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Autore: Shichan    18/05/2022    1 recensioni
Shouto si guarda le mani, mentre l’immagine di Shinsou gli balena veloce in mente - e si dice che è perché gli sia di monito, perché la sua insinuazione sulla cicatrice gli ricordi che è sfregiato fuori quanto lo è dentro e che se anche volesse, seppure dovesse mai sperarci, se il desiderio mai dovesse arrivare a consumarlo sarebbe anche inutile sperarci.
[Percy Jackson AU; TodoShinso + BakuDeku e KiriTama menzionate]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Hitoshi Shinso, Izuku Midoriya, Shouto Todoroki
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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N/A: con questo ultimo capitolo la fic ha avuto un cambio di rating (da arancione a giallo) e ha perso uno degli avvertimenti (lime). Questo perché verso il secondo capitolo ho optato per un cambio di rotta per cui, alla fine, inserire una scena lime avrebbe avuto davvero poco senso. Il rating giallo rimane per la presenza di tematiche delicate, trattate nello specifico in questo capitolo. A chi è arrivato alla fine, grazie <3

 

All’inizio è strano anche solo fare un passo fuori dal campo sapendo di non stare uscendo per un’impresa ma per non tornare, almeno non spesso. Per lui, che in quasi dieci anni non ha concepito il “fuori” è peggio che combattere cento mostri. Il mondo mortale è nuovo, rumoroso e complicato. Non ha nulla dei silenzi delle foreste o della calma delle acque del campo a determinati orari del giorno, in quei periodi dell’anno in cui molti semidei sono via. Shouto deve innanzitutto abituarsi a muoversi tra loro sembrando uno di loro. Cerca più che altro di restare nell’appartamento che condivide ora con altre due persone - si offre di occuparsi lui di sistemare la maggior parte delle loro cose, almeno quelle che non reputano troppo private. Lascia loro il tempo necessario per il college, visto che lui non ne è toccato.

Una sera Midoriya gli chiede «Preferisci lavorare, Todoroki-kun?» e Shouto gli spiega che sì, lavorare lo preoccupa giusto nella misura in cui dovrà fare attenzione ad adattarsi a qualcosa del mondo esterno che è probabile non conosca.

«E in ogni caso,» aggiunge «non ho un diploma.»

L’espressione di entrambi, soprattutto di Midoriya, ricorda a Shouto quante cose di sé ha tenuto nascoste o, semplicemente, non ha condiviso. Come l’abitudine ad avere accanto per molto tempo solo Tamaki e Momo, ai quali con il passare degli anni non ha celato più nulla e con i quali ha smesso di dover spiegare, lo abbia influenzato nel suo rapportarsi con altri. Deve abituarsi di nuovo - anche se per uno come lui potrebbe non esserci niente di più difficile.

La sera dopo, quando non hanno ancora tolto tutto dagli scatoloni né sistemato tutti gli acquisti di prima necessità, Midoriya gli fa una domanda strana: «Se potessi scegliere vorresti studiare, Todoroki-kun?» e per Shouto il concetto di “scelta” è talmente astratto da non sapere bene cosa rispondere. Si è sempre trattato di avere o non avere, poter fare o non poter fare perché vietato. Ma il vago, ormai vaghissimo ricordo di sua sorella gli fa chiedere se non ci sia qualcosa, dopotutto, in una vita mortale. Una vita normale

Shouto alza lo sguardo e incrocia quello di Shinsou; lo vede rivolgergli un sorriso quasi invisibile e annuire impercettibilmente. 

Per tutto l’anno seguente Midoriya e Shinsou lo aiutano più di chiunque altro e per la prima volta dalle scuole elementari Shouto studia - è una scuola online e non deve forzarsi in una stanza con altre venti persone, né in corridoi gremiti di gente per cui non si sente pronto, ma è pur sempre più di quanto abbia mai avuto.

*

«Sicuri non sia un problema?» Midoriya chiede per quinta volta. Shouto e Shinsou si guardano e quest’ultimo sospira, preparandosi mentalmente a ripetere di nuovo che «Io e Todoroki potremmo quasi sopravvivere a una settimana senza di te.» con una discreta dose di ironia bonaria con cui aggiunge un «Non mi sento di promettere nulla per la cucina.»

Midoriya sbuffa divertito prima di dare voce a un «Di Todoroki-kun mi fido ciecamente.» lasciando intendere una falsa sfiducia verso il figlio di Afrodite, dal quale ottiene una spallata giocosa e un insulto amichevole.

