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Autore: Soul of Paper    28/06/2022    4 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi

 


Capitolo 72 - Senza Fiato


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Eccoci qua. Siete sicuri che ve la sentite? Perché se no posso parlarle io ora e voi in un secondo momento. Da quanto ho capito dalla dottoressa, le condizioni sono stabili, anche se ovviamente è molto fragile e debole. Poi i muscoli inutilizzati per così tanti mesi… anche solo enunciare le parole è uno sforzo, ovviamente. Però per ora, a parte le ferite e i danni ad ossa e muscoli, non parrebbe esserci la certezza di danni neurologici definitivi. Che, considerate le sue condizioni dopo il pestaggio, è un mezzo miracolo. Forse pure più che mezzo.”

 

Sospirò, perché da un lato era un’ottima notizia, un miracolo di quelli veri. Dall’altro… sentirsela era una parola proprio.

 

Si guardò con Calogiuri, per una volta accanto a lei nel sedile posteriore dell’auto di servizio assegnata ad Irene, che era invece seduta al lato passeggero.

 

Alla guida c’era Mariani, con i cui occhioni azzurri, riflessi nello specchietto retrovisore, aveva scambiato ben più di un’occhiata. E sapeva che li capiva, anche se non poteva capire del tutto, dal modo dispiaciuto e quasi imbarazzato con il quale reggeva il suo sguardo, prima di rivolgerlo alla strada.

 

Calogiuri invece, proprio come lei, aveva l’aria di uno che non sapeva bene che pesci pigliare, che non sapeva cosa provare e che, sempre come lei, forse non sarebbe mai stato pronto del tutto a quell’incontro.

 

Lui, oltretutto, aveva pure più motivi di lei per essere in conflitto riguardo a Melita, dopo tutte le accuse di lei e dopo che, anche se per costrizione di un ricatto tremendo, gli aveva quasi rovinato la vita.

 

Ma la ragione principale, lo sapeva bene, non stava in quello. Calogiuri era un buono, fino in fondo, e pure se era diventato più cauto, accorto e smaliziato, aveva un’enorme capacità di perdono, come dimostrato da quanto le aveva raccontato del confronto e chiarimento con Conti.

 

No, il nucleo del dilemma stava in quello scricciolo ululante che ora stava a casa loro insieme alla babysitter di Irene e alla povera Bianca che, quando aveva incrociato sul pianerottolo, pareva morta dal sonno.

 

Se quella bimba fosse diventata una serial killer, avrebbe chiesto per lei il minimo della pena, con tutti gli sballottamenti e la pazienza che aveva avuto in quegli anni.

 

“O prima o dopo non cambierebbe niente e… se ha chiesto di noi, con noi forse si aprirà di più, specie se non riesce a dire molte parole.”

 

Le venne da commuoversi al commento di Calogiuri perché lui invece ad usare le parole era diventato capace eccome, superando non limitazioni fisiche, certo, ma questo non rendeva quello che era diventato meno importante.

 

Gli strinse la mano e lui ricambiò, semplicemente, perché bastavano gli sguardi a dirsi tutto.

 

“In ogni caso, ovviamente voi registrerete tutto, immagino? Non che si inventino che l’abbiamo manipolata o minacciata, specie Calogiuri.”

 

“Certo, anzi entrerà Mariani con voi, anche se resterà sulla porta. Sarà tutto documentato nei minimi dettagli, non vi preoccupate. In questo maxi processo le procedure vanno seguite alla lettera e pure di più, ormai è chiarissimo. Ma questo potrebbe essere il tassello mancante per far crollare ogni speranza di difesa residua dei Romaniello, dell’avvocato e di tutto il resto della cupola.”

 

Con un cenno deciso, aprirono le portiere, all’unisono, e scesero dalla macchina, proprio come ai vecchi tempi.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mi raccomando di mantenere sempre indosso tutte le protezioni e, qualora vi chiedessimo di lasciare la stanza, di farlo subito. Intesi?”

 

“Eh certo!” rispose intabarrata, come Calogiuri e Mariani, in una specie di tuta verde di quelle che di solito usavano quelli della scientifica, copriscarpe, mascherina e perfino retina per i capelli - che i suoi ricci, come minimo, sarebbero diventati peggio di quando andava in moto con Calogiuri.

 

Aveva pure dovuto rinunciare a tutti i gioielli, anello di fidanzamento incluso. Sentiva ormai una specie di fitta al petto quando lo toglieva, anche quando lo faceva a casa per i pochi minuti necessari per non rovinarlo, ma a maggior ragione nel doverlo consegnare ad estranei.

 

Non ci poteva fare niente, non era mai stata così tanto legata a dei simboli materiali ma, da quando Calogiuri glielo aveva restituito, si sentiva nuda senza e le tornavano in mente le brutte sensazioni di quei mesi orribili.

 

Però capiva le cautele della dottoressa Tulli: Melita era già così fragile e non potevano rischiare infezioni.

 

Quindi assentì, anche se normalmente per levarla dalla stanza di chiunque durante un interrogatorio ci volevano i corazzieri e forse manco quelli, ma sapeva che era importantissimo sentire quello che Melita aveva da dire, metterlo nero su bianco, registrarlo, e quindi dovevano fare tutto il possibile anche per non farla agitare.

 

La dottoressa sbloccò la porta, che si aprì con uno scatto, ed entrò per prima Mariani, da tradizione, seguita poi da lei e Calogiuri, sempre come se fosse una procedura normale.

 

Ma il fiato le si bloccò in gola non appena scorse il viso di Melita e quello che emergeva dei suoi arti, tra un ferro e l’altro per tenerli insieme.

 

Il volto, pure dopo tutto quel tempo, era attraversato da ferite non ancora del tutto scomparse e che probabilmente le sarebbero rimaste come cicatrici. Una le correva sulle labbra, spaccate e poi ricucite, un’altra tra sopracciglio e naso, ed erano solo le più evidenti. Sembrava una reduce di guerra.

 

Le braccia e le gambe erano piene di tiranti e, anche lì, sicuramente sarebbero rimasti segni indelebili, anche ammesso che ne avesse mai recuperato in pieno l’uso.

 

Eppure c’era ancora una bellezza assurda in quel viso, quel tipo di bellezza che paragonava a Matera, alla Lucania: alla sua terra martoriata ma fiera, viva, nonostante tutto.

 

Forse per quegli occhi che si erano aperti all’improvviso e poi spalancati, prima di velarsi di lacrime.


“I… Im… ma?” le chiese, a fatica, un colpo di tosse che vibrò col metallo da cui era trafitta e sembrò quasi un boato nella stanza.

 

La voce non pareva la sua, ma neanche quasi una voce umana: era un qualcosa gutturale di chi a stento ricorda come si fa a produrre suono.

 

Tanto rimase bloccata da tutta quella scena, che Melita la precedette ed enunciò, stavolta senza tossire, ma comunque con una fatica tremenda, “I… Ippa… zio?”

 

Gli occhi di Melita non erano più nei suoi ma guardavano verso Calogiuri che, a sua volta, era paralizzato quanto lei e ricambiava lo sguardo in un modo che… le sarebbe venuto d’istinto di prendergli una mano, per fargli forza. Ma, a parte che erano entrambi guantati, non voleva che sembrasse un gesto di possessività o di sfida e quindi si trattenne a stento, limitandosi ad osservare gli occhi di Calogiuri farsi lucidi e quell’aria tra il dolore ed una traccia di rabbia - se verso Melita, o più probabilmente, verso chi l’aveva ridotta così, difficile da dire con certezza - e poi di nuovo per un attimo confusione, seguita però, nel giro di qualche secondo, da una decisione che sempre più spesso leggeva nel volto di Calogiuri.

 

Si trovò con gli occhi azzurri nei suoi e quella decisione, quasi come a volerla rassicurare, si unì a un come ti senti? non verbale, di quelli che a milioni se ne erano scambiati da quando si conoscevano.

 

Lo tranquillizzò e si rivolse nuovamente verso Melita, i cui occhi erano ormai completamente bagnati.

 

“Melita…” esordì, prendendo un respiro profondo da sotto la mascherina, ringraziando da un lato di avere quella barriera per darle ulteriore forza nel non lasciar trapelare del tutto le sue emozioni, “so che hai chiesto di noi e-”

 

“Im- ma,” provò a interromperla Melita, ma Imma si sforzò di sollevare una mano guantata e di tenerla il più stabile possibile, facendole segno di non parlare.

 

“Ascolta, Melita. Tu c’hai poche forze e ci sono alcune cose che dobbiamo dirti, prima che inizi a parlare. Come forse avrai notato c’è l’agente Mariani alla porta, che assisterà e trascriverà quanto ci dirai oggi. Inoltre sarà tutto registrato ed è giusto che tu lo sappia. Ma è per la sicurezza di tutti, anche la tua, capisci cosa intendo?”

 

“S-sì,” sibilò Melita, quasi in un fischio nei buchi tra i denti bianchissimi che le erano rimasti, con una smorfia tra il dolore, la paura ed un rimorso talmente evidente da farla empatizzare con lei, nonostante tutto quello che aveva combinato, al di là di Francesco, delle ferite, di tutto.

 

Melita capiva, capiva davvero ed era sveglia esattamente come la ricordava, nonostante il coma. Lo sguardo era quello della sopravvissuta ma anche quello di chi è abituata a considerare la propria vita - e non solo la propria - sopra il filo di un rasoio, e da ben prima del tentato omicidio.

 

“Quindi ti va bene che sia tutto registrato?”

 

“V- va… bene, sì,” pronunciò, decisa, nonostante i sibili e la fatica, e poi la vide rivolgersi verso Calogiuri e poi di nuovo a lei e sussurrare un, “mi… dispia…ce… tan…to.”

 

Fu quasi uno schiaffo sentirselo dire, perché le tornarono in mente quelle sillabe mute, mimate ma non vocalizzate, non appena prima della testimonianza che aveva quasi distrutto le vite di tutti e tre.

 

Dal sussulto che fece Calogiuri, era lo stesso anche per lui.

 

Ma la fissò in quel modo risoluto e poi disse a Melita, “lo so. Lo sappiamo. Ci vuoi raccontare quello che è successo? Chi ti ha fatto questo?”

 

Stavolta fu Melita ad alzare le dita della mano destra, per fermarli.

 

“Fra- Fran…ce…sco? Davve…ro… sta… bene?”

 

Imma guardò verso la dottoressa che aspettava fuori dalla stanza e si chiese che cosa avesse detto a Melita sul figlio.


“Sì, sta bene, non ti devi preoccupare. Sta… sta da noi…” ammise, decidendo di essere onesta, perché Melita non doveva agitarsi e perché non avrebbe avuto senso non esserlo.

 

Melita era la prima che voleva proteggere suo figlio: si era quasi fatta ammazzare per lui e quindi quell’informazione non avrebbe potuto essere in mani più sicure. E Mariani era persona di assoluta fiducia e trascrizione e video non sarebbero finiti in mani sbagliate, almeno finché non sarebbero serviti in udienza. E per allora… Francesco magari sarebbe stato già altrove.

 

Si chiese come Melita avrebbe preso la notizia, mentre si scambiava uno sguardo commosso e preoccupato con Calogiuri, che alla fine fu il primo a cedere e a poggiarle una mano guantata sulla spalla, per farle forza. Lei ricambiò perché… perché non avrebbe avuto motivo di non farlo. Alla fine l’interrogatorio non era nemmeno iniziato ancora.

 

Melita parve sorpresa, una smorfia di dolore che però la costrinse a riabbassare il sopracciglio ancora mezzo cucito, ma la guardò senza dire nient’altro.

 

“Lo abbiamo trovato noi e ci ha presi in simpatia, persino a me. C’ha dei gusti strani, insomma, ma a parte quello sta benissimo, è forte e sicuramente non vede l’ora di rivedere la sua mamma.”

 

Su quell’ultima parola, Melita esplose in un altro colpo di tosse che era anche un singhiozzo ed un paio di lacrime le scivolarono sulle guance.

 

“Starà… meglio… con… voi. Con… con quello che… ho… fatto… mi vergogno… e… non me… lo… merito… di essere… sua… mamma.”

 

C’era così tanto rimorso, così tanto dolore in quelle parole che fu un altro schiaffo, anzi, un bel pugno allo stomaco.

 

D’istinto, le venne da mollare la presa su Calogiuri ed appoggiare la mano sopra quella sinistra di Melita, la più vicina a loro, facendo attenzione a non toccare i tubi della flebo.

