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Autore: LawrenceTwosomeTime    29/05/2022    0 recensioni
Marla potrebbe essere morta, o stare morendo. Marla potrebbe avere un'ultima chance di riprendersi la sua vita. L'unica certezza, per Marla, è che niente è come sembra. In suo aiuto giunge Tara, che di vivere non ne vuole sapere. Un thriller metafisico incentrato su angosce sepolte, sentieri male illuminati e bizzarre amicizie.
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quando la Stalker aveva polverizzato Marla, Tara era trasecolata.
Assistere impotente mentre la tragedia si consumava, ecco a quanto ammontava il suo aiuto.
Marla, che desiderava soltanto vivere, aveva incontrato una prematura dipartita nel tentativo di condurla fuori da lì. Non era giusto.
Si sentiva talmente prostrata che non riusciva nemmeno a piangere.
Stava ancora fissando gli ultimi brandelli d’esistenza dell’amica disperdersi all’intorno come foglie nel vento, che la figura torreggiante si era girata di soppiatto con un sorriso compiaciuto, pregustando la caccia successiva.
In quel preciso istante, Tara aveva provato un impulso selvaggio.
La sua risoluzione iniziale non era cambiata: non voleva vivere e non voleva svegliarsi, aveva chiuso con quella roba. Però Marla lo bramava con tutto il cuore.
Non avrebbe infangato la memoria dell’amica, né gettato alle ortiche le sue ultime volontà.
In un empito di ribellione, s’era slanciata verso il letto e aveva abbrancato un lembo del lenzuolo. Tanto era bastato.
Non è esatto affermare che perse conoscenza: piuttosto, si può dire che acquisì coscienza.
Il suo corpo le parve divenire più pesante, e un profluvio di emozioni le sgorgò in petto: un torrente dal corso mutevole, ramificato e irrazionale.
Lo shock le fece smarrire sé stessa per qualche attimo.
Infine, si ritrovò.
 
Sedeva in uno stanzino dalle pareti verde acido, il polso ammanettato a un tavolinetto d’acciaio. Lo scomodo loculo era freddamente illuminato da lampade fluorescenti.
Di fronte a lei campeggiava un opaco specchio bidirezionale, identico a quelli usati negli interrogatori della polizia.
Provò a voltare il capo. Alle sue spalle ce n’era uno identico.
In verità, non era quella la cosa più strana: dal momento in cui era arrivata, aveva avuto la vaga impressione che un’entità estranea si fosse insinuata nel suo cranio, subito dietro agli occhi.
Non sapeva descrivere con esattezza cosa fosse, forse perché – nell’ottica della percezione che ne aveva – era l’entità a descrivere lei. Costantemente.
Non la definiva in senso stretto, questo no, ma era come se la interpretasse a beneficio di qualcun altro. Di chi, rimaneva un enigma fuori dalla sua portata.
Armeggiando un po’ con le manette, scoprì che il lucchetto era aperto.
Che bizzarra formalità, si disse.
Prima mi arrestano, poi mi lasciano libera.
Tara ignorava che i ceppi servivano ad ancorare la sua psiche all’Anticamera del Risveglio: si trattava di una precauzione temporanea volta a favorire il recupero della memoria prima dell’imminente ritorno al piano dell’immanente. Non sempre le manette funzionavano, e non sempre la procedura di recupero andava a buon fine, ma in fondo nessun sistema è infallibile al cento percento.
Tara si guardò intorno spaurita.
Ora sento le voci. Devo essere uscita di cervello. E cos’era quella faccenda sull’anticamera del risveglio?
Ma la presenza aveva già svelato sin troppo, giacché il suo ruolo consisteva principalmente nell’osservare e nel catalogare: il fatto che quel crocicchio custodisse il segreto dello sposalizio tra corpo e anima doveva rimanere, per l’appunto, un segreto.
“Ho preso nota” disse Tara ad alta voce. L’entità non replicò.