Sono settimane che Midoriya ha annunciato una vacanza che sarebbe dovuta durare solo un weekend e che invece si è allungata su gentile invito della madre di Bakugo - pare che la donna abbia sottilmente minacciato suo figlio di portare il suo fidanzato a casa. Evidentemente nemmeno un figlio di Ares osa sfidarla al punto da rifiutarsi. 

Di per sé, quando Shinsou dice che possono sopravvivere una settimana senza Midoriya, è vero; Shouto non avrebbe alcun problema se non fosse la prima volta che lui e Shinsou hanno casa tutta per loro così a lungo e se questo non succedesse dopo un anno in cui hanno continuato ad avere atteggiamenti tipici di una relazione senza essere in una relazione. Per ora. Shouto non vede come possano passare sette giorni da soli senza affrontare l’argomento almeno una volta. Non sa nemmeno se è l’unico ad averci pensato.

*

Hanno passato mille sere come questa, a volte con Midoriya e altre da soli. Shouto non si è sottratto quando in alcune occasioni gli altri due semidei hanno proposto di uscire a godersi un po’ di divertimento fuori, come qualsiasi ragazzo mortale della loro età - così si è fatto trascinare persino in discoteca. Non male. Musica un po’ alta, difficile parlare, ma ha capito presto che non si va per la conversazione nella maggior parte dei casi ma per ballare. Shouto non sa ballare, ma pensa di essere diventato discreto nell’oscillare qua e là passando il peso da un piede all’altro. Il bello di andare con due persone che può ormai definire almeno amici è che nessuno dei due si aspetta che lui salga su un cubo e diventi l’anima della serata. Midoriya in alcuni momenti preferisce starsene in disparte su un divanetto con lui e Shouto gliene è grato; allo stesso modo ha saputo apprezzare anche l’essere l’unico con un tavolino vicino e dei drink sopra a guardare gli altri due stare in pista insieme. 

Preferisce le serate come questa, non è un mistero, ma si adatta. Più di quanto pensava sarebbe riuscito a fare, non solo nella vita mortale ma nella convivenza con due persone. C’è qualcosa di rilassante per lui nel peso del proprio corpo sul divano, nelle luci leggermente abbassate per godersi meglio quella che è l’offerta di Netflix di volta in volta. Gli piace che, quando sono in tre, abbiano tutti il loro ruolo: Midoriya tende a scegliere i papabili film, perché ne ha una conoscenza incredibile, mentre Shinsou si occupa del cibo e a Shouto in genere spettano le bevande. Specie in inverno, con la cioccolata calda. 

Stasera non è così diverso, solo che Shinsou ha scelto il film e hanno optato per del cibo cinese da asporto. I valorosi contenitori delle pietanze sono impilati in modo più o meno casuale sul tavolino basso davanti al divano, ormai vuoti, e Shouto vede con la coda dell’occhio che Shinsou non si sta perdendo una battuta di quelle finali del film che ha occupato le loro ultime due ore e un quarto. Quando i titoli di coda cominciano a scorrere sullo schermo, Shinsou si volta a guardarlo: «Il secondo domani?» chiede e Shouto annuisce. Non è il sonno il suo problema, ma le dita di Shinsou intrecciate alle sue che lo hanno distratto per gli ultimi venti minuti. 

Tenersi per mano non è più nemmeno una sorpresa, in teoria, non dopo un anno in cui sono passati da furtivi sfiorarsi delle dita a gesti molto più evidenti che, a un certo punto, immagina persino Midoriya non abbia più potuto far finta di non vedere. E’ una delle tante cose che rientrano negli atteggiamenti da relazione che lui e Shinsou hanno cominciato ad avere l’uno verso l’altro, con una naturalezza che Shouto non avrebbe mai creduto possibile. In un anno hanno dormito insieme - Shouto non ha proprio dormito se si considera il suo personale record di svegliarsi cinque volte in sei ore -, si sono baciati, si sono rivolti gesti d’affetto ormai lontani dal rapporto che hanno invece entrambi con Midoriya. 

Non ne hanno ancora mai parlato.