 

“Melì, ascolta, tu hai fatto degli errori, è vero. Soprattutto hai sbagliato a non fidarti di noi prima, a non dirci che cosa ti stava succedendo. Ma per tuo figlio ti sei quasi fatta ammazzare. Quindi sti discorsi sul non essere una buona madre non li voglio più sentire, chiaro?” ordinò, perché quello era il linguaggio che le veniva più semplice, più della dolcezza che con pochissimi riusciva a far uscire.

 

Ma Melita comprese ancora e le sussurrò un “grazie!” che valse più di tutto il resto.

 

Le lasciò la mano, che dovevano ritornare alla professionalità, per quanto fosse possibile, viste le circostanze, ed aggiunse, “allora, Melita, ci vuoi dire che cosa è successo? Partiamo dall’inizio. Sappiamo chi è il padre del bambino e-”

 

“No!”

 

Melita esplose in colpi di tosse, ma tra un colpo e l’altro il terrore era visibile sul suo viso.

 

“Tranquilla, Melita, tranquilla, è un’informazione che abbiamo in pochissimi e al momento, visti i precedenti, non lo abbiamo fatto contattare. Probabilmente non sa ancora nulla dell’esistenza di Francesco,” si affrettò a rassicurarla, prima che le pigliasse un colpo, maledicendosi per non averlo specificato subito.

 

Aspettò un attimo che Melita si calmasse e poi aggiunse, “però dobbiamo capire cosa è successo e come sei rimasta invischiata con i Mazzocca, i Romaniello, l’avvocato e tutti quei gentiluomini. Non serve che fai un nome ma… è lui vero?”

 

Calogiuri, senza bisogno nemmeno di chiederglielo, stava mostrando a Melita una copia della foto del passaporto del famoso, anzi famigerato, Alejandro Mendoza.

 

“Sì… sì.”

 

C’era un disprezzo ma anche un dolore in quelle sillabe che le arrivava vivo e pulsante come la ferita che doveva ancora essere per Melita.

 

“Era tra gli uomini che ti hanno aggredita al locale quando ti abbiamo conosciuta?” le domandò e Melita nuovamente pronunciò un “sì” colmo di rabbia.

 

Poi però le fece segno con le dita, come a chiederle di fermarsi un attimo con le domande e cominciò a fatica, parola dopo parola a spiegare quanto successo.

 

“L’ho conosciuto a… a inizio stagione. Era… era la prima volta che… che lo vedevo… gli anni… prima non… non c’era lui. Era… era bello, gentile… almeno… almeno all’inizio. Misterioso. Sapeva… sapeva tante cose… mi… mi raccontava… dei viaggi… aveva visto… il mondo. Però… sapeva tutto… anche di me… l’ho capito… piano piano. Mi sono… accorta… che… che c’era sempre… qualcuno che… che mi seguiva. E poi… una sera… è arrivato un… un suo amico… così lo ha chiamato. Un… un collega, capite?”

 

E certo che capivano! Di sicuro non era un ristoratore o un manager, cioè non solo, quantomeno.


“E quindi che è successo poi?”

 

“Questo… collega… era molto… gentile con me. Troppo. Ci ha… ci ha provato… mi ha messo una mano… sulla coscia… quando… quando lui era uscito un attimo dalla stanza. Ho fatto appena in tempo a… scansarlo e a dirgli di… di no che… che lui è tornato. Era nero. Non… non lo avevo mai visto così. Ha iniziato a gridare cose in uno spagnolo stretto che… che non capivo e poi… e poi ha tirato fuori una pistola che… che aveva sempre sotto la giacca. Per… per sicurezza diceva. Ma… ma gli ha sparato ad un ginocchio e… e poi lo ha colpito in testa con… con la pistola e… continuava… e io gridavo di… di smetterla… basta… BASTA e-”

 

“Va bene, Melita, calmati,” la bloccò Calogiuri, guardando preoccupato i battiti del monitor che erano schizzati alle stelle e la dottoressa che già pareva pronta all’intervento.

 

“Dicci solo se… se è morto o…”

 

“Non… non lo so. Lui si è fermato e mi ha guardata… in un modo che… che sono scappata. Ma… ma il locale era anche suo… io… io cercavo di evitarlo ma… ma non potevo e… avevo paura di tutto. Di stare lì… di tornare in Italia. Quella sera… aveva provato a bloccarmi con gli amici suoi… voleva andassi via con lui… ma poi… è intervenuto Ippa-zio e… e anche tu e… e sono scappata. Prima… prima a Ibiza ma… mi sono resa conto… dopo pochi giorni… del ritardo e… e ho preso il test in farmacia e… ero incinta. Sapevo che… che era suo… allora sono tornata a… a Roma. Pensavo di… di abortire… sono anche andata in… una clinica a… informarmi… ma… ma non ce l'ho fatta. Ho deciso di… di tenerlo e di… di tenere la gravidanza nascosta sui social e… di uscire dal giro per un po’... non che lui mi scoprisse ma… un giorno sono uscita di casa e… e mi sono trovata davanti…”

 

“Chi?”

 

“Ste- Stefano. Mancuso.”

 

Le sfuggì un sospiro, da un lato sollievo, dall’altro rabbia.

 

“Mi ha… mi ha presa per un braccio. Ho provato a… a urlare… non sapevo chi… chi fosse… ma lui mi ha detto che… che non mi avrebbe aiutata nessuno e che… se non volevamo fare una brutta fine… dovevo seguirlo. Mi ha… mi ha messo una mano sulla pancia e ho capito che… che sapeva. Mi ha… mi ha portato su una macchina e… e nessuno ha fatto niente… tutti… tutti scappavano e si chiudevano dentro casa. Io… io pensavo fosse uno degli uomini di lui. Che mi aveva… che mi aveva trovata.”

 

“E poi?”

 

“E… e poi… e poi invece mi ha… mi ha spiegato che… che erano colleghi. Che lo conoscevano ma… ma che non gli avrebbero detto niente… e non… non avrebbero ammazzato a me e al bambino… se… se facevo come dicevano. Io all’inizio… pensavo che volevano… insomma… capisci no? Che volevano certe cose da me… che c’è gente che… che per… per certe cose da una donna incinta… paga pure meglio. Io… non l’ho mai fatto ma… ma ero disperata e… e poi però mi ha detto che… che dovevo solo frequentare l’avvocato e… e obbedire agli ordini. Mi controllavano… mi portavano alle visite… seguivano tutto, sapevano tutto. Quando è nato… ogni giorno… veniva qualcuno da me. Avevo sempre una macchina… davanti a casa. E ogni giorno avevo paura che… che me lo portavano via. E poi… stavo ancora male per… per il parto ma… mi hanno detto di… di dovermi avvicinare a te,” spiegò, facendo un cenno verso Calogiuri, “a voi. E… e allora ho capito che… che mi avevano vista con voi… a Maiorca. Non so come.”

 

“Dalle foto, probabilmente,” sospirò Imma, guardandosi con Calogiuri, schifato quanto lei.

 

“E che… che ti dovevo incastrare in un modo o… o nell’altro. Ma tu… tu eri così fedele a Imma e… e non riuscivo a… a… insomma. Quindi… mi hanno detto di… di farmi riprendere dalle telecamere del palazzo che… che sarebbe bastato quello e… e qualche foto. Io… mi sentivo… uno schifo… tu… tu eri così buono… gentile e… e innamorato e… e anche Imma… io non volevo… non volevo ma… ma prima che… che mi avevate messo sotto protezione… si erano presi Francesco e… e non me lo facevano vedere più e… e io avevo paura che… che lo avrebbero… che lo avrebbero…”

 

“Va bene, Melì, abbiamo capito,” la interruppe, la voce che le tremava quanto la mano che aveva poggiato su quel che rimaneva del braccio di Melita, il cuore che le batteva forte quasi quanto quello sul monitor, al solo pensiero di quei bastardi e che avrebbero potuto uccidere, quasi neanche lei riusciva a esprimerlo, neanche a se stessa, quella piccola meraviglia che li aspettava a casa.

 

Ma no, non lo avevano voluto uccidere, non subito almeno. Lo avevano voluto vendere, anzi, lo avevano già venduto all’epoca. Molti più soldi per loro ed un’altra famiglia potente da ricattare.

 

“Io… io quando… quando ho detto quelle cose… contro di te… in tribunale… che… che eravamo amanti che… insomma… avrei preferito morire ma… l’ho fatto per lui. Mi sentivo… mi sentivo una merda ma… loro avevano ancora Francè e… e non me lo facevano vedere e… e io ho cominciato a pensare che… che me lo avevano ammazzato lo stesso e… e non ce la facevo più a tenermi tutto dentro e… stavo pensando anche di… di…”

 

La tosse e le lacrime la ammutolirono completamente e Imma ebbe la sensazione che quello che Melita aveva pensato non fosse di dire tutto, non solo almeno, ma anche qualcosa di molto, molto più terribile e definitivo.


“Ma… ma un giorno sono arrivati dove… dove dormivo al locale e-”

 

“Sono arrivati chi?”

 

“Mancuso e… Nick… non mi ricordo il cognome.”

 

Imma fece di nuovo segno a Calogiuri, che mostrò a Melita una foto di Giuliani, e Melita annuì leggermente con il capo, dicendo, “sì, è lui.”

 

“E… mi hanno detto che… che tu avevi capito tutto… se… se avevo detto qualcosa… ma… ma io ho detto di no… li ho… li ho implorati ma… hanno cominciato a picchiarmi, prima pensavo per… per farmi parlare ma… non si fermavano… non si fermavano e ho capito che… che… che mi avrebbero ammazzata e… ho pensato che… senza Francé e… dopo tutto quello che avevo fatto… me lo meritavo e… e non sono più riuscita a… a lottare.”

 

Melita si accasciò del tutto e scoppiò a piangere, sempre di più, tanto che, al di là dell’odio verso quei bastardi, si preoccupò moltissimo, specie quando vide la dottoressa entrare.


“Forse è meglio che uscite e-”

 

“Melì, ascolta. Tu hai lottato, hai lottato eccome. Non hai mollato fino a mo. Sei sopravvissuta, ti sei svegliata. E mo… e mo devi lottare per… per Francesco, che ti aspetta,” pronunciò, anche se le costava una fatica terribile dover esplicitare con le sue stesse parole quella realtà che tante sofferenze avrebbe dato a lei e a Calogiuri.

 

Ma Melita si meritava un’altra possibilità, con tutto quello che aveva passato per suo figlio.

 

Si sentì stringere di nuovo una spalla da Calogiuri e si appoggiò leggermente a lui, senza nemmeno doverlo guardare. Bastava quel contatto, pure tra mille strati di plastica, per dirsi tutto.

 

“La dottoressa Tataranni ha ragione. Dovrà fare diversi interventi e… e la riabilitazione sarà lunga ma ce la può fare. Anche perché danni neurologici gravi non sembra ce ne siano.”

 

“Pre- prendetevi cura di… di Francé e… e dategli un bacio… anche per me. Va bene?”

 

Annuirono commossi e poi Calogiuri ebbe un’idea ed estrasse il cellulare, anche se coperto dalla plastica pure quello, e mostrò a Melita una foto che aveva scattato al piccolo ululatore seriale nell’unico momento tranquillo, cioè quando dormiva.

 

Melita singhiozzò ma sorrise, nonostante lo vedesse pure lei che i punti sulle labbra dovessero tirarle da morire.

 

“Te ne facciamo avere una copia, va bene?” la rassicurò Imma, facendo segno verso la dottoressa, che annuì.

 

No, non sarebbe stato per niente facile.

 

Ma ciò che era giusto non lo era quasi mai. Eppur ciò non lo rendeva meno giusto, anzi.

 

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Sospirò, quasi buttando i tacchi a terra, ignorando per una volta il rischio che qualcuno si svegliasse.

 

Irene se ne era andata con la babysitter e con Bianca ancora mezza addormentata.

 

Ormai era più mattino che notte e Calogiuri il giorno dopo aveva pure il corso, che già aveva saltato quel giorno per via di Conti.

 

Ma dovevano farcela.

 

Solo che avvicinarsi al letto e trovarselo lì, in mezzo, bello da impazzire, con un ditino in bocca e l’altra mano a stringere il peluche di un leopardo che gli avevano comprato… non era facile, per niente.

 

Perché ormai era chiaro che quel miracolo aveva i giorni contati, che sarebbero trascorsi inesorabilmente e sarebbero finiti troppo presto, che lo volessero o meno.


Le cose belle passano sempre in un battito di ciglia.

 

Forse non tutte - pensò, quando si sentì nuovamente abbracciare da dietro da chi le faceva forza come non gliene aveva fatta mai nessuno e sperava che, in quei mesi difficili che li attendevano, avrebbe saputo fare altrettanto.

