Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: kanagawa    17/05/2022    0 recensioni
“Sarai forte e sarai saggio, e sarai il più coraggioso degli uomini.”
Quando lo senti muovere, riesci a non pensare al futuro.
Genere: Drammatico, Omegaverse, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Kenny Ackerman, Sorpresa, Uri Reiss
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Mpreg
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Parte 2


Dopo il risveglio il tuo corpo ha cominciato a recuperare velocemente.
Il tuo metabolismo brucia con rinnovata energia, come se avesse fretta di vivere, e senti come se ogni cellula della pelle fosse rinata con te, quella mattina, respirando l’aria di un mondo nuovo.
Quando ti sei guardato allo specchio hai trovato il tuo addome sorprendentemente piatto. Nemmeno una cicatrice, la pelle liscia e tonica.
Il tuo intero organismo si è rimesso in moto, silenziosamente, dandoti tutto l’apporto necessario per far fronte ai rapidi mutamenti, dai più piccoli e sorprendenti a quelli più eclatanti e inaspettati...
 
Il giorno dopo che è anche la vigilia di capodanno, a pranzo, Kenny ti mette di fronte un barattolo di pesche sciroppate e tu le guardi sbavando indecorosamente. 
Pensi che siano la cosa più buona che tu abbia mai mangiato.
“Come lo sai che è il mio compleanno?” 
Lui ti fissa con un’espressione blanda. Non lo sapeva... Aggrotta la fronte. “A chi vuoi che importi di certe sciocchezze?” E avrebbe continuato a dimenticarlo anche in seguito... “Io non ho mai saputo il mio!”
Inarchi le sopracciglia, incredulo. “Sul serio?”, e ti senti in colpa senza motivo... Ti dispiace, gli dici.
“E perché?” Kenny storce la bocca, “a me no.” E distoglie lo sguardo. “Non è importante,” si schiarisce la gola. “Non lo è, da dove vengo io...”
Certo. Chissà perché non lo tieni mai in conto... È solo che a volte te lo dimentichi.
“Anche se, mia sorella,” intrecciando le sue dita le posa sul tavolo, mentre le fissa con fare assorto, “lei, da piccola faceva un gioco: quando aveva scoperto l’esistenza dei compleanni, aveva deciso che un giorno a caso della settimana, il martedì, sarebbe stato il suo giorno speciale e ci obbligava tutti a stare al gioco,” solleva una spalla scrollando il capo, “aveva 6 anni, e io 11...” Ha sempre un’espressione intenerita o incazzata, o entrambe insieme, quando parla di lei. “E poi il vecchio ce lo fece smettere perché insultavamo la memoria di nostra madre...” conclude, senza mancare di mandare al diavolo il defunto patriarca.
Non è mai stata una questione di fiducia. Non è semplicemente nella sua natura, farti confidenze delle sue vicende personali, anche ora; e anche quando dice che non gli importa, in cuor tuo, sai che non è così...
Mentre lo ascolti, il tuo sguardo cala inconsciamente sul tavolo apparecchiato - uno come ce ne sono tanti al mondo, di fronte a cui si siedono famiglie di ogni genere ed estrazione sociale - vagliando sovrappensiero il triste elenco di stoviglie che lo compongono: una coppia di scodelle smaltate, vecchie posate dall’aspetto consunto e una teiera tutta sbeccata. “A casa nostra, invece, c’erano sempre dei compleanni da festeggiare,” lo ricordi con un sorriso appena accennato. “C’erano quelli di mamma e papà, festeggiavamo anche quelli della cuoca e del maggiordomo, e il mio, e quello di Rod, e poi sono arrivati i figli di Rod e sono davvero un mucchio...!” Un principio di risate che si spegne all’insorgere, lasciandoti dell’amaro in bocca. 
Prima che capitasse tutto questo... Concludi nella tua mente. Ma sai che non puoi più tornare a quei giorni. 
Nonostante quello che ti ha fatto, non sei mai riuscito a odiarlo del tutto, tuo fratello, ne provi solo tristezza.
Kenny scorge il velo di malinconia nei tuoi occhi, ma non dice niente; è una delle cose che ami di più di lui.
“Levi, però,” tiri sù con il naso, sforzandoti a sorridere nuovamente. “Levi potrà festeggiare il suo!” E sai che ne è valso tutto il dolore e le perdite di questo mondo. “E sarai tu a ricordarglielo, va bene?”
Lui ti guarda incerto, un sopracciglio inarcato sopra il filo della tazza inclinata. “Ci proverò...”
 

Kenny ha costruito una culla per il bambino con del legname buono che gli hanno regalato certi tizi della segheria a valle. Ha comprato un barattolo di vernice e lo ha pitturato, scartavetrato con pazienza la superficie per renderla meno abrasiva. 
Ed è venuta inaspettatamente bene, un po’ rudimentale ma solida. Ti chiedi se esista qualcosa che non sappia fare... 
 
“Non è che ora gli spunteranno le ali o una coda?” Una domanda sciocca.
Dopo averla inaugurata posandoci dentro il suo piccolo ospite, ve ne state piegati tutti e due sopra la culla, a osservarlo mentre lui sbava, si dondola sulla schiena e si mette un piede in bocca con aria beata e ignaro.
“È pur sempre tuo figlio,” aggiunge elusivo. Vorresti ricordargli che i Titani non sono fenomeni da circo, perché si sta figurando di certo in testa un classe 15 metri tutto muscoli e ruggiti con in spalla il suo minuscolo padre umano, e il peggio, è che l’idea non sembra nemmeno dispiacergli...
L’abbozzo di un sorriso trasudante di pazienza e un sospiro. “Non è così che nascono i Titani, credimi...” Lo rassicuri.
Kenny aggrotta la fronte. “E come nascono?”
Da te, nessuna replica. Fingi di non averlo sentito, facendo agitare un orsetto di pezza sopra il bambino...
 
Levi è nato pretermine ma perfettamente sviluppato, e sano; pesa leggermente meno della media, come deduci dai libri, ma sta crescendo bene. 
È un bambino perfettamente normale e di questo sei grato al cielo. Se qualcuno tenterà di sottrargli questa normalità, dovrà passare sul tuo corpo... Sentimenti così arditi non ti avevano mai sfiorato prima d’ora. E lo difenderai a spada tratta, lo giuri su Sina, Rose e Maria, fino al tuo ultimo respiro:
 
A costo... di buttare giù quelle Mura.
 
 

“Oi, Uri,” Kenny bussa alla porta. “Va bene che ti vuoi chiudere dentro, ma ricordati che abbiamo solo una stanza e qua fuori fa piuttosto freddo!”
Gli hai chiesto solo un attimo di privacy e qui dentro non si sta facendo di certo progressi...
Quando la scorsa notte ti ha stretto a sé, qualcosa lo ha indotto ad allontanarsi qualche secondo dopo, leggermente stranito. “C’è qualcosa che non va...” così dicendo ha cominciato a tastarti il petto da sopra la camicia, con entrambe le mani e una faccia stoica, scoprendolo.. assurdamente rigonfio. 
“Sei più abbondante di quanto ricordassi.” Sei divampato. “Non che mi dispiaccia!” 
Hai schiaffato via le sue mani, “smettila!” e nascosto il busto dietro le braccia per il picco di disagio.
È stato mortificante. 
Il torace ti fa male da un paio di giorni, ma non hai voluto dargli peso, finché le tue camicie hanno cominciato a macchiarsi in quei due punti specifici, e il suo continuo occhieggiarti non è stato d’aiuto...
Superato lo shock iniziale, hai deciso di accettare l’accaduto come parte di un processo biologico, come succede del resto alla maggior parte dei mammiferi... E senti il bisogno di una vanga con cui sotterrarti, a questo punto. 
È il tuo stesso corpo a provvederlo. È una reazione naturale alla vicinanza del bambino, presenza che al tempo stesso ti allevia e di cui non puoi più farne a meno; come tu gli sei necessario, sebbene non indispensabile. 
Ti chiedi se anche questo tuo istinto protettivo sia insito solo nei primi mesi di vita del neonato, o qualcosa di molto più radicato e ancestrale, che da sempre fa parte di te, e se lui in qualche modo lo ricorderà sempre...
Dall’altra parte, non è stato facile convincerlo. Ha fame e strilla, strilla tanto, ma non vuole saperne di collaborare. Non capisci dov’è che sbagli e perché sia così complicato farlo abituare al tuo seno, eppure il latte di capra ha saputo subito come consumarlo... o forse preferisce l’odore di Kenny, peccato non sia lui il produttore ambulante di latte materno.
Dopo una decina di tentativi, se non di più, cambiando continuamente postura e angolazioni in cerca di quella più congeniale a entrambi, la piccola testa caparbia finalmente cede e comincia a intuire la meccanica. 
Sugge energicamente dai tuoi capezzoli irregolarmente turgidi, le palpebre socchiuse con beatitudine. Sospiri, e sul tuo viso si dilata un’espressione trionfante, “lo vedi che ci intendiamo?” Si affanna così per una decina di minuti e sembra sul punto di addormentarsi.
Sei così stanco che non hai energia per sentirti ancora in imbarazzo, oltre che mezzo sordo...
 

E dopo diverse settimane dal trauma del parto, sei finalmente pronto a riammetterlo nel tuo letto.
Il bambino dorme tranquillo nella sua culla; una vera rarità, in effetti, solo perché ha rotto le scatole tutto il giorno e prima che la prossima poppata suoni l’allarme del risveglio, avrete qualche ora di pace e solitudine.
È stato strano toccarsi di nuovo dopo tanto tempo. Sei mesi di forzata astinenza che hai imposto ad entrambi, e non ti è ancora molto chiaro il motivo.
È una notte fredda e il fuoco crepita nella stufetta. Trattenete il fiato per non svegliare il piccolo, e ogni sensazione - ogni brivido o sussulto - sembra più intensa, vivida... così dolce e appagante da farti dimenticare ogni residuo di quella notte spaventosa, avvolgendo il dolore e la paura, e levigandoli fino a sbiadirne i contorni nefasti, lasciandoli scorrere via insieme al fiume dell’orgasmo, ancora e ancora... 
Ne hai avuto bisogno, pensi, per ritrovare possesso del tuo corpo, di te stesso. E convincerlo che la sua ansia, non del tutto immotivata, di poterti in qualche modo rompere era totalmente infondata. Così lo hai guidato dentro di te e lo hai tenuto stretto tutta la notte, sospirando il tuo piacere, per guarirlo dalle sue reticenze, dall’odore del sangue e dalla morte...
“Questa notte la morte e il dolore non ci toccano...” 
Perché i vostri cuori bruceranno e saranno impavidi. 
“...Stanotte la morte resta fuori, e noi siamo vivi.”