*

«Spengo la luce?» domanda, riferendosi a quella del corridoio e affacciandosi verso la stanza di Shinsou. Lo trova seduto sul proprio letto, con l’aria di chi si è estraniato negli ultimi minuti per pensare a tutt’altro. Il figlio di Afrodite alza lo sguardo su di lui, soppesa un attimo le sue parole e annuisce; allo stesso tempo, però, gli fa anche cenno di entrare e di sedersi accanto a lui, un paio di colpetti sul materasso. 

Shouto cerca alla cieca l’interruttore della luce e dopo aver immerso il corridoio nel buio varca la soglia della stanza di Shinsou. La grandezza non ha niente in più o meno rispetto a quella di Midoriya o di Shouto stesso, anche se la disposizione dei mobili a volte è speculare l’una all’altra e il resto lo fanno gli oggetti personali. Si siede accanto a Shinsou e aspetta, osservandone il profilo. Non c’è una particolare tensione nel corpo altrui, almeno per quello che riesce a vedere, ma lo nota accigliarsi appena. Ha lo sguardo puntato verso il muro, neanche la parete gli avesse appena fatto il peggiore dei torti. 

Ci prova, il figlio di Ares, a muovere la mano fino a sfiorare il braccio altrui. Vorrebbe dargli una sorta di sostegno, lasciargli intendere che se c’è qualcosa da dire può prendersi tutto il tempo che vuole. Troppe volte Shinsou ha rispettato i suoi silenzi perché Shouto possa anche solo pensare di non rivolgergli la stessa premura e la stessa fiducia. Così attende, fin quando il figlio di Afrodite pronuncia un basso: «Resti a dormire?» che lo coglie di sorpresa. Non per l’invito in sé, già rivolto in altre occasioni, quanto più perché non c’è mai stato bisogno di quella pesantezza nel chiedere una cosa come quella. 

Shouto non ha ragione di rifiutare, proprio come tutte le altre volte - anzi meno delle altre volte - e si alza quando lo fa Shinsou, lasciandolo infilarsi sotto le lenzuola e la coperta leggera per primo, seguendolo subito dopo. L’altro gli chiede di spegnere la luce, che è sul comodino dal lato di Shouto, e quando sono nella penombra sente Shinsou muoversi per accostare il corpo al suo come ha fatto milioni di volte ormai. Il bello della sua stanza è che, al contrario di quella di Shouto, ci sono un sacco di piccole fonti di luce che fanno sì non sia mai completamente al buio: le tende non del tutto tirate, da cui finisce con l’entrare qualche luce artificiale della via, la console che ha fin troppe spie luminose per quanto piccole. La lampada sulla scrivania, dalla luce bluastra e sempre accesa. Shouto non sa perché sia così.

Sente Shinsou aggiustarsi contro di lui, intrecciare le gambe alle sue e portare un braccio a poggiarsi sul suo fianco. Le prime volte Shouto non sapeva bene come condividere uno spazio così con un’altra persona e con Shinsou nello specifico, ma lentamente ha trovato la sua dimensione. Gli piace sentire il peso dell’altro contro di lui, tanto quanto gli piace allungare una mano a sfiorargli la guancia quando ha la sensazione che qualcosa non vada e che Shinsou abbia bisogno di questo da lui: un gesto intimo. La dimostrazione, anche non a parole, di tenerci. 

«Tutto okay?» mormora piano, cercando di incrociare lo sguardo altrui. Avere la lampada blu alle spalle gli rende più semplice distinguere i contorni del viso di Shinsou e, in minima parte, anche le sue espressioni. Lo sente sospirare piano, voltare appena il viso quanto serve perché possa dargli un bacio sul palmo della mano. Lo fa spesso e tutte le volte a Shouto si chiude lo stomaco come se fosse la prima. 

Non è raro che una vicinanza simile li porti a scambiare baci leggeri, e non è raro nemmeno che poi quei baci riescano a spingersi un poco più in là. A Shouto piace che Shinsou non abbia mai fretta, che non sembri avere l’urgenza di toccarlo e lo approcci sempre con i tempi giusti per lui. Nonostante questo non si illude, però: hanno vent’anni ormai e Shouto non si ritiene stupido. Lo ha capito anche interfacciandosi con le altre persone che se si sta insieme è molto difficile che non si voglia avere un approccio fisico più profondo, fatto meno di carezze sopra i vestiti e baci lenti. Ci ha pensato tanto e tante volte, si è aspettato che Shinsou prima o poi volesse e pretendesse di più. Sospetta sia sempre il momento quando, come ora, la lingua di Shinsou gli sfiora le labbra per provocarlo e lui le schiude in risposta; quando la mano rimasta sul proprio fianco si avventura sulla sua schiena; quando, forse volontariamente o forse no, le gambe intrecciate tra loro si spostano e cambiano appena posizione e succede di sentire che Shinsou è eccitato e potrebbe volere di più, desiderare di più, aspettarsi di più—

