Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    31/05/2022    0 recensioni
Prosegue la saga de “Le cronache dei draghi e dei re”, cominciata con “L'apprendista di fuoco” e continuata con “L'avvento dei Sette”. Il conflitto è ormai scatenato. Mentre le case nobiliari che governano l'occidente continuano ciecamente a misurarsi tra di loro, l'oriente è chiamato da solo al confronto con un nemico intenzionato ad estinguere l'intero genere umano. Sarà forse possibile sconfiggerlo utilizzando quell'antico e sopito potere chiamato magia? E al fine di utilizzare al meglio tale potere, è forse il caso che i sette maghi dell'origine vengano definitivamente annientati? È partendo da questi interrogativi di base che Constant della Casa Lannister sta infine preparando la sua guerra.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 11

IL MAESTRO E L'ALLIEVO

 

 

 

Roccia del Re era distrutta. Quando Gino ci arrivò, l'intera città che aveva conosciuto come splendida, terribile e solenne, che tutto richiamava meno l'immagine di qualcosa che potesse essere ferito, adesso sanguinava. Buona parte delle mura cittadine erano distrutte: almeno una metà di quelle meridionali dell'est, verso il Mare Stretto. C'era gente che andava e veniva, di tutti i generi: poveri, ricchi, uomini e donne, membri del clero. Anche guardie cittadine e inoltre quei mostri che in parte alla guardia s'erano sostituiti da quando c'era il re Targaryen: quelli che sembravano più bestie che uomini, ma che degli uomini avevano le braccia e le gambe. Comunque tutti questi, nessuno escluso, avevano in volto un'aria disperata, come se un male terribile e incurabile si fosse abbattuto sull'intera città.

Anche una volta entrati dentro, la situazione non cambiava. Gino percorse per una buona metà la via principale del mercato del pesce, per poi raggiungere il decumano che la tagliava e che, con qualche tortuosità, lo avrebbe condotto verso il quartiere dei palazzi di potere. Ma più avanzava e più la cosa pareva farsi critica. Se un nemico esterno, anche uno debole, con un esercito di qualche centinaio d'uomini ben armati avesse voluto prenderla, la Capitale sarebbe caduta nel giro di qualche ora: non ci voleva essere un genio tattico-militare per accorgersene; Gino non lo era. Era tutto molto caotico, e in questi casi l'impressione era come se una città perdesse la propria guida. Gino non sapeva se il re Targaryen, Lord Braff e gli altri del Concilio Ristretto fossero ancora lì, magari si trovavano normalmente a lavoro... ma se invece del re Gino avesse trovato un nuovo capo-popolo aizzatore delle folle o qualcosa di questo genere, beh non sarebbe rimasto sorpreso. Questo era il quadro estetico che gli si presentava davanti quando fece, dopo lunghissimo tempo, il suo ritorno in quella dannata e non molto odorosa città.

Per quanto invece riguardava il quadro dentro di sé, la confusione era pure superiore. La prima cosa cui Gino anelava in quel momento era la sicurezza per il suo bambino, ma si trovava in forte difficoltà. Altogiardino non era più un luogo sicuro per lui e... Lungotavolo lo era in un certo senso ma non per molto. Lui aveva lasciato il piccolo a Lungotavolo con Peyra, che però gli aveva fatto capire che non poteva tenerlo. Lungotavolo era alla fame, viveva la più dura carestia da cent'anni a quella parte, per colpa di Jon Barthalo che stava governando l'intera regione come una specie di aguzzino: tutta la ricchezza collocata al centro (dove lui risiedeva) e le briciole in periferia. Jon andava rimosso da quel soglio, e l'unico che poteva attuare questo era Gino, ma solo con l'aiuto dei suoi “amici” alla Capitale. E qui veniva la parte difficile: dopo la rivelazione fattagli in punto di morte da Sir Rollo – di cui Gino si fidava ciecamente – il giovane Barron aveva scoperto che quelli della Capitale – il re e Lord Braff – non erano affatto suoi amici. Loro, insieme a Jon e ai defunti fratelli Tyrell (Shane e Lorthan), avevano ucciso suo padre, precipitandolo in tutto quel casino che il giovane Barron aveva vissuto in quegli anni di disperazione e responsabilità non richieste, servendosi di lui e manipolandolo. Braff poi, quello che più degli latri gli si era rivolto come un amico, era colui che – stando a Rollo – aveva materialmente compiuto l'atto, uccidendo suo padre: il Lord della volpe. Dunque riassumendo: Gino rivoleva Altogiardino o almeno voleva cacciare Jon da quel luogo, ma per cacciare Jon da quel luogo gli servivano Braff e il re Targaryen-Naharis, i quali però – in cuor suo – Gino voleva morti a loro volta. Doveva bluffare, come tutti loro avevano fatto fino a quel momento nei suoi riguardi. E fu con questo spirito che aveva lasciato Lungotavolo, e lì il suo pargoletto di poche settimane, per raggiungere la Capitale del Regno Unificato (o almeno quello che una volta si chiamava così), non aspettandosi però di trovarsi in quella baraonda in cui la città più popolosa dell'occidente versava.