A volte ti perdi a osservarlo, in adorazione anche per uno starnuto. E non ti capaciti di averlo fatto tu, una cosa così bella e fragile e perfetta.
La sua capigliatura si infoltisce poco a poco, a partire dal centro, il disegno della crescita dei capelli è come un minuscolo tornado.
Ha la pelle estremamente chiara, come te, e facile agli arrossamenti. Sorride, come te.
Ti segue con lo sguardo mentre ti muovi nella stanza e cerca di dirti qualcosa. Gli piace ancora sentirti cantare.
Si addormenta sulla pancia di Kenny che crolla sempre nelle posizioni più strane, e si lamenta se provi a riportarlo alla sua culla. Ha fatto sua la tua pashmina bianca, che è un connubio affascinante del tuo odore e di rigurgiti di latte, e la difenderebbe con unghie e denti se li avesse.
Di fronte a casa l’albero di susino ha messo i germogli. A marzo la neve comincia a sciogliersi sulle colline e le sorgenti gorgogliano di vita. C’è stato sole ogni giorno, così la fioritura è avvenuta in anticipo.
Se non c’è troppo vento lo porti fuori in braccio e gli mostri i grappoli di boccioli rosati che tendono lungo i rami, insegnandogli i nomi delle piante e dei fiori mentre glieli indichi con il dito, ma non sei sicuro che lui capisca. Levi guarda con assente curiosità ogni cosa, e se è stanco te lo fa capire con un mugolio e tu vedi il pianto arrivare nel corruccio della sua fronte...
Il tuo pensiero ritorna a quel laghetto al confine della tenuta, alle sue acque immobili, alle frange di nebbia che sfilacciano dalle chiome dei coniferi alla riva opposta. 
Quel luogo avrà sempre un posto speciale nel tuo cuore. 
Un giorno, forse, gli ci porterete e lo vedrà anche Levi... Questo pensiero, il desiderio, anche se precoce e vago, ti rincuora, e fa sembrare tutto questo più reale. Se esiste al mondo qualcosa che possiate lasciargli in eredità - che si tenga pure i suoi poderi e i suoi magioni, Rod... - allora è senz’altro quel lago: quel posto che in fondo non ha neanche un nome, e che non si trova su nessuna mappa, le sue bianche sponde baciate da lenti flutti, su cui si proiettano ancora le vostre pallide ombre come fantasmi intrappolati nel tempo...
Laggiù sarete per sempre giovani, e nulla al mondo potrà cambiarlo.
 

 
*
 

Kenny è preoccupato.
Giù al villaggio ha avuto impressione di essere seguito. Credi che abbia le traveggole, ma il suo istinto non sbaglia mai.
Così prima che possiate prenderne atto, avete già raccolto le vostre poche cose schiacciandole in fondo alla sacca e svuotato la casa. 
Entro sera avete raggiunto il crinale opposto, tagliando attraverso le radure boschive con il bambino in braccio, su strade secondarie note solo ai pastori della zona.
Sorge una pallida falce di luna. Sulla fiancata scura della montagna, punti di fiamme si snodano lentamente lungo i sentieri, come se galleggiassero nel liquido pece della notte.
Il cuore ti tamburella follemente nel petto. Non vi guardate indietro.
 
Hai il fiato corto. “Kenny, non ce la faccio...” annaspi e ti fermi, le tempie pulsanti di dolore. 
Il moro si volta da una decina di metri, un piede sopra il masso, sembra accorgersi solo in quel momento di averti lasciato indietro; il terreno è scosceso e accidentato, ma i suoi passi felpati lo sorvolano quasi che riuscisse a vedere al buio, mentre tu arranchi pesantemente, e potrebbe proseguire così fino all’alba senza il minimo segno di affaticamento, ma tu no. “Accampiamoci.” Da lì dov’è guarda al di là delle tue spalle, nella direzione da cui siete emersi, la folta oscurità della foresta che sembra inghiottire il suo sguardo. “Abbiamo un po’ di vantaggio. Non faranno molta strada con queste tenebre.”
Ti accasci sulle radici di un albero, totalmente esausto. Scosti di poco la mantella per accertare che lui stia bene e sorridi vedendo il suo visino addormentato: non si è svegliato nemmeno una volta. Premi le labbra tra i suoi capelli, forte e a lungo, e lo stringi di più contro il petto. La notte è fredda.
Bevete un po’ d’acqua dalle borracce. Non hai per niente appetito. Kenny attizza un piccolo falò. Mentre dormi, lui studia le mappe.
“Dimo Reeves,” ringhia sottovoce. “Quando lo rivedo lo ammazzo!” 
Di persona non lo hai mai incontrato, sai per conto di Kenny che è un mercante di città e che i suoi introiti derivano principalmente dagli appalti dei distretti di frontiera come Shiganshina: più alto è il rischio e maggiore è il guadagno, ed è seguendo questa linea filosofica che ha deciso di aiutarvi.
“Come fai ad essere sicuro che sia stato lui?” ti senti pronunciare; hai steso una coperta a terra e ti sei raggomitolato nel tuo mantello, ma non riesci a prendere sonno.
Il suo sguardo di mercurio liquido si posa su di te. “Se si sono infiltrati al villaggio,” la sua voce è compassata all’inverosimile. “Allora hanno saputo per tutto il tempo dove eravamo, e c’è una sola persona che potrebbe aver parlato...” ravviva il fuoco con un grosso ramo, le linguette di fiamme danzano sui suoi zigomi marcati, “le minacce e il denaro possono comprare il silenzio di una persona, ma basta solo un’offerta più alta per scucirgli la bocca. È così che funziona il mondo.” Una smorfia sprezzante, familiare. “La violenza è la moneta dei poveri e dei disperati...” Sospira, infine, gettando via il ramo con una punta di rabbia.
“Smettila...” Sai cosa sta per dire. Sta pensando che se lo avesse ucciso al tempo e occultato il suo cadavere, sarebbe stata una scelta più assennata... E no, non gli stai leggendo nella mente. Non puoi farlo, e comunque non serve.
Ti sollevi su di un gomito e resti a osservarlo attraverso le fiamme. “Nessuno può prevedere cosa comporterà una decisione e come questi influenzerà il suo futuro...” Levi si gira nel sonno, lo culli istintivamente con tocchi lievi e reiterati. “Hai risparmiato la vita a quell’uomo, forse perché lui ha ancora un ruolo da giocare... Ma questo non fa di te un debole.” Premi insieme le tue labbra. “Non lo sei, Kenny.”
Ma lui non conosce la forza di cui stai parlando, e nemmeno tu, in definitiva.
“Ciò non toglie che gli cambierò i connotati la prossima volta che lo incontro.” Conclude lui, seccamente.
 
 
La vostra nuova casa è una mansarda impolverata nei sobborghi di Utopia. Mobili dozzinali, pareti malsanamente rigonfiate da infiltrazioni e una finestrella piena di spifferi, affittata per pochi soldi. 
Le soffitte sono a spiovente e così basse verso le pareti che Kenny continua a sbatterci contro in tutte le posizioni possibili, così è costretto a camminare come un vecchio ingobbito dentro casa.
Ti è dispiaciuto lasciare la vostra casetta in montagna, soprattutto la culla che Kenny ha costruito per Levi: non c’è stato modo di portare via niente, e lì non ci potete più tornare...
Quella parte della città è densamente popolata, per lo più di classe operaia: lavandaie, maniscalchi, mogli di maniscalchi, piccoli delinquenti locali, e gente di campagna trasferitasi in cerca di fortuna che vivono tutti ammassati in minuscole brande dentro altrettanto affollati appartamenti.
Quelli appesi tra i palazzi non sono festoni allegri, ma file su file di camicie e sottane e mutandoni appena lavati, attraverso le quali il cielo si scorge a malapena. Una vista a cui non sei di certo avvezzo. 
La pubblica sicurezza pigramente presente, tanto caotica quanto sicura per chi cerca un nascondiglio rapido. E nessuno si preoccupa di chiederti da dove vieni, a meno che non voglia ritrovarsi con una fila di denti in meno...
Esistono probabilmente posti così in ogni località, ma nessuno si avvicina minimamente all’idea di quello che lui ha conosciuto e vissuto per un quarto di secolo della sua vita... Kenny si sa muovere bene in quei contesti, e non è un caso che l’abbia scelto. 
 
Levi piange giorno e notte, ha la fronte che scotta. Ha cominciato da poco a ingerire un po’ di cibo semi-solido, pappette e polpa di mele grattugiate, ma vomita tutto, anche il tuo latte.
Hai passato momenti infernali senza sapere cosa fare, il medico lo ausculta e dice che è solo un po’ di influenza, poi vi chiede se volete la ricevuta. 
L’unica cosa che è riuscito ad assimilare senza rigurgitare è stato il tè, un trucco che ti ha passato la corpulenta cucitrice che vive sotto di voi, vedova e madre di cinque marmocchi rumorosi che giocano sempre sulle scale: glielo dai con il biberon, poco alla volta, e a lui sembra non dispiacere.
Se è prassi che la maggior parte dei neonati vengano lasciati addormentare impotentemente in quelle circostanze e affidati alla benevolenza degli dei, Levi dal canto suo non ha manifestato qualità preoccupanti o innaturali, come stupidamente acclamato dal moro, ma è senz’altro, eccezionalmente resiliente. 
Ed è precoce, per certi aspetti; senza guardare alla sua taglia, probabilmente la tua parte di eredità. Ti domandi se anche Kenny sia stato così da piccolo...
Con rammarico ricordi che nelle sue vene scorre anche il sangue dei Reiss, e per quanto possiate fuggire non c’è modo di sottrarsi da questo dato di fatto; prima o poi anche Levi dovrà confrontarsi con il peso del suo sangue. 
Non avete ancora deciso che cognome dargli, e tu preghi che non debba essere il tuo...
“Se vorrà essere un Reiss o un Ackerman, potrà sceglierlo da sé quando sarà adulto.” Così ti ha risposto Kenny. 
Già, quella parte di lui - che è ciò per cui riesci a perdonarti - quella parte sarà sempre presente in lui e nessuno al mondo potrà negarglielo...
 