A volte Shouto pensa che potrebbe fare sesso con Shinsou. Immagina come sarebbe e la risposta che riesce a darsi è non così terribile. Pensa di volerlo abbastanza, se lo vuole anche il figlio di Afrodite. Non ne ha bisogno, non lo sceglierebbe tra mille altre opzioni, ma non direbbe di no. Pensa di volere che Shinsou sia la persona accanto a lui, quella che Tamaki anni fa gli ha chiesto se non desiderasse avere prima o poi. Ma Shouto non sa se questo possa bastare a qualcuno, se Shinsou possa accontentarsi delle briciole che sente di poter dare, perché non ha molto altro da offrire - non ha una famiglia da fargli conoscere come Bakugo e Midoriya, né un aspetto semplice che eviti di urlare abuso domestico, raccontando una storia che, dipendesse da lui, affonderebbe nell’oceano a fare compagnia alle creature di Poseidone. E a tutte queste mancanze, ora anche questo.

«Ehi.» Shinsou lo chiama, il tono basso ma con una nota di preoccupazione che lo porta a cercare il suo sguardo con il proprio. La mano del figlio di Afrodite è sulla sua guancia, il fianco abbandonato «Respira, okay?» gli dice e solo allora Shouto si accorge di aver trattenuto il respiro. Non lo definirebbe panico, non sente un peso sul petto, un macigno che gli impedisce di ispirare ed espirare come è successo qualche volta da bambino, durante i primi mesi al campo. Non è paura, quella la conosce bene, ha una connotazione ben precisa. Forse è la consapevolezza di essere inadeguato.

«Shouto.» si sente chiamare di nuovo e non può non concentrarsi completamente su Shinsou, non quando usa il suo nome per la prima volta quando per anni è stato attento a non farselo scappare mai tra le labbra - nemmeno quando i baci sono diventati la norma, come anche il tenersi per mano, né quando hanno provato a spingersi più in là anche si di poco, pochissimo. Shinsou non lo ha mai chiamato per nome e non gli ha mai chiesto di farlo e adesso, proprio ora, se lo lascia scivolare tra le labbra quasi fosse la cosa più naturale del mondo per lui. 

«Sto bene.» riesce ad articolare ma entrambe le mani di Shinsou sono sul suo viso, lo tengono fermo non per costringerlo a guardarlo ma come se volessero offrirgli un appiglio, qualcosa di fisico e concreto che è lì e non può sparire all’improvviso finché non sarà Shouto a scostarsene. Ma questo gli rende difficile evitare lo sguardo di Shinsou e riconoscere una punta di rimprovero nel modo in cui corruga la fronte: «Non mi mentire,» lo sente dire «posso aspettare finché non trovi le parole giuste, ma non chiudermi fuori. Per favore.»

Il primo istinto di Shouto sarebbe di spingerlo via. Allontanarlo, alzarsi e andare nella propria stanza - o forse via da casa, di nuovo al campo mezzosangue dove non ci sono situazioni dubbie, non c’è il doversi approcciare fisicamente, il dover trovare le parole, non c’è il dover affrontare le mancanze e i difetti e tutto ciò che c’è di sbagliato. Al campo deve solo allenarsi, occuparsi delle stalle o dell’armeria e poi combattere, combattere, combattere. Quello può farlo, Shouto, in quello è bravo. Potrebbe insegnare ai più giovani, aiutare Chirone, oppure offrirsi di essere parte di una squadra di recupero di giovani semidei per evitare che si perdano o vengano uccisi prima ancora di vedere l’entrata del campo mezzosangue. 

«Cosa vuoi da me?» gli scappa detto prima di trattenerlo come ha fatto tante altre volte. E’ poco più di un sussurro, ma non può sperare che a Shinsou sfugga quando sono nel completo silenzio e l’altro è in attesa di un qualsiasi segno o parola da parte sua. Si odia per averlo chiesto ma, al tempo stesso, forse è questo il  modo giusto: può ascoltare quello che Shinsou desidera e dirgli che non ha tutte quelle cose da offrire. Può ammettere la verità e possono restare amici.