“Certo, come no.”
La donna si diresse al primo specchio.
Esaminatolo da vicino e stabilito che era una normalissima lastra di vetro oscurato-
Normalissima un paio di palle, questa roba è inquietante da morire.”
Stabilito che, malgrado le apparenze innocue, la lastra di vetro l’impauriva, si decise comunque – e non senza una massiccia dose di ritrosia – a posarvi sopra una mano.
Fu allora che accadde.
Spandendosi a macchia d’olio come argento vivo ch’eruttasse dalla terra, un’emorragia di colore tracimò nel punto in cui Tara aveva toccato la superficie, rivelando una camera d’ospedale.
La donna rimase momentaneamente muta.
“Curioso” sussurrò.
La scenetta che s’era trovata davanti – così rigorosa nella disposizione degli attanti, i cui corpi languivano adagiati in pose plastiche degne dei preraffaeliti – aveva alcune caratteristiche familiari: una su tutte, il vaso di azalee fresche sul comodino; e anche il biglietto a forma di cuore e il motivo a pois della poltroncina.
Il resto, però, appariva del tutto alieno.
La donna dai corti capelli grigi rannicchiata nell’angolo, per dirne una, non le dava affatto l’impressione d’essere sua madre.
E il tipo sul letto cosa c’entrava con lei?
S’intuiva che doveva essere stato un bel ragazzo. Le mani delicate dalle lunghe dita, sapientemente decorate con tatuaggi tribali, suggerivano un temperamento sensibile, e il volto, nonostante i tratti spigolosi, emanava una singolare purezza.
Peccato che gran parte del suo corpo fosse straziata da orribili ustioni, alcune delle quali decisamente gravi.
La maggioranza della testa era stata risparmiata, come testimoniava il sottile strato di capelli che vi cresceva, e le altre lesioni stavano sicuramente guarendo. Certe cicatrici, tuttavia, sarebbero rimaste in via permanente, a meno che non si optasse per un intervento di chirurgia ricostruttiva.
Non osava neanche immaginare cosa si celasse sotto il camice. Quando si fosse svegliato, l’uomo avrebbe avuto una brutta sorpresa; se si fosse svegliato.
“Poveretto,” mormorò Tara “non penso che potrei sopportare un peso del genere.”
E poi si esaminò le mani.
Le mani delicate dalle lunghe dita, sapientemente decorate con tatuaggi tribali.
 
Il panico montò un poco per volta, schiumando alla stregua di un cane rabbioso, e il ringhio incombente si trasformò nel ruggito di una mareggiata, lo spettro della ragione ridotto al silenzio; la prosciugò d’ogni autocontrollo, le fece desiderare di essere già morta.
Registrò distrattamente la caduta, il brusco abbraccio del pavimento, le sue mani… dio, quelle mani oscene su cui aveva perso ogni autorità, che non poteva-che non osava adoperare per compiere una penosa verifica di sé.
Sentiva una frattura che non aveva né inizio né fine, una crepa equiparabile a una voragine irradiarsi dal proprio centro di gravità.
Il buio soppiantò la luce, il passato si sostituì al presente.
 
Aveva tentato più volte di trovare il suo posto nel mondo, ma il mondo non la smetteva di girare – e ad ogni giro seguiva un cambiamento.
Addetta all’imbottigliamento per un’azienda vinicola.
Il prodotto si difendeva egregiamente, ma l’etichetta aveva un design a dir poco amatoriale. L’azienda era fallita.
E fu sera e fu mattina.
Commessa in un negozio di dischi.
Apparentemente, nessuno comprava più i compact disc. Il negozio s’era visto costretto a capitolare.
E fu sera e fu mattina.
Cameriera in un ristorante.
Licenziata per aver preteso di essere messa in regola. Magari quei bastardi avessero chiuso i battenti.
E fu sera eccetera eccetera.