Gino si avvicinò dunque a una guardia rinoceronte che impediva l'accesso al palazzo degli uffici di Lord Braff, con in mano un'alabarda decisamente non rassicurante. Era incappucciato: non era il caso che la plebe sapesse che lì in mezzo a loro c'era uno che aveva governato una delle regioni più ricche d'occidente, per quanto per breve tempo. Disse piano al mostro alabardato: «Ehm... sarebbe possibile vedere Lord Braff?»

«No» rispose quello, definitivo.

«Ehm... sarebbe un'urgenza e... i-io... lui mi conosce, sono Lord Gino»

«Lord Gino?»

«Della Casa Barron» fece il giovane Lord, pianissimo e guardandosi attorno che nessuno lo udisse, a parte il mostro.

«Braff non è qui, signore» una mosca si posò sul muso della guardia. Infastidita, quella si diede un gran ceffone da sola, e poi completò: «Ha lasciato l'edificio ore fa. Pochissimo dopo l'attacco»

«C-che attacco ha subito la città? Io vengo da fuori...»

«Un drago»

«Un... d-drago?»

«Sì o... una specie. Un drago fatto di luce».

Gino non ebbe più altro da chiedere: era sicuro che quel gaglioffo non sarebbe stato in grado comunque di spiegare meglio le parole che aveva appena pronunciato, considerando poi che evidentemente non aveva alcuna voglia di chiacchierare. Neanche Gino ce l'aveva, ma aveva l'impellenza di incontrare Lord Braff. Il suo nemico Lord Braff.

Indeciso sul dafarsi – anzi veramente proprio senza idee – diede le spalle al palazzo che così bene aveva conosciuto ai tempi in cui lavorava per Lorthan Tyrell, e cominciò a guardarsi intorno. Una bella cesta di pesche freschissime richiamò la sua attenzione. Apparteneva a un venditore con due enormi carri ricchi di roba: frutta e verdura. Ma a Gino interessavano solo le pesche. Sentendosi incoraggiato dal fatto che erano settimane che per campare aveva rubacchiato, decise di sfruttare l'occasione di una distrazione del mercante, e afferrò un paio di pesche mettendosi a degustarle in giro per il mercato. Aveva appena dato il suo terzo morso alla prima pesca, quando dalle spalle all'improvviso una voce lo fece sobbalzare.

«Se ne parlassi con il mio collega Maestro delle Leggi» disse «probabilmente potrei farti condannare al taglio della mano»

«Lord Braff» salutò dunque Gino, voltandosi a guardare se avesse ragione. Ce l'aveva: il suo vecchio amico dal pizzetto rosso lo stava guardando con un po' di pietà. Gli rispose: «Ti sei dato alla macchia?»

«La città ha subito un grave attacco. Molte cose sono cambiate in pochissimo tempo. Non so dirti come andrà a finire ma... la regina parrebbe aver preso il controllo»

«E il tuo re?»

«Senza sensi in un letto. Da ore. Hai scelto il momento peggiore per venire a prestare quel giuramento che da mesi ti dicevo di fare»

«Sì, mi rendo conto... possiamo parlarne in un luogo più appartato?»

«Certamente» chiuse il Maestro dei Sussurri, e s'incamminò da qualche parte dentro la città vecchia. Gino lo seguì.

Si ritrovarono in quello che, dalle tappezzerie e dai suoni che si udivano in sottofondo, non poteva che essere un bordello di bassa lega. Veramente curioso come luogo in cui un politico della Capitale si sentisse al sicuro. Barron non resistette e domandò al suo amico/nemico: «Vi sentite sicuro in un lupanare?»

«Sì, ho degli interessi. Non preoccuparti se senti voci in sottofondo, non possono ascoltarci. E, anche se lo facessero, le tue parole sarebbero comunque al sicuro: te lo giuro»

«Dei tuoi giuramenti ho imparato a fare a meno, Lord Braff» dicendo ciò Gino si sedette presso il morbido sofà appena indicatogli dal politico.

«Siamo qui per insultarci?» gli rispose quello «Vuoi davvero che ti rinfacci quanta ragione avessi nel consigliarti di non fare di testa tua a Castel Granito? Adesso... rubi dalle bancarelle. Un Lord che ruba dalle bancarelle credo di non averlo sentito neanche nella più fantasiosa delle novelle»

«Sì, va bene: smettiamola. Ho bisogno del tuo aiuto»

«Per?»

«Riprendermi Altogiardino. C'è Jon Barthalo adesso, messo lì da Constant. Non se ne andrà se glielo chiedo per piacere»

«Sì, lo so. Ma come vedi: neanche noi, qui, siamo nel massimo delle nostre disponibilità»

«Beh, ci sono due modi per eliminare chi controlla un'importante città. La guerra su campo aperto o...»

«O...?»