«Tu cosa vuoi darmi?» gli domanda Shinsou di rimando ed è la peggiore situazione possibile, perché Shouto non riesce ad arrivare ad elencare nemmeno cinque cose, nella sua mente. E non si aspettava di doversi sbottonare prima di aver saputo con certezza di non rientrare in quello che il figlio di Afrodite vuole. 

Si morde l’interno della guancia in un gesto nervoso e Shinsou abbassa una mano, la porta appena sotto le lenzuola per andare a prendere la sua. Lo sente stringerla senza però intrecciare le loro dita come fa di solito; Shouto immagina che non voglia farlo sentire costretto nemmeno solo con un gesto e questo gli stringe il cuore, perché Shinsou non ha mai fatto niente più di quanto Shouto fosse disposto o pronto ad accettare. Si merita una risposta chiara. Si merita di sapere cosa ha di fronte.

«Tutto.» mormora Shouto, senza guardarlo, sentendo l’imbarazzo sotto la pelle «Ma non ho niente.» aggiunge «Mia madre o il mio patrigno non chiederanno mai di conoscerti,» confessa come se, arrivato a questo punto, dovesse estrarre tutto il veleno insieme anche se consapevole che farlo non salverà la vita di nessuno «non vedo mia sorella da dieci anni. Ho una cicatrice da prima di entrare al campo e non è una medaglia al valore, non è per una battaglia con un mostro che i mortali non conoscono. E non so perché ma non ho… non ho tutto questo bisogno di fare sesso. Non ce l’ho mai avuto. Mi piace stare con te, penso che se tu volessi farlo potrei, però—»

La mano di Shinsou, quella che ancora sostava sulla sua guancia, si sposta sulla sua bocca e finisce con il coprire il resto di quello che Shouto vorrebbe dire. Cerca un contatto visivo con il figlio di Afrodite e trova sul suo viso un’espressione che non ha mai visto: mortificazione. 

«Non ti chiederei mai» lo sente calcare più possibile sulla parola «di fare una cosa del genere solo perché lo voglio io. Nessuno lo dovrebbe pretendere da qualcuno. Possiamo parlare di tutto il resto, se vuoi, ma ho bisogno che tu capisca che non devi scendere a compromessi su questo solo perché potrei volerlo io.»

Shouto non sa cosa rispondere - rispetta Shinsou tanto da sapere che non sarebbe il tipo da forzare nessuno, ma al tempo stesso ha dato per scontato di doversi adeguare lui all’altro e non il contrario. 

Però lo sente stringergli la mano, forte, come quando fuori dall’infermeria aspettavano di sapere che un loro compagno non era morto sotto i loro occhi. Gliela stringe di rimando, e sospira piano.

*

Dormono comunque nello stesso letto, quella notte; all’inizio Shouto pensa che non riuscirà mai a prendere sonno e nella sua testa non fanno che esserci mille domande su cosa dovrebbe fare, dire, se sia un errore rimandare il discorso al giorno dopo. Ma Shinsou ha la sensibilità di non stargli addosso in nessun modo, nemmeno fisicamente, e allenta pian piano quella stretta fino a limitarsi a intrecciare le dita alle sue, lasciandolo libero di interrompere quel contatto in qualsiasi momento senza difficoltà.

Prima di accorgersene Shouto scivola in un sonno senza sogni.

*

La mattina dopo si sveglia con l’odore di buono nell’aria e lenzuola ancora tiepide al proprio fianco. Shinsou appare sulla soglia della cucina nello stesso momento in cui Shouto entra in soggiorno; il figlio di Afrodite ha in mano un vassoio con quelli che sono inequivocabilmente pancake. Di qualsiasi cosa decideranno di parlare entrambi sembrano concordi sul farlo a stomaco pieno.

E’ una colazione silenziosa fatta di piccoli boccono, ed è probabile che tutti e due si stiano sforzando di mangiare per dare una parvenza di normalità a una situazione che, a ben pensarci, di normale non ha mai avuto granché. 

A un certo punto, quando né lui né Shinsou hanno più la scusa del cibo Shouto è tentato di lasciare che sia il figlio di Afrodite a incalzarlo ma, alla fin fine, si rende conto che di quel passo potrebbero non parlare mai. Già in più di un’occasione Shinsou ha dimostrato di rispettare i suoi segreti e i suoi silenzi. E’ improbabile che decida di forzarli proprio ora.

