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Autore: Padme Mercury    25/05/2022    0 recensioni
Una serie di brutali omicidi solletica l'interesse di Sherlock Holmes e del suo amico John Watson. All'apparenza slegati l'uno dall'altro, sono dei biglietti molto particolari che li uniscono sotto il nome di un unico assassino.
I segreti si estendono a tutta la famiglia Holmes: l'entrata in scena della giovane Charlotte cambia gli equilibri dell'appartamento al 221B di Baker Street, forse per sempre.
Sherlock si troverà davanti ad una scelta difficile che aveva sempre cercato di evitare: cuore o cervello? A cosa darà ascolto il detective?
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[N/A
La timeline è modificata rispetto alla serie originale. John è sposato con Mary anche se Moriarty è ancora vivo. Reichenbach non è ancora successo. L'età dei personaggi è leggermente modificata, così che Sherlock, John e Mycroft si trovino tutti tra i trentadue e i quarant'anni]
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo diciannove


{20.06.2006, Pall Mall, Londra}



Con la fine del terzo trimestre universitario, Charlotte era tornata a Londra a trascorrere l'estate. Un paio di giorni solamente le erano bastati per ripiombare lì dentro, il mondo degli Holmes, dove lei viveva costantemente nell'ombra dei suoi parenti più brillanti, più influenti, più tutto. Ogni volta diventava sempre più difficile tornare lì, era come se una grande nuvola nera continuasse ad avvolgerla impedendole di tenere la testa alta e lo sguardo limpido.
Non aveva parlato a suo padre dei problemi che aveva avuto nei mesi precedenti. Non aveva parlato dei buchi di memoria, gravi o lievi che fossero, né delle ben più preoccupanti allucinazioni che credeva di essersi lasciata alla spalle anni prima. Una parte di lei sapeva sarebbero tornate, avrebbe mentito se avesse detto che era stata una sorpresa. Aveva ignorato le pillole per fin troppo tempo, dando quindi ai suoi sintomi solo un conto alla rovescia per manifestarsi di nuovo. Le sembrava di essere tornata nello stesso incubo di pochi anni prima, quando non si rendeva conto dei giorni che passavano e l'unico modo per essere sicura di essere ancora viva era sentire dolore fisico. E allo stesso modo, erano tante le volte in cui non ricordava quello che aveva fatto, che si trovava a lottare contro un nemico invisibile che voleva utilizzare il suo corpo anche contro la sua stessa volontà.
Non lo avrebbe ammesso a voce alta ma aveva paura. Paura di perdere totalmente il controllo e fare qualcosa di irreparabile, di riuscire in quel tentativo di suicidio che era stato sventato per caso anni prima. Soprattutto aveva paura di far preoccupare le persone attorno a lei, di vedere la delusione nei loro occhi.


Nonostante le belle giornate, infatti, passava la maggior parte del suo tempo chiusa in camera. Non avrebbe di certo potuto difendersi da sé stessa in quel modo, ma almeno non avrebbe dato adito agli altri di parlare e darle quelli che consideravano consigli utili. Sapeva che a Mycroft quella situazione non piaceva, aveva provato ad esortarla ad uscire con lui solo per qualche istante. Era riuscito a portarla in giardino per fare due passi, ma quando lei aveva sentito un'auto passare e rallentare troppo vicino a casa, si era spaventata ed era voluta rientrare. E lei lo aveva visto. Aveva notato quella piccola torsione dell'angolo della bocca, quel mezzo sospiro e il cambio della luce nei suoi occhi. Si era sentita così in colpa, nonostante lui le avesse passato un braccio attorno alle spalle e se la fosse stretta al fianco. Si era sentita in colpa perché un lampo di tristezza gli aveva oscurato il volto e sapeva che era solo a causa sua.
Vedeva che gli stava facendo del male, che soffriva anche lui per quella situazione, e lei non riusciva a fare altro che aggravarla. Non che lo desse molto a vedere, per carità. Da fuori non era cambiato per niente, aveva sempre la stessa compostezza e lo stesso cipiglio ironico, ma lei ormai lo conosceva bene. Sapeva che quando girava l'anello che aveva all'anulare destro era in ansia, che quando drizzava la schiena e sollevava il mento era nervoso, quando tirava le labbra in un sorrisetto sarcastico era arrabbiato. E soprattutto sapeva che quando lasciava andare le spalle e si passava una mano sul volto, si sentiva sconfitto, in colpa, triste. Sentiva il leggero e impercettibile - ma non a lei - tremore delle sue dita quando le accarezzava la testa e il sospiro prima di baciarle la fronte e sapeva che era preoccupato, che aveva paura di quello che sarebbe potuto succedere.