«L'omicidio»

«Ahah» rise Lord Braff «se penso alla prima volta che ti ho visto: un giovanotto sperduto dentro un Concilio Ristretto, svogliato e annoiato, messo lì per ordine del paparino»

«Non menzionare mio padre!» fece Gino fra i denti.

Braff, che era furbo e le parole erano il suo mestiere, subito se ne accorse e replicò: «Perché? Nei tuoi giorni di vagabondaggio lo hai rivalutato? Non eravate in pessimi rapporti?»

«Sì, ma da quando è morto la mia vita non ha fatto che peggiorare»

«Conosco il tuo punto di vista, me lo hai già manifestato molte volte. Ma permettimi ancora una volta di replicarti che, per quanto mi concerne, diventare Lord e governare forse la città più ricca del continente occidentale, a mio giudizio non è una vita così male. E sono sicuro che se uscissi da questo bordello e chiedessi alle prime dieci persone che mi vengono in contro, bene o malvestite, loro mi direbbero che non è una vita così male»

«Sì, beh: ora la rivoglio. In realtà, non voglio proprio Altogiardino, ma voglio che Barthalo sloggi da quel soglio. E, se devo essere io a sostituirlo, allora lo farò»

«Come ti dicevo, hai scelto il momento peggiore per venire qui a fare la pace. Il re non può ascoltarti»

«Lo stai facendo tu»

«Io... da quando quel coso è venuto fuori dal cielo dell'oriente e ha bersagliato la città, ho perso parte del mio potere. È una cosa che ci accomuna tutti: Tararus adesso riesce a lanciare solo qualche fulminino, il re non si sveglia e anche Yashua, il sacerdote del dio del fuoco, mi dicono sia in pessime condizioni. Il drago di spirito ci ha tramortiti»

«Braff, ti prego» insistette Gino posando una mano sulla spalla del Maestro delle Spie e guardandolo con occhi languidi; non sapendo bene come insistere, continuò così: «sono padre adesso. Ho nascosto il bambino in un luogo di fiducia e...»

«Lo hai lasciato a Lungotavolo»

«Mh... sì ma...» balbettò Gino colto alla sprovvista «c-come?»

«Ma è ovvio! Dove accidenti avresti potuto lasciarlo, se Altogiardino non l'hai mai considerata casa e Roccia del Re men che meno»

«Sì, va bene, comunque... Braff... voglio che il piccolo stia al sicuro»

«E non sai dove cavolo andare» dedusse il politico. La conversazione tuttavia stava prendendo una piega che a Gino non piaceva affatto. Lo stesso Maestro dei Sussurri continuò: «Barthalo sta affamando la periferia. Concentra tutte le ricchezze sulla sua Capitale, in preparazione di non si capisce quale guerra, probabilmente in aiuto di Constant»

«O magari vuole solo sembrare minaccioso. Del genere: “meglio che non ci proviate neanche a toccarmi, perché guardate che difese sono in grado di organizzare”»

«Sì, mi convince. Sei diventato molto perspicace, giovane Barron. Anche maturato, oserei dire»

«Quindi, come vedi, il mio piano è perfetto. Non ci vuole una guerra per rimuovere Barthalo, ci vogliono delle abili spie. Degli abili sicari»

«Sì, c'è solo un problema in questo tuo perfetto disegno»

«Ti ascolto...»

«Sei tornato mani e piedi alle mie dipendenze. E a quelle del re che servo»

«Ma non c'è nessun re che servi in questo momento: dico bene?»

«Vedrò quello che posso fare» cambiò discorso Braff «forse racimolando un po' di energia posso mandarti un paio dei miei guerrieri-ombra. Ma due o tre, non di più. Loro ti addestreranno lungo la strada e poi... ti aiuteranno a combinare l'atto che però tu stesso, in ultima istanza, dovrai eseguire. Solo tu puoi uccidere Jon Barthalo, Gino. Ti va bene?»

«Non chiedo di meglio»

«Ehm... sarà molto rischioso» fece il politico, forse lasciando trasparire un po' di preoccupazione.

«Beh, cos'hai da perdere?»

«Molto» fece quello guardando intensamente negli occhi «Cioè... cioè un amico. Più di un amico»

«Ti ringrazio, Lord Braff» rispose il Barron, fintamente sincero. Poi ritornò alla carica: «Quindi come restiamo? Devo seguirti o...»

«Assolutamente no. Attendi che tramonti. Sarò io a farmi vivo».

E Gino attese. Per un'intera giornata, a non far nulla se non rubacchiare. Siccome era anche diventato bravino e se ne rendeva conto, ormai non c'era più neanche quell'ebrezza dovuta al rischio che lo beccassero e gli mozzassero una mano. Fu forse una delle giornate più lunghe della sua vita, trascorsa ad osservare parenti disperati alla ricerca dei loro figlioli o genitori ammalati da qualche parte sotto le macerie, oppure in un qualche ospitale improvvisato per la strada. C'era un senso di tristezza nell'aria che poteva esser raccolto con un cucchiaio. E anche lui si fece prendere da questa amarezza. Fu con gioia dunque che scattò in piedi quando vide avvicinarsi verso di lui tre giovanotti bassini e biondini, ammantati come le tipiche guardie del Maestro dei Sussurri: gli uomini-ombra.