 

“Anche a me mancherà, moltissimo…” le sussurrò all’orecchio ed il modo in cui lo disse le strinse il petto, tanto che gli occhi le si appannarono subito.

 

“Però… starà qua con noi ancora per alcuni mesi, no? Visto com’è messa Melita, il recupero sarà lungo. E poi… e poi magari possiamo sempre riprovare ad avere un bimbo nostro, no?”

 

Fu un macigno perché… sì ne avevano parlato di maternità e di paternità ma in generale.

 

E… e c’era qualcosa che non poteva più rimandare di dirgli.

 

E quindi si sciolse dall’abbraccio, perché voleva e doveva guardarlo negli occhi.


“Veramente Calogiù… potrebbe non essere più possibile, non che prima lo fosse ma… insomma… sono tanti mesi che il ciclo salta di palo in frasca, peggio che Diana durante una conversazione,” ironizzò, perché era la sua unica arma in momenti come quello, per non lasciarsi troppo andare, “e… e negli ultimi due mesi non è proprio arrivato e quindi potrei essere in menopausa. Anzi, oramai è quasi sicuro.”

 

Calogiuri spalancò per un attimo gli occhi, ma aveva uno sguardo come inebetito che… che non capiva e poi sussurrò, “ma… ma se non hai il ciclo da due mesi… non è che potresti essere…?”

 

Si era fermato, forse perché anche lui, come lei, quella parola faticava a pronunciarla ad alta voce.

 

“Incinta?” si sforzò però di farlo, anche se la voce le si spezzò e dovette dare un colpo di tosse.

 

“Calogiù… hai visto anche tu che… pure sotto cura… non è stato possibile e… e mo la cura non la sto più facendo. E inoltre… non c’ho nemmeno un sintomo, manco mezzo. Con Valentì… ricordo benissimo che vomitavo per qualsiasi cosa, una nausea tremenda, e poi stavo sempre incazzata, sempre. Cioè pure più del solito. Mentre in questi mesi… mi sento benissimo, Calogiù. E, vista la mia età, con una gravidanza in corso, dubito proprio mi possa essere andata così di culo, no? E poi appunto sono mesi che… che non funziono più bene da quel punto di vista. La menopausa è la cosa più probabile, al novantanove percento, e non voglio che ti fai illusioni.”

 

“Va bene, Imma. Va bene,” la rassicurò lui, sembrandole un poco mortificato, quasi come a chiederle scusa per quella speranza che faceva male più a lei che a lui.

 

“Però… non ti dovresti almeno fare visitare? Per essere sicura di… insomma… della menopausa?”


“Sì, ma… con tutti i casini delle ultime settimane non mi sembrava l’urgenza primaria, Calogiù. E, finché c’è Francesco e tu c’hai il corso, penso possa aspettare.”

 

“Ma cominci almeno a prendere appuntamento che… non può aspettare così tanto. Metti che devi prendere qualche medicina, qualche integratore, è importante. E poi… e poi per come… per come ci siamo affezionati a questo piccoletto, possiamo sempre amare così anche qualcun altro. E una volta che saremo sposati possiamo provare con l’adozione, no?”


“E se non riuscissimo ad avercela mai un’adozione, ma sempre e solo affidi, Calogiù? Che, appunto, ci si affeziona e poi… e poi quando ci si saluta…. Che mo Francesco lo abbiamo tenuto con noi per poco ma… pensa passare anni con un bimbo o una bimba e poi… dover dire addio. Insomma Calogiù, sei ancora sicuro di volermi sposare? Che… che qua le condizioni di… di ingaggio per così dire… sono cambiate.”

 

Calogiuri, per tutta risposta, sembrò spaventato ma poi le prese la mano sinistra nella sua e le mostrò gli anelli, nello stesso identico modo che aveva quando le mostrava una prova inoppugnabile e decisiva.

 

“Eh no, eh. Mo che mi hai chiesto tu di sposarti non puoi mica rimangiarti la parola data!” proclamò, perentorio, come se fosse un dato di fatto, “e poi… e poi da quando ti ho vista con Francè… ho avuto ancora di più la conferma che tu sei l’unica madre che voglio per i miei figli, se ce ne saranno. E quanto sei… quanto sei capace di amare, anche se non lo vuoi mai dare a vedere quasi a nessuno. E, pure se non riuscissimo nemmeno con l’adozione, potremmo fare del bene a tanti bambini o a tanti ragazzi e saremo ancora di più genitori, così. Ma solo se lo vuoi anche tu.”

 

Scoppiò a piangere, stringendolo forte, sciolta nelle sue braccia perché… quando Calogiuri faceva così, quella era l’unica risposta possibile.


“Eh certo che lo voglio! Ti amo. Tantissimo,” gli sussurrò, sentendosi stringere ancora più forte e rimanendo con lui in quella specie di bolla di pace, almeno fino a quando dei gorgoglii che pian piano diventarono urletti e poi urla li fecero tornare alla realtà e agli occhi scuri che li osservavano dal centro del letto.

 

Ed Imma si promise che si sarebbe goduta ogni istante con lui, con loro tre insieme, fino all’ultimo.

 

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Stava scorrendo un po’ annoiata il feed dei social: era un venerdì sera noiosissimo, seguito a una settimana noiosissima e che avrebbe probabilmente preceduto un fine settimana altrettanto noioso.

 

Un po’ perché non aveva voglia lei di uscire, quando continuava a tormentarsi per Penelope, con le sue amiche ancora a chiederle di Carlo, oltretutto.

 

Un po’ perché… senza Penelope, a parte Carlo e una volta Bea, faticava tantissimo a trovare qualcuno con cui si divertiva davvero.

 

In quello doveva aver preso più da sua madre, che non riusciva ad essere amica di chiunque, certo non a quei livelli, ma… non era come suo padre che riusciva a farsi amici pure i sassi.

 

Forse fu per la noia, forse perché, tanto per cambiare, le era tornata in mente, ma alla fine cedette alla tentazione ed aprì il profilo di Penelope, che aveva temporaneamente silenziato per evitarsi di star male come una cretina ad ogni storia o post, ma che non riusciva a resistere dal seguire almeno qualche volta.

 

Ma quella era stata decisamente la volta sbagliata.

 

Le apparve un post proprio di quella sera, in cui Penelope era stata solo taggata, e che era di una certa Jo. Se stesse per Joanna, Giovanna o se fosse semplicemente un omaggio al personaggio di quel libro che aveva tanto detestato quando l’avevano costretta a leggerlo per la scuola, non lo si poteva capire dalla foto.

 

Ma purtroppo altro si capiva eccome, perché Jo e Penelope stavano attaccate come due cozze a ballare - chissà chi l’aveva scattata la foto! - e poi anche in un selfie insieme ad altre ragazze.

 

Riconosceva il locale gay dove stavano e pure una della compagnia, che era del giro dell’accademia.

 

Certo, poteva essere solo qualche foto tra amiche ma si fece ancora più del male ed aprì il profilo di Jo - forse i geni investigativi e da stalker di sua madre un po’ li aveva presi alla fine - e notò che anche in un paio di post precedenti compariva Penelope, che però evidentemente non aveva approvato il tag.

 

Perché prima no e mo sì?

 

Penelope non era certo una che amava molto i social o una di quelle influencer che si lasciavano e si rimettevano insieme a colpi di follow e unfollow ma… ma suonava quasi come un’ufficializzazione il fatto che quel post mo apparisse pure sul suo di profilo.

 

Ma che ti sei rinsciminuta del tutto mo?

 

Le parve di sentire la voce di sua madre, che le dava della scema, e c’aveva pure ragione, le toccava ammetterlo.

 

E non solo perché non aveva ancora trovato il coraggio di dire a Penelope che con Carlo non aveva funzionato, ma perché… perché stava lì a spiare due foto e post e a farci su fantasie, ipotesi e congetture che manco sua madre quando trovava una nuova scatoletta di mentine in camera sua ai tempi dell’adolescenza, invece che fare l’unica cosa logica da fare.

 

D’istinto, si alzò dal letto, con un’energia che non sentiva da un sacco di tempo, aprì il borsone e ci buttò dentro qualche vestito, un poco alla rinfusa, prima di fermarsi ed aggiungere un abitino che a Penelope piaceva tantissimo quando stavano insieme.

 

Perché va bene la fretta, ma era giunta l’ora di sfoderare tutte le armi a sua disposizione.

 

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“Allora, Giorgio, che ci racconti di bello? Quest’anno nessun nuovo acquisto in procura? Che almeno con la Tataranni non ci si annoiava a questi eventi.”

 

“Già, ma, tra l’altro… qualcosa tra voi poi c’è stato o no alla fine? Anche se ora è tornata con il suo toy boy. Ma del resto si sa che una donna con te non dura molto, che le fai fuori tutte.”

 

Sospirò: il prefetto e il questore che, solo per il fatto che era ormai qualche anno che gli toccava frequentarli - per fortuna erano in odore di trasferimento entrambi, che era quasi ora del ricambio - si credevano ormai amici suoi.

 

“Non ho mai avuto una relazione con la dottoressa,” specificò, perché quello che c’era stato, specie col senno di poi, non era stato davvero niente, almeno per lei, “e comunque finché la dottoressa non si trasferisce definitivamente non ci saranno nuovi acquisti, no, e se veniste in procura più spesso lo sapreste.”

 

“E dai, Giorgio, tanto sappiamo che sta in buone mani,” esclamò il questore che, più ancora del prefetto, avrebbe dovuto interessarsi molto ma molto di più di quel che succedeva tra procura e tribunale.

 

Non gli sarebbe mancato, affatto, anche perché si faceva sentire solo quando c’era da prendersi i meriti o quando, secondo lui, non aveva risolto in modo abbastanza veloce qualche grana, prima che arrivasse alla sua di scrivania.

 

“Però… anche senza nuovi acquisti… la serata si fa interessante. Ma chi è? Forse la nuova moglie di qualche pezzo grosso? Beato lui!”

 

“Anche se a me… sembra di averla già vista prima, non so dove,” disse il questore, rispondendo al commento del prefetto.

 

Seguì il loro sguardo, per vedere quale nuova moglie o fidanzata trofeo stessero indicando e tutto il sangue gli finì prima ai piedi, poi in viso, poi altrove, tanto che gli girò la testa.

 

Perché, fasciata in un abito di seta color champagne che la distingueva da tutti i colori scuri in quella stanza e che esaltava tantissimo gli occhi azzurri e quei capelli color oro mezzi raccolti e mezzi lasciati cadere su una spalla, coprendole parzialmente la pelle nuda, era apparsa, come una visione, nient’altro che lei.

 

Lei che tormentava le sue notti insonni.

 

Lei che, vestita così, sembrava uscita dal red carpet di un festival del cinema, per quanto era bella: una diva di Hollywood, tra i lineamenti perfetti e quel corpo in apparenza esile, che nascondeva quasi sempre ma che… che sottolineato dalla seta, era sinuoso come una scultura.

 

Altro che troppo per lui! Era troppo per tutti lì.

 

“Hai capito Mariani!”

 

La voce ed il tono porcini di Carminati furono inconfondibili e si girò per fulminare lui e Rosati con un’occhiataccia, prima che dicessero altro.

 

“Ma il maresciallo Mariani?” domandò il prefetto, scioccato, “neanche la riconoscevo vestita così.”

 

“Eh… se guardi tutto tranne la faccia, Lucio…” sbottò, perché quando ci voleva ci voleva e, al di là di Carminati che era quello che era, pure prefetto e questore fissavano Mariani in un modo sbavante che gli faceva venire il sangue al cervello.

 

“Credo che dovrò rimediare alla mia poca presenza in procura, presentandomi come si deve agli agenti della PG,” ebbe l’ardire di proclamare il carissimo Lucio, facendogli venire un prurito alle mani tremendo, ma era sempre il prefetto.

 

Ma, prima che potesse anche solo obiettare, si era già avviato verso dove Mariani stava salutando Conti e vide benissimo che Carminati e Rosati lo seguirono, ritrovando chissà come mai, un inatteso spirito di corpo.

 

In tutti i sensi.

 

Lanciò un’occhiata al questore, aspettandosi che pure lui facesse altrettanto, ma una voce femminile li raggiunse ed era proprio la moglie del questore, che se lo prese per un braccio ed iniziò una conversazione estenuante su un progetto benefico che stava mettendo in piedi con un’associazione di donne ricche ed annoiate quanto lei. Non che non apprezzasse la beneficenza, ma il progetto era talmente strampalato ed inutile che era solo uno spreco di soldi.

