell'amore. Fece per dire qualcosa, ma rimase zitto quando lo vide voltarsi e cercare qualcosa tra i molti oggetti che affollavano il tavolo alto posizionato tra le due finestre. Quando trovò il fascicolo desiderato, lo lasciò cadere con un piccolo tonfo sul tavolino basso, proprio di fronte a John.

"Questo era il fascicolo che avevano dato a Randall Thompson. Che, a proposito, è morto." disse secco, nuovamente freddo come suo solito. John passò lo sguardo dalla copertina gialla con la scritta TOP SECRET a Sherlock. "Me lo ha dato Magnussen quando è venuto a trovarmi in ospedale. Ci sono delle cose importanti, che devi sapere. Domani Mycroft verrà a prenderlo." sospirò. "Era lui il destinatario." terminò e tornò in camera sua.

John, invece, rimase sul divano tutta la notte a leggere e rileggere il contenuto di quel documento. C'erano sei schede correlate da fotografie corrispondenti ad altrettante persone. La prima apparteneva ad un certo Batholomew Tudors e, da quello che vedeva dalla foto sotto il timbro rosso che recitava 'DECEDUTO', doveva avere più di cinquantanni. I capelli chiari e gli occhi di un azzurro così limpido da ricordargli il cielo d'estate lo facevano sembrare un personaggio storico, uno dei fantomatici 'ariani' che i nazisti inneggiavano. Faceva parte dell'MI5 e MI6, era parte integrante del governo... Sembrava di leggere la descrizione di Mycroft e John si chiese se per caso non lo conoscesse. La data di morte recitava 14 aprile 1986 e una linea cancellava l'ipotesi che fosse stato ucciso per sostituirla con 'cancro alla prostata'.
Le due schede successive strinsero il cuore di John. Un uomo e una donna molto giovani, troppo giovani per poter riportare anche loro la data di morte annotata a mano. 4 novembre 1986 entrambi, ma sulle loro fotografie non vi era alcun timbro. Era come se avessero voluto segnalare che Bartholomew non era più una minaccia, al contrario di loro due. L'uomo si chiamava Arthur Tudors e non gli ci volle molto a capire che era il figlio dell'altro. Avevano la stessa mascella delicata, lo stesso naso e lo stesso sorriso affascinante. A differenza del padre, però, aveva i capelli di un castano chiaro e gli occhi color miele. La donna, invece, era di una bellezza disarmante. Stella Cromwell si chiamava, e John si soffermò a guardare il suo volto armonioso, i lunghi capelli biondo-rossicci e gli occhi del più bel verde che avesse mai visto.
Diede una rapida occhiata alle date e sentì il cuore pesante. Avevano appena 25 anni quando morirono, strappati alla vita proprio quando quella doveva cominciare. Si chiese chi potesse odiarli così tanto, per quale motivo due persone così giovani fossero state vittime di un destino così crudele.
Guardò anche le schede successive. Cameron Valence, Lancelot Cartwright e Vincent McTiernan, tre uomini di potere dagli sguardi spietati e i sorrisi crudeli. Lesse con attenzione tutte le informazioni su di loro e poi il rapporto della polizia, la corrispondenza con i servizi segreti, il falso rapporto di un fatale e inaspettato incidente stradale. Ad ogni riga, John si trovava sempre più incredulo. Degli uomini di più di quarant'anni avevano fatto uccidere dei ragazzini per quale motivo? Per politica. Perché Arthur aveva idee troppo moderne, perché voleva lottare per abbattere il divario tra loro e il popolo. Perché Arthur voleva che il Parlamento fosse realmente lo specchio della nazione e perdesse la maggior parte dei suoi privilegi, a partire dai tre uomini che avevano orchestrato tutto. E tutti i parlamentari, accantonati i colori e i credi politici, avevano accettato quella decisione. Sapevano tutto e avevano taciuto, erano stati complici silenziosi di quell'atroce delitto. Ora capiva perché Randall Thompson aveva dovuto pagare con la vita quel segreto, perché aveva affermato con tanta sicurezza che ne andava di tutto il Regno Unito. Se quelle informazioni fossero finite nelle mani sbagliati, se fossero state rese pubbliche... Non ci sarebbe stato nessun suddito della corona che non si sarebbe indignato, che non sarebbe insorto contro i politici per vendicare Arthur e Stella, colpevoli solo di aver voluto una maggiore equità.