Gino non sapeva come Braff li reclutasse, ma ormai aveva concluso che sicuramente ci fosse qualcosa di oscuro che legasse tutti quei giovanotti (perfino più giovani di Gino stesso) al misterioso e antico politicante della città. Qualcosa che non fosse semplicemente uno stipendio, insomma. Qualcosa di ben più vincolante, di magico magari. Sicuramente di oscuro.

«Siete voi...?» fece Gino per cominciare, in realtà sapeva che erano loro, ma non sapeva come cominciare.

«Sì, Lord Gino», gli rispose quello chiaramente più spigliato dei tre: il capo insomma, «sono Callum. Prima di andare... Lord Braff ha insistito perché tornassi a chiedervi: siete proprio sicuro? Jon Barthalo è sempre un Lord di Altogiardino e non sarà facile penetrare le sue difese. Se Lord Braff dovesse scommettere, dice che le probabilità che noi falliamo e moriamo tutti sono assai più alte di quelle di una riuscita dell'impresa. Diciamo che lui scommette su un ottanta percento contro venti»

«Beh, voi avete nulla da perdere, ragazzi?»

«Nossignore, siamo qui per servirvi»

«Bene. Nemmeno io».

 

 

 

Il drago Requiem riceveva informazioni esatte e puntuali dai draghi di spirito che aveva inviato per il mondo: uno per il consiglio di guerra di Braavos, uno per Gabryaerys Targaryen e i suoi eventuali eredi, uno per Daniel di Cowain e i suoi eventuali eredi, uno per Constant e uno per Napoleon Lannister e infine due per suo fratello Kyrios, all'altro capo del mondo. La magia, antica e potente, lo aveva indebolito molto ma gli dava una serie di opportunità, come quella di conoscere esattamente se il suo intento fosse andato a buon fine. E le cose andavano male. Se il primo drago di luce che aveva raggiunto l'obiettivo era stato in grado di sterminare il Lord dei Goldsmith, che del consiglio di guerra di Braavos era stato il capo e l'ispiratore e la cui dipartita gli garantiva la rinuncia a un contrattacco umano per mesi, il secondo drago ad arrivare dove doveva – quello di Roccia del Re – era stato annientato. Probabilmente aveva fatto un gran casino, tra l'altro scoprendo lo stesso Requiem e rivelando a tutti quelli che avrebbero potuto riconoscerlo (per esempio i suoi antichi servi Braff e Tararus) che lui era ancora vivo e combatteva ancora. Ma per il resto il drago di spirito della Capitale aveva fallito: il re degli uomini dell'occidente era ancora vivo, anche se malconcio, e pure il suo erede. Erano intervenuti degli altri umani dalle capacità magiche, potenzialmente ereditate dai suoi fratelli draghi. C'era stato un mago del fuoco con poteri palesemente derivati da suo fratello Nidhogg o da suo fratello Kyrios. Uno che non era Constant, che Requiem aveva conosciuto bene e la cui magia avrebbe riconosciuto immantinente. Dopodiché si erano anche alternati, nello scontro nei confronti del suo secondo drago di spirito giunto alla meta prefissata, almeno altri due maghi: Tararus probabilmente, o qualcuno che come lui conoscesse con una certa profondità la magia del cielo in tempesta, e poi il re medesimo, Gabryaerys, il cui potenziale magico d'attacco non era invece niente di che: come Braff, Gabryaerys era un mago da illusioni. Sapeva sparire, ricomparire, viaggiare lontanissimo in tempi risicati. Forse, da buon Targaryen, aveva anche lui ereditato in qualche maniera la magia del fuoco ma... nulla che a Requiem fosse giunto come qualcosa di preoccupante.

Eppure, quell'accrocco di fattucchieri improvvisati era riuscito a mettere in piedi una resistenza sufficiente. Il che significava che almeno una parte dell'energia magica che Requiem aveva investito per quella magia dei draghi sicari, in verità era andata dispersa.

Stanco da giorni, e da giorni senza aver più ritrovato le forze, neanche per librarsi in volo, l'antico drago nemico degli uomini se ne stava dunque in una tana improvvisata non così distante dall'ultimo centro che aveva personalmente assalito: quella Braavos che era di quel continente l'abitato più popoloso. Si leccava le ferite, e attendeva in una sorta di condizione di riposo simile al letargo di certe creature terrene. Era sveglio, non dormiva. Ma era immobile, e qualsiasi sua altra funzione biologica – eccetto il respiro – era stata momentaneamente interrotta. Dopo uno scontro non perduto, ma neanche vinto, con gli uomini di Braavos e la creazione di ben sette draghi di spirito, tutto ciò che a Requiem rimaneva nelle possibilità di fare era quello. Fu quindi assai preoccupato quando si rese conto di essere osservato. Finalmente, qualcuno lo aveva trovato...