 

Non perse d’occhio il prefetto - la cui moglie lo aveva mollato solo un anno prima, probabilmente stufa delle continue corna, anche se il tutto era stato fatto in maniera molto discreta e non ufficiale - ed il senso di sonnolenza nel sentire gli sproloqui della moglie del questore svanirono del tutto quando lo vide prendere la mano di Mariani, farle il baciamano come un perfetto imbecille, e poi portarla verso il luogo riservato al ballo.

 

Si sentì soffocare, tanto che gli toccò allentare leggermente la cravatta, perché le mani di quel maiale di Lucio sulla parte di schiena lasciata scoperta dalla seta… gliele avrebbe mozzate volentieri.

 

Dov’era la gatta di Imma e del maresciallo quando serviva? Gliene avrebbe scatenate contro un intero branco a quel cretino!

 

E chi ti dice che non ti si ritorcerebbero contro? Che il primo cretino qua sei tu!

 

La voce della sua coscienza, Irene, lo sbeffeggiava, ed in effetti non poteva darle torto.

 

Sì, pure lui aveva certi pensieri su Mariani, era innegabile ma… almeno a differenza degli altri, sapeva come fosse ancora più bella dentro che fuori, quanto fosse intelligente, forte, determinata, ma anche sensibile e-

 

Stai proprio inguaiato!

 

La voce stavolta era, stranamente, di Vitali.

 

Ma sì, stava proprio inguaiato stava, non solo perché era più geloso di Mariani di quanto non lo fosse mai stato di Imma e il maresciallo - e lo era stato molto, moltissimo - ma anche perché… non capiva più se quello che provasse per lei fosse solo un’infatuazione, una di quelle cose passeggere, come aveva sperato o se-

 

Se, stai ‘nguaiato n’ata vota e pure assai!

 

Vitali, di nuovo, se lo immaginava quasi a sbeffeggiarlo vestito da Pulcinella.

 

Forse era meglio smettere col vino.

 

Resistere, doveva resistere, restare calmo e tranquillo, che quella serata sarebbe finita presto.


“Allora, Giorgio, che ne pensi?”

 

La voce della moglie del questore lo riportò alla realtà ed al fatto che si fosse perso tutta l’ultima parte del discorso, da quando Lucio e Mariani avevano iniziato a ballare.

 

“Che è una situazione veramente complessa,” rispose, con una di quelle frasi che possono andare bene per quasi tutto, sperando di non ricadere proprio nella casistica dove non c’entrava nulla.

 

Ma il sorriso della signora ed il suo “molto, molto!” soddisfatti, gli fecero intuire che, anche per quella volta, se l’era cavata.

 

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Il bagliore dei fari la accecò, mentre entrava nel locale.

 

Il solito, quello anche della sera prima.

 

Era passata da casa di Penelope prima, ma non aveva risposto nessuno e ci aveva messo poco a scoprire, dai social, che fosse di nuovo lì.

 

E la cosa le dava doppiamente fastidio: sia perché ci stava con quella, sia perché, quando stava con lei invece, era sempre impegnata e mo… e mo il tempo lo trovava.

 

Per quella.

 

Sapeva che era assurdo prendersela con una perfetta sconosciuta, ma anche solo prendersela con Penelope, visto che era stata lei a chiedere la pausa e poi a non farsi più sentire, ma si era comunque studiata il profilo della rivale con una minuzia che sua madre in confronto sarebbe impallidita, durante tutto il viaggio in treno.

 

Ed aveva scoperto che era una delle famose modelle dell’accademia - e non solo - e che studiava recitazione.

 

Un’artista, proprio come Penelope, oltre che bellissima, con i capelli rosso fuoco - probabilmente tinti, ma stupendi lo stesso - che la facevano sembrare un incrocio tra un’elfa e Jessica Rabbit.

 

Al confronto, si sentiva proprio insignificante, banale, come mille altre ragazze: carina magari, ma niente di che.

 

E però era andata lì lo stesso, spinta da non sapeva bene quale coraggio e, con lo stesso coraggio - o forse più masochismo, quello doveva averlo preso da suo padre, invece - si fece largo tra la folla, cercando di trovare Penelope.

 

Non la vide. Individuò però una chioma infuocata, inconfondibile anche nella penombra e in mezzo a tutto il casino e le luci colorate che distorcevano ogni cosa.

 

E sì, accanto a lei c’era proprio una macchia bionda: Penelope.

 

Si avvicinò, trainata da quella forza inspiegabile, nonostante la parte razionale di lei avrebbe solo voluto andarsene, fino ad essere spinta dalla gente che ballava ed arrivare proprio a due passi da loro.

 

Il cuore le si spezzò del tutto, nel vedere le loro labbra incollate in quello che non era un bacio, nemmeno un limone, ma proprio un agrumeto intero.

 

Gli occhi le si riempirono di lacrime, la testa che le girava, mentre sentiva nelle orecchie un battito ancora più forte di quello della musica.

 

Qualcosa la colpì ad un fianco, facendola quasi cadere e levandole il fiato, mentre una voce femminile urlava “e levati se non balli!”

 

Fece giusto in tempo a vedere un’altra coppia di ragazze, che sembravano parecchio aggressive tra look e atteggiamento e che reclamavano anche quel pezzetto di spazio, perché poi con la coda dell’occhio notò due occhi azzurri che la fissavano, spalancati.

 

Fregandosene delle due fanatiche, si rimise del tutto in piedi e, dritto davanti a sé, trovò il viso di Penelope, che la osservava stupita e… e forse un po’ colpevole?

 

Ma, se almeno la spremuta era finita, stava ancora avvinghiata con quella, che la guardò in cagnesco, si rivolse a Penelope come a chiedere ma chi é questa?  e poi urlò così forte che lo sentì benissimo anche lei, nonostante la musica, “ma è la tua ex?”

 

Ex.

 

Quello era, a tutti gli effetti.

 

Si sentì in imbarazzo, completamente fuori posto, il dolore nel petto che si fece sempre più lancinante, a maggior ragione quando Penelope non disse niente e la rossa proseguì con un “che vuoi fare scenate?” di sfida.

 

No.

 

Non voleva fare scenate, non voleva fare nient’altro che levarsi da lì: era stata stupida, stupida, stupida ad andarci.

 

Ma ci doveva sbattere la testa sulle cose lei, altrimenti non le capiva, non le voleva capire, da sempre.

 

Si voltò, scontrandosi contro le due fanatiche, levandosele di mezzo ricambiando la gomitata e, prima che potessero riprendersi, si buttò nella mischia cercando disperatamente di raggiungere l’uscita, pregando che il fiato ed il cuore non cedessero prima di allora.

 

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“E quindi… ma mi stai ascoltando?”

 

Si voltò di scatto verso Irene, che lo aveva beccato in pieno, perché no, non aveva sentito mezza parola e con lei non poteva bluffare come con gli altri.

 

Anche perché i trucchi del mestiere glieli aveva insegnati lui e lei li conosceva e lo conosceva troppo bene.

 

Ma Mariani era stata richiestissima per i balli ed ora era tornato Lucio a spadroneggiare, mentre quelle mani… quelle mani gliele avrebbe veramente staccate, se avesse potuto.

 

Ed il peggio era che Mariani non lo aveva allontanato. Certo, era il prefetto, non poteva mandarlo a quel paese, lo capiva bene, ma continuava a ballare con lui come se niente fosse.

 

Mentre… mentre a lui non aveva rivolto uno sguardo, nemmeno uno, e sì che era tutta la serata che si perdeva a guardarla mentre lei-

 

“Ma insomma, si può sapere che cos’hai? Ti sei di nuovo distratto, ti conosco. E non è da te. Che cos’ha di così interessante il prefetto stasera? O forse Mariani?”

 

Per poco a quelle parole non gli venne un colpo. E sì, ora Irene aveva tutta la sua attenzione, tutta quanta, e da quegli occhi era difficilissimo sfuggire. Anche quello lo aveva imparato da lui e gli si stava ritorcendo contro completamente, dopo tutti quegli anni.

 

“Mariani?” sussurrò, più bassa, e da un lato le fu grato per la discrezione ma dall’altro l’incredulità ed il disappunto nella voce furono una coltellata.

 

“Mi preoccupo per lei, perché il prefetto… lo sai com’è no? Perché non si può?”

 

“No, no, per carità. Quello si può eccome. Altre cose… meno, ma lo sappiamo tutti e due, no?” sospirò Irene, scuotendo il capo, “e comunque… il prefetto è così da sempre ma non mi sembra che ti sei mai preoccupato tanto della… virtù delle sue potenziali conquiste.”

 

“Ma Mariani è diversa: è capace, intelligente, brillante e… e si merita di meglio, sia per la sua vita privata che per la sua carriera, di quel maiale di Lucio.”

 

“Di meglio tipo te?” gli chiese, senza perdere un colpo, e gli venne un sorriso amaro.

 

“No, no, si merita di molto meglio anche di me,” ammise, perché era la verità, per quanto facesse male.

 

“Giorgio…” sbuffò lei, passandosi una mano sulla fronte, e poi si sentì afferrare per le spalle, “ma si può sapere che combini? Eri proprio tu che predicavi sempre il non mischiare il lavoro con il privato. E invece hai appena finito con Imma - finalmente, lasciamelo dire - e adesso ricominci? Ma che ti succede? Non è da te. E poi, se proprio devi fare chiodo scaccia chiodo, sai quanti chiodi esterni alla procura ti puoi trovare?”

 

“Perché, con te ha mai funzionato?” ebbe la prontezza di domandarle, perché le rimaneva sempre superiore in grado e di età e perché di sicuro Irene, dopo quel cretino di Ranieri, non era mai andata avanti veramente, purtroppo per lei e per Bianca.

 

“No. Ma almeno i chiodi appunto me li sono trovati ben lontani dal lavoro e-”

 

“E Mariani non è un chiodo!” sbottò infine, a volume fin troppo alto, ringraziando il cielo che tra la musica ed il brusio della folla non sembrò che nessuno avesse sentito, almeno a guardarsi intorno.

 

Ma Irene sì ed aveva gli occhi spalancati e ancora più preoccupati.

 

E la capiva perché… perché la storia dell’infatuazione passeggera no, non reggeva proprio più.


“Giorgio…” sospirò, scuotendo di nuovo il capo.

 

“Lo so, lo so: è troppo giovane, troppo bella e… e siamo in una posizione troppo sbilanciata. Ed è tutto sbagliato ma… al cuore non si comanda, no? E appunto lo sai meglio di me.”

 

“Ma almeno lei ricambia? O facciamo di nuovo la fine di Imma?”

 

“Credo… credo di sì, ma… ma lo so che non ci può essere niente, quindi mi sono allontanato e lei-”

 

“E lei ti sta facendo rodere il fegato. E brava Mariani! Ha più coraggio di quanto pensassi, e anche i gusti le sono leggermente migliorati, visto com’era rimasta succube a quel narcisista di Santoro.”

 

“Non è succube, anzi! Devi vederla quando si arrabbia, o quando deve proteggere qualcuno: è una leonessa!”

 

“I felini ti piacciono proprio, eh? A parte la gatta di Imma.”

 

“Irene…”

 

“Giorgio…” lo imitò lei, in quel modo che lo innervosiva e lo consolava al tempo stesso, perché era l’unica che osava affrontarlo in quel modo.

 

L’unica a parte…

 

“Mariani è adulta e pure tu. E di sicuro io non posso fare la morale a nessuno. Non ti posso dire nemmeno cosa fare o cosa non fare. Ma o ti decidi, in un senso o nell’altro, o, se ti vedo di nuovo così al prossimo evento della procura o quando magari lei avrà qualcuno, giuro che ti strozzo.”

 

E, detto quello, si beccò una pacca sulla spalla che gli fece ricordare quanto Irene facesse esercizio fisico, poi la vide finire di bersi il calice di prosecco di un sorso, posarlo sul tavolino lì vicino ed allontanarsi con la sua solita nonchalance. Raggiunse un famoso attore che interpretava un commissario molto conosciuto ed amato in televisione e che, per quel motivo, era stato invitato dal prefetto per fare un discorso.

 

Ma, del resto, Irene tra tutti loro era quella più a suo agio con quel mondo e l’attore sembrava gradirne molto la compagnia - per fortuna almeno lui non si era concentrato su qualcun’altra.

 

Il pensiero, inevitabilmente, tornò a lei, e si voltò e la trovò ancora nel bel mezzo di un ballo col caro Lucio, che si avvicinava sempre di più, ballo dopo ballo, tanto che ormai erano in una posa adatta per un lento.