Una parte di lei avrebbe voluto rifugiarsi tra le sue braccia. Fare come quando era bambina e aveva avuto un incubo, oppure quando era malata, l'unico momento in cui Mycroft non faceva troppe storie se chiedeva le coccole. Allora vedeva l'abbraccio di suo padre come il luogo più sicuro del mondo, l'unico posto in cui niente avrebbe potuto farle del male. Spesso si era addormentata sulla sua spalla, cullata dalla sua voce e avvolta dall'odore di tabacco e dopobarba di marca. Una parte di lei desiderava ancora provare quella sensazione di sicurezza, ma sapeva che non sarebbe stato possibile. Non c'erano mostri da sconfiggere, persone da allontanare. Il problema era lei stessa, quella malattia che, come un parassita, la stava svuotando di tutte le energie e la voglia di vivere. Quella volta, Mycroft non poteva sistemare tutto con un semplice schiocco di dita e Charlotte non sopportava di vedere quello sguardo che la trapassava da parte a parte e le faceva male e rabbia.


Passava quindi molto tempo in camera sua, sul grande letto a baldacchino posto al centro della stanza, seduta a terra sul tappeto bianco o sul balcone che dava sul giardino. In quel periodo era in fiore ed era bellissimo, pieno di colori come la tavolozza di un pittore. Una volta aveva dei fiori e delle piantine anche sul balcone, appese al davanzale, ma non aveva le forze di curarle e quindi erano morte tutte.
Guardava il soffitto bianco con decori in pittura dorata che si era fatta fare apposta dall'imbianchino, la grande libreria piena di classici, fiabe e altri volumi che amava leggere - non aveva mai individuato un genere preferito, passava volentieri dall'horror di Stephen King ai romanzi leggeri di Sophie Kinsella. Ogni tanto si rifugiava anche nella cabina armadio, dove cercava di trovare una scusa per uscire di lì provandosi diversi vestiti ma senza mai riuscire a raggiungere il suo obiettivo.
Evitava di guardarsi allo specchio, soprattutto dopo averlo fatto per errore un giorno mentre era in bagno. L'immagine che le venne restituita le fece paura, stentava a credere di essere lei. Aveva delle occhiaie marcate e le iridi totalmente spente. John le aveva detto più volte quanto fossero belli i suoi occhi, chissà cosa avrebbe pensato nel vederli così. Il color ambra che li caratterizzava ora non era niente più che un marrone chiaro, quasi opaco. La pelle tirava stanca e con un colorito più vicino al grigio che al rosa, mettendo in evidenza gli zigomi e le ossa della mascella. Aveva pianto davanti a quell'immagine, continuando a ripetersi che non era lei, non poteva essere lei. Lei era più bella, non sembrava un cadavere, non era possibile, dannazione, lei mangiava! Aveva fatto talmente tanto rumore che Mycroft non aveva potuto fare finta di niente ed era entrato. L'aveva vista davanti allo specchio sconvolta, a pezzi e se l'era stretta al petto. Le aveva accarezzato i capelli e le aveva sussurrato di calmarsi, che andava tutto bene, riuscendo in qualche modo a nascondere il tremore della voce e il battito accelerato del cuore. Era quasi riuscito a calmarla, quando lei realizzò che era giorno, che lui doveva essere al lavoro e invece era a casa per badare a lei, per colpa sua, e scoppiò nuovamente in lacrime tra le sue braccia. Gli ripeteva di lasciarla pure lì, che se la sarebbe cavata da sola, che doveva andare a lavorare, ma al contempo si aggrappava di più a lui come se avesse avuto paura che se ne sarebbe andato davvero.