Per quanto sia difficile, nonostante a Shouto qualsiasi inizio suoni sbagliato, si ritrova a rompere il silenzio con un «Mia madre mi ha rovesciato dell’acqua bollente addosso perché non ce la faceva più.»

L’espressione inorridita che si dipinge sul viso di Shinsou gli fa capire subito di aver cominciato la sua confessione nel peggior modo possibile. Eppure - Shouto non saprebbe spiegare perché e razionalmente non ha senso - da quel momento in poi le parole diventano più semplici da pronunciare. Come se il peggio fosse stato detto e da lì non potesse esserci nulla di più difficile. Il fatto che Shinsou non lo interrompa mai ma ascolti in rispettoso silenzio aiuta più di quanto entrambi realizzino.

Così Shouto parla, a lungo, più a lungo di quanto abbia mai fatto. Gli racconta di ricordi vaghi, di un’infanzia che pensa sia stata normale per un po’, anche se non la ricorda bene. Di un uomo che è il suo patrigno, quello scelto da sua madre e con cui si è anche sposata, uno che era già padre. 

«Ho due fratelli e una sorella più grandi,» gli confessa «mia sorella credo vorrebbe vedermi.» ammette, ma gli spiega anche di come si sia abituato presto alle urla in casa, quelle fatte di litigi e di paura. Non ricorda bene il primogenito dei Todoroki ed è un tabù in quella che chiamava casa - a un certo punto non c’è più stato e Shouto ricorda di aver chiesto e di aver capito presto che sarebbe stato meglio non farlo. Da una parte sua madre e sua sorella finivano sempre per sembrare sull’orlo delle lacrime, mentre suo fratello e il suo patrigno continuavano ad arrabbiarsi. Shouto aveva solo sette anni e non voleva far arrabbiare né intristire nessuno. Perciò, semplicemente, aveva smesso di chiedere.

«Credo che il mio patrigno volesse per me quello che aveva voluto per mio fratello.» dice a Shinsou quando gli sembra doveroso dargli tutte le informazioni perché possa capire «Ma non sono sicuro mia madre volesse. Penso abbia provato a dirgli di no. Non ricordo bene, ma forse questo non era accettabile per lui.» che è un modo delicato per dire che quanto è seguito è stato per una divergenza di opinioni su cosa fosse meglio per lui, una sfociata in una realtà da cui di solito adulti competenti tirano fuori i minorenni com’era lui all’epoca. Non sa ancora molto del sistema dei mortali, Shouto, poco più di quanto ne sapesse allora, ma nessun bambino ha bisogno di conoscere i propri diritti di fronte alla legge per percepire qualcosa di sbagliato o da temere. 

Shouto vede Shinsou stringere il bordo del divano, forse per frenarsi dall’interromperlo e dire la propria. Gli è grato perché capisce che se dovesse fermarsi adesso, non finirebbe mai di raccontargli che a volte ha solo sentito sua madre e il suo patrigno alzare la voce l’uno contro l’altra, senza distinguere le parole; alcune sere sua sorella sgattaiolava nella sua stanza e gli diceva di dormire insieme perché era un giorno di festa, e Shouto ci ha creduto finché ha capito che non potevano esistere così tanti giorni speciali; altre volte, quelle che poi sono diventate le peggiori, ha sentito sua madre piangere. Finché lei non ha smesso di parlare, di sorridere ed è diventata silenziosa e Shouto pensava, da bambino, che fosse il modo migliore per non dispiacere nessuno. Così è rimasto in silenzio anche lui, imparando a schivare la rabbia degli altri più possibile, fino a quando gli è sembrato di dimenticare come fosse parlare per dire cosa si voleva.

«Ho risposto male una sola volta.» dice, riferendosi al ricordo più vivido che ha, quello di un uomo molto più alto di lui che lo strattona per un braccio e Shouto che ha solo nove anni e non ha la razionalità per capire che è il momento peggiore per alzare la testa: «Mia madre mi ha guardato come se avessi appena distrutto la cosa più importante che teneva con sé da anni.» sussurra, ed è come avere di nuovo un macigno in gola e non saper più parlare perché se tace, se non dice cosa vuole, allora niente potrà andare storto.

Si ricorda, confessa a Shinsou, di aver pensato cosa ho fatto? prima di sentire solo dolore e di aver urlato.