 

Una furia lo prese, sia nei confronti di lei, sia nei confronti di lui: al di là di tutto, vista l’occasione non era proprio il caso.

 

O ti decidi o non ti lamentare!

 

Cercò di zittire la voce di Irene ma quella imperterrita gli ricordava che quando Mariani avrà qualcun’altro…

 

Si, perché non era questione di se, ma di quando. Mariani era stupenda e, a parte che non si meritava certo di restare sola a vita, in ogni caso, dopo quello che era successo con Santoro era proprio cambiata, si era sbloccata.

 

Per fortuna e sfortuna sue.

 

La sola idea di Mariani con un altro, pure che non fosse il prefetto, gli causava un dolore tremendo al petto e allo stomaco, la gelosia che gli torceva il cuore.

 

Fu un attimo, un impulso.

 

Forse quel pensiero, forse il fatto che vide Mariani, per la prima volta quella sera, spingere leggermente indietro le spalle del prefetto, ma finì anche lui in un’unica sorsata il suo vino. Appoggiò il bicchiere accanto a quello di Irene e, senza neanche sapere bene come, era a pochi passi da lei, subito dietro a Lucio.

 

E, di nuovo per la prima volta quella sera, i loro sguardi si incrociarono e lei parve sorpresa ma anche un po’... sollevata?

 

Toccò la spalla sinistra di Lucio, due e poi tre volte, finché finalmente il prefetto si girò, guardandolo stupito e molto scocciato.


“Giorgio che c’è? Come vedi sto ballando e-”

 

“E Irene mi ha detto che ha bisogno di te. L’attore lo hai voluto invitare tu, ora non puoi sbolognarglielo per tutta la serata,” si inventò, perché non voleva creare problemi a Mariani col prefetto e perché Irene avrebbe capito subito, vedendoselo arrivare.

 

“A me pare che se la stia cavando benissimo!” ribatté il prefetto, guardando verso Irene e l’attore che conversavano amabilmente e ridevano pure.

 

“Lo sai anche tu che Irene se la cava sempre in queste situazioni, ma ha detto che ha bisogno di parlare anche con te, che è importante. Poi, in questo periodo della tua carriera, a maggior ragione ti può fare comodo, no?”

 

Anche se Roma era già uno degli incarichi più importanti che si potessero avere, le sorti di dove sarebbe finito il prefetto e con quale ruolo dipendevano molto anche dalla percezione dell’opinione pubblica, oltre che dalle connessioni politiche.

 

Lucio lo fissò per un attimo ma poi annuì e si congedò da Mariani con un, “se mi può scusare un attimo, Mariani, poi riprendiamo il discorso…” del quale lei, nonostante il sorriso gentile che aveva sempre, sembrò ben poco entusiasta.

 

“In realtà-”

 

“Posso?” le chiese, prima che potesse trovare qualche scusa tipo l’andare in bagno, o a mangiare qualcosa, o la stanchezza, aggiungendo, più per il prefetto che per lei, “così almeno finiamo questo ballo e non lo lasciamo a metà. E poi ho alcune cose di cui parlarle, Mariani, e quindi ne approfitto.”

 

Lucio fece una faccia un poco scura ma si allontanò lo stesso, con una specie di sguardo di avvertimento che era un occhio a quello che fai, a cui lui rispose con un sorriso ancora più di circostanza di quello di Mariani, perché non voleva creare discussioni o altri scandali.

 

Ma poi, una volta che il maiale fu accanto a Irene - sperando che lei lo perdonasse, che era per una buona causa - si concentrò di nuovo su Mariani, che ancora non aveva risposto, tanto che la sua mano stava ancora a mezz’aria, nel gesto di offerta. Quelle di Mariani invece erano piantate sui fianchi di quel vestito da infarto.

 

“Non dovevamo tenere le distanze, dottore? Se mi deve parlare di lavoro-”

 

“No,” sussurrò, interrompendola e chiarendo, anche se sempre a bassa voce, “no, non dobbiamo parlare di lavoro e… lo so che forse dovremmo tenere le distanze e che sarebbe la cosa più giusta da fare ma… non ci riesco.”

 

Lo sguardo di Mariani si ammorbidì leggermente, anche se le mani se ne stavano ancora ben piantate nella seta.

 

“Ma… non sono ancora sicuro se… se i discorsi che potremmo fare le sono veramente graditi Mariani e… non voglio approfittarmi della mia posizione. Quindi… quindi sta a lei…” concluse, sentendosi la voce un poco tremante, così come la mano.

 

Mariani si morse il labbro e scosse il capo.

 

Un macigno nel cuore di fronte a quel rifiuto che significava che tutto era finito ancora prima di iniziare - non che non la comprendesse, dopo tutte le sue esitazioni. Fece per abbassare la mano, per ritirarla e ritirarsi. Magari si sarebbe preso pure qualche giorno di vacanza, per mettere ancora di più le distanze e per… per cercare di riprendersi da quell’ennesima batosta.

 

Ma dita morbide si intrecciarono nelle sue e la mano venne guidata proprio verso uno di quei fianchi, che erano muscolosi e tonici sì, ma dovevano essere anche lisci come la seta che era da tutta la serata che sperava di poter toccare.

 

E non solo quella!

 

“Un ballo glielo posso concedere, dottore,” rispose Mariani, con un mezzo sorriso, che pareva anche un invito, tanto che osò poggiarle l’altra mano sulla spalla e cominciare a muoversi insieme a lei, anche se sempre a distanza più che di sicurezza.

 

Rimasero in silenzio per un attimo, occhi negli occhi, ma poi Mariani si fece più seria, un’ombra a velarle gli occhi, e mormorò, “neanche io ho capito del tutto lei come mi vede, dottore. E… non voglio fare dieci passi avanti e dieci indietro e nemmeno… essere solamente il premio di consolazione o chiodo scaccia chiodo.”

 

“Non è un chiodo!” esclamò, di nuovo forse troppo forte, perché quel termine gli stava sempre più sul gozzo, tanto che Mariani gli fece un mezzo salto tra le braccia per lo spavento.

 

“Mi scusi, Mariani, ma… allora questo discorso varrebbe anche per lei con Santoro. Ma per me quella è acqua passata. Ci ho messo tanto, troppo ma… mi è passata del tutto. Come le ho già detto una volta… forse… mi sono reso conto di aver corso dietro per tanto tempo al niente ma… ma ora mi sono anche finalmente accorto di quello che avevo davanti agli occhi per tutto questo tempo. E non mi riferisco solo a stasera o a questo vestito che… è… sei bellissima.”

 

Le guance le sbocciarono in un color ciliegia matura assolutamente adorabile che, se possibile, la rendeva ancora più bella.

 

“Credo… credo di avere bisogno di una boccata d’aria…” 

 

Quella frase, pronunciata all’improvviso, le mani di lei che gli abbandonarono le spalle ed il passo indietro letterale, furono un’altra coltellata.

 

Forse aveva corso troppo, o forse non era stato abbastanza convincente, troppo banale, come lo aveva accusato in passato e-

 

“Ti aspetto sul balcone tra dieci minuti?”

 

Sentì nitidamente il cuore saltare un battito, tanto che temette gli sarebbe venuto un colpo, anche perché, subito dopo, prese ad andare a mille.

 

Non avrebbe saputo dire se più per il tu, che era la prima volta che lo usava con lui, o per il contenuto della frase e gli scenari che si prospettavano.

 

Deglutì una, due, tre volte, ma la voce e la sicurezza che aveva sempre avuto con le donne parevano essere svanite e quindi si limitò ad annuire, mentre lei, con un sorriso ed un occhiolino che gli fecero finire tutto il sangue dove non doveva proprio finire, si allontanò, come se niente fosse.

 

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Si sentì afferrare per un polso e si voltò, temendo che fossero le fanatiche di prima, ma no, anche se forse era pure peggio.


Era Penelope, con il fiatone ed il rossetto mezzo sbavato, cosa che non fece altro che torcerle di più lo stomaco e il cuore.

 

“Vale…” mormorò quasi, tra un fiato e l’altro, ora che erano fuori dal locale e, a parte le orecchie che rimbombavano ancora un po’, ci sentiva bene, “perché sei qui?”

 

“Menomale che mi davi tempo fino alla laurea!” esclamò, perché le lacrime le uscirono senza volerlo e anche la rabbia e la delusione, “per carità, lo so che me lo merito ma… ma se stai con un’altra… non ha senso che sto qua pure io.”

 

Le dita però non le mollarono il polso, anzi, lo strinsero ancora di più.

 

Ma non le facevano l’effetto solito: le bruciavano ma in un modo che le faceva male all’anima.

 

“Non mi hai ancora detto perché sei venuta qui. Perché adesso. Ormai… non ci speravo più.”

 

Quella parola speravo le diede a sua volta un poco di speranza ma il bruciore non passava, anche quello in gola e al petto.

 

“Perché… perché ho fatto una cazzata, va bene? E non solo a venire qua stasera ma… ma con Carlo. Non… non sono riuscita a farci niente, niente, perché… perché sì mi piaceva, ma pensavo a te. E poi non avevo il coraggio presentarmi di nuovo da te, dopo tutto quello che ho combinato. Ma… ma ho capito che le cazzate si pagano e che… ho aspettato troppo. Mi lasci andare?”

 

Penelope fece un’espressione che… sembrava sull’orlo delle lacrime pure lei, ma non lasciò la presa, anzi, il bruciore proseguì.


“Non… cioè Vale, quella… quella ragazza per me è solo un’avventura e basta. Lo sai che… che siamo diverse, no? Se… se sto qualcuno sono fedele ma se no… non mi faccio problemi a fare cose senza impegno. E ormai pensavo che non ti avrei mai più vista.”

 

“Quindi… quindi con quella ci… ci hai scopato ?” le uscì, senza poterlo evitare, anche se la risposta forse le avrebbe fatto ancora più male del solo immaginarlo.

 

“Sì, ma non significa niente per me e-”


“E non stavamo insieme, lo so,” la interruppe, perché la conosceva e sapeva dove voleva andare a parare. E, razionalmente sapeva anche che Penelope non aveva torto e neanche colpa ma… la razionalità in certi momenti spariva.

 

“Ma?”

 

“Ma non so se riesco a passarci sopra, a non pensarci. Per l’appunto siamo diverse e-”

 

“E io sono stata onesta con te, Vale, sempre. Lo sai chi sono e come sono.”

 

“Ma… ma anche io sono stata onesta con te e… una parte di me… ci sperava che… che mi avresti davvero aspettata.”

 

“Ma dal mio punto di vista ti ho aspettata, Vale, in ogni caso. Non sono andata avanti veramente, non per quello che per me conta,” proclamò, toccandosi il cuore e la testa, “se avessi avuto tue notizie in questi mesi, se avessi avuto un segnale che c’era ancora una speranza, probabilmente non avrei cercato altro, perché so come sei fatta ma… ma in ogni caso per me sono due cose distinte, anche se per te non lo sono.”

 

“Lo so ma… ma è che… non vedevo l’ora di vederti e… e mi ero preparata tutto un discorso per chiederti scusa. Perché comunque mi sono comportata male e lo so, e… ed è colpa mia se stiamo in questa situazione. Ma… ma adesso, anche se lo so che sarà stupido, l’unica cosa a cui riesco a pensare è a voi due che-”

 

“Lo so,” la interruppe di nuovo Penelope e si sentì sfiorare una guancia ma quel contatto non la sollevava come faceva di solito, ma le faceva ancora più male.

 

Penelope se ne accorse, la conosceva troppo bene, e la guancia, che già bruciava, tornò libera.

 

“Ascolta… ormai sei qua a Milano e… vieni da me, nella stanza degli ospiti, solo a dormire. Poi… poi vediamo come va e… se riesci ad andare oltre o no. Io lo so cosa voglio e-”

 

“Ma non è una questione di cosa voglio o no, di chi voglio: quello lo so anche io ma-”

 

“Ma sei più simile a tua madre che a tuo padre,” ironizzò Penelope, per alleggerire la situazione, come sapeva sempre fare lei.

 

Ed era vero, ora che ci pensava, verissimo.

 

Non era gelosa come sua madre ma… non riusciva nemmeno a passare sopra alle cose come suo padre, forse neanche per amore.

 

“V- va bene. Se… se non è un problema avermi a casa. Ma domani torno a Roma. Credo… credo di aver bisogno di pensarci su per un po’ e… di lasciar passare un po’ di tempo per… digerire tutto.”

 

“Basta che stavolta non sparisci, e mi fai sapere cosa avrai deciso,” ribatté Penelope con un’occhiata che la fece sentire piccola piccola.