Non la lasciò, continuò a svolgere le sue mansioni da casa. Il solo pensiero di dover uscire e non poter intervenire tempestivamente se si fosse fatta male, gli faceva pesare il cuore. Non era pronto a tutto questo quando aveva saputo che avrebbe dovuto fare il genitore. Sapeva che sarebbe stata dura, per carità, ma non sapeva si sarebbe sentito così coinvolto. Non si aspettava di vedere la propria felicità basata su quella di un'altra persona, quasi di vivere per un'altra persona. Eppure ogni volta che la guardava, si diceva che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa per lei. Avrebbe voluto proteggerla da tutto, anche da se stessa, ma aveva fallito e ora lei stava così male. Aveva sbagliato, continuava a sbagliare e Dio solo sapeva quanto avrebbe ancora sbagliato in futuro. Le aveva rovinato la vita? Avrebbe dovuto affidarla ad altri, come voleva fare all'inizio? Forse sarebbe stato meglio per lei, sarebbe cresciuta più equilibrata e con una famiglia capace di offrirle amore e stabilità. Però... Non riusciva ad immaginarsi una vita senza di lei, senza tutte le cose che lo facevano arrabbiare e che lo facevano ridere.
Voleva aiutarla, ma come poteva fare? Tutto sembrava solo peggiorare la situazione, o la faceva crollare o la faceva arrabbiare. Era come camminare sulle uova cercando di non romperle, e lui aveva già fatto una frittata.


Quella sera del 20 giugno minacciava pioggia. Il cielo era scuro sin dal pomeriggio e si sentiva elettricità nell'aria, talmente tanta che si preannunciava un temporale estivo coi fiocchi. A Mycroft solitamente non dispiaceva sentire scrosciare l'acqua e il potente rombo dei tuoni, ma aveva fatto sostituire le finestre di casa per avere vetri più spessi siccome Charlotte, da bambina, ne era terrorizzata. In quel modo il rumore era attutito e lei riusciva a dormire o a stare tranquilla durante il maltempo. La prima volta che aveva assistito ad un temporale aveva appena cinque mesi ed era scoppiata in un pianto così forte e così terrorizzato tra le braccia di sua madre che Mycroft aveva avuto paura le sarebbe scoppiata la testa per lo sforzo.
Anche quella sera la testa di Charlotte sembrava sul punto di scoppiare. La guardava mentre erano a tavola, la bistecca di tonno con le verdure ancora intoccata sul piatto della ragazza. Era scesa con le migliori intenzioni, poteva giurare di sentirsi addirittura meglio. Si era ripromessa di essere più morbida, di sforzarsi, di pensare a quanto male gli avrebbe fatto, ma una volta entrata in cucina loro cominciarono ad urlare. Si teneva la testa tra le mani, appoggiata sul tavolo come se fosse l'unico appiglio alla realtà, mentre si sentiva le orecchie invase da urla e risate e il mondo perdeva velocemente i suoi colori. Aveva sentito da lontano il tentativo di dialogo di Mycroft e forse lei gli aveva risposto, gli aveva detto qualcosa che non aveva sentito e non aveva pensato. Si chiese se davvero era in quella posizione, se non se la stesse immaginando e magari era seduta tranquilla a cenare come se niente fosse.
Respirare era sempre più difficoltoso, quasi come se fosse chiusa in una bolla la cui aria stava esaurendosi. E poi sentiva una rabbia che nasceva dalle viscere, una furia cieca a cui non riusciva a dare un'origine, un perché. Sapeva solo che era arrabbiata, furiosa. Strinse di più le dita attorno ai capelli, graffiandosi la cute, ma non sentì il minimo dolore. Si morse il labbro inferiore, soffocando... Cosa? Un singhiozzo, un ringhio, un urlo? Si sentiva come un pupazzo conteso tra diversi bambini, una marionetta mossa da mani diverse. Era come se qualcuno che non era lei volesse piangere attraverso i suoi occhi, come se un'altra persona volesse urlare con la sua bocca. Le era capitato altre volte e lo odiava. Preferiva quando perdeva totalmente il controllo e si risvegliava in seguito, perché faceva meno male. Ma così... Così si sentiva lacerata, tirata in direzioni diverse, fuori posto all'interno del suo stesso corpo.
Farsi del male era l'unico modo in cui riusciva a tornare in sé. Per questo motivo si mordeva, si era tagliata in passato, si conficcava le unghie nella carne. Qualsiasi cosa le facesse provare dolore fisico era bene accetta perché le ricordava che quel corpo era suo ed era lei ad avere il controllo. Anche quando si era ferita con le forbici stava vivendo uno di quegli episodi, talmente forte da arrivare quasi a mutilarsi.