L'esercito degli uomini ci aveva provato a cercarlo dopo la battaglia di Braavos, con una serie di contingenti esplorativi via via sempre meno numerosi e più demoralizzati: lui lo sapeva, non perché li avesse sentiti magicamente – visto che il suo potenziale magico in quel momento era quasi annichilito – ma perché in molti casi erano stati assai vicini dal trovarlo: perfino due o tre distinte volte. Eppure non era ancora successo che un uomo lo trovasse in quelle condizioni. E ora invece il pericolo era finalmente giunto. Un pericolo pure maggiore, visto che quello che lo aveva trovato non era esattamente un uomo. Oh, certo: era stato un uomo, millenni e millenni prima, ma ora non lo era più. Ora era un mucchio d'ossa tenute insieme da una magia che pure Requiem, ere fa, aveva contribuito a creare...

«I miei ossequi, Maestro» disse dunque Xenorus il necriomante, scendendo dal suo falcone scheletrico. Il teschio nero sul suo collo, brillava della luce oscura di cui la magia lo ammantava. Il suo artiglio di ghiaccio era già sguainato e pronto all'uso: sarebbe stato efficace almeno quanto le stesse fauci di Requiem, se non di più. Solo che Requiem, per sua natura, era ricoperto di scaglie: solo poche parti molli compongono il corpo di un drago. No, il suo antico allievo non lo avrebbe colpito con quell'affare puntuto. Se aveva abbastanza potenziale magico, forse sarebbe stato in grado di ucciderlo, ma in uno scontro corpo a corpo l'antico drago dell'energie oscure pensava ancora di poter aver la meglio.

«Xenorus» rispose il drago «sei qui per ordine del tuo nuovo padrone, immagino...»

«Niente di personale. Sai bene che devo eseguire ogni suo singolo ordine diretto. È questo che d'altronde prevedeva l'incantesimo con cui, decine di migliaia anni or sono, voi ci avete incatenato»

«Eravate consenzienti, mi pare»

«Non ci aspettavamo che potesse accadere questo»

«Sì, beh... neanche noi»

«Ma come! Gli infallibili draghi dell'origine... dunque falliscono»

«Non siamo comunque tenuti a giustificarci. No con te, né con alcun altro uomo»

«Io non sono più un uomo»

«Non sei neanche un drago. Ed è per questo che stai per fallire. Stai per essere annientato, mio vecchio allievo»

«L'annientamento sarebbe una liberazione. Ma, purtroppo, credo che non accadrà»

«Sai, le strategie del tuo nuovo padrone e mia si sono incrociate. Anch'io ho mandato un drago di spirito ad ucciderlo»

«Se sono ancora qui, vuol dire che il sigillo non è stato spezzato. Quindi, la tua strategia non ha avuto buon esito, maestro. Vediamo se quella di Gabryaerys lo avrà»

«E vediamolo», concluse Requiem, lanciandosi di scatto verso il suo avversario e cercando di inghiottirlo in un solo boccone. Quello ebbe la lucidità e la rapidità di scansarsi, dunque gli colpì il muso con i suoi artigli indistruttibili. Non gli fece alcun danno. Continuarono così a cercare di colpirsi per alcuni minuti. Dopodiché lo stregone del ghiaccio cominciò a lanciare qualche fievole magia su di lui. Non sapeva che Requiem era infiacchito per la guerra e per l'incantesimo, o comunque poteva ipotizzarlo ma non fino al punto in cui Requiem in effetti era. Probabilmente, Xenorus aveva tentennato ad usare la sua magia perché proprio Requiem gliel'aveva insegnata. E se c'era una magia verso cui Requiem non era debole, ancor più che la magia oscura, era la magia del ghiaccio.

Quando tuttavia la debole, rispetto alla sua, magia del ghiaccio dello stregone scheletrico – pur non scalfendolo – continuò ad abbattersi su di lui per un tempo abbastanza prolungato, senza che Requiem dal canto suo replicasse allo stesso modo, chiaramente Xenorus (che non era scemo) capì la situazione. Gli disse provocatoriamente: «Sei debole, Maestro. Cosa succede? I draghi di spirito ti hanno fiaccato al punto tale da privarti del resto della tua magia?»

«Loro e non solo loro. Ma ti resisterò: stanne certo»

«Anche se dovessi... concentrare tutto il mio potere in UN SOL COLPO?!» gridò il suo antico servitore e cercò di sfruttare la sorpresa per lanciare il suo colpo definitivo verso il drago che in un tempo assai remoto era stato il suo maestro. Requiem se lo aspettava. Xenorus era sempre stato un sicario abile quanto subdolo, o forse abile proprio perché profondamente subdolo. Quand'era ancora in vita, e carne e sangue – non solo ossa – componevano il suo corpo, egli era stato in grado di eliminare i suoi bersagli in tempi record, molto prima che chicchessia se ne accorgesse, men che meno il malcapitato. Era stato un servitore di estrema utilità per risolvere una miriade di questioni, ma soprattutto quelle che richiedevano... servizi rapidi ed efficaci.