 

Perché lei non si meritava una persona matura, paziente e intelligente come Penelope che, dopo tutto quello che aveva combinato, ancora era disposta a darle una possibilità, nonostante la sua incoerenza.

 

Ma, anche se non era colpa di nessuno, o forse solo sua, anche se sicuramente Penelope la amava molto, forse fin troppo, e anche se pure lei l’amava… forse erano andate troppo oltre per poter tornare indietro e per potersi ritrovare davvero.

 

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“Mariani?”

 

Sussurrò quel nome nel buio che lo circondava, il cuore che gli batteva all’impazzata, come non aveva smesso di fare da quando lei era uscita.

 

L’aveva raggiunta sul balcone che dava al giardino, come lei gli aveva chiesto, dieci minuti dopo, precisi precisi, non uno di più né uno di meno, accertandosi che Lucio fosse distratto con Irene e l’attore, e che nessuno stesse facendo troppo caso a lui.

 

Ma di Mariani non c’era traccia e all’ansia si sommò la preoccupazione che le fosse successo qualcosa o che avesse cambiato idea.

 

Ma poi sentì un rumore, come un qualcosa che cadeva in acqua e la vide, seduta sul bordo della fontana che luccicava alla fioca luce della luna, in mezzo al giardino appena sotto la balaustra a cui era appoggiato.


Gli sembrò quasi una visione, lì nella penombra: la luna e l’acqua che donavano riflessi ai capelli biondi, alla pelle chiara e a quel velo di seta.

 

Una mano era ancora nell’acqua - doveva essere stata quella a produrre il rumore - e gli occhi di Mariani furono nei suoi. E poi, come uno squarcio nella notte, vide il suo sorriso e l’altra mano che si tendeva verso di lui.

 

E, anche se Mariani non era immersa nella fontana, gli sembrò assurdamente una scena della Dolce Vita, ma lui era mille, anzi un milione di volte più fortunato di Marcello.

 

Le gambe finalmente si decisero a muoversi e, quasi ipnotizzato, scese la scalinata e la raggiunse, gli occhi che riuscivano a metterla sempre più a fuoco, anche se chi stava andando a fuoco era lui.

 

Il cuore ormai impazzito, trovò la forza di sollevare una mano e, mentre gli tremavano non solo le dita ma pure le vene i polsi, come avrebbe detto il Sommo Poeta, riuscì infine ad afferrarle il palmo e il dorso in un contatto per nulla saldo ma che gli diede la scossa.

 

Ma che sei scemo? Sembri un ragazzino alla prima volta, smettila di fare il cretino, calmati!

 

Ma tant’era, erano decenni che non si sentiva più così: nemmeno con Imma era stato così in agitazione, così timoroso di fare qualcosa di sbagliato, di non essere all’altezza e-

 

Uno strattone improvviso, che per poco non le finiva addosso, perché Mariani si era alzata in piedi e, con un altro sorriso, aveva preso a camminare, e lo stava conducendo verso la parte più interna del giardino e, con il cuore in gola, si trovò quasi trascinato dietro a una siepe abbastanza alta da coprire entrambi dalla vista di chi usciva dal salone.

 

La guardò: gli occhi che le brillavano, le guance ancora scure, il sorriso furbo ma con un residuo di timidezza che faceva capolino ogni tanto.

 

Rimasero così, a guardarsi, mano nella mano, il fiato corto, finché di nuovo sentì la seta sotto le dita, ancora intrecciate in quelle di lei, che ora poggiavano sul fianco, proprio come durante il ballo.

 

Ma le circostanze erano molto diverse.

 

Mentre, ancora tremante, allargava le dita, fino ad afferrare la seta, sentì l’altra mano di Mariani prima sulla spalla, poi a sfiorargli il collo ed infine su una guancia.

 

Non ci stava capendo più niente, era una tortura, ma voleva fosse lei a dare il via libera definitivo: era pur sempre una sua sottoposta e-

 

Un sospiro sulle labbra ed un, “non pensavo sarei mai finita a dirigere il traffico!” lo fecero imbarazzare ancora di più - che sì, ci stava facendo proprio la figura dello scemo - e allo stesso tempo gli scappò una risata e-

 

E poi una scossa elettrica, due labbra sulle sue, e non sapeva se stesse tremando più lui o lei. E a quel permesso ogni paura svanì: l’altra mano si mosse da sola verso il fianco ancora libero, mentre la stringeva a sé come avrebbe voluto fare almeno da quel giorno al mare. E la baciò, ancora e ancora, fino che il fiato gli mancò del tutto, le mani che continuavano a vagare, sulla schiena nuda, sotto la seta e sentì le dita di lei, come tante piccole scosse elettriche, sciogliergli il nodo della cravatta - provocandogli un nodo in gola impossibile da levare. Poi i primi bottoni della camicia, mentre si scontravano come ubriachi sulla siepe, sperando che non cedesse. Quei mugolii che erano peggio di una droga, mentre le sue mani salivano sempre più in alto, sopra e sotto la seta - fino ad avere conferma, la testa che gli girava tremendamente, che no, non indossava il reggiseno - e quelle di lei sempre più in basso, sulla cintura e poi….

 

E poi, bloccandole la mano e staccandosi a forza per riprendere un respiro e il controllo, la bloccò.

 

Mentre cercava disperatamente di calmarsi e di recuperare un po’ di ossigeno, trovarsi davanti il viso di lei, il rossetto mezzo sbavato e mezzo scomparso, il viso completamente scurito, così come gli occhi, fu un colpo basso.

 

In tutti i sensi.

 

Così come il mugolio frustrato di lei e il modo in cui si mordeva le labbra.


“Non… non possiamo qui, non così…” riuscì in qualche modo a pronunciare, anche se la voce gli era quasi del tutto sparita.

 

“E… e allora… andiamo da un’altra parte,” ribatté lei, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

E lo era, ma…

 

“Non… non posso mollare tutti, anche se… anche se lo vorrei tanto e-”


“E per come sei messo forse ti conviene mollare tutti. Conosco un’uscita direttamente dal giardino,” rise lei, facendogli l’occhiolino.

 

Cercò di guardarsi, anche se non poteva vedersi in viso - di sicuro come minimo aveva il rossetto sbavato pure lui. Il vestito era pieno di segni lasciati dalla siepe e dalla foga di Mariani, oltre che di pieghe.

 

La guardò meglio ed in effetti anche il vestito di lei era in condizioni terribili, anzi, pure peggio, essendo fatto di seta. Sperava di non averglielo rotto definitivamente ma, in caso, glielo avrebbe ricomprato sicuramente. Che sarebbe stato un peccato mortale non vederglielo più indosso, pure se rischiavano di nuovo di fare la stessa fine.

 

“E poi… hai già salutato tutti, no? Anche se hai passato tutta la sera a fissarmi.”

 

Visto quanto era surriscaldato non avrebbe saputo dire come fosse possibile, ma si sentì le guance ancora più calde.


Allora lo aveva notato!

 

Mariani era timida e silenziosa ma… non le sfuggiva niente.

 

E questo lo faceva impazzire.

 

Forse fu quella la goccia che fece traboccare il vaso, ma stavolta fu lui a prenderla per mano e a condurla verso l’uscita del giardino che sì, conosceva bene anche lui, perché della sicurezza dell’evento se ne era occupato in prima persona.

 

Sentì la risata di Mariani sul collo mentre correvano sulla ghiaia, nonostante i tacchi di lei, fino al vecchio e stretto cancello che si apriva solo internamente.

 

Sperando non suonasse qualche allarme, lo fece scattare e non persero tempo ad uscire e a chiuderlo alle loro spalle.

 

Una volta che si furono accertati che non ci fosse nessuno nel parcheggio, corsero fino all’auto, che per fortuna aveva tenuto lui le chiavi e non le aveva date al ragazzo della reception - sempre per motivi di sicurezza. Una volta che ci furono saliti, partì quanto più in fretta possibile senza dare nell’occhio.

 

Ma gli toccò presto fermarsi, ad un semaforo rosso: una multa non se la poteva proprio permettere, visto con chi era, e-

 

E se la corsa e l’adrenalina un poco avevano diminuito lo stato imbarazzante in cui versava, il tocco umido sulla mandibola e sul collo non fecero che farlo tornare al punto di partenza.

 

Quando aveva conosciuto Mariani, mai avrebbe pensato che sotto quell’aria fiabesca si nascondesse tanta passione, tanto fuoco e invece…

 

Si trovò trascinato in un bacio, che non potè non ricambiare, perché non ce la faceva, e quindi si perse in quelle labbra dolci che sapevano ancora leggermente di vino e-

 

Un rumore di clacson e un “ma che te movi??? Certe cose fatele a casa, a zozzoni!!!” lo fecero sobbalzare e strappare via la bocca da quella di lei. Non solo il semaforo era ormai verde ma, nonostante il buio, tra i fari e le luci del semaforo e della strada, evidentemente si riusciva ad intravedere lo stesso cosa stavano facendo.

 

Mariani era bordeaux e doveva esserlo pure lui e gli sussurrò un “mi spiace, dottore…” che lo intenerì tantissimo.

 

“Leviamoci di qui,” le rispose, col fiato corto ed un sorriso che sperò fosse rassicurante, anche se ormai ci capiva poco o niente, tanto che guidò praticamente con pilota automatico, rendendosi conto di essere arrivato al suo condominio solo quando se lo trovò davanti.

 

Improvvisamente, si rese conto anche di non aver chiesto a Mariani il permesso di portarla lì.

 

“Se… cioè… se vuoi salire… se no ti riporto in caserma…” spiegò, il viso che ormai sembrava di avere la febbre a quaranta.

 

“Se ci provi, ti ci faccio entrare con me e poi ti arresto,” scherzò lei, ma l’immagine mentale di lei che lo… arrestava… non faceva che peggiorare le cose.

 

I piedi, di nuovo, si mossero da soli - e pure le mani - e spalancò la portiera, per raggiungerla ed aprire quella di lei. Mariani però era stata ancora più veloce e già era scesa, aveva richiuso quella dal lato del passeggero con un colpo secco e chiuse pure quella del guidatore, prima di sentirsela addosso in un bacio che gli levò ogni traccia di razionalità rimasta.

 

Fece giusto in tempo a chiudere a chiave l’auto e poi barcollò con lei fino all’ingresso e all’ascensore. Per poco non ci rimasero chiusi dentro, a furia di pigiare tasti a caso per arrivare al piano, spingendo anche per sbaglio quello del blocco.

 

“Non qui…” gli toccò ribadire, allo sguardo divertito e malizioso di lei, pure se aveva anche quel rossore che lo faceva impazzire.

 

Perché sapeva benissimo che quell’ascensore era vecchio modello e rischiava di andare in guasto da un secondo all’altro. Ci mancava solo rimanerci bloccati e dover chiamare qualcuno: altro che incognito! E poi si sentiva tutto, ma proprio tutto, come aveva sperimentato una volta con un vicino che aveva avuto la stessa idea che era appena venuta a loro.

 

Quindi, nonostante lo sbuffo di Mariani, sbloccò l’ascensore e, non appena furono arrivati al piano, non perse tempo ad uscirne, trascinandola con sé fino alla porta - le chiavi dov’erano quando servivano?!

 

Purtroppo per lui trovavano in tasca e tentare di ripescarle gli provocò un dolore assurdo. Tanto che lo capì pure lei, a giudicare dalla sua risata, e le toccò bloccarle le mani prima che facessero un disastro completo.

 

Il rumore della porta che girò sui cardini fu il suono più bello che avesse sentito in tutta la sera, o quantomeno il più liberatorio, così come quello della porta blindata che si richiudeva con un tonfo alle loro spalle.

 

E poi la intrappolò al muro, deciso a farle pagare tutti i tormenti che gli aveva inflitto quella sera, e che continuavano, senza sosta, tanto che, nell’ultimo barlume di consapevolezza, prima dell’incoscienza, sperò di arrivarci vivo a fine nottata.

 

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“Ben arrivati, accomodatevi!”

 

“Ciao Imma! Ippazio!”

 

Il saluto educatissimo di Bianca - uguale a Francesco proprio era - la fece sciogliere già dal principio, specie quando poi, prendendole lo spolverino leggero ed elegantissimo che aveva indosso, si trovò con un bacio sulla guancia.

 

Uno per lei e uno per Calogiuri.


“Dov’è Francesco?” chiese la piccola, a cui, come aveva detto loro Irene, doveva essere mancato molto.

 

Un ululato fu meglio di qualsiasi risposta.

 

“Francesco!” esclamò Bianca, contenta, per poi trattenersi e domandare, più tranquilla, “posso…?”