Percepiva Mycroft che parlava, ma non capiva quello che le stava dicendo. Probabilmente gli aveva risposto, perché aveva sentito le labbra muoversi, ma allo stesso modo non riusciva a sentire le sue parole. Aveva la vista annebbiata e faticava a distinguere i lineamenti del padre, il modo in cui teneva le spalle e come la guardava.
Sussultò quando sentì la sua mano sulla spalla. Stringeva piano, ma era abbastanza per farsi sentire e farla tornare quel minimo in sé per girarsi e guardarlo negli occhi. Deglutì a vuoto, abbassando piano le mani sul tavolo. Mycroft le osservò gli occhi, grandi e terribilmente liquidi in quel momento, le labbra strette e le narici che si allargavano seguendo il ritmo accelerato del suo respiro.


"Lotte, non hai toccato cibo. Dovresti mangiare qualcosa." le disse con tono pacato, ritirando la mano senza fare gesti bruschi.


Charlotte abbassò lo sguardo sul piatto. L'idea di mettere qualcosa sotto i denti le faceva venire da vomitare. Storse il naso.


"Non ho fame." sentenziò, il tono più freddo di quanto volesse. Mycroft sospirò.


"Ma devi mangiare, almeno un po'. Lo sai, e in più me l'hai promesso."


Charlotte sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto amaro, poi girò la testa nella sua direzione.


"È tutto quello che hai da dirmi? 'Me lo hai promesso', come una ragazzina che sta pregando il suo fidanzato?" chiuse e aprì più volte i pugni sul tavolo, come se quel movimento servisse a scaricare almeno una parte delle sue energie. "Patetico..." sbuffò, abbassando lo sguardo sul piatto ancora intatto.


Vide con la coda dell'occhio la mascella di Mycroft contrarsi e non riuscì a trattenere un sorrisetto. Una parte di lei, quella che aveva il controllo in quel momento, voleva farlo arrabbiare. Voleva mandarlo fuori dai binari, fargli perdere la testa, sfogare su di lui tutta la rabbia e la frustrazione che provava. Ma c'era anche l'altra parte, quella che tentava di trattenerla e che non voleva fargli del male. Quella che desiderava solo mangiare quel benedetto tonno ormai gelido e fare contento quell'uomo che, in fondo, non desiderava altro che vederla star bene.


"Farò finta di non aver sentito." la redarguì con tono severo, poggiando il bicchiere che aveva appena svuotato da un buon pignoletto.


Charlotte sbuffò una risata amara.


"Come tutte le cose che non ti piacciono, no?" piegò le dita sulla tovaglia, spingendo talmente forte con le falangi da far diventare le dita bianche. "A proposito, simpatici quelli della segreteria, no? Quante lezioni hanno detto che ho perso?" esclamò ironica, quasi cattiva.


"Non mi sembra il momento di parlare di queste cose." replicò secco, cercando di evitare di darle un motivo per cui scattare nuovamente. Sapeva, però, che sarebbe stato impossibile farla calmare del tutto, non in quel momento. Lo vedeva dai suoi occhi, così diversi dal solito, così
(cattivi, feroci)
scuri.


"Parliamo allora di dov'eri quando mi sono fatta questo." gli chiese aggressivamente, indicandosi l'incavo trocleare dove ancora si vedeva il segno della ferita. Mycroft seguì il suo dito apparentemente senza interesse, ma si costrinse a non torcere le labbra appena il suo sguardo incontrò la crosta che faticava a rimarginarsi del tutto a causa delle scarse condizioni di salute di Charlotte.


"Sai che non posso assentarmi troppo a lungo da Londra, il lavoro ne risentirebbe." pronunciò, non molto convinto delle sue stesse parole. Cercava di non pensare a quella che era sicuro fosse stata la scena, al sangue (Dio, quanto gli faceva rivoltare lo stomaco il pensiero del sangue) e al panico percepibile dalla sua voce.


"Ah, ma certo, il lavoro! È sempre più importante quello, non è vero?" girò la testa e sbuffò una risata amara. Tornò poi a guardarlo, sempre dura, sempre arrabbiata. "E chissenefrega se nel frattempo muore qualcuno, non è vero?" ringhiò, sporgendosi sul tavolo verso di lui. "A te non frega un cazzo di nessuno se non te stesso, no? L'importante è che non ti si metta in mezzo al tuo importantissimo ed essenziale lavoro, vero?"