Tutto il piano è letteralmente una giungla di pannolini appesi ad asciugare, i fili del bucato tesi da una parte all’altra. 
È incredibile la quantità di lavoro che un esserino minuscolo richiede giornalmente.
Le uniche pompe idriche sono in lavanderia, al piano interrato. I servizi in condivisione, fuori dallo stabile, bui e maleodoranti, ma sei abituato a peggio. In compenso, però, non si sa come l’abbiano trascinata quassù, c’è anche una vecchia vasca da bagno in rame. In quel genere di abitazione se ne fa un uso sporadico e la superficie si è visibilmente opacizzata, al riparo sotto un enorme telone. 
Non ti concedi un bagno decente da mesi. 
Venti giri sulle scale con un catino d’acqua bollente, dal primo all’ultimo piano - prima di scoprire che il resto degli abitanti si serve normalmente di una fune trainata dalla finestra... - ma ne è valsa la pena, anche se non sei sicuro di volerlo rifare; il lusso non consiste davvero nel possedere una vasca da bagno, piuttosto nell’avere qualcuno che la riempie al posto tuo... 
Ti immergi trattenendo il fiato e riemergi, scostando le ciocche bionde bagnate dal viso e portandole all’indietro. Te ne stai in ammollo, stiracchiandoti in tutte le posizioni senza mai toccare l’altra estremità, la vasca lunga e spaziosa. La solitudine ti è mancata tanto quanto il mare di bollicine in cui sono immersi i tuoi pensieri... E l’idillio è durato finché il moro non ha deciso di saltarci dentro con un balzo, facendo allagare il parquet e dimezzando le vallate di soffice schiuma.
Sei geloso del tuo paradiso e non vuoi condividerlo con nessuno.
“Esci.”
Lui, impudente, accomoda invece i gomiti sui bordi. “No.” 
E tu ricordi, prima delle lusinghe e dei fiori, cosa lo rendeva irritante ai tuoi occhi... E il suo piede sul tuo scroto. 
“Il nanetto si è addormentato.” Che nel vostro linguaggio da neo-genitori vuol dire una sola cosa.
Hai un piede fuori dall’acqua, costretto ad accavallare una gamba, mentre lui ne massaggia la pianta, ponderosamente, muovendovi sopra i suoi pollici callosi. “Sei un po’ teso ultimamente...” 
“Hai una sorta di feticismo, o qualcosa del genere?” Sbuffi sotto il filo dell’acqua, corrugando la fronte, bollicine d’aria si sollevano ad ogni parola. Le tue guance si colorano quando alla piacevole pressione delle sue dita si sostituisce la morbidezza bagnata, impertinente della sua lingua appiattita contro la superficie plantare.
Una breve smorfia. “Può darsi...” Inali contraendo i muscoli dell’addome. L’urgenza di sottrarsi e ritrarre il ginocchio, ma la sua presa è maledettamente salda.
È una strana lotta, la vostra, quella tra la sua forza fisica e la tua ostinazione, perché in fondo sei convinto che non ti piaccia... 
Sott’acqua, la tua durezza sempre più palese contro il suo piede destro.
Non abbassi lo sguardo, lui nemmeno. Una breccia di sfida nei tuoi occhi, contrappunta a quelli di lui. La punta dell’alluce trattenuta tra i suoi bianchi incisivi, quasi per gioco. Il caldo muscolo della lingua saetta tra le fessure di quelle piccole falangi, lubrificandole generosamente della sua salivazione. Il calore liquido della sua bocca, accogliente, istigante...
“Cambiato idea?”
Ingoi a vuoto, le sopracciglia contratte nello sforzo indeterminato di mantenere il contatto visivo, ultimo baluardo le tue palpebre che minacciano di lasciarsi cadere. 
“No.”
Kenny si corruccia. “D’accordo,” replica annoiato. Afferra malamente i due lati per farsi leva, si rimette in piedi e impettito ne scavalca la sommità, incamminandosi nudo sul pavimento bagnato. La massa d’acqua sciaborda dietro di lui, indolente. E tu resti a fissarlo, frastornato, sentendoti piccolo in una vasca improvvisamente troppo grande...
Lenti rivoli di schiuma tratteggiano il disegno dei suoi glutei solidi, dissolvendosi lungo le gambe statuarie del moro. 
Mordi l’angolo del labbro inferiore, vagamente piccato dalla gradevole vista.
 
Nei cortili soleggiati le donne si riuniscono a fare il bucato, scambiandosi pettegolezzi giornalieri, con i bambini fasciati dietro le schiene e un’altra dozzina nei dintorni che rincorre una ruota di bicicletta. Le buche in strada piene di acqua di spurgo.
Si dice che ultimamente sia aumentato il numero delle guardie. Ce ne sono a ogni angolo e le ronde sono più frequenti, sia di giorno che di notte.
Kenny ha i nervi a fior di pelle, lo hai intuito, ma te ne tace. 
Evitate di uscire di casa, e per la spesa vi servite di una cesta legata all’estremità di una fune - basta solo allungare una mancia al garzone per il disturbo. 
La gente di qua è diffidente, e ognuno ha scheletri e segreti che non vorrebbe far sapere...
Ci sono momenti di pace domestica anche in tempi duri come questi, opprimenti e dilaniati d’incertezze, chiusa la porta, dove poter far finta che al mondo ci siate solo voi tre.
Il pomeriggio per Levi è scandito dal bagno e dal pisolino. Una bacinella d’acqua tiepida, gli sorreggi la nuca, e con l’altra mano cominci a insaponarlo; a volte è Kenny a farlo. Sembra turbato e si irrigidisce un pochino, ma non ha paura dell’acqua. Ti piace sempre affondare il viso nell’odore soffice della pelle asciutta, dopo averlo coricato nel letto con te, e riempire di baci la sua pancia indifesa e tutte le gambette come se volessi divorarlo. E lui si difende come può dai tuoi attacchi, dimenando calcetti vigorosi dove capita, il tuo collo o la faccia.
Stormi di pulviscoli danzano nella luce, sospesi in quel mondo autistico e cangiante al di là del silenzio.
Una parte di te, tuttavia, lo sa. Il presagio è nitido, come l’ultima volta, l’istinto che ti dice che presto dovrete lasciare anche questa casa...
 
....
 

Rumore di passi. Assi cigolanti. Qualcuno cammina sul tetto.
 
Ali oscure sfrecciano attraverso la notte, senza fare rumore. 
Un corvo si posa sopra il cornicione. Piccole zampe squamate saltellano tra le tegole, becchettando nelle fessure, il suo lamento lungo e gracchiante. Ne seguono altri due. Cinque, dieci, trenta... 
Come macchie d’inchiostro si espandono generando una matassa sospesa, brulicante e sinistra, sempre più fitta, fino a riempire ogni angolo della vista.
Una nube nera incombe sulla città. 
Il canto dei corvi cresce, si inalza, caotico nell’aria. Una poesia nefasta e malinconica di cui, in cuor tuo, sai di poter capire...
Tenti di riaprire gli occhi e non ci riesci... Non ci riesci. 
 
Ti svegli di soprassalto. 
 
È buio pesto, per un secondo non sai dove ti trovi. I polmoni si gonfiano rapidamente arrancando per l’ossigeno, come se fossi stato in apnea per minuti interi, un dolore acuto e insopportabile. 
Una voce ti chiama, Uri, propaggini di un’eco distante e incerta. Respira. Focalizza. Una mano, dal nulla, afferra la tua spalla. Trasali. 
Per forse una decina di secondi resti lì a fissarlo, come pietrificato... Poi lentamente cominci a riconoscere il volto scapigliato su cui si dipinge un’espressione impallidita identica alla tua. 
“Che cazzo ti è preso?” Parole ruvide, e a tratti rassicuranti, ti riportano alla realtà. Non sai rispondergli, ma ti sembra di ricordare. “Uri...” Balzi giù dal letto e ti precipiti a spalancare la finestra. 
L’aria fredda della notte inonda la stanza. Fissi indeterminato il tetto del palazzo di fronte, strizzando le palpebre, i comignoli raramente visibili nell’oscurità del novilunio. La strada di sotto, un baratro divorato dal silenzio.
“Cosa stai guardando?” La testa di Kenny sbuca dietro le tue spalle, sbirciando alla stessa direzione.
Apri e richiudi le labbra un paio di volte, la tua camicia da notte è gelida di sudore. “Potresti,” balbetti, abbassando lo sguardo e irrigidendoti. “Potresti guardare...” Con l’indice punti alle travi della tettoia, proprio sopra le vostre teste, non avendo il coraggio di controllare da te. Kenny increspa la fronte. 
Con fare incerto, si sporge fuori sorreggendosi con le mani e torcendo il collo fino a scorgere il canale di scolo dell’acqua piovana. Il secondo dopo si ritrae e ti guarda scuotendo il capo.
“Lascia perdere.” Ti dissuade blandamente dal tentativo di affacciarti a tua volta e ritorna verso il letto. Accende la lampada a olio sullo sgabello. Levi che dorme in mezzo a voi, si è destato e comincia a singhiozzare come lui lo prende in braccio, contrariato dal trambusto notturno. 
Non sei pazzo. Vorresti potergli spiegare, ma non sai nemmeno in quali termini...
In un angolo della mente, li senti ancora gracchiare.



La cosa migliore è non restare mai in un luogo fisso, tenere sempre le valigie pronte, per quanto avvilente sia ogni volta. Ma non dovete aspettare che vi scovino, dice Kenny. Con un neonato è anche più difficile traslocare. Levi ha solo otto mesi, ma ha visto la luce del sole per meno di tre. 
Speri sempre che il prossimo posto che andrete sia sotto un cielo stellato, o che abbia almeno un balcone dove si possa passeggiare.
Che siate ormai dei profughi è un concetto che lentamente cominci a inquadrare. Lui, dal canto suo, che lo è stato fin dalla nascita, dice di averci fatto il callo... 
Lasciata la città, vi ritrovate a bivaccare sul greto asciutto di un fiume, al chiaro di luna, il vento soffia così forte che minaccia di estinguere le fiamme sparute sulla brace. 
Per la prima volta sei riuscito ad accendere un fuoco. Nessuno sembra esaltato dall’impresa. 
Ripulisci la fuliggine dalla fronte con dell’altra fuliggine, ma sei soddisfatto del risultato.
C’è poco da fare. In certe situazioni non puoi che affidarti a lui. Hai impressione che non dureresti nemmeno due giorni senza di lui, senza i tuoi agi e i tuoi titoli, perché saresti finito nei guai già un migliaio di volte, e il pensiero ti fa sentire inetto e impacciato... 
La notte è lunga e umida. All’alba siete nuovamente in viaggio.
 