 

“Ma certo, vai! Sta nel suo ovetto.”

 

Con un ultimo sguardo di approvazione rivolto ad Irene, Bianca corse verso la zona del salotto e del divano dove stava il nuovo re della casa, con buona pace di Ottavia.

 

Anche se, purtroppo, probabilmente lo sarebbe stato ancora per poco.

 

Ignorò la fitta al petto e fece accomodare la gattamorta, prendendo anche a lei un trench che doveva costare quanto un suo stipendio.

 

Stava per richiudere la porta quando un “ci siamo pure noi…” la bloccò prima di chiuderla in faccia a Pietro.

 

Puntualissimi, sia lui che Irene. Anche se probabilmente per motivi diversi.

 

“Tataaaaa!”

 

L’ululato ed un peso che le si attaccò alla vita - sempre più alta si stava facendo! - la fecero sorridere e diedero il colpo di grazia alla commozione, mentre si abbassava per abbracciarsela.

 

Prenderla in braccio… non era sicura di farcela ormai, anche se, nonostante lo smodato amore per il cibo, l’altrettanta energia ed argento vivo la mantenevano più che in forma. Ma l’altezza l’aveva presa dal lato Calogiuri della famiglia ed anche Salvo non era certo basso, anzi.

 

“Mi sei mancata tanto tanto tanto! Anche tu zio!”

 

E, mentre lo zio invece la sollevava senza troppi problemi - ottimo segno che si stesse riprendendo per bene e che ormai i muscoli stessero sempre più tornando quelli di una volta - e la bimba rideva, le fece effetto notare come ormai parlasse quasi perfettamente.

 

“Eh… con l’asilo… cresce sempre di più,” commentò Rosa, con un sorriso commosso anche lei, sembrandole leggerle nel pensiero, come solo il fratello sapeva fare.

 

E un po’ Francesco.

 

“Dai, entrate. Ma che avete portato?”

 

“Rifornimento di dolci, pane e formaggi di Matera ed anche qualche mozzarella. Ah, sai chi ti saluta?”

 

Le venne spontaneo pensare stocazzo. Ormai l’effetto della vita romana si faceva sentire.

 

“No, chi?”

 

“Quel maresciallo… quello coi baffi, un poco strano. La… La… La…”

 

“LaMacchia?” domandò, con un sospiro, perché Capozza ancora i baffi grazie al cielo non se li era fatti venire, anche se magari un po’ di barba gli avrebbe pure giovato.

 

“Ecco, sì.”

 

“Bene. Tu non ricambiare, mi raccomando, Piè. O, se proprio devi, digli che spero che si trovi bene, anzi, benissimo a Nova Siri o dove cavolo sta.”

 

“No, veramente mo sta alla caserma di Matera e-”

 

“Pure? E va beh… c’è di buono che qua dubito fortemente che torneremo a breve a Matera in pianta stabile. E, nel frattempo, fa in tempo a trasferirsi di nuovo.”

 

“Eh non lo so, Imma. Mi ha detto che lo ha fatto per riavvicinarsi di più alla famiglia, che ci sta pure un fratello che lavora nell’entertainment, così ha detto.”

 

“Sì, se è entertaining come il fratello mi immagino il successone, Piè. Comunque dai, smettiamola di parlare di LaMacchia, che mi si chiude lo stomaco e con tutto questo ben di dio sarebbe un peccato mortale. Accomodatevi,” li invitò, mentre si avviava verso la cucina per ritirare tutto il pane e il companatico.

 

“Biancaaa!!”

 

L’entusiasmo di Noemi nel rivedere la sua amica fu travolgente, fin troppo, tanto che Francesco, che con le carezze di Bianca - ma quanto era una meraviglia quella bambina? - si era calmato, riprese a strillare più forte.

 

“Che non ti piacevano le voci potenti a te?” gridò a sua volta e Francesco, come da manuale, smise di piangere e si mise a ridere, mentre Irene la guardava ancora incredula come a dire ma come fai?

 

“Che bello!! Come si chiama?” domandò Noemi, che ancora non aveva conosciuto il piccolo ululatore seriale.

 

“Francesco,” spiegò Calogiuri, dolce e paziente come sempre, “però devi essere delicata con lui, che è piccolo e tu-”


“E io sono gande, eh!”

 

Il tono la fece sorridere, così come la r mancante. In fondo ancora doveva crescere, anche se si erano già persi un sacco di tappe.

 

E con Francesco… più che perdersele, bisognava vedere a quale tappa, non troppo lontana, sarebbero arrivati.


Osservò per un attimo Calogiuri che mostrava a Noemi come toccare Francesco, con un nodo in gola: era davvero perfetto con i bimbi.

 

E non solo con loro.

 

Francesco prima rise e sorrise, almeno per un po’, ma poi riprese a brontolare, in quello che, ormai lo sapeva, era il richiamo che indicava che le aveva gentilmente concesso di stargli lontano già per troppo tempo e che mo toccava a lei.

 

E quindi, dopo aver ritirato anche il filone di pane in dispensa, si avvicinò e lo prese in braccio, trovandosi con lui aggrappato al collo - che sempre più un koala le ricordava - stretto stretto. E con una serie di bacini che le fecero il solletico.

 

“Ma quindi Fancecco è mio cucino?” chiese Noemi, che sì, su alcune parole più complesse faticava ancora.

 

“No, Francesco non è tuo cugino: per ora ce lo abbiamo in affido solo temporaneamente.”

 

“Affido? Ma che cos’è?”

 

“Eh… Noè… è quando… una mamma, o un papà, o entrambi non possono occuparsi dei figli per un po’ e allora li lasciano ad altri.”

 

“Ma allora io con Pietto sono in affido?” domandò, facendo esplodere Pietro e Rosa in colpi di tosse, mentre a lei prendeva solo un nodo allo stomaco.

 

Povera piccola, con quel cretino come padre!

 

“No, no, perchè stai con me quindi non hai bisogno dell’affido,” le spiegò Rosa, abbassandosi verso di lei.


“Ma io ho bisogno anche di Pietto…” protestò Noemi, tra il triste e le braccia incrociate e non rimase un solo occhio asciutto nella stanza o quasi. Persino Bianca si commosse. Noemi e Francesco invece erano nel loro mondo.

 

“E io mica me ne vado da nessuna parte, infatti, finché tu e mamma mi volete,” la rassicurò Pietro, prendendola in braccio e stringendola anche lui forte forte.

 

I loro sguardi si incrociarono e, a parte la commozione, era così strano vedersi con una creatura in braccio, che non fosse figlia di entrambi, in quelle circostanze poi.


E sapeva benissimo che, da come la guardava, tra la dolcezza, una punta di amaro e la commozione, anche per lui era lo stesso.

 

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“Posso aiutarti?”

 

Per poco non gli venne un colpo perché stava ammirando i bambini giocare tutti insieme, Imma con in braccio Francesco, per tenerlo tranquillo.

 

Ma aveva uno sguardo malinconico che sovrastava la tenerezza della scena. E gli faceva male, perché ne conosceva bene la ragione.

 

Riprese a tagliare la torta della Regina Vittoria portata da Irene e mise a bollire l’acqua per il tè, sempre gentilmente offerto da Irene, insieme ai caffè per chi non lo gradiva.

 

“No, grazie, che voi avete già portato un sacco di cose, che chi sarà quanto ti saranno costate. Almeno questo lascialo fare a me. Che Imma non può staccarsi da Francesco.”

 

“Eh… ho notato ma…” si interruppe per un attimo, e poi gli si avvicinò in un modo che gli fece temere per un attimo l’ira di Imma, anche se era distratta col piccolotto, e gli sussurrò, “ma perché è così giù? Imma intendo.”

 

Sospirò: a Irene non sfuggiva proprio nulla.

 

Anzi, con il tempo diventava pure peggio, forse perché aveva sempre più esperienza o perché lo conosceva di più.

 

E lo guardava in quel modo che… che era difficilissimo mentire o omettere, anche se mai come con Imma.

 

Lasciò andare il coltello e fece un altro sospiro, chiedendosi il da farsi.

 

Da un lato, forse, era l’ultima persona a cui avrebbe dovuto parlare di quello, dall’altro era pure l’unica confidente donna che avesse a parte Mariani. E Mariani in quel periodo pareva stare in un altro mondo: era praticamente sempre impegnata, tanto che sperava che avesse trovato qualcuno finalmente e che fosse meglio di Santoro, non che ci volesse molto.

 

E poi sì, c’era Rosa ma… Rosa stava con Pietro e, anche se in passato avevano parlato del desiderio suo e di Imma di avere un figlio, ora temeva che, a spiegarle la situazione, non potendo parlarne con il compagno, le avrebbe dato solo problemi.

 

Irene invece… il periodo degli avvicinamenti pericolosi era ormai finito da molto tempo, Imma non sembrava più avercela con lei. E poi… e poi era diretta, forse a volte brutale, ma proprio per quello più utile nei consigli di altri amici che magari si sarebbero fatti scrupoli a parlargli con schiettezza e a dirgli cose che non gli sarebbe piaciuto sentire.

 

“Imma… teme di essere… in menopausa…” gli uscì quindi, in un mormorio basso, più basso che poteva, ma Irene capì e spalancò gli occhi, “e… e Melita sembra che si stia piano piano riprendendo quindi… molto probabilmente Francesco tornerà a stare con lei e… e Imma è preoccupata di non potermi dare un figlio e che… finiremo sempre per avere solamente affidi temporanei e per stare male. Ma a me non importa: mi basta stare con lei e… quello che sarà sarà… ma non so più come farglielo capire.”

 

Irene non rispose ma fece un sorriso strano e poi guardò verso i bambini che giocavano: Bianca che si era avvicinata proprio ad Imma per fare altre due coccole a Francesco e cantargli una filastrocca. E, con sua grande sorpresa - a maggior ragione di Irene - si era seduta su una gamba di Imma, mentre sull’altra ci stava il piccolo uragano, che batteva le mani, felice come forse non l’aveva mai visto.

 

Si voltò verso Irene, commossa come si aspettava, ma c’era anche qualcos’altro nel suo sguardo.

 

E poi si sentì stringere la mano, sotto al bancone, forse perché Irene temeva la reazione di Imma nel fare un gesto più visibile di sostegno. Con un “ci penso io, tranquillo!” che non capì - a meno che Irene avesse amicizie pure tra chi gestiva adozioni ed affidi - si allontanò un attimo da lui e tornò verso i bimbi.

 

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“Gelatooo, gelatoooo!”

 

Si era appena verificato una specie di ammutinamento, per colpa di quell’ingorda di Noemi.

 

La mega torta di Irene non era bastata, no, o meglio, era bastata giusto per un paio d’ore.

 

Poi Noemi aveva visto, nel cartone che stava guardando con Bianca, due che mangiavano il gelato e le era venuta una voglia che neanche ad una donna incinta.

 

E mo aveva improvvisato una specie di sit-in di protesta in salotto, sotto lo sguardo assonnato di Francesco, che però sembrava anche divertito, reclamando a gran voce l’agognato dolce, rivolgendosi direttamente a Pietro per di più.

 

“Eh, Piè, tranquilla proprio te la sei scelta la nuova famiglia, eh!” commentò sottovoce, dandogli una pacca sulla spalla, e lui sospirò.

 

“Va bene, va bene, vado a prendervi il gelato. A che gusti lo volete?”

 

“Sììììì!!!” ululò Noemi, battendo le manine, per poi aggiungere, soddisfattissima, “cioccoato e strazzatella!”

 

Bianca, come la Lady che era sempre, guardò verso Irene per chiedere il permesso. Irene però pareva stare in un altro mondo tutto suo, tanto che manco la notò, finché Bianca non chiese, a voce sufficientemente alta, “Irene, posso?” e lei annuì distrattamente.

 

In quel mentre, Francesco, da che rideva, fece uno sbadiglione.

 

“Mi sa che è l’ora della nanna per lui…” proclamò Calogiuri, premuroso come sempre, prima di sollevare ovetto e bimbo e aggiungere, “lo porto in camera finché non si addormenta del tutto, così sta più tranquillo.”

 

“Vengo anch’io, se no qua non dorme più,” si offrì, perché conosceva il piccolo urlatore abbastanza da sapere che, più del sonno, poteva la sua presenza o assenza.


Cosa che la commuoveva sempre tantissimo, anche se in certi momenti era un po’ scomodo.

 

“Allora io sto qua a giocare con le bimbe,” propose Rosa, con un sorriso, “intanto che arriva il gelato.”