Rimase tutta la notte a leggere e rileggere quelle righe, a guardare quelle fotografie che gli chiudevano lo stomaco. Era ingiusto, non aveva altre parole per definirlo. Si ricordava di quando al telegiornale era stata annunciata la loro morte. Dopotutto Arthur era il parlamentare più giovane, e in questo non riuscì a non pensare che ci fosse lo zampino di suo padre, e lui aveva quattordici anni quando quel camion colpì la loro auto, facendola rotolare senza speranza lungo la strada. Ma non se ne era interessato più di tanto, non gli importava all'epoca di seguire i fatti di cronaca nera.
Si accorse che era mattina solo quando vide una tazza piena di caffè fumante poggiarsi sul tavolino. Alzò la testa e sbatté un paio di volte gli occhi, infastidito dalla luce del sole ormai alto nel cielo. Vide Sherlock con la vestaglia blu slacciata e abbandonata contro le spalle. Non sembrava aver dormito molto, probabilmente aveva in mente ancora tutto quello che era successo la notte precedente.

"Grazie..." mormorò, prendendo la tazza e bevendo un sorso di caffè, che lo fece sentire immediatamente meglio. Sherlock accennò un piccolo sorriso, bevendo a sua volta dalla tazza che aveva in mano. Guardò fuori dalla finestra.

"Tra pochi minuti arriverà mio fratello. Hai letto tutto?" chiese e John non poté non notare la leggera morbidezza della sua voce. Quello non era Sherlock Holmes, il consulente investigativo, colui che risolveva i casi più complicati. Era solo Sherlock, un uomo che non poteva stare dietro alla sua mente, che si prendeva a carico le sofferenze delle persone a cui teneva. L'uomo dietro la macchina.

John annuì e si schiarì la gola.

"È incredibile che sia successa una cosa del genere. E che Mycroft lo sappia e abbia voluto tenerlo nascosto." replicò tagliente. Un lampo attraversò le iridi cristalline di Sherlock.

"Non aveva altra scelta. Ci sono molte cose, John, che potrebbero succedere se solo anche la minima informazione uscisse da queste mura. E la caduta del nostro governo sarebbe la meno grave." gli rispose, poi mosse una mano come per dire che la discussione era terminata.

Aveva infatti scorto una delle costose e lucenti auto nere di Mycroft fermarsi davanti al 221B. Il maggiore degli Holmes scese con eleganza e si avviò con passo cadenzato alla porta. Non suonò e non bussò, si limitò ad aprire con la sua copia delle chiavi e salì la corta rampa di scale che separava l'ingresso dall'appartamento. Evitò con cura il gradino rotto e aprì piano la porta che separava il pianerottolo dalla sala. Entrò con sicurezza, appoggiandosi poi sinuoso al suo immancabile ombrello scuro. Torse appena le labbra nel vedere il documento nelle mani di John, ma mascherò il suo fastidio con un sorrisetto di circostanza.

"Credo tu abbia qualcosa di importante per me, fratellino." pronunciò, spostando il suo sguardo di ghiaccio su Sherlock.

Anche John lo guardò e notò il ritorno del rapace nei suoi occhi. Non poté nascondere il piccolo sorriso che era nato spontaneo sulle sue labbra, perché aveva capito cosa voleva fare. Non lo aveva chiamato solo per dargli quei fogli, assolutamente. Voleva fargli notare che padre assente fosse stato, quanto avesse trascurato i sintomi di Charlotte tanto che era arrivata a farsi del male. Non aveva delle telecamere in casa sua? Perché non le aveva controllate, non aveva mandato qualcuno a fermarla?

"Siediti, Mycroft. Vuoi del the? O del caffé? Oppure scommetto che tu voglia dare un taglio ai convenevoli, mi sbaglio?" parlò con una freddezza insolita, le dita strette contro il manico. Mycroft assottigliò gli occhi mentre studiava il fratello, ma non fiatò. "Dov'eri ieri notte? Dov'erano i tuoi uomini? Non era pieno di telecamere?" chiese tagliente, appoggiando con forza la tazza sul tavolo.