Di giorno il vostro tragitto si snoda tra le vaste piantagioni di granturco e macchie di alberi ghiandiferi che disseminano le campagne. Kenny non vuole percorrere i sentieri e ha le sue ragioni. 
Le strade sono pattugliate. I posti di blocco assediati di gendarmi che richiedono salvacondotti, come ai tempi di guerra. Ti chiedi solo cosa succederebbe se, per ipotesi, una guerra dovesse scoppiare davvero dentro queste mura... Se si dovesse arrivare alle armi, se la pace effimera di questo mondo dovesse crollare... 
Avresti davvero il coraggio di mandare a macello il resto dell’umanità per salvare un solo bambino? 
Questo non puoi saperlo. Perché non ci sarà mai una guerra.
 
Per giorni e giorni non c’è altro che vuoto e paesaggio brullo. Luoghi remoti e disabitati. Terra estesa, ininterrotta.
La pioggia imperversa sulle brughiere. Nemmeno un albero all’orizzonte, a ripararvi solo i vostri mantelli. 
Ci sono fattorie e fienili incustoditi tra una miglia e l’altra, i quali offrono un ottimo riparo per la notte, lontani dalle vie, ma a lungo andare anche quell’opzione diventa prevedibile. 
Poco lontano dalle mura vi imbattete in un accampamento di gitani.
È notte, camminate da ore e non vi siete resi conto di aver sconfinato nel loro territorio, finché una decina di uomini non vi circondano armati di torce e forconi. Kenny mette mani all’unica arma che possiede al momento, la sua fedele daga, e giureresti di averlo sentito ringhiare se non fossi troppo occupato a preoccuparti delle ostiche circostanze in cui vi trovate... Dalle tende adiacenti emergono altri gitani, figure rugose e ragazzini svestiti.
A farsi avanti e salvarvi è stata una delle loro donne.
Dopo aver scorto il neonato fasciato tra le tue braccia, si è precipitata davanti agli uomini e ha spinto indietro i loro attrezzi affilati, sgolando improperi a loro indirizzo finché non li ha visti abbassarli. Dopodiché si è approcciata, con fare circospetto e vagamente sgomenta. Ricordi i suoi occhi, incredibilmente neri e irradianti al tempo stesso, una cascata di capelli ramati come un falò acceso nell’oscurità.
Quando ha teso in avanti le sue braccia, hai relegato Kenny allarmato dietro di te, impedendogli di intervenire: sebbene con una punta di riserva e timore hai permesso che apponesse le sue mani sul bambino, scandagliarlo in una gestualità che non comprendi, come se stesse rimirando una creatura aliena. Levi si è stretto a te, nascondo il visino nel tuo collo, recalcitrante, e inducendoti a fare un passo indietro. 
Scruti in fondo ai suoi pozzi oscuri e lei ti parla senza muovere le labbra, sussurrandoti delle memorie delle sue terre e di corvi che piangono alla fine del mondo.
 
Benché non abbiano mai subito persecuzioni mirate, diversamente dal clan Ackerman e dalla minoranza asiatica, lo spirito libero e orgoglioso di questo popolo non si è mai piegato a vivere in mura di pietra. 
Come orde di uccelli migratori, le loro carovane si spostano di villaggio in villaggio lungo sentieri prestabiliti, scambiando ninnoli rudimentali per poche monete o generi alimentari. Eccezionalmente poveri, e pertanto prolifici, versati nell’arte della chiromanzia nonché abili tagliaborse.
Taluni dicono che vi sia magia antica nel loro sangue, per altri solo ciarlatani stravaganti.
 
La donna ha fatto in modo che poteste restare per la notte. Senza mai pronunciare una parola, vi ha condotti a un focolare dove le famiglie siedono in cerchio e invitati a desinare con loro. 
Il giorno dopo Kenny si reca da solo in città, lasciandoti con le donne del campo. Ha chiesto di poter acquistare una pistola, ma quegli uomini non ne possiedono e non ne barattano, sono troppo costose per loro. 
È partito prima dell’alba, assicurandoti di fare ritorno prima che tu ti svegli. Vuole infiltrarsi per osservare i movimenti della guarnigione locale, valutare eventuali contromisure.
A mezzogiorno lo stai ancora aspettando. 
Hai passato la mattina aiutando le donne a preparare il pranzo, pane non lievitato cotto su pietra che viene consumato insieme a un calderone di fagioli piccanti, e badato ai bambini insieme a loro, con Levi che dorme nel marsupio dietro la tua schiena, come ti hanno insegnato a legarlo senza farlo cadere. Ti parlano nel loro idioma arzigogolato, convinte che tu possa capirle. Benché non sappiano nulla di te e del tuo bambino, un ospite accolto sotto il loro tetto è considerato sacro.
Sul fare della sera, gli uomini fumano pipe intorno al fuoco, ascoltando il canto delle ragazze, le più giovani danzano con i loro bracciali tintinnanti ai polsi come fosse una festa popolare. 
Nessuno bada a lui, quando Kenny ricompare dalle tenebre. 
Alle voci si è aggiunta una chitarra, note pizzicate con lievi mani; qualcuno fischia. Vi guardate a lungo attraverso le faville del falò, i vostri volti scolpiti dalle fiamme.
 
Soffia una leggera brezza. L’aria della sera è dolce.
“La zingara ha detto che possiamo stare qui con loro, se vogliamo.” 
Gli fai spazio sulla stuoia stesa a terra, tenendo fermo lo scialle bianco sul capo, mentre osservate le coppie danzanti sotto il firmamento. 
“Tu cosa vorresti fare?” Lo senti domandare.
“Potremmo,” premi le labbra insieme, titubante. “Potremmo restare, magari qualche giorno, solo per riprenderci...” 
Vicino al fuoco, un vecchio tiene per le mani la nipotina e la fa dondolare sulle punte dei suoi scarponi logori. Le donne più anziane se ne stanno in disparte, i volti celati sotto stoffe pesanti dai colori sobri. Ti piace stare in mezzo a queste persone, il loro stile di vita discosto dagli affanni della civiltà, incuranti, senza pretese, la comunione con la natura. Per quanto tu abbia cognizione del rischio che comporta per loro ospitare due fuggitivi come voi...
Inebriato forse dall’atmosfera della serata, Levi è più attivo del solito. Si impunta con i piedini, si affanna e pende dalle tue braccia per andare dal padre, allungando le mani con insistenza. 
“Com’era la situazione in città?” 
Kenny lo accontenta. Lo prende da sotto le braccia e lo fa atterrare con delicatezza, i piedini sul suo petto, affondando il naso nella zazzera morbida per inspirare a fondo il profumo peculiare da neonato che, da quando lo ha tenuto in braccio e allattato per la prima volta lo associa a Levi, qualcosa come di latte rancido, talco e saliva asciutta.
Se è riuscito a procurarsi un’arma, non te la mostra e non ne fa parola. “Nessuno mi ha guardato in faccia. Un paio di soldati alla porta, il restante a ubriacarsi e a scommettere la paga. Con il cambio della guardia si allentano addirittura i controlli, ed è facile passare... Per il resto,” fa una pausa inspirando tra i denti e scuote il capo, “non ho notato manovre allarmanti, c’è molta calma in città, la gente è fin troppo rilassata da queste parti...” Che sia un bene o un male, non sai deciderlo; e nemmeno lui, sembrerebbe. Aggrappato alla sua spalla, Levi si dimena su e giù, tutto eccitato; gli afferra il cappello e lo tira giù spettinandolo, e dopo averlo cosparso di bava lo getta a terra. Kenny lo raccoglie e lo posa, senza lamentele, accanto a sé.
 
I suoi poster da ricercato sono stati rimossi all’epoca del vostro incontro, anni prima, e Rod non è così scardinato da affiggere la tua faccia buffa in giro per il reame. Tutta la nobiltà sta guardando, non di meno il clero e le alte sfere militari, e presto gli avvoltoi comincerebbero a puntare al trono vacante.
Dopotutto la temporanea scomparsa del re delle Mura è una questione scottante che va risolta in famiglia. Ora come ora, Rod sa di avere intorno più nemici che alleati.
È tutta politica, e in questo, a differenza di te, lui è sempre stato abile. 
5.860 anime entro le mura del distretto di Krolva. Non vuoi coinvolgere vite innocenti.
Hai un bambino con te e ti trovi in compagnia del sicario più pericoloso di tutti i tempi, ma non è della tua incolumità che tuo fratello si preoccupa. Finché vi troverete nei pressi di un centro urbano, i suoi segugi non oseranno fare mosse eclatanti: questa è la teoria di Kenny. Sfrutterete questo punto cieco e li aggirerete per quanto possibile, evitando lo scontro diretto.
Ma ti chiedi quanto potrete andare avanti in questo modo. 
E tu che lo conosci meglio di chiunque altro, tuo fratello, sai che starà probabilmente pensando la stessa cosa...
 
Potrebbe sembrare giovane, la donna che vi ha soccorso la prima sera, ma tutti gli uomini qui la rispettano e la temono. Lei non parla con voi, non parla molto in generale. Solo in sogno. 
Lei ti viene a trovare quando dormi. Si siede con te accanto al fuoco, si sistema con grazia la gonna e parlate. E allora ti sembra di riuscire a capire tutto ciò che dice e tace. 
Così ogni sera davanti al falò, a volte accanto a te c’è una vecchia con un bastone, altre volte una bambina, ma non ricordi mai il contenuto delle vostre conversazioni...
 
I giorni passano e presto i nomadi si sarebbero rimessi in viaggio, stavolta diretti a sud. 
Gli uomini dell’accampamento discutono tra di loro. Non sai di cosa parlano, ma ogni tanto lanciano occhiatacce alla vostra direzione.
Se finora non hanno mai attaccato brighe e hanno lasciato che gironzolaste liberamente in mezzo a loro, è stato solo per la mediazione della chiromante e di alcune di quelle donne, dalle quali sei stato protetto senza nemmeno saperlo. Ma l’aver spezzato il pane insieme e mangiato alla stessa tavola non vi rende amici.
E come biasimarli, pensi. È giusto per loro mostrarsi diffidenti, come lo è per voi averne timore. I momenti di tensione, fatti più che altro di sbuffi e gorgheggi, smussati dalla barriera linguistica. Kenny crede che stiano complottando per vendervi ai soldati in città - su quali premesse, non lo sai. Ma il pensiero non ti sbilancia e non vuoi giudicarli, anche se l’intenzione fosse reale: anche questo sarebbe perfettamente comprensibile...
 