"Stai esagerando adesso." replicò fermo, rimproverandola con lo sguardo. Charlotte ringhiò.


"Io sto esagerando?" diede un colpo secco al piatto che finì dritto a terra, seminando in giro pezzi di ceramica, tonno e verdure.


Mycroft sospirò e si alzò in piedi, sistemandosi il polsino della camicia candida. Guardò, serio e severo, Charlotte, senza alcuna voglia di sgridarla. Non in quel momento, almeno, non quando non era in grado di capire. Lo vedeva dai suoi occhi, dal suo modo di serrare la mascella e di respirare. Non era in lei in quel momento, era un'estranea che indossava la sua pelle. Temeva sarebbe arrivato il momento in cui lei non sarebbe riuscita a controllarsi e lui non sarebbe riuscito a fermarla. Il punto di non ritorno, così lo aveva chiamato spesso tra sé e sé e anche con Sherlock.
Ma era stato troppo ottimista, troppo fiducioso e non era riuscito a prendere provvedimenti anticipati. Adesso l'unica cosa che gli rimaneva da fare era la terapia d'urto. Anche Sherlock era arrivato al punto di non ritorno con le droghe e Mycroft era riuscito a riportarlo indietro. Lo aveva letteralmente salvato, sia da quelle sostanze che da sé stesso. Perché non avrebbe dovuto farcela anche con lei? Aveva già in mente tutto il piano sin nei dettagli. Questa volta non si sarebbe accontentato della prima diagnosi presentatagli, avrebbe preteso esami più approfonditi. Non avrebbe più chiuso un occhio davanti alla reticenza di Charlotte, non si sarebbe fatto impietosire dalle sue lacrime e le sue preghiere di lasciarla stare. Sapeva che si sarebbe sentito male nel sentirla urlare e piangere, ma era disposto a farlo pur di proteggerla. Era una decisione che spettava a lui e lui solo, e Dio solo sapeva quanto fosse stato difficile prenderla, quanto fosse difficile guardare negli occhi la propria figlia e sapere che avrebbe dovuto farle più male di quanto potesse immaginare per farla rifiorire.


Si avvicinò piano a lei, tenendo le dita della mano destra appena appoggiate sul tavolo. Alzò appena gli occhi al cielo, come faceva sempre quando cacciava indietro il nervoso (e cos'è quello, Myke? Un groppo in gola? La voglia di piangere? Quanto sei debole e patetico).


"Vai in camera tua, qui ci penso io." le disse piano, senza rabbia ma con tono fermo.


Le passò accanto, in direzione del piatto rotto - non le avrebbe permesso mai di raccogliere i cocci, avrebbe potuto tagliarsi - ma si girò di scatto appena sentì del movimento. Bloccò a mezz'aria senza fatica il polso della ragazza, tenendo ben fermo il braccio. Alla luce giallastra della lampada brillava la lama del coltello, troppo piccolo e arrotondato per fare dei danni reali ma che avrebbe comunque lasciato il segno a giudicare dalla forza con cui lo impugnava.


"Charlotte..." pronunciò piano, in in soffio.


"Tu non ci sei mai!" gli urlò contro, cercando di muovere il braccio invano.


Appena ebbe finito di parlare, un tuono rimbombò tra le pareti della cucina. Era scoppiato il temporale e non se ne erano neanche accorti. Guardò ogni minimo movimento, anche involontario, del volto della ragazza, qualcosa che gli dicesse che Charlotte, quella vera, era ancora lì. Ma non riusciva a distinguerla, a ritrovare i suoi lineamenti. Quando era piccola, ricordava, aveva paura del temporale. Aveva circa due anni e l'aveva trovata nascosta sotto le coperte che tremava e con i lacrimoni agli occhi. Si ricordava di aver trovato curioso quel modo di comportarsi e aveva provato a spiegarle da un punto di vista scientifico e fisico cosa fossero i lampi e i tuoni. Lei lo aveva guardato con gli occhioni spalancati e l'aria di chi non stava capendo niente di quello che sentiva. Si era poi udito un altro schiocco di tuono e lei si era rifugiata tra le sue braccia, aveva nascosto il faccino contro il suo addome con le labbra e gli occhi ben stretti e lui aveva perso il filo del discorso.
Guardandola in quel momento, non riusciva più a rivedere quella che era stata la sua bambina. In quegli occhi lucidi, duri come l'ambra e pieni di rabbia non riconosceva la dolcezza che la caratterizzava anche quando aveva tutti i diritti per odiare chi la circondava. Davanti a lui c'era una donna malata, ferita, arrabbiata. Una donna che ne aveva avuto abbastanza, i cui zigomi erano ormai ben più sporgenti delle guance e i cui capelli, una volta belli e lucenti come l'oro, somigliavano più a della paglia secca.