Proprio per tutte queste ragioni – perché lo conosceva! – Requiem prevenne il colpo del suo allievo, e a sua volta scaldò l'energia magica nel suo petto e liberò tutto il ghiaccio che c'era rimasto. Aveva ancora la forza per fare un altro po' di magia: bastava solo quel poco in più per sopprimere il raggio energetico di Xenorus ed eliminarlo definitivamente. Gli avrebbe fatto un favore: lui voleva essere libero dell'incantesimo di Cair Dedalos, solo che non poteva farlo. Per questo stava cercando di ucciderlo: perché esplicitamente il re degli uomini sul Trono di Spade glielo aveva comandato. Re degli uomini che tra l'altro aveva resistito anche al drago di spirito. No: Requiem non si sarebbe lasciato sopraffare per due volte da quel maledetto fattucchiere da quattro soldi che Gabryaerys altro non era. Gabryaerys aveva avuto solo fortuna nella sua vita: la fortuna di risvegliare Cair Dedalos. Da adesso in poi non ne avrebbe più avuta: Requiem non gli avrebbe permesso di trionfare su di lui una seconda volta. Insistette con tutta la forza che aveva, ma anche Xenorus lo fece. Per un momento Requiem parve prevalere, ma nell'istante dopo Xenorus parve farlo. Dunque Requiem si stancò, e forse anche lo stregone suo vecchio allievo. Entrambi cedettero ed esplosero, in un fragoroso lampo di luce e ghiaccio. Neve ricoprì il deserto tutto attorno e tutt'assieme. Molta vita divenne ghiaccio. E il drago nemico degli uomini perse quindi i suoi sensi. Probabilmente anche Xenorus lo fece.

 

 

 

Ora, Petyr detto il giovane, momentaneo signore della Terra dei Fiumi in sostituzione del suo padre traditore del regno governato da Gabryaerys Targaryen, aveva dodici anni. E non era cambiato niente. Era ancora prigioniero presso il castello che da sempre era casa sua: Delta delle Acque. E ancora, ogni giorno, temeva per la sua vita. Completamente in nulla la lettera ricevuta dal suo esiliato padre aveva contribuito a rendere i suoi giorni migliori. Completamente in nulla essa aveva causato il benché minimo mutamento dello status quo. In effetti, nelle ultime settimane, una piccola cosa a Delta delle Acque era accaduta, ma sostanzialmente ininfluente. Proprio il giorno del suo dodicesimo compleanno, uno dei suoi cinque aguzzini che prendevano per lui le decisioni e avevano ordine di controllarlo, era passato a vita migliore e per giunta in modo violento. Petyr non aveva mai capito come funzionasse quella cosa della magia per cui agiva il titano di roccia che pure Gabryaerys aveva piazzato in quella terra a controllare il rampollo di Casa Baelish. Con il tempo, capì che il mostro fosse per lo più contrariato dal fatto di dover stare in quel luogo a subire quell'ordine, e sostanzialmente detestava i suoi colleghi comandanti, legati del re, almeno quanto detestasse gli abitanti medesimi del luogo (ivi incluso Petyr il giovane). Aveva spiegato a Petyr che semplicemente eseguiva ordini precisi e diretti, e non poteva opporsi a tale circostanza. Eseguiva ciò che il re gli aveva detto ed eseguiva ciò che i cinque legati gli dicevano, ma se da questi ultimi non uscivano direttive precise, allora poteva capitare che il demone titano agisse completamente di sua iniziativa. Così, un giorno, fatalmente il giorno in cui Petyr compiva dodici anni, esso uccise uno di quelli che in teoria erano suoi alleati se non padroni. Probabilmente per qualche incomprensione già avvenuta nel pomeriggio, per cui aveva subito una bella ramanzina, il titano aveva covato una certa indignazione. Non aveva fatto nulla per tutta la giornata; poi, alla sera, in un momento completamente randomico dei festeggiamenti per il genetliaco del nobile giovane, aveva preso e scagliato con tutta forza la sua ascia bipenne sul quinto uomo, seduto accanto agli altri quattro governatori ufficiosi della terra dei fiumi, uccidendolo sul colpo e piantandolo sulla sua stessa sedia di legno da dove – come ultima cosa nella sua vita – il legato regio si stava abbuffando di coste d'agnello e fagiolini.

Scoppiò il silenzio assoluto, quando fino all'istante prima un gruppo di suonatori stava eseguendo la ballata favorita del festeggiato. Il demone Helmon, questo era il suo nome, semplicemente si alzò in tutta la sua altezza mostruosa e, avvicinandosi al corpo del delitto per ritirare la sua arma, disse pacatamente rivolgendosi agli altri quattro legati: «Beh, cosa c'è? Non ho mai ricevuto un ordine di non uccidervi, né da Gabryaerys né da nessuno di voialtri, i quali avete la grazia di darmi ordini perché il re mi ha ordinato di seguire quanto voi mi ordinate. Fossi in voi, mi affretterei a prendere un provvedimento. Buona serata».