«Mi sono risvegliato in ospedale. Poi un satiro è venuto a prendermi.»

Rimangono in un silenzio pesante, carico di un segreto mantenuto per dieci anni. Shouto non sa se preferirebbe avere Shinsou a stringergli la mano o no, in questo momento, ma di certo vorrebbe potersi alzare e chiudersi nella sua stanza, schermirsi in qualche modo dal mondo. Una parte di lui, quella semidivina sospetta, prova un profondo rifiuto per il modo in cui si sta aprendo lasciando tra le mani del figlio di Afrodite una tale debolezza che sarebbe impensabile non aspettarsi di vedersela rivolgere contro alla prima occasione utile. Se non avesse una stima immensa e così radicata per il giovane che gli siede di fianco, Shouto non crede sarebbe riuscito a parlare fino a ora. Eppure nemmeno quella basta a dargli la spinta per l’ultimo sforzo, per quel qualcosa ancora non ammesso ad alta voce ma che fa tutta la differenza possibile nel modo in cui si approcciano l’uno all’altro, in quello che forse vogliono entrambi.

Ispira, trattenendo l’aria nei polmoni come durante la sua prima estate al campo, quando farlo lo aiutava a stare calmo. Si piega in avanti, poggia i gomiti sulle proprie gambe e fissa il tavolino davanti al divano prima di buttare fuori l’aria. 

«Forse se non avessi detto nulla mia madre starebbe ancora bene.» mormora piano «Mi sento ancora a metà: non sono un eroe e in alcuni giorni non sono nemmeno una persona. Sono solo uno sfregiato che non ha un posto dove tornare: mio padre non ha mai risposto l’unica volta in cui avrei avuto bisogno di lui, mia madre potrebbe non riconoscermi nemmeno, il mio patrigno forse vuole un perdono che non so se saprò mai dare. Ho solo i residui di una famiglia e le macerie di una vecchia casa in cui non torno da dieci anni. Non so come dare qualcosa a qualcuno, perché non ho niente.»

Lo ha accennato altre volte, sebbene mai con tanta chiarezza, con la cruda sincerità di adesso. Si è crogiolato nelle occasioni in cui Shinsou gli ha detto, pieno di fiducia, che era molto più di quanto pensava di essere - e ora si è messo da solo di fronte alla verità e quella gli pesa sulle spalle da morire. Nonostante questo, sente Shinsou poggiarsi contro il suo corpo e dirgli mi dispiace e non è vero.

Affonda il viso nelle proprie mani, respira forte e il macigno nella sua gola si scioglie. Per tutti questi anni ha dimenticato come piangere e come respirare.

«Mh.» pronuncia a labbra strette, dando modo alla persona dall’altra parte del telefono di continuare a parlare. Si sente tirare appena e sposta lo sguardo alla propria sinistra, trovando Shinsou in procinto di sedersi sul divano. Lo vede sistemarsi con il busto girato verso di lui, in modo da poterlo guardare, e poggiare la spalla e la testa contro lo schienale. Una mano dà un paio di pacche leggere contro quest’ultimo, in un tacito invito per Shouto a imitare la sua posizione. Quando lo fa, prestando ancora attenzione alle parole che sente vicine al suo orecchio, il figlio di Afrodite gli tende la mano e Shouto la prende con la propria libera. Vede le loro dita intrecciarsi, anche se Shinsou lascia morbida quella presa come sempre.

La voce dall’altra parte del telefono cambia tono, per un momento, quasi avesse cercato di mantenersi più neutra possibile fino a ora. Con poco successo, a dire il vero, ma Shouto non gliene fa una colpa; lui, d’altronde, non è stato particolarmente loquace da quando ha ricevuto risposta.

«Martedì?» domanda, ascoltando qualche parola di conferma dall’altra parte. Cerca lo sguardo di Shinsou e lo trova subito, insieme a un annuire del capo e a una leggera stretta alla propria mano: «Va bene. No, non sono da solo.» comunica, visto che l’altra persona si offre di prenotare dove mangiare. «Io e Hitoshi.» aggiunge e si scambiano poco altro, oltre ai saluti, prima che lui possa chiudere la chiamata. Si sente come se si fosse addestrato al campo mezzosangue per due giorni interi senza un attimo di riposo.

Shinsou non gli ha ancora lasciato la mano e aspetta di avere la sua attenzione per chiedergli: «Com’è andata?»