"Lo so." ammise a voce bassa. "Lo so, Lotte, e mi dispiace."


Charlotte sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto ironico, di scherno. Puntò gli occhi in quelli grigi di lui e poté percepire il brivido che gli corse lungo la schiena. Oh, lo odiava, lo odiava come non le era mai successo in vita sua e ogni parola che lasciava le sue labbra era
[vera, è davvero dispiaciuto]
una menzogna.


"Ti dispiace? Forse doveva dispiacerti tempo fa, non credi? Forse non dovevi abbandonarmi tutte le volte che lo hai fatto. Forse dovevi ricordarti che a casa c'ero anche io!" gli ringhiò contro, cercando di muovere di nuovo il braccio, ma la presa di Mycroft era troppo forte per lei.


La guardava e una parte di lei riusciva a capire cosa si nascondeva dietro le iridi. La parte di lei che cercava di fermarsi, che sentiva come se un'altra persona stesse usando il suo corpo per parlare e fargli del male. Quella parte di lei che stava lottando per riprendere il controllo ma continuava ad essere cacciata indietro, ammutolita, perché lei odiava
[papà ti prego, guardami, sono qui, aiutami]
l'uomo che le stava di fronte.


"Lo so. Ho sbagliato tanto con te, me ne rendo conto. Mi dispiace davvero, stellina, non avrei voluto arrivare a tanto." replicò calmo. Quello che gli diceva, che gli stava urlando contro, non era altro che il dolore di anni passati a elemosinare attenzioni, di innumerevoli tentativi di farsi vedere e sentire oltre le barriere che Mycroft aveva costruito per dividersi dal mondo intero.


Charlotte sembrò calmarsi per un istante. Un solo, unico e minuscolo istante in cui Mycroft fu in grado di ritrovare quella ragazza che pareva ormai persa nelle pieghe della sua mente. Riuscì quindi a farle cadere il coltello a terra e gli tirò un calcio, così da allontanarlo da lei, poi allentò la presa suo suo polso. Stava quasi per darle una leggera carezza sulla guancia quando la bocca di Charlotte formò una smorfia che voleva essere un sorriso ironico e la luce estranea di prima le invase nuovamente gli occhi.


"Ma che bravo attore, Mycroft. Bravissimo. Ma non ti credo, sai?" si alzò sulle punte dei piedi, così da essere più alla sua altezza. "Tu sei un bugiardo, Mycroft Holmes. Non hai fatto altro che mentirmi per tutta la vita e vuoi che adesso creda che sei dispiaciuto? Tu? Hah!" rise sprezzante, poggiando le mani sulle sue spalle e dandogli una spinta all'indietro.


Mycroft riuscì a mantenere l'equilibrio e alzò le mani mostrando i palmi. Sospirò e abbassò la testa, scuotendola un paio di volte prima di risollevarla e guardare la ragazza negli occhi.


"Vai di sopra." disse piano, serio. Charlotte sbuffò una risata ironica.


"Pensi di potermi comandare? Sei veramente un idiota se--"


"Ora!" tuonò, allungando un braccio verso la porta della cucina.


La ragazza rimase per un attimo in silenzio, le labbra serrate e i pugni chiusi lungo i fianchi. Passarono alcuni secondi prima che lei avanzasse qualche passo. Gli puntò il dito contro, picchiando sul suo sterno come se volesse bucarlo.


"Ma chi ti credi di essere? Tu... oh, non hai idea di quanto tu mi faccia pena ora. Vuoi fare il duro, quello che ha tutto sotto controllo, ma guardami!" sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto di scherno [guardami, ti prego sono qui, sono dietro di lei]. "Guardami! Ti tengo in pugno come una puttanella. E hai anche il coraggio di darmi ordini?" [non le credere, lei non è me] "Ancora non lo hai capito che tu non sei niente per me? Niente." [non crederle, papà, ti prego! Io ti voglio bene, tu sei il mio papà] scandì bene le parole, indietreggiando di qualche centimetro.