In realtà, anche se sconvolgente, tutta quella situazione aveva suscitato in Petyr un po' di amenità. Si vergognò, ma la prima cosa che gli venne da fare fu sorridere e, se tutto attorno a lui non ci fosse stato il silenzio terrorizzato che c'era, si sarebbe anche liberato in una grossa risata. La tempestività e la totale imprevedibilità del gesto del mostro, aveva reso tutta quella scena tragicamente divertente, se non ci fosse scappato il morto. Morto – tra l'altro – che Petyr considerava uno dei suoi carcerieri senza alcuna pietà né compassione nei di lui riguardi. Si trattenne dunque, ma non appena il cadavere venne rimosso dalla sua postazione, pretese che i festeggiamenti andassero avanti, e gli permisero di farlo.

All'indomani di quel giorno, gli venne detto che i restanti quattro amministratori sopravvissuti avessero immediatamente disposto e messo in sicurezza che un evento come quello della sera prima non potesse accadere mai più, ordinando chiaramente al demone di non uccidere mai – in nessun caso – nessuno di loro. Petyr si domandò però cosa sarebbe accaduto se uno di loro avesse cambiato disposizione e comandato ad Helmon di uccidere se stesso o uno degli altri tre. E se, invece, a dare l'ordine fosse stato Gabryaerys? Quale gerarchia avrebbe prevalso? Probabilmente quella regia, certo ma... chi controllava? Come funzionava? Con la magia, gli aveva spiegato Helmon ma... quindi non ci si poteva opporre? E se Helmon si opponeva, che cosa accadeva? Ci lasciava le penne? O meglio, data la sua natura, le pietre?

La sua curiosità era a questo punto andata ogni oltre sua possibilità: a Petyr non sarebbe mai stato concesso di conoscere altro, oltre a quello che già sapeva su suoi aguzzini e carcerieri, uomini o diavoli che fossero. Il giorno della morte del quinto legato regio, era semplicemente stato un giorno un po' più divertente degli altri. E meno male, visto che era il suo compleanno. Ma dopo di allora, la vita aveva ricominciato a procedere piatta come sempre e con – come sempre – lo spettro del pericolo per la sua stessa vita, se gli equilibri politici fossero mutati tutt'assieme. Se si fosse comportato male; o semplicemente se a uno dei suoi quattro aguzzini rimasti fosse venuto un giorno il ghiribizzo: in tutti questi casi, Petyr poteva sempre morire. Ma ormai lo aveva accettato. Era un dodicenne maturo. Un degno figlio dell'antica casa del tordo dal quale aveva preso il nome: Baelish della Valle di Arryn.

Così quel giorno, a Petyr era venuta la voglia di allenarsi. Di tanto in tanto, aveva preso questa abitudine trasmessagli da un vecchio precettore, morto prima ancora che morisse sua madre stessa, la Lady della Valle di Arryn e governatrice della Terra dei Fiumi, affogata nel Tridente per ordine del re Targaryen. Petyr sognava un giorno di vendicarla: di spiccare via dal collo la testa del drago che sedeva sul Trono di Spade. O mezzo drago, visto che si diceva che in realtà quell'individuo non fosse proprio un figlio legittimo di quell'antica e famosa dinastia. Ma per fare questo, Petyr doveva prima diventare un abile combattente, un abile cavaliere. Diventare insomma tutto il contrario dell'uomo che suo padre avrebbe voluto che diventasse: Petyr il vecchio difatti aveva cresciuto il suo rampollo con l'intenzione di farlo diventare uno come lui; uno che siede ai tavoli più alti, e che le guerre non le combatte ma le decide. Tutto molto interessante, ma non faceva per il giovane Petyr. Il giovane Petyr, fin dalla più tenere età, aveva dimostrato interesse per la vita d'azione: adorava correre, nuotare, andare a cavallo. E, segretamente, quando poteva ed era ancora viva, sua madre aveva assecondato questi suoi vezzi. Certo: l'incarico principale per Petyr era studiare, ed era più probabile che nell'arco della sua giornata passasse del tempo su un libro che in groppa a un cavallo, ma non per scelta sua: perché il Lord della Valle aveva deciso così per lui. Ma da quando Petyr era prigioniero, paradossalmente, il Lord della Valle non poteva più influire sulla sua vita, e quindi da questo punto di vista Petyr ebbe una vita più comoda. Ai cinque (adesso quattro!) legati regi non importava un tubo se a lui piacesse leggere o tirar di spada, bastava che gli firmasse le cose che volevano firmate. Così, da un po' di mesi, il ragazzo ormai aveva quasi del tutto abbandonato la via del libro e aveva riabbracciato quella dell'arma. In particolare, ultimamente, aveva coltivato un interesse per le armi a due mani: spadoni, mazze, martelli. Quel giorno, optò per un'ascia bipenne e se la portò con sé nel famoso spiazzo di roccia da cui si vedevano tutt'e tre le punte del fiume; quello che aveva scoperto grazie alla sua mamma, e dove l'ultima volta aveva letto l'inutile messaggio del suo esiliato padre.