Così, le era venuta un’idea stravagante: “e se aprissi un’attività per conto mio?”
I pronostici non la davano vincente, inetta negli affari e timida com’era, ma i suoi l’avevano sempre supportata e conosceva un paio di persone che versavano nella sua stessa situazione, persone povere di fondi ma ricche di risorse; aspettavano solo un forziere in cui allocarle.
Fu così che aprì la sua bottega di tatuaggi. E fu così che conobbe Marzia.
Un giorno si presentò da lei e le chiese di tatuarle un uroboro sulla spalla.
Nello spazio di pochi minuti, lei e Tara s’erano lanciate in una fitta discussione sul simbolismo alchemico e la mistica neoplatonica, perché sì, era vero che Tara faticava a comunicare col prossimo, ma tutto ciò che riguardava metafisica e teosofia le scioglieva la lingua più di una bottiglia di bourbon – che comunque consumava in gran quantità.
Il loro scambio fu talmente intenso che ad un certo punto temette di aver combinato un disastro, eppure la sua mano rimase salda e Marzia ne fu soddisfatta.
Dopo, uscirono a fumarsi una sigaretta. Marzia in realtà non fumava, ma ogni scusa era buona per protrarre l’incontro.
Si frequentarono a lungo, sempre fingendo che il loro rapporto fosse nato da una voglia passeggera, una fluttuazione occasionale; Tara imparò molte cose da lei, che non guardava in faccia a nessuno e si esprimeva come uno scaricatore di porto.
Per certi versi, erano una l’antitesi dell’altra: Tara, artista dissoluta, bevitrice e fumatrice accanita, che si scioglieva in lacrime di fronte a una commedia romantica; e Marzia, architetto dalla reputazione inappuntabile, ma selvaggia, sagace e sboccata fuori dallo studio.
Sinché non poterono più fingere, e decisero di pianificare il grande passo.
Che cos’era quella sensazione disgustosa? Gioia?
Sì, Tara era felice. Felice e un po’ spaventata, perché la gioia è l’antitesi della disperazione, e la parola “pace” deriva da “patto” – un accordo provvisorio di non belligeranza che intercorre tra una guerra e l’altra.
La felicità è un concetto così gravido di presagi.
Divenne incauta, decise che non le bastava.
Perciò diede voce al tormento che l’assillava da tutta la vita; osò avanzare una richiesta che mai si sarebbe sognata di esternare, lei, quasi sempre passiva e accomodante, lei, modesta e di poche pretese.
Era il momento propizio per farlo.
La madre non reagì con il calore che si sarebbe attesa, ma presto capì che il suo cruccio non derivava da egoistici preconcetti, quanto piuttosto da una legittima apprensione.
“Ci hai pensato a fondo?” aveva chiesto.
“Sei sicuro di volerlo fare?”
L'aggettivo maschile non lasciava spazio ai malintesi.
“Ci penso da quand’ero bambino” era stata la sua risposta.
“Come ti devo chiamare?” gli aveva domandato.
Col padre, che pure gli voleva bene, aveva avuto qualche difficoltà in più.
“Sei sempre stata molto influenzabile” aveva esordito un giorno.
“Io capisco che la prospettiva di cambiare, di diventare qualcun altro, suoni molto… avventurosa, per così dire. Ma non si tratta solo di te. O meglio, è proprio di te che si tratta.”
Lui lo ascoltava senza batter ciglio.
“Le compagnie che frequenti, il modello di società che vi passate l’un l’altro (aveva davvero tracciato un parallelo tra la società e le malattie veneree? Oh sì, l’aveva fatto), vi condiziona a un livello profondo. Anche se ora non te ne rendi conto, tu vuoi cambiare perché te l’ha imposto la società.”
Mentre il genitore lo fissava intentamente, forse nel tentativo di capire se le sue parole avevano spezzato il “maleficio”, lui aveva emesso un lungo sospiro.