Shouto abbassa lo sguardo sulle loro dita intrecciate, osserva il pollice di Hitoshi carezzargli piano il dorso e curva le labbra in un sorriso quasi impercettibile.

«Sembrava contenta della chiamata. Dice che anche mio fratello riuscirà a venire.» ammette, la voce sorpresa di sua sorella quando gli ha detto chi fosse ancora a risuonargli nelle orecchie. Non è stato facile scegliere di rintracciarla o, meglio, di chiamare un numero recuperato già mesi prima senza mai trovare il coraggio di usarlo per contattarla. Se Shinsou non gli avesse promesso di essere il suo supporto o qualcunque cosa di cui avesse bisogno, Shouto è abbastanza certo che ci sarebbero voluti altri mesi - forse anni - prima di decidersi a provare. E’ ancora lontano dal pensiero di poter incontrare sua madre, ovunque lei si trovi ora, e non riuscirebbe a trovare la calma sufficiente anche solo a chiedere del suo patrigno ma è meglio di nulla. Meglio di non sapere a cosa ricondurre le proprie origini o continuare a vivere con il senso di colpa di aver lasciato andare in pezzi sua madre, per quanto razionalmente capisca di essere stato all’epoca solo un bambino.

Non si può pretendere che i bambini siano gli eroi della storia, gli ha detto Shinsou dopo aver ascoltato la sua confessione, il racconto di una famiglia che potrebbe non tornare insieme mai, ma per la quale Shouto ha ancora il diritto di provare a fare qualcosa. Era tutto ciò di cui aveva bisogno per avere un po’ di coraggio, forse.

Shouto si muove, accostandosi all’altro. Lo vede rimanere fermo dove si trova e offrirgli un sorriso sempre più evidente man mano che Shouto si fa vicino, fino a quando quel sorriso non lo sente contro le proprie labbra. Mentirebbe se dicesse di sentirsi del tutto adeguato solo perché ora ha ammesso le difficoltà che sente e le paure di cui si è circondato per anni, rifiutandosi testardamente di riconoscerle e farci i conti. Ma che Hitoshi gli abbia sempre offerto una scelta rispettando i suoi tempi, che abbia riconosciuto in lui la difficoltà di chi doveva trovare se stesso prima di trovare chiunque altro, quella è una verità assoluta.

«Wow, cosa ho fatto per meritarmi questo?» scherza su Shinsou, il tono divertito, prima di imitarlo e ricambiare quel bacio con uno altrettanto leggero: «Te lo avevo detto, Todoroki: guarda che orribile persona sono, ti ho stregato con l’invincibile potere di Afrodite e ora ti ho in pugno. I pancake potrebbero aver aiutato.»

Shouto non riesce a trattenere uno sbuffo divertito, sebbene cerchi di mascherarlo per non dargli soddisfazione. Quando è certo di non rischiare di tradirsi e mentre l’altro continua a fare battute sul suo fascino manipolatore, gli stringe di più la mano, quasi ad attirarne l’attenzione. Shinsou abbandona il siparietto a cui stava dando corda lui stesso, focalizzandosi immediatamente su di lui - Shouto crede di essere innamorato proprio di questo: del modo in cui, non importa cosa stesse succedendo fino a un istante prima, Shinsou riesce sempre a capire quando ha bisogno che lui ci sia. 

«Hitoshi?»
«Mh?»
«Se mia sorella e mio fratello fossero delusi—» comincia, ma Shinsou lo interrompe prima che possa dare voce a un’insicurezza mai cambiata tra la sua vita tra i semidei e quella tra i mortali: «Hai un figlio di Afrodite e uno di Atena pronti a intervenire. Il piano migliore credo sarebbe sguinzagliargli contro il tuo fratello semidivino per nulla guerrafondaio.» assicura Hitoshi, riferendosi a Bakugo «Gira voce che Izuku abbia un certo ascendente su di lui.»

Questa volta Shouto si concede lo sbuffo divertito trattenuto prima e rilassa le spalle, cercando di nuovo le labbra altrui per un bacio. Gli piace non doversi per forza chiedere se Shinsou vorrebbe di più, dovrebbe avere di più, se dovrebbe forzarsi a raggiungere uno standard diverso. 

«Grazie.» mormora, come se fosse tornato bambino e avesse paura di dirlo troppo forte. 

C’è un mondo di macerie, tutto intorno a lui. Poi, tra quelle, una mano che tiene la sua.

   
 
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