Due giorni prima della partenza, si incomincia a smantellare la tendopoli. Il legno dei soppalchi, i teloni e ogni singolo chiodo usato per costruirli. I carri caricati di pentolame e vettovaglie sufficienti per un reggimento. Le ruote difettose riassestate. Le tende verranno smontate per ultime.
È l’ultima sera che trascorrete con loro. Ve ne andrete non appena si sarà fatto giorno. Vorresti almeno salutare le donne, ma Kenny non lo ritiene prudente.
La notte passa tranquilla. 
Dopo cena le madri mettono a letto i bambini. Dalle braci spente spirano quieti filamenti di fumo, l’accampamento è immerso nel silenzioso. 
C’è stata una festa in città. I ragazzi e le ragazze del campo che si sono imbucati all’insaputa dei loro apprensivi genitori, rientrano tardi schiamazzando e ballando, ubriachi. 
In lontananza, l’eco dalla presenza umana come una moltitudine di luci soffuse sospese nelle tenebre... 
 
Vieni svegliato a scossoni. 
Non sembra passata nemmeno un’ora da quando hai chiuso gli occhi, ma non puoi averne idea. Kenny si è già vestito, probabilmente non si è nemmeno spogliato per la sera.
C’è trambusto fuori. Grida. Confusione. Ti occorre solo una frazione di secondi per realizzare cosa sta succedendo. Non possono essere i ragazzi di prima...
Ti infili gli stivali e il soprabito, il fremito delle torce irrequieto dietro lo squarcio della tenda. Dopo aver avvolto Levi nel marsupio di stoffa, ne leghi in fretta i lembi intorno alla schiena, stringendo infine un nodo solido. Le valigie sono pronte dalla sera prima.
Una fila più avanti, una decina di tende sono avvolte dalle fiamme. I carretti con le cesta di provviste rovesciate in mezzo alla strada, la gente in preda al panico che fugge in tutte le direzioni.
L’ombra di un cavallo imponente ti sfreccia di fronte e ti fa sobbalzare. Kenny ti tira indietro appena in tempo. Trovate riparo dietro una catasta di cartelloni da fiera, ma hai già il fiato corto. Vi guardate e lui con un cenno indica la direzione opposta. Cali il cappuccio sulla fronte nell’atto di annuire, stringendo saldamente il fagottino contro di te.
Sono giunti nel mezzo della notte. Una ventina di uomini a cavallo, armati e con i volti coperti. Tutti dormivano.
Hanno ucciso i cani nel recinto perché non abbaiassero e si sono addentrati nell’accampamento - forse guidati da qualcuno - per poi appiccare il fuoco, disperdendo gli ignari abitanti come bestiame atterrito su cui hanno cominciato a sparare a vista. Non in cerca di denaro, perché i zingari non ne hanno; se avessero voluto prendere le loro donne non le avrebbero uccise. 
Ruderi di braci calpestati dai zoccoli, ripetutamente, il grigio della fuliggine serpeggia bianca come neve nella notte. Ti guardi intorno, il paesaggio libra confuso. Una bambina piange sul ciglio della strada, l’istinto ti dice di andare da lei e portarla con te, ma Kenny ti trascina via. 
Correte in mezzo ai corridoi di fumo, sommersi e sballottati tra le masse di sconosciuti in fuga. Vi imbattete nella strega dai capelli rossi: Kenny fa pressione perché vi affrettiate, ma stavolta decidi di ignorarlo.
Lei ansima, tu ansimi. I suoi occhi limpidi colmi di terrore si fissano nei tuoi. Vorresti dirle qualcosa, ma lei vi grida nella sua lingua di andare, di fuggire, di non guardare indietro, mentre vi spinge via con forza. “No! No!” Kenny ti afferra per il gomito e ti costringe a lasciarle la mano, la consapevolezza che non puoi salvarla. Nessuno di loro. 
Hai continuato a voltarti tra la folla, fino a perderla di vista.
 
La notte scarlatta illumina un cielo ottenebrato, le frangi dei cumuli tinte di velature sanguigne. Gli echi degli spari si estinguono lentamente dietro di voi, i miasmi intossicanti dell’incendio via via più trasparenti, fino a che, attraverso strati di fogliame la barriera della foresta ne soffoca definitivamente le ultime tracce.
 
“Alzati.” La sua ingiunzione, fredda e immobile.
Non ne hai la forza. Hai slacciato il marsupio e gli hai affidato il bambino, dopodiché sei crollato.
Singhiozzi a intermittenza, i fili d’erba soffocati tra i tuoi pugni. “Perché?!” Il tuo grido si infrange, furia impotente, contro il suolo umido che non può darti risposta.
E lui ripete, imparziale, “alzati”.
Futile il suo tentativo di risollevarti. Il tuo braccio ricade indietro inerme come il peso inutile che è. Non ne hai la forza…
Dall’alto Kenny fissa la tua gobba riversa a terra e sospira. Non ti abbraccia né si allontana. Decide di concederti non più di dieci minuti.
“Loro non c’entravano niente...” con voce fiacca e rotta reiteri, al vuoto che inghiotte il vuoto, a te stesso. “Perché... erano disarmati, perché...” 
Rivedi i loro volti atterriti dietro le palpebre, e risenti le grida, gli spari, quella lunga colonna di fumo che si inalzava dall’accampamento mentre vi allontanavate... Non potrai mai dimenticarlo. Non potrai mai perdonartelo.
“Non erano mercenari.” La sua affermazione sembra dare risposta e puntellare il tuo tormento, inducendoti a ingoiare le lacrime e a tendere le orecchie. “Erano soldati...”
È stato un atto di rappresaglia, compiuto con una tale cieca efferatezza - apparentemente contro una specifica etnia - da rendere ingiustificabile qualunque motivazione. Quelle persone non hanno fatto nulla di male, la loro unica colpa è di avervi accolto...
Sa come lavorano quei uomini, è stato uno di loro non più di un anno fa. E benché abbiano evitato di esporsi celando le loro giubbe color cachi, non è stato altrettanto facile confutare lo schema peculiare con cui sono soliti ad agire: un volto tra questi, in particolare, Kenny lo avrebbe riconosciuto tra mille... Ma il perché Djel Sannes si ritrovasse invischiato in questa vicenda è un impiccio che la gendarmeria, anzi l’intero corpo militare di Stato, non si sarebbe mai dovuto interessare. 
“È chiaro che ormai hanno smesso di badare alle apparenze,” conclude il moro.
Raddrizzi debolmente la schiena, rannicchiato nell’ombra del tuo scoramento, lasciando che le righe di lacrime ti si rapprendano sul viso. “Lui ha...” a fatica, ti senti inghiottire, “lui ha in mano l’esercito.” C’è una strana calma nella tua voce, desolante, come se nel renderne atto avessi ammesso un’inevitabile capitolazione. “Non solo la gendarmeria centrale… ma il potere di mobilitare a sua discrezione tutte le truppe stanziate tra le tre Mura!” Incominci a scuotere il capo e gemi, sentendoti penoso. “Come possiamo...”
Ti chiedi da quand’è che hai smesso di ribellarti a questa volontà accecante, da quando mettersi in ginocchio sia divenuta un’abitudine e l’unica opzione possibile...
“Chi credi che glielo abbia permesso?” Senti il suo sguardo trapassarti da parte a parte, inclemente come le sue parole. “Non hai mai voluto ascoltarmi.” 
Dischiudi la bocca, ma non un suono rinviene. Piccole crepe si inerpicano sul muscolo cardiaco, incrinandosi, un poco alla volta, come fosse ghiaccio prossimo a spaccarsi nel tuo petto. Un rivolo solitario ricade lungo la guancia destra...
È una discussione che avete già affrontato, troppe volte per ricordartelo. Di te e della tua irresolutezza. Della tua scarsa considerazione per la politica e della tua inerzia... Così tante volte lui ti ha spronato ad agire e a riprendere in mano il potere, a rinsaldare la tua presa sul consiglio di Stato, a non dare per scontato ciò che detieni per diritto di nascita, e così tante volte ti sei rifiutato di farlo. Hai lasciato che tuo fratello prendesse controllo delle milizie, mentre ti crogiolavi nei tuoi sordidi discorsi sulla pace universale: è solo colpa tua se siete giunti a questo punto.
Avresti potuto salvarli. Avresti potuto salvarli tutti... Se solo avessi voluto.
 
Ma è anche innegabile che, a questo mondo, non si può davvero sperare di salvare tutti quanti...
 

 
*
 

“Anche donne e bambini?” 
Una mano inanellata emerge nel velo di semioscurità, posando in cima alla testa di un leone d’avorio che carezza assentemente, al lato della poltrona imponente in cui affonda la sua mole, la postura sollazzante. I suoi occhi restano celati.
“Abbiamo ammassato i corpi e dato loro fuoco. Nessun sopravvissuto.”
Il giovane capitano alza appena lo sguardo, qualche gradino più in basso, nella zona illuminata: una risposta deferente e accurata, timoroso di indisporre in qualunque modo il suo signore.
Il fucile riposto lungo il fianco destro. Sul braccio il blasone dell’unicorno. 
“Molto bene.” La voce del lord se ne compiace. “Deve sapere cosa succede se oppone resistenza.” Dopodiché schiocca la lingua riproducendo un verso ripetuto che ricorda lo squittio dei topi, mentre scuote il capo con fare riprovante, arricciando il naso. “Tutte quelle povere persone...”
 