Raccolta la forza di sorridere, s’era limitato a rispondere: “Papà, sai che cerco sempre di accontentare tutti. Ma non significa che io sia stupido. Secondo te mi voglio sottoporre a questo calvario per esaudire i desideri di qualcun altro?”
Il discorso era caduto lì.
 
Marzia s’era dimostrata singolarmente parca di opinioni.
“Se lo vuoi fare, fallo. Il corpo è tuo.”
Avrebbe dovuto aspettarselo, da una mentalità così aperta. Non aveva manifestato il minimo dubbio, nessuna contrarietà: tipico del suo carattere. Dopotutto, tacere è acconsentire, giusto?
Definendo la transizione un “calvario”, aveva dato prova per l’ennesima volta di grande ingenuità: non fu un semplice calvario, fu uno stillicidio di sofferenze tra le più eterogenee.
Le sedute dallo psichiatra, la terapia a base di testosterone, la mastectomia, l’isterectomia. Affrontò quel percorso in una sorta di trasognata indolenza, ripetendosi che era ciò che desiderava, ciò che meritava.
Al risveglio dal primo intervento dei due previsti, fu come se si fosse ridestato da un vecchio incubo a cui ormai aveva fatto l’abitudine. Ma non doveva conviverci per sempre, e certi cambiamenti andavano compiuti; in quel momento lo seppe con certezza.
Nel frattempo, la futura moglie aveva provveduto a progettare una bellissima casetta in cui apparecchiare il loro nido d’amore.
Teneva molto a che la planimetria fosse tradotta in un reale spazio abitabile, e gliel’aveva fatto presente più volte, posticipando ancora e ancora la data del matrimonio.
Come Penelope che tesseva e disfaceva la tela, aveva riflettuto lui in seguito… con l’unica differenza che, trascorso l’intervallo stabilito, l’abitazione era stata ultimata.
Quando lo portò a visitarla, venne sopraffatto dall’emozione. La bottega che aveva fondato stava per trasferirsi in uno spazio più grande, e il matrimonio si sarebbe svolto di lì a un mese.
L’esterno appariva austero e insieme sbarazzino, mentre gli interni puntavano tutto sull’essenzialità, con pavimenti in faggio e suppellettili funzionali ma disadorne.
“Meglio così,” si disse “una volta riempita sarà davvero completa. Proprio come me.”
Ed era stato allora che Marzia aveva inferto la pugnalata.
“Non posso farlo.”
Non poteva fare cosa? Di che parlava?
“Di noi. Di me e di te. Non funziona. Mi dispiace tanto.”
Si riferiva al matrimonio? Sarebbe bastato annullarlo, non c’era fretta.
“No, mi riferisco alla nostra relazione. Ѐ finita.”
Era una questione di sesso? Era perché non avrebbero più fatto sesso come una volta?
“No, certo che no. Va bene, forse è anche per quello, ma…”
Ma?
“Non ti riconosco più! Io non ti riconosco, Tara (la violenza con cui la ferì quel nome fu peggio di qualunque percossa). Quando ti guardo in faccia vedo un’altra persona, non la donna di cui mi sono innamorata.”
E allora perché non aveva detto niente? Perché aveva aspettato di costruire una casa per tirare fuori quella storia?
“Non ne avevo idea, ok? Come potevo saperlo? L’ultima cosa che volevo era frenarti… cazzo, ero felice per te. Stavi prendendo in mano la tua vita, eri padrona di te stessa. E dopo l’operazione mi sono detta che stavo solo attraversando una fase, che mi sarebbe passata durante il trasloco. Ma non ce la faccio.”
Era scoppiata in lacrime. Vederla piangere era più di quanto potesse tollerare.
In fondo, chi stava soffrendo davvero, tra loro due?
Ancora una volta, era stato licenziato. Licenziato dal lavoro, licenziato dall’amore; licenziato dalla vita.