Per leggere quel messaggio, Pet0yr era finito per beccarsi una settimana di dura punizione. Era scappato dal controllo degli amministratori regi e, per quanto poi fosse ritornato di sua iniziativa domandando perdono, quelli dapprima gli dissero di apprezzare il gesto, dopodiché attivarono una politica di controllo nei suoi riguardi molto più restringente, e che solo di recente – con il suo compleanno – erano tornati molto parzialmente ad ammorbidire. E il messaggio non conteneva nulla di utile: non un piano, non un'idea di complotto. Solo l'invito ad una non meglio giustificabile speranza.

Quel messaggio, insieme con la punizione, erano state le ragioni per cui Petyr aveva vissuto in modo pessimo i giorni antecedenti al suo compleanno. Ma adesso le cose erano cambiate. Seppure controllato, almeno da una certa distanza, adesso lui poteva tornare a muoversi autonomamente. Poteva andare al piazzale roccioso ad esempio, ed allenarsi con la sua ascia bipenne: cosa che fece. Dunque cominciò il suo addestramento: aveva un chiaro problema di bilanciamento, che con la spada a due mani aveva ormai imparato a gestire. Ma nuova arma, nuovi problemi di impugnatura e posizione. Così, anche solo un po' per sciogliersi, il giovane rampollo della Valle di Arryn cominciò a dare qualche colpicino all'aria leggera. Le sue guardie e controllori, lo osservavano impassibili, senza commentare. Ma qualcun altro lo fece...

Sorprendendo Petyr per la seconda volta nella stessa maniera, con quella sua caratteristica di essere sostanzialmente invisibile accanto ad altre rocce, il mostro il cui corpo gigantesco era a sua volta fatto di laterizi, emerse da qualche parte ed osservò con fare quasi pedagogico: «Ma che cosa diavolo stai facendo?». Gli si avvicinò, e Petyr non ebbe dubbi: non stava per fargli del male, e non lo stava rimproverando per una qualsiasi ragione. Voleva insegnargli. Helmon continuò: «Non la userai mai bene se continui solo ad agitare le braccia, come se volessi acchiappare un insetto»

«Che... cosa stai dicendo?» replicò Petryr «Cos'è che sbaglio?»

«Le gambe. In battaglia non usi solo le braccia, anche le gambe. Tienile molto più larghe e leggermente piegate, dinamiche». Petyr eseguì e ricominciò a far oscillare l'arma. «No, no: aspetta. Non avere fretta, non avere fretta, ragazzo. Prepara il movimento: in questo momento non ti insegue nessuno. Molleggia un poco con le ginocchia, e ruota un po' il torace» Petyr eseguì «così bene, bene. Ma non troppo! Ogni movimento deve essere fluido, come in una specie di danza. Ci sono culture orientali che addirittura ne fanno una specie di arte, dell'uccidere»

«Onestamente, non avrei detto che ne fossi il tipo» si lasciò scappare Petyr, mentre Helmon – questo nuovo improvvisato maestro – gli si poneva accanto e lo aiutava verso la ricerca del movimento perfetto.

Il mostro di roccia rispose: «E non lo sono. È sempre un combattimento di massa il mio ma... ogni massa necessita di un proprio controllo della forma: è questo il segreto. Ci sono molte cose di me, che potrebbero sorprenderti, giovane Lord. Moltissime»

«Beh, puoi insegnarmele?». Petyr disse queste ultime parole così, senza rifletterci neanche tanto; tutta quella situazione d'altronde era venuta fuori così liberamente e amichevolmente che... semplicemente non aveva pensato che quello che aveva davanti era uno dei suoi aguzzini, forse il principale. Gli sembrò che, per quanto non molto espressivo, il titano di roccia fosse sorpreso ed anche confuso dalla domanda.

Gli disse di rimando: «Cioè... dovrei trattarti come una specie di allievo?»

«Sì, se vuoi e... se ne hai la possibilità»

«Certo che ne ho la possibilità. Io... una volta ero... ero... qualcosa di simile a un precettore»

«Veramente?»

«Sì, questo... richiama in me ricordi di un passato così remoto... così remoto...» lunghissima pausa; dopodiché la decisione definitiva: «Va bene: facciamo così. Intanto, mi allontano e tu mi fai vedere come ti batteresti con un avversario alto... almeno il doppio di te. Poi, dalla prossima volta, cercheremo un manichino o qualcosa del genere. Va bene?»

«Sì, va bene, maestro», confermò Petyr con indescrivibile entusiasmo. Da lungo tempo non si sentiva così contento. Non aveva più una famiglia, però almeno aveva recuperato un precettore.

   
 
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