 
*
 

Volta dopo volta, il tempo che occorre ai suoi uomini per trovarvi si accorcia sempre più: se prima avrebbero impiegato mesi, ora solo questione di giorni.
Per evitare di coinvolgere ancora persone innocenti, cercate di stare alla larga da zone abitate. Vagate senza sosta da un posto all’altro, con il pensiero di essere costantemente inseguiti, e la notte vi rifugiate in grotte di fortuna umide e buie, o sotto le travi marce di un rudere sfondato da cui si vedono le stelle, le cui mura per qualche ora vi riparano dal vento. Vi avvicinate ai villaggi solo quando finiscono le scorte alimentari, una veloce scappata al mercato oppure prendendo in prestito - come dice il moro - ortaggi dai campi incustoditi. Appena trovate un corso d’acqua riempite le borracce e, se possibile, darvi una ripulita sciacquando gli abiti intrisi di sudore e le pezze usate come pannolini per Levi; se c’è il sole si asciugano in poche ore.
Ciò che Rod sta cercando di fare è di spingervi al limite, svigorendovi fisicamente e psicologicamente. 
Ti chiedi quale sia il suo obiettivo ultimo... Tu, o il tuo bambino? Il recupero del Fondatore ha la sua priorità, certo, ma un bambino come Levi, un bambino che ha in sé il sangue dei re ma che al tempo stesso non ne subisce l’influenza... 
Che cosa accadrebbe se dovesse cadere nelle sue mani, una creatura tanto prodigiosa?
Dall’altra parte, non può permettersi di attaccarvi frontalmente, i suoi squadroni sono stati informati della tua vera natura e del pericolo che questi costituisce. Così lui aspetta, aspetta che sia tu stesso ad arrenderti e a consegnarti a lui per chiedere la sua clemenza...
Il vero nemico resta nell’ombra e attende: questo gli dà potere, lo rende molto più temibile ai vostri occhi di quanto non sia affrontarlo a viso aperto.
“Così non può andare...” Dentro di te, lo hai sempre saputo. “Non possiamo limitarci a subire.” 
Non potrete fuggire in eterno. Non esiste un luogo realmente sicuro per voi dentro le Mura finché chi le comanda vi è ostile, e là fuori - fuori dalle Mura - non ci potete di certo andare... Il destino inevitabile per ogni Ackerman che viene al mondo? Il pensiero che tuo figlio debba crescere in un mondo simile, marchiato inappellabilmente dalla sola colpa di esservi nato, ha riacceso infine quella scintilla di ferocia che assopisce dentro di te.
Per far sì che qualcosa cambi dovete agire ora.
“Cosa hai deciso?” domanda Kenny. Qualcosa... anche solo una picciola breccia, un fallo nel sistema...
Per un secondo ti accigli ancora, ma quali alternative restano? “Se ci vogliono così tanto, allora li andremo a incontrare.” Una volta capito cosa fare il tuo sguardo si schiarisce e i lineamenti si tendono. “E poi tratteremo con mio fratello,” aggiungi.
Ostentato il modo in cui storce la bocca. “Tutta questa fatica e vuoi solo parlargli?”
“So cosa vuole da me. Ho ancora una carta da giocare con lui...”
“Bene,” acconsente seccamente il moro. “E dopo che avrete parlato potrò fare a modo mio?” E nell’insinuarlo ha armato simbolicamente la sua pistola.
Trattieni a lungo lo sguardo su di lui, come se stessi vagliando il peso di ogni singola parola sulla lingua, in bilico tra timore e risolutezza, prima ancora di prendere fiato. “Se sarà necessario, lo farò io stesso...”
Specchiando la tua figura minuta, le sue grigie iridi vengono sommosse di breve sconcerto.
Avresti davvero il coraggio di uccidere tuo fratello? Sembra domandarti, come se ti stesse leggendo nel pensiero, ma non sai darti risposta... Non ancora. 
Non è il coraggio, ciò che ti serve per uccidere la tua famiglia, ma non sai nemmeno cosa...
 
Del diverbio che avete avuto la notte dell’incursione all’accampamento non ne avete più riparlato. Ma è ancora lì, in qualche modo, come un campo elettrico sospeso in mezzo a voi. Evitate semplicemente di badarci. Kenny sa di averti spezzato il cuore, ma non è in grado di verbalizzarlo.
Non vuoi pensare che qualcosa si sia incrinato fra voi, ma non puoi fare a meno di pensarlo. Ci sono altre priorità al momento...
 
Sarà un’impresa anche solo tentare di avvicinarlo. Ci sono 10.000 guardie armate tra voi e lui, pronte a dare la loro vita per il paese. E il punto è che non siete nemmeno sicuri di dove si trovi in questo momento...
Avete un’unica chance ed è cercare di stanare Rod Reiss, o meglio farlo uscire allo scoperto. 
Viaggerete verso la tenuta e prenderete in ostaggio la primogenita. Più vicino è il pericolo e più sarà sicuro muoversi, il contrario di ciò che si aspetta il nemico. Lui avrà i numeri dalla sua e voi il fattore imprevedibilità. 
Frieda sarà ben protetta. Kenny agirà da solo, e tu e Levi dovrete nascondervi: città sotterranea, non gli viene in mente luogo più caotico e impenetrabile al mondo, lì sarete più protetti che in qualunque altro.
La pietà per tua nipote ti sarà solo di ostacolo, perciò non puoi permettertelo. Nessun cedimento, nessuna debolezza…
 
L’idea di conoscere finalmente Kuchel Ackerman ti emoziona un po’. 
Lui non ne parla mai. Solo dietro ai suoi sguardi taglienti e i rifiuti sprezzanti si lascia trasparire ogni tanto qualche tiepida traccia lasciata dalla sorella.
Tu te la immagini alta e bellissima, come il fratello maggiore - e Kenny è entrambe le cose. I suoi zigomi sono accentuati e lunghi i capelli d’ebano nelle tue divagazioni, tratti genetici che contraddistinguono il ramo principale del loro casato, dove il sangue scorre da sempre più forte e puro.
Ti piace pensare che, se Levi fosse nato femmina, crescendo sarebbe stato forse identico a lei.
Vi muovete alla volta della Capitale reale, l’ultimale roccaforte dell’umanità e gioiello della corona intorno a cui si irradiano i tre grandi anelli di pietra posti alla sua difesa. 
In diversi punti della città sono dislocati i varchi d’accesso per il mondo sotterraneo,16 in tutto, alcuni non più praticabili, i cui controlli vengono proficuamente spartiti tra la gilda dei commercianti e i membri blasonati dell’alta società. Ci sono quattro cancelli, in corrispondenza dei quattro punti cardinali, che consentono il passaggio in città, e quello meno impegnativo a livello di sorveglianza e per intensità di traffico è da sempre Porta Nord...
Quella notte, dopo essere fuggiti dal campo in fiamme, nella confusione non avete badato alla direzione che avete preso; dopo aver riconsultato la mappa, vi siete accorti di esservi spinti molto più a sud di quanto intendevate, probabilmente oltrepassato Castel Utgard senza saperlo. Tornare indietro sarebbe controproducente a questo punto, perciò non resta che proseguire per il distretto di Ehrmich, il più vicino in linea d’aria: da lì potrete imbarcarvi su una delle chiatte mercantili che transitano in mezzo alle raffinerie di ghiaccio esplosivo situate nelle alture di Wall Sina e che costituiscono la via più breve per Mitras.
Kenny vi scorterà fino a casa della sorella, dopodiché proseguirà da solo verso Orvud. Da lì, dovrai solo attendere...
Per evitare il controllo dei documenti, sbarcate un attracco prima del capolinea, approfittando dello smistamento delle merci. Camminerete lungo la cinta muraria aggirandola da est; ci sono sempre carri stipati di sacche di farina e ortaggi provenienti dalle fattorie a nord che giornalmente varcano il cancello, qualcosa vi inventerete.
Il tratto collinare è costeggiato di boschi. Vi ritrovate ad emergere da un groviglio di ginestre discutendo su che percorso prendere una volta entrati in città, quando venite fiancheggiati da un numero imprecisato di individui...
 
Senti solo i tuoi rantoli nervosi e irregolari scorrere sullo sfondo di un paesaggio slavato fatto di striature accelerate. 

Non hai ancora messo insieme i punti quando ti sei sentito strattonare per il braccio e, in uno stato di pre-panico, hai capito di aver cominciato a correre.
 
Caracollate giù per il declivio scivolando sui sassi e le poltiglie di foglie marce. Come artigli adunchi i rami pendono su di voi, strappando i bordi dei vostri mantelli inzaccherati. 
Gli echi gorgoglianti di un basso torrente sempre più vicini al di là della vegetazione. Kenny vi si getta per primo e si volta per tenderti la mano. Sciabolate gelide sferzano contro le tue cosce, estinguendoti il fiato in gola, i tuoi stivali imbarcano rapidamente acqua. 
Le braccia remate guadate il fiume tentennando su un letto di rocce viscide. Sei immerso fino ai fianchi mentre tenti disperatamente di tenere all’asciutto il tuo bambino, e ti senti morire quando riemergete all’ansa opposta, le ginocchia a terra rattrappite e tremanti, ma non vi potete fermare. 
In qualche modo riuscite a distanziarli. L’unico pensiero è stato di nascondervi. Che siate caduti in un’imboscata lo hai capito solo a posteriori.
La carcassa riversa di un tronco secolare vi dà riparo. Annaspanti, stropicciati e intirizziti nei vostri abiti bagnati. Levi singhiozza disperato tra le tue braccia. “Shh, va tutto bene, la mamma è qui,” cerchi di rassicurarlo dandogli pacche alla schiena, “hai avuto paura, vero? Mi dispiace.” Lo baci sulla fronte per incoraggiarlo, “ci siamo quasi, tra un po’ saremo in salvo...” gli sussurri tra i capelli, sperando a tua volta di potertene trarre conforto.
Kenny svuota le tasche, carica tutte le cartucce che ha disposizione, reinserendo in asse il tamburo e si assicura infine di arretrare il cane - è un modello vecchio, ma è il meglio che è riuscito a recuperare. 
Grappoli di soldati sparpagliati staranno scandagliando la foresta in cerca delle vostre tracce e ogni possibile via di fuga sarà sotto tiro in questo momento. Appena lascerete il vostro nascondiglio li avrete tutti addosso. Serve un diversivo, gli ingranaggi del moro cominciano a mettersi rapidamente in moto...
“Usciremo vivi da qui.” Lui ti promette, la fermezza delle parole scolpite in fondo agli occhi. “Non permetterò che vi accada nulla.”
“No,” replichi, la realizzazione repentina che congela i tuoi lineamenti. “Non puoi...” E lo vedi accigliarsi, sul punto di ribattere: sai quello che vuole fare, si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che vederti cadere nelle mani di Rod Reiss. Fungerà da esca per permettervi di fuggire, tu e il bambino... Ma tu non glielo permetterai.
Senza ripensamenti, cominci a disfare le fibbie della sacca in cui è ancorato il bambino. Lui ti guarda confuso per un secondo e “no! Che cazzo stai facendo, no!” Protesta vigorosamente mentre gli spingi tra le mani il fagotto. 
“Sai benissimo che non ho i tuoi stessi riflessi! E che sono lento!” esclami stringendoti alle maniche del suo cappotto e imponendogli di prestarti fede. “Prendi Levi, esci dal bosco e raggiungi la città sotterranea. Da solo hai più possibilità di sfuggirli.” 
“Uri..!” Kenny persiste nel tentativo di dissuaderti, l’espressione assediata di sgomento. “Mio fratello non mi farà del male!” Scuoti con assolutezza il capo, eppure sai di non riuscire a convincerti in alcun modo: l’essenziale è che se ne convinca almeno lui… “L’ultima cosa che si aspettano è che possa trasformarmi qui, avranno altro a cui pensare che inseguirti, perciò...” 
Il moro inghiotte un nodo ostico, il viso contratto, mentre combatte il principio di crampi che insorge al lobo temporale, dopodiché soffia tra i denti uno stentato “merda!” e si getta sulla spalla un lembo del marsupio annodandoloselo frettolosamente.
“Prendi questo per ogni evenienza.” Rigira verso di te l’impugnatura del suo inseparabile pugnale.
Ti accigli, un tenue rifiuto nella smorfia. “Sarebbe più utile a te, non sono nemmeno sicuro di come si usa...” Lo senti leggero quando lo prendi in mano, più di quanto avresti creduto. “Si infilza con la parte affilata,” Kenny alza un sopracciglio ma il tono resta neutro. “Prendilo lo stesso,” insiste nuovamente, così non ti senti di contrariarlo. 
Si concede un ultimo frangente di esitazione, Kenny, mentre ti guarda negli occhi, stavolta in cerca di un punto fermo a cui volgere lo sguardo e di blande promesse. “Me lo ridarai quando ci rivediamo.”
 