Quella notte si stese sul divano della sua nuova casa e bevve. Non aveva detto niente a mamma e papà.
Mentre ingollava uno dopo l’altro gli antidolorifici prescritti dal medico, scoprì che il sentimento prevalente in lui non era disperazione o rabbia, ma una frenetica smania di rimettere a posto le cose.
Forse, se ne avessero parlato meglio… forse potevano dare una svolta alla loro relazione, farla diventare un rapporto aperto… magari così sarebbero riusciti a ristabilire l’equilibrio… oppure avrebbe dovuto proporle una pausa? Una pausa sottintendeva che prima o poi avrebbero ripreso a frequentarsi… ma cosa voleva dire frequentarsi? Rimanere amici? La tensione dell’attesa, lo strazio di non sapere… che cosa tremenda.
Di tornare indietro non se ne parlava.
“Mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa” aveva decretato un noto condottiero. Non poteva essere più d’accordo. Era quello che era, e non sarebbe cambiato.
E perciò prese sonno circonfuso di questi e altri pensieri, ponderando per ultima – e assai svogliatamente – l’ipotesi del suicidio.
Togliersi la vita ora che ne aveva finalmente conquistata una? Sarebbe stato ironico. Come buona parte della sua esistenza, del resto.
Per quanto non rimpiangesse il cammino che aveva scelto, si scoprì a detestare non tanto la propria condizione individuale, ma la condizione umana nella sua accezione più vasta: perché alle persone toccava di ricevere in dote un corpo fisico?
La tragedia dell’uomo, la maledizione che lo perseguitava sin dalla notte dei tempi, s’incarnava nientepopodimeno che… nella carne. Quanto sarebbe stato bello volar fuori da quella galera e interrompere per un solo istante le miserie del mondo terreno.
 
Non fu l’alcol a tradirlo, e nemmeno gli antidolorifici (ne aveva presi due in più rispetto alla dose indicata), e neppure la sigaretta accesa che stringeva tra le dita quando si era addormentato sotto la leggera coperta di plaid; ma la combinazione di tutt’e tre le cose.
Rammentava l’acre odore di bruciato, il miasma soffocante invadergli i polmoni, e quel rossore appena velato che pulsava debolmente dietro le palpebre.
Aveva provato ad aprire gli occhi, a riscuotersi, a sollevarsi sulle braccia, ma era stato inutile. Era ormai prigioniero di una fatale letargia.
Prima che potesse avvertire il fuoco consumargli la pelle, era già svenuto a causa del fumo.
 
Si riscosse in preda a spasmi incontrollati.
Per un attimo, gli era sembrato che il suo corpo bruciasse, come divorato da una fiamma. Guardò le proprie mani.
Si trovava nella sala degli interrogatori.
Provò a issarsi da terra e ad appoggiare il peso sulle ginocchia. L’operazione non gli richiese grossi sforzi.
Attentamente, con estrema delicatezza, lasciò scorrere le dita sotto la maglietta, accarezzandosi il petto glabro, saggiando la consistenza delle lunghe cicatrici, lì dove era stato il seno.
Poi toccò il retro del braccio sinistro, in corrispondenza del gomito, la fibrosa concavità da cui avevano estratto il tessuto per ricostruire ciò che gli mancava.
Si fregò la barba incolta.
“Capisco” disse a nessuno in particolare, con una voce un po’ più profonda di quella che ricordava. La parola riecheggiò nella stanza vuota.
“La parlantina sboccata non mi appartiene, l’ho rubata a un’altra persona. In realtà sono un coglione insicuro che tenta di nascondere le sue debolezze. Scioccante.”
Si alzò in piedi.
“E no, non volevo morire sul serio, ero solo stanco di prendere pedate nei denti. Non mi sembra che ci sia nulla di strano in questo, dico bene?”
La presenza non ribatté, ma l’uomo intuì che il messaggio doveva essere giunto a destinazione.