"Un errore di calcolo, ho indugiato troppo e--"

"E tua figlia stava per morire dissanguata!" tuonò Sherlock e John represse un brivido. Non lo aveva mai sentito così arrabbiato, così coinvolto. Non era mai andato particolarmente d'accordo con suo fratello, ma allo stesso tempo non si era mai scagliato con così tanta forza contro di lui. Quella che aveva detto era un'esagerazione, John lo sapeva bene, ma era come se stesse riversando tutta la rabbia che teneva in corpo contro Mycroft. Rabbia nei confronti del fratello, della situazione ma anche di sé stesso, per averla lasciata sola e averla trattata male più di una volta.

"Sono sicuro non fosse così grave." tese le labbra in un sorriso che aveva ben poco di gioviale. "E poi il dottor Watson ha gestito la situazione in maniera eccellente." pronunciò. John lo guardò per un istante con gli occhi grandi e le labbra separate. Quelle parole potevano sembrare un complimento, ma il modo in cui aveva sputato il suo nome, come se si trattasse di un veleno...

Girò la testa di lato, senza riuscire a trattenere un sorriso e una piccola risata. Quando tornò a guardare Mycroft, lo vide con le sopracciglia corrugate.

"Oh, mio Dio." disse semplicemente, sbuffando un'altra piccola risata. "Lei è geloso. È geloso che Charlotte abbia chiamato me e non lei. Che si fidi di me."

Vide un lampo attraversare per un istante le iridi grigie del maggiore degli Holmes e seppe di aver ragione. Trovava stranamente esilarante quella situazione e, allo stesso tempo, sentiva quasi il petto gonfiarsi come un tacchino di fronte a quella piccola vittoria nei suoi confronti. Non capitava spesso che riuscisse ad essere più avanti di uno degli Holmes, e in quelle rare occasioni non poteva fare a meno che sentirsi particolarmente orgoglioso di sé stesso.

"Mi duole dover tagliar corto con queste... piacevoli chiacchiere." riprese Mycroft, spostando il peso dell'ombrello così da poterlo agganciare al braccio. "Ma sono decisamente in ritardo. Potrei avere ciò per cui sono venuto, grazie?" chiese con un tono che sembrava più un ordine.

Sherlock lo osservò per un attimo, poi si avvicinò al tavolino e si piegò per prendere il fascicolo. Lo lasciò sulla mano tesa di Mycroft, che strinse le lunghe dita attorno al bordo. Lo aprì e lo sfogliò, per controllare che ci fosse tutto dentro, e John notò il cambiamento di espressione nel maggiore degli Holmes. Il suo sguardo si era ammorbidito e sembrava stesse ripensando a qualcosa che era successo tempo prima con un misto di tenerezza e dolore.

"Brutti ricordi?" chiese Sherlock, incrociando le braccia sul petto.

"No. Solo ricordi." chiuse con un colpo il fascicolo e lo tenne al sicuro contro il fianco. Salutò con un cenno della testa e si girò per andare via.

"A quale prezzo?" esordì nuovamente il detective. Mycroft si fermò prima di attraversare la porta e John vide le sue spalle scosse da un sospiro. "Qual è stato il prezzo?" ripeté Sherlock, la voce ferma.

Mycroft si girò e guardò il fratello come se gli stesse chiedendo perdono. Come se fosse stato preso nel mezzo di una brutta azione e dovesse scagionarsi.

"Venti minuti. Solo... venti minuti." disse, voltandosi nuovamente e uscendo dall'appartamento.

"E ne è valsa la pena? Eh, Mycroft? Ne è valsa la pena?!" gli urlò dietro, ma il maggiore proseguì per la sua strada.
Sherlock chiuse i pugni lungo i fianchi e serrò la mascella. Ora John poteva vedere che era davvero arrabbiato, una manifestazione di sentimenti che credeva impossibile da parte del suo migliore amico. Ma non capiva, perché se l'era presa così tanto? Per quanto spesso si beccassero, era consapevole che Mycroft sapeva quello che faceva. Non era uno sprovveduto, erano vent'anni che lavorava in quel campo e sapeva come muoversi. Era abile a trovare i giusti sotterfugi.

"Sherlock, calmati... erano solo venti minuti del suo tempo." provò a placarlo, ma l'amico lo guardò con il fuoco negli occhi.

"Tu non capisci, John. Non erano venti minuti del suo tempo. Erano venti minuti del tempo di Charlotte. Da sola. Con Magnussen."

   
 
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