Per tutta la vita, dovunque andassi, ti sei sempre sentito un peso per gli altri. 
Non hai smesso di esserlo... Ma ora non vuoi più permettere che a coloro che ami venga fatto ancora del male.
Mai più.
Il cielo resta coperto. Sembra stia per nevicare.
Esci allo scoperto e ti incammini verso un punto elevato, dove sarà più facile per loro avvistarti. Ai tuoi piedi il profilo del terreno discende dolcemente, spoglio e arido, disseminato di rocce, divenendo pianeggiante per meno di cento metri prima di risalire nuovamente all’altro versante e ricongiungersi al rilievo successivo. 
Una conca vuota. Dietro di te, il fitto fogliame del bosco si chiude. Non ti volti per guardare. 
Sulla collina opposta scorgi una figura solitaria, ferma in una postazione pressoché identica a quella in cui ti trovi ora: penseresti che sia il miraggio di un mondo parallelo apparso per puro caso, se non fosse per la leggera differenza di capigliatura - lui ha ereditato i colori di vostro padre, mentre tu hai sempre avuto quelli di vostra madre - entrambi infagottati nei vostri pesanti abiti invernali tanto da risultare anonimi.
La distanza che intercorre in mezzo non abbastanza da rendere inudibili le vostre voci.
“Mi hai fatto penare, fratellino...”
Il vento smuove brevemente la sua frangia corvina, in piedi, Rod continua a fissarti, non si muove, sembra averti atteso a lungo. Così fai tu. 
Non resta nemmeno lo stupore. È come se lo sapessi. Giunti a questo punto, quando non ci sono più vie da percorrere e ogni paura viene gettata alle spalle.
È come se lo sapessi. La perfetta simmetria di questo universo in cui tutto è destinato a estinguersi nell’incontro. Le vostre strade, le vostre vite, per quanto possano divergere, non sono mai state estranee le une alle altre.
Raccogli il tuo coraggio affinché la voce non ti tradisca, la presenza del bosco retrostante costante nei tuoi pensieri. “Facciamola finita,” il cipiglio è battagliero nei tuoi occhi, “questa cosa non ha senso...”
 
Dopo aver osservato i tuoi movimenti e accertatosi di essere inosservato, acquattato dietro i cespugli, Kenny decide di muoversi. 
Il senso di colpa crivella dolorosamente sotto il cranio. Lo sforzo che si impone per non ritornare sui suoi passi in quel momento - e abbandonarti - è lancinante, ma ora la priorità è portare in salvo il bambino. 
Si allontana per un centinaio di metri, in direzione nord-est, lasciandosi dietro intere sezioni di sequoie monumentali. Salta con agilità i brevi fossati e le gobbe di radici che snudano nel terreno, un fischio inquieto dietro l’orecchio. 
Il vento sfreccia tra il fogliame facendo vibrare nervosamente le diramazioni oberate dal suo peso. Un suono stridulo e prolungato come di una corda di violino teso allo spasmo, rapido, sempre più vicino... In breve tempo si ritrova circondato, a destra e a sinistra, figure incappucciate dall’alto. Cinque, sette. Una decina. Uno di questi gli danza di fronte sbarrandogli la strada, calandosi di traverso quasi rasente terra. Vedendosi puntare addosso una pistola, Kenny ha l’indice sul grilletto, ma il nemico lo anticipa di pochi decimi di secondo e l’istinto lo costringe a scansarsi per proteggere il suo bambino. La pallottola gli sfiora i capelli rimbalzando contro una roccia.
Altri colpi di proiettile dall’alto, colpi d’avvertimento, tutti a vuoto. Corre più velocemente che può, ma lo stormo non lo molla. 
Riesce a schiantarne solo un paio, mirandoli in volo quando sono stati a portata di tiro e disperderli temporaneamente, prima di imboscarsi dietro un masso. 
“Merda!” inveisce con fiato zoppicante, i pensieri totalmente a soqquadro. “Che cazzo sono quelli?” 
Non è riuscito a conteggiarli, ma a occhio saranno almeno venticinque. Sembrano grossi pipistrelli, con quelle loro vesti scure e le cappe svolazzanti che imitano ali d’uccello, i cavi su cui sono sospesi talmente sottili accompagnati da un luccichio quasi impercettibile a ogni loro trazione. Non gli è molto chiaro il meccanismo con cui riescono a muoversi così in aria... Chi avrà mai generato una tecnologia simile? L’esercito? E contro chi hanno intenzione di dare battaglia? Kenny non sa a cosa pensare...
È inutile, conclude, a questo punto deve necessariamente arrendersi o finirà ammazzato. Sono superiori di numero e si spostano a una velocità assurda con quei dannati argani invisibili; non ha importanza quanti ne potrà abbattere, questo tipo di terreno è praticamente un parco giochi per loro - anche da profano uno lo intuisce - non ci sono punti d’apertura, o uno cieco in cui potersi riparare... 
Chiude e riapre le palpebre, modulando il ritmo pressante del respiro. Levi trema tutto sotto il suo mantello, ammutolito al punto da non osare a frignare, Kenny percepisce la sua paura come il bambino riesce a captare vividamente la sua. Per quanto abbiano avuto innumerevoli occasioni non si sono mai decisi a finirlo, questo gli suggerisce che hanno ricevuto preventivamente l’ordine di catturarlo vivo, a patto che l’obiettivo non si agiti troppo e decida di essere uno spiacevole incidente da redigere nel rapporto... Si costringe a riprendere il controllo di sé, la schiena addossata alla parete di roccia, la pistola ancora appesa alla destra. “Abbiamo fatto una grande stronzata, non sei d’accordo?” Ansima nel rivolgersi al neonato, la bocca storta in una smorfia. “Spero non te la sia fatta sotto nel frattempo... Non guardarmi con quella faccia!” Levi mugola infelice. “Sei pronto, scricciolo?”
Ora deve uscire con le mani alzate e tentare vie alternative.
 
Rumore di spari nella foresta. Due colpi netti, bang, bang, rapidi, in successione. 
Il mare di alberi si scuote, inghiottendone l’eco, come un lento sospiro…
 
“Sei sempre stato troppo ottimista, convinto di poterci salvare tutti.”
Hai una brutta sensazione. Speri sia solo una suggestione aizzata dalla tua codardia, ma non vuoi che lui se ne accorga. Continua a conversare, distrailo, è la tua unica preoccupazione, così che abbiano tempo per fuggire... “Se ben ricordo, quello eri tu,” lo provochi tenuemente, “o hai scordato del tutto chi eri un tempo?”
“Solo un folle,” ammette Rod, “e un ragazzo troppo buono...” Nei suoi occhi mesti sembra esserci ancora una traccia strascicata di quella persona, il giovane supplicante dietro le sbarre, forte dell’ingenuità di voler cambiare il mondo, che aveva lottato e pianto perché, come te, credeva nell’umanità di cui era parte. “Ma io non ho smesso di esserlo, che tu ci creda o meno, voglio ancora che si salvino tutti: così come lo voleva anche papà, e il nonno prima di lui, e chi ancora prima di loro...” lo confessa guardandoti negli occhi. “Tu, invece, stai solo scappando da tutto questo.”
Non ha idea di cosa sta dicendo, pensi, lui non ha mai visto la verità, ma sa perfettamente come farti sentire in colpa, ci è sempre riuscito... Ricordi come un tempo avevi ammirato tuo fratello, come il suo coraggio ti sia stato d’ispirazione: ora, per quella stessa persona, provi solo rammarico e un vago sprezzo. “Non ho nulla di cui biasimarmi,” se anche ne dubitassi, non è a lui che devi la tua lealtà, non più ormai: “questa è la vita che mi sono scelto.”
Per un attimo sembra aver covato delle aspettative, poi la sua espressione precipita definitivamente nella delusione. “E andrà a finire male...”
Sono anni che non ti senti rivolgere quella frase… Per un attimo è come rivedere un vecchio fantasma, un fantasma dall’espressione severa, nei cui occhi rasentava la medesima luce trascendentale che si riflette ora nei tuoi - e nostalgia è l’ultima parola che vi assoceresti…
“Parli come nostro padre,” alludi perfidamente, parole affilate brandite come spade, a infliggergli colpi laddove è più vulnerabile. Un sogghigno mefistofelico a decorarti le labbra, il volto che non hai mai mostrato ad altri tranne che a tuo fratello, come memento del sangue che vi unisce.
Non di meno la tua insinuazione pare incrinare la sua maschera compassata. Rod stringe i pugni sotto il mantello, rodendo internamente, ma qualcosa lo trattiene dal cederti la soddisfazione di vederlo trapelare... Serra la mascella facendo digrignare i suoi denti. “Mi sembra che tu ti nutra ancora dell’idea di poterne uscire vittorioso e indenne...”
È in quel momento che, dal valico di vegetazione alle sue spalle, Kenny Ackerman viene spinto avanti dai suoi uomini.
Il tuo sguardo gela.
Le braccia forzate dietro la schiena, manette ai polsi. Non sono riusciti a strappargli il bambino - non sai se abbia fatto resistenza o altro - così glielo hanno fatto tenere; in ogni caso lo avrebbe reso solo più vulnerabile. Levi sembra illeso... Saperlo salvo, tuttavia, invece di alleviarti, ha solo incalzato follemente la tua paura.
“Non solo nelle sue vene scorre sangue reale,” apostrofa Rod, con ribrezzo, “ma è anche un fottuto Ackerman...” Fa come per arricciare il naso, una smorfia denigrante quanto incredula, “può esistere mai una combinazione peggiore?” 
Le spalle di Kenny hanno un sussulto, lo sguardo ringhiante di una belva, immobilizzato dai fianchi in sù e la testa di Rod Reiss non abbastanza lontana dal suo raggio d’azione; fa per scagliarsi, ma viene trattenuto malamente dai suoi aguzzini e costretto in ginocchio dal calcio di un fucile, che le colpisce seccamente da dietro facendole piegare. Rod si gira appena, impassibile, e dopo essere stato interrotto ritorna a volgerti la sua attenzione.
“Quello che avete creato è un abominio...” Lo senti infierire, ti senti fremere. “Una mostruosità!” 
Dentro di te, cominci a vacillare. Le sue sono solo provocazioni, ti ripeti che non devi cedere, ma non sai nemmeno cosa fare, come uscire da questa situazione. Mantieni a stento la calma... 
Pensavi che esponendoti avresti potuto dare a loro una possibilità, ed eri pronto a morire per questo, eppure... Hai sbagliato a valutare la disposizione delle forze e delle risorse, fin dall’inizio. Ancora una volta ti sei dimostrato impreparato, intontito dal tuo letargico egocentrismo. 
Il pianto di Levi acuisce impotente sotto il cielo. Ti sta chiamando, ti sta cercando...
“Lasciali, tu hai me,” proferisci con un filo di voce, i lineamenti congestionati, la mano sul petto mentre indichi con insistenza te stesso. “Lasciali andare. Sono io quello che vuoi. Non te ne fai niente del suo cadavere.” Scuoti nervosamente il capo, nell’estremo tentativo di negoziare. 
Rod ti guarda. “Hai ragione,” assente, lo sguardo sgranato rilucente di follia. “Non c’è ne sarà affatto uno...” Sfila la revolver dalla cintura del soldato in piedi alla sua destra e la rivolge verso la nuca del neonato singhiozzante. “Perché io li voglio entrambi.”
 