“Lo ammetto, potrei essermi odiato per la decisione che ho preso. Per una volta che scelgo di fare a modo mio, ecco che le cose se ne vanno in malora! Di nuovo.”
Fece una pausa e guardò affettuosamente la madre attraverso lo specchio. Poi gettò un’occhiata sarcastica al vaso di fiori e al buffo biglietto che ora portava il nome dell’ex-fidanzata.
“Marzia mi ha spezzato il cuore, ma proprio non riesco a incolparla. Va detto che ha sempre avuto un pessimo tempismo… le azalee si regalano alle donne incinte. Quella troia.”
Si girò e attraversò la stanza a grandi passi, diretto verso l’altro specchio.
“Ricapitolando: non mi esprimo come dovrei, ho una percezione totalmente sbagliata dei miei obiettivi e fino a qualche momento fa non sapevo nemmeno di avere l’uccello. Bè, sapete che vi dico? Mi sta bene. Non devo per forza essere uguale a ciò che ero ieri, o diverso da ciò che sono oggi, o… che cazzo ne so, coerente. Finché quell’immagine mi appartiene, posso essere chi voglio.”
Diede una vigorosa lucidata al secondo specchio, che si aprì sulla veduta leggermente sopraelevata di una foresta: La foresta.
L’anticamera della morte, lo spazio condiviso, il primo livello. Il secondo, se si teneva conto dell’ospedale.
“Hm” borbottò l’uomo.
“Sempre più curioso.”
Francamente, non capiva perché gli venisse concessa una scelta, considerata la pena che si era dato per giungere sin lì.
Quello che non poteva sapere era che Marla non aveva ancora incontrato la sua fine, e che – per quanto infinitesimale – esisteva ancora una possibilità di salvarla.
L’uomo sussultò, esterrefatto, quasi non credesse alle proprie orecchie. Il che era comprensibile, visto che l’improvvisa rivelazione sul destino dell’amica non gli era giunta nella forma di onde sonore, ma piuttosto come un abbagliante, disarmante diluvio cognitivo.
In fin dei conti, forse la misteriosa presenza era davvero intenzionata ad assisterlo.
Abbassò gli occhi e vide ciò di cui aveva bisogno, pronto ai suoi piedi.
Dopo aver raccolto il pesante martello da muratore, Taron lanciò un’ultima occhiata alla madre, a sé stesso disteso sul letto, alla vita che era in procinto di recuperare.
E poi vibrò una violenta mazzata al secondo specchio.
Gli abeti tracimarono nello stanzino, travolsero lui, e il tavolo, e l’immagine proiettata sulla prima lastra; il sapore della morte gli riempì la bocca, e ogni possibilità divenne di colpo aleatoria ed incerta.
 
Sgranocchiando un biscotto nella sua portineria, la vecchia mise giù il ricevitore.
Era così facile influenzare la gente nell’Anticamera del Risveglio.
Soprattutto gente dello stampo di Taron.
 
Questi si alzò ancora una volta, spazzolandosi gli aghi di pino dalla felpa, e non ebbe neanche il tempo di chiedersi dove potesse trovarsi la sua casa e se fosse ancora integra, che un alito brinoso gli attanagliò i calcagni e gli mozzò il respiro in gola.
Il cielo color cenere venne straziato da un bagliore azzurro simile a un’aurora monocromatica, e la Stalker fece capolino tra gli alberi.
Taron trasalì.
Era lo stesso personaggio atroce che ricordava, solo che – per qualche oscura ragione – risultava ancor più ammorbante.
Il suo volto gli rimescolava le viscere in un modo che non riusciva a spiegarsi.
Era scosso al punto che rimase incantato a scrutarla nel tentativo di decifrare l’acuto, intimo disagio che gl’incuteva.
La figura si fece sempre più vicina e, folgorato da un lampo di consapevolezza, Taron infine capì.
 
“Marla?”
  
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