Guardò il suo sguardo mutare, un lampo di dolore attraversarlo e lei ne fu [devastata, addolorata] deliziata. Quella vista le fece allargare ancora di più il sorriso, tanto che ormai sembrava una di quelle maschere da film dell'orrore. Una parodia grottesca di quella che una volta era stata una bellissima ragazza con gli occhi grandi. Stava davvero facendo soffrire l'uomo che le aveva asciugato le lacrime da bambina, le metteva i cerotti sulle ginocchia sbucciate e non l'aveva mai lasciata quando era in ospedale?
Sentiva i muscoli delle braccia e delle gambe induriti dalla lotta che aveva ingaggiato con se stessa. Lei, Charlotte, le stava tenendo indietro, ferme, mentre chiunque fosse la persona che Mycroft aveva davanti voleva lanciarsi in avanti, voleva lo scontro diretto. Quella situazione faceva male, un male fisico a cui non era abituata e che era lacerante, come se si stesse letteralmente dividendo in due. Si piantò le unghie nei palmi e, forse, quel gesto bastò a farla tornare in sé quel tanto che bastava per permetterle di uscire di corsa e precipitarsi nella sua stanza.


Si chiuse la porta alle spalle e si portò le mani tra i capelli. Aveva il respiro affannato con un leggero fischio, come se facesse fatica ad inspirare e avesse bisogno di un aiuto. Si guardò intorno, quasi come se vedesse quella stanza per la prima volta nella sua vita. Si inumidì le labbra e sospirò, posando lo sguardo sulla finestra e il grande albero che stava appena fuori. Un mandorlo stupendo, bianco e rosa quando era in fiore, ma i cui frutti erano pieni di cianuro. Lo aveva usato da ragazzina per uscire di nascosto e anche quella sera sembrava la sua unica via di fuga.
Aprì in fretta la portafinestra e uscì sul balcone. Le gocce di pioggia le colpivano violente il volto, ma lei teneva gli occhi bene aperti. Si sporse sul davanzale e, con un piccolo salto, si aggrappò al ramo dell'albero. Sapeva che era pericoloso, che avrebbe potuto farsi male, ma non vedeva altra soluzione. Uscire dalla porta avrebbe significato incontrare Mycroft e dovergli parlare, dovergli spiegare. Riuscì a spostarsi sui rami sempre più bassi finché con un piccolo salto atterrò sull'erba morbida e bagnata. Guardò per un ultimo istante la sua finestra aperta, la luce che ne usciva, poi corse via.


Si lasciò alle spalle quella casa, quel senso di colpa e la consapevolezza che Mycroft non l'avrebbe più guardata come prima. Corse sotto la pioggia, tiranna egualitaria che lavò via ogni sentimento negativo, ogni traccia di quel parassita che aveva preso il controllo poco tempo prima. Ignorò gli sguardi di alcuni passanti, ben coperti dai loro impermeabili e dai loro ombrelli, mentre lei non aveva neanche una giacca, niente a proteggerla dal freddo e dal vento.
Quando si fermò, sotto la luce arancione di un lampione davanti al London Beatles Store, si accorse che il volto non era bagnato solo dalla pioggia, ma anche dalle lacrime. Si guardò attorno e parve rendersi conto solo in quel momento di dove si trovasse. Attraversò la strada e si affrettò a bussare alla massiccia porta di legno che conosceva così bene. Non guardò in faccia la donna che le aprì, ma corse su per le scale e picchiettò contro la porta. Non stavano dormendo, aveva visto le luci accese, almeno uno doveva...


Alzò la testa quando vide la porta aprirsi e quasi la luce del lampadario le ferì gli occhi. Sentì nuove lacrime velarle la vista, lacrime di colpa e di dolore per quello che aveva fatto. Incrociò lo sguardo di Sherlock, che la guardava con le sopracciglia corrugate come se non capisse perché si trovava lì. Ma lo sapeva, lo sapeva benissimo, gli era bastato un solo sguardo per capire tutto.


"Zio..." mormorò, poi gli gettò le braccia attorno e nascose il viso contro il suo petto. Sherlock rimase immobile per un istante, poi mosse la mano destra per fare segno a John di non muoversi. Le passò un braccio attorno e la tirò dentro casa, così da chiudere la porta alle sue spalle.


 

   
 
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