Hai smesso di pensare. Hai smesso di respirare. 
Inizi a correre giù per la scarpata con la disperazione nel cuore, e sai che non serve a niente. Non arriverai in tempo, non riuscirai a fermarlo... Ma se dovete morire, hai pensato, almeno lo farete insieme.
Uno sparo. Secco, acuto, rapido...
Si arresta, la tua corsa. Si arresta, il tuo cuore.
 
I corvi scattano in volo, intonando quella loro triste melodia… cra, cra…
 
Le falangi avvinghiate al torace, il tuo corpo si impenna, piegandosi come se fossi stato colpito in pieno petto. E avresti voluto esserlo... avresti voluto esserlo... È muta agonia a dilaniare il tuo viso, spalancato sul mondo, un grido che mai vede luce.
Kenny si è voltato d’istinto, schermando il proiettile con il suo corpo, lo vedi cadere riverso di schiena insieme al bambino.
 
Insieme alle lacrime che sgorgano, nei tuoi occhi, non vi è traccia di tristezza... Solamente rabbia, selvaggia e desolante, e le scintille di una tempesta in cui il mondo intero brucia.
Il tuo palmo chiuso sulla lama di Kenny, il manico brandito senza tremore nell’altro, ferro contro carne lo senti scorrere verso il basso. Non avverti dolore. Non più. 
Fra le radure, una lancia di luce deflagra verso l’alto spezzandosi in infinite ragnatele incandescenti che vanno a trafiggere l’etere coperto. E il giorno diviene notte in una radiosità accecante...
L’onda tellurica percuote la terra. Mentre gridi la bestia grida con te, e l’eco si propaga da montagna a montagna, livida di dolore.
 
Il ricordo è sordo e bianco.
Sentore di sangue. Un calore viscido sui palmi. 
Omini svolazzanti spuntano tra gli alberi, uno sciame persistente e fastidiosa, le loro azioni incomprensibili ai tuoi occhi; te ne liberi schiacciandoli contro quegli stessi alberi e li senti strascicare lungo la corteccia, ossa e pelle, la stessa consistenza dei moscerini.
La foresta si tinge di rosso. Lungo la galleria di arbusti, i corpi sfilano discinti e scomposti, come pezzi di marionette in una fiera macabra.
Di ciò che avviene, solo frammenti permangono.
 
Hai camminato a lungo. 
Gli animali rifuggono alla tua vista, gli uccelli smettono di cantare. Il tuo corpo rifulge pallidamente nell’ombra silvestre, riarsa di febbre, gli abiti perduti.
Uno ad uno, trascinando i tuoi passi, hai continuato a camminare. 
Al delimitare del bosco, lasciando indietro la carcassa ormai decomposta del Titano, i tuoi sensi sono infine crollati. Prima le ginocchia, poi il busto, come un ammasso di scheletro che si sfascia in avanti.
Lassù, dove è solo freddo e silenzio. Più in alto delle Mura, e più in alto di qualunque cima di cordigliera, dove nessun uomo è mai giunto, minuscole scaglie di ghiaccio sbocciano precipitando in lente traiettorie oziose, sciogliendosi l’attimo prima di toccare il suolo. 
Fa così freddo.
Nulla ha più importanza…
Con il volto riverso a terra, le lacrime continuano a scorrere, da un occhio all’altro, bagnando l’erba, nutrendo le radici, e penetrando lentamente nelle profondità della montagna...
 
 
Cosa vedi ora?  
 
 
… Dalla cima di quel campanile il mondo diveniva un reticolato di geometrie e snodi di connessione. Ogni forma di rumore prodotto dalle creature che pullulavano la superficie - la via dei Mercanti ripercorsa da un intercalare crescente di contrattazioni, il martello rimbrottante del carpentiere al porto, stridore di cavi che trascinano le chiatte lungo i canali, ruote che rimbalzano contro gli acciottolati… - ogni singolo suono veniva captato dalla sensibilità dell’udito per poi diradarsi man mano che si saliva di quota, finché intorno a loro rimase solo la linea piatta di una nota che si tendeva all’infinito. 
Non era quello a cui pensava quando gli chiese di portarlo nel suo posto preferito...
Magari dipendeva dal modo in cui si erano introdotti - di soppiatto, scassinando il chiavistello mentre il custode schiacciava un pisolino - ma Uri si era ritrovato più volte a dubitare del proprio buon senso quel pomeriggio.
Aveva condiviso con lui quel posto, la sua postazione utilitaria quando giungeva in una città sconosciuta per gli incarichi assegnatogli, aprendogli un piccolo scorcio sul proprio mondo, senza preoccuparsi che Uri potesse leggere in quel paesaggio anche i luoghi più vulnerabili e inaccessibili del suo animo. Gli chiese di descrivergli ciò che i suoi occhi vedevano, e in cambio lui gli raccontò la sua versione.
Quando il sole stava per tramontare non avrebbe voluto dirgli addio, così gli disse di seguirlo e lo condusse in un posto ancora più in alto della torre campanaria, con la certezza che Kenny non ci avesse mai messo piede…

Da lassù, gli chiese nuovamente cosa riusciva a vedere.
 
Teneva fermo il cappello in testa perché non gli volasse via, il bagliore del crepuscolo che tingeva di rosso la sommità delle Mura. Vedo… il muro Maria! esclamò, facendosi ombra con la destra nell’atto di fissare un orizzonte imprecisato, una certa ebbrezza adolescenziale negli occhi.
Uri stentò a crederci, è impossibile, glielo disse - doveva essere un sogno, o un ricordo inventato, Kenny non avrebbe mai parlato così...
E poi, anche quel come si chiama, continuò lui, quel grosso bacino di blu zaffiro… dai, quello della filastrocca! 
Vuoi dire il “mare”?
Sì! gli fece eco con entusiasmo. Riesco a vedere anche il mare! 
Il biondo non sapeva decidere se e quanto fosse serio il suo scherzo, o se era solo l’ottimo Chateau Petrus annata 829 a parlare… Fece per increspare la fronte, arricciando le labbra poco convinto e vagamente piccato.
Forse ti ci vuole un rialzo. E non fece in tempo a replicare che si sentì mancare la terra sotto i piedi, sbatacchiando le palpebre sorpreso, sollevato improvvisamente per i fianchi.
Si lasciò sfuggire risate nervose, scuotendo il capo colmo di disagio e imbarazzo, tanto da non sapere dove posare le mani, una vaga paura di cadere: così si era aggrappato alle spalle di lui, e mentre lo pregava ancora di rimetterlo a terra, avrebbe voluto che non lo facesse mai.
La voce di Kenny in un orecchio, un rimbombo incerto, soffuso… 
Allora? Lo stai vedendo?
Magari vi lesse un filo di aspettativa, o magari lo prendeva solo in giro…
… Sì, Uri sorrise e smise di agitarsi, forse riesco a vederlo.

E sapeva che era una bugia, ma in un certo senso, era anche la verità…
 
 
“Cosa vedi ora?”
 
 
Un orizzonte immobile, il cielo e il suo riflesso sulla terra.
Nei tuoi occhi azzurri si estende una distesa d’acqua, così limpida e vasta che non ne riesci a scorgere la fine. 
Lungo le sue rive, passeggia un giovane uomo… 
Vedi la brezza scompigliare la sua zazzera d’ebano, il bianco della cravatta che sbanda come un vessillo, e la forma delle caviglie sottili, identiche alle tue, le sue impronte minute nella rena scura, mentre la spuma d’argento avanzando le sommerge ripetutamente…
Non hai bisogno di pronunciare il suo nome.
Il mare si riversa fuori dai tuoi occhi, in piccoli fiotti silenziosi, picchiettando come pioggia nei campi.
Sorridi e, finalmente, chiudi gli occhi. 
Pregando, stavolta, di non doverti più svegliare.
 
 
 


 
  
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