 

“Io… ne approfitto allora per parlare un attimo con Imma e Calogiuri, che ho alcuni aggiornamenti da dare. Vi dispiace?” chiese alle bambine e a Rosa che, a parte Bianca - che un poco dispiaciuta effettivamente lo sembrava - fecero un’espressione per la serie ma ti pare? Vai pure e anche se non torni che ce ne frega a noi!

 

Non le avevano ancora perdonato la vicinanza con cio evidentemente.

 

Ebbrave!

 

Ma poi Irene la fissò con quei suoi occhi imperscrutabili e prese il sopravvento la curiosità, se fosse successo altro sul lavoro…. Certo, era strano che gliene parlasse così, ma magari non voleva discuterne nemmeno sulla linea criptata o le era venuta qualche nuova idea.

 

Quindi, prendendo il piccoletto dall’ovetto - che in braccio si addormentava sempre più facilmente - si avviò con lei e con Calogiuri fino alla loro stanza da letto.

 

Ci fu un attimo di imbarazzo, all’idea di farci entrare la ex gattamorta, ma del resto loro una camera avevano, lì dormiva Francesco ed era stata lei a richiedere quel colloquio privato.

 

Irene entrò ma non fece il mezzo sorrisetto che si sarebbe aspettata da lei, né qualche commento sarcastico, ma rimase a fissare le foto di loro due che scorrevano sulla cornice elettronica.

 

Si sarebbe aspettata qualche commento sarcastico pure su quelle, ma no: Irene fece segno a loro di accomodarsi, manco non fosse casa loro quella, e lei si appoggiò all’armadio.

 

“Allora, che ci dovevi dire di così urgente? Che lo sai come è difficile da addormentare Francé…” andò dritta al punto, perché tutte le solite pantomime della collega mentre doveva appunto addormentare la creatura… non c’aveva né tempo né voglia.

 

“Meglio se prima lo addormentate, poi vi spiego.”

 

“Sì, così si risveglia e-”

 

“Ed è meglio se non lo tenete in braccio, quando vi dirò quello che sto per dirvi.”

 

Ammazza! E che caspita doveva mai dire?

 

“Ma… ma c’entra Melita?” le domandò, preoccupata, perché era l’unico argomento, a parte Calogiuri, al quale potesse essere così sensibile.

 

“Solo in parte, Imma, solo in parte.”

 

Con un sospiro, iniziò a cullare Francesco e ad accarezzargli piano piano il viso e le manine, lanciando uno sguardo a Calogiuri che, come sempre, la fissava neanche fosse la Madonna, finché i respiri del piccolo si fecero sempre più lenti e profondi, gli occhi gli si chiusero e prese a ciucciarsi il ditino, come faceva spesso.

 

Con molta delicatezza glielo tolse dalla bocca - che il pediatra aveva detto che non andava bene per i dentini e, finalmente, si addormentò in quella posa di quando si lasciava andare completamente, con le manine aperte lungo i fianchi.

 

Lo poggiò in mezzo al letto, con le barriere intorno che avevano comprato appositamente, si voltò verso Calogiuri, che annuì, ed infine verso Irene.

 

“Allora, che dovevi dirci di così urgente?” le domandò, incrociando le braccia al petto.

 

Irene aveva uno sguardo strano, stranissimo, che non le aveva mai visto prima. La vide prendere un respiro, dopodiché lo lasciò andare e si schiarì la voce, come se quello che stava per pronunciare proprio non le volesse uscire.


Stava per alzare gli occhi al soffitto per la drammaticità della collega quando, in un fiato, udì le parole, “sto… sto pensando di lasciarvi Bianca. Se ve ne volete occupare, ovviamente.”

 

Per poco non si slogò la mascella, tanto la bocca le si spalancò dalla sorpresa. Si voltò di scatto verso Calogiuri, giustamente sconvolto pure lui, perché si sarebbe aspettata di tutto ma non quello dalla ex gattamorta.

 

“Come lasciarci Bianca?” ripeté, più forte di quanto avrebbe dovuto, tanto che il piccoletto fece come un mugolio e si zittì subito, per non svegliarlo.

 

Ma non… non poteva essere… doveva aver capito male.

 

“Io…. io non ho una situazione sentimentale stabile e… a questo punto non so se l’avrò mai. E Bianca ha molto bisogno di una figura paterna, di una famiglia, mi è sempre più chiaro da… da alcune cose successe negli ultimi mesi. Ed io non gliela posso dare. E… e con voi sta bene, sta bene anche con Francesco e con Noemi… ha fatto più progressi con lei che con tutte le tate, le psicologhe ed i medici che l’hanno vista in questi anni. E… e invece io… sento che la tiro indietro che… che non sono abbastanza per lei, sia perchè sono da sola, sia per… per il mio carattere. E invece voi… potreste prenderla in affido e poi quando vi sposerete chiedere l’adozione, che gli anni di convivenza ormai quasi li avete, no? Anche se magari dovrete dimostrare il tempo… non ufficiale in cui vivevate già insieme.”

 

Sentiva il cuore rimbombarle nelle orecchie, la testa che le girava, e la mano di Calogiuri sulla spalla a farle forza


E poi la vista appannata perché… perché si rese conto solo in quel momento di quanto Irene amasse Bianca: a tal punto di essere pronta a rinunciare a lei pur di vederla felice. A darla proprio a lei, poi, che di sicuro, almeno fino a qualche tempo prima, sarebbe stata la sua ultima scelta.

 

“Ma… ma ne sei sicura?” chiese Calogiuri, per tutti e due, “cioè… poi ormai Bianca ti è molto affezionata e-”

 

“Sì, ma sono Irene, non sono la sua mamma. E… e probabilmente non lo sarò mai. Lei invece ha bisogno di una famiglia vera… non… non di qualcuno che fatica anche a giocare con lei e che… che c’è solo la sera e nei weekend e che…. Forse non sono capace di fare la madre: ho visto anche con Francesco com’è andata,” concluse con un sospiro, un paio di lacrime che le scendevano sul volto.

 

E non poté non pensare che fosse la cosa più bella e più triste che avesse mai visto.

 

“Ma ci hai pensato bene?” chiese Imma, sconvolta, “cioè… non…”

 

“Sono mesi che ci penso… forse… forse anni. Ma… ma una parte di me non voleva, non vuole… ma… mi rendo sempre più conto che… non deve contare ciò che voglio io. E… avete tutto il tempo per pensarci, naturalmente, anche se, in caso vi vogliate trasferire, dovrete decidere prima di allora. Ma l’offerta resta valida,” ribadì, prendendo un fazzoletto da sopra la cassettiera ed asciugandocisi, prima di concludere con un, “torniamo di là?”

 

Prese pure lei non uno ma due fazzoletti, perché aveva gli occhi rossi da far spavento e Calogiuri la imitò, anche se lei, a differenza degli altri due, si soffiò pure il naso. Sperando di non aver svegliato Francé.

 

Ma no, il piccolotto continuava a dormire e pure della grossa.

 

Seguì Irene e Calogiuri fuori dalla stanza e, in un silenzio surreale, raggiunsero il salotto, dove trovò Rosa che giocava con Noemi ed una delle bambole di Frozen che aveva portato Bianca.

 

“Ma dov’è Bianca?” domandò Irene, perché sì, effettivamente non si vedeva da nessuna parte, “è in bagno?”

 

“Veramente… io pensavo fosse con voi… è venuta a chiamarvi per il gelato: Pietro ha avvisato che sta tornando e che dovrebbe essere qua tra poco.”

 

Il respiro strozzato di Irene fu anche il suo e Calogiuri afferrò la ex gattamorta per un braccio, prima che cadesse a terra.

 

Il fatto che non le desse alcun fastidio, neanche il modo in cui Irene si appoggiò a lui, le fece capire quanto fosse preoccupata. E di solito il suo istinto non sbagliava, purtroppo.

 

Il rumore di ciabattate la fece accorgere che i piedi le si erano mossi di loro volontà e, quasi di corsa, raggiunse ed aprì la porta del bagno.

 

Ma niente, non c’era nessuno.

 

Riaprì anche la stanza, l’ultima speranza, ma c’era solo Francesco che, per fortuna, dormiva della grossa, inconsapevole del dramma che stava capitando lì fuori.

 

Si sforzò di richiudere la porta con la delicatezza - che non era esattamente il suo forte - e corse verso il salotto.

 

“Non c’è… non c’è, vero?” esclamò Irene, le lacrime agli occhi ed il viso più pallido dei suoi gusti in fatto di abbigliamento ed arredamento.

 

Si limitò a scuotere il capo, perché la voce non le saliva, ma poi Calogiuri proclamò, “è una bambina, non può essersi allontanata di molto, dobbiamo cercarla, subito. Chiamo… chiamo i colleghi e-”

 

“E non possiamo! L’unico che sa di lei è Mancini, lo sai!”

 

“E allora chiamiamo Mancini!” intervenne lei, decisa, guadagnandosi, straordinariamente, un’occhiata di approvazione da Calogiuri, cosa che sarebbe stata impensabile, a quella frase, fino a qualche mese prima.

 

Il suono del campanello ancora un po’ le fece venire un infarto ma Calogiuri - dopo aver aiutato Irene a sedersi sul divano, accanto a una Rosa prima confusa e poi preoccupata e ad una Noemi che continuava a battere le mani e ad ululare felice ed inconsapevole “GE-LA-TO, GE-LA-TO!” - raggiunse in poche falcate la porta d’ingresso e la aprì.

 

La speranza che fosse Bianca che, matura, educata e ligia com’era, avesse deciso alla fine di ritornare indietro, si infranse di fronte allo sguardo sorridente di Pietro che proclamò, “Noè, t’ho portato il gelato!” in un modo che le ricordò tantissimo com’era con Valentina da piccola.

 

“Sììììì!” gridò Noemi, lanciandosi dal divano e correndo verso Pietro che la prese in braccio.

 

Ma poi si guardò intorno e, confusa, chiese, “ma Bianca dov’è? Che gelato si sioje!”

 

Fu un colpo al cuore, come se la situazione di emergenza fosse, con quelle semplici parole, diventata mille volte ancora più reale.

 

“Chiamo Mancini,” proclamò, decisa, recuperando il telefono dall’isola della cucina, mentre Pietro, con un tono confuso chiedeva, “ma… ma che succede? Perché avete quelle facce? E perché Imma deve chiamare il procuratore capo?”

 

“Bianca… Bianca è scappata…”

 

E in quelle parole, pronunciate a fatica da Irene, c’era tutto il dolore del mondo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mancini ci darà una mano con le ricerche. Ha detto che avrebbe contattato anche Martino, De Luca e Mariani, che dice che di lei ci si può fidare. E non gli do torto. Ci dividiamo le zone: Mancini ha detto che ci manderà una mappa con le zone da cercare, cominciamo da qua vicino.”

 

Come se lo avesse anticipato, arrivò un messaggio sul suo cellulare, su quello di Calogiuri e anche su quello di Irene, con la mappa della zona divisa da linee colorate che delimitavano dove dovesse guardare ognuno di loro.

 

“Ma noi… noi non possiamo fare proprio niente?” domandò Pietro, che stava abbracciato a Rosa, mentre cercavano di rassicurare Noemi che la sua amichetta mo la cercavano e che sarebbe tornata presto.

 

Promesse che non potevano mantenere.

 

Lo sapeva lei, Irene, Calogiuri, e forse, in fondo in fondo, lo sapeva pure Pietro.

 

“Meglio che state qua, mettete caso che torna, ci deve essere qualcuno in casa. Noi usciamo,” proclamò, infilandosi le uniche scarpe da ginnastica che aveva e lo spolverino rosa, più per coprirci Bianca, che perché temesse realmente il freddo di fine primavera.

 

Stava per uscire quando un istinto la fece fermare.

 

Mancava qualcosa, a parte Bianca, ma cosa?

 

“Ma dov’è Ottavia?”

 

La voce di Calogiuri le diede la risposta che stava cercando. I loro sguardi si incrociarono, capendosi al volo. Ed era stato proprio il portachiavi, con l’uomo, la donna ed una zampa felina a bloccarla.

 

Forse a bloccare anche Calogiuri.

 

“Ottà! Ottà!” provò a chiamarla che, magari, con tutti quei bimbi in giro per casa, si era nascosta da qualche parte, “Ottà, se vieni subito qua ci sta la scatoletta al salmone!”

 

Calogiuri, senza perdere un colpo, andò verso la dispensa, ne estrasse una delle dosi di droga legalizzata di Ottavia e la aprì.

 

Di solito, bastava il rumore, neanche il profumo, perché la micia si fiondasse a raggiungerla in cinque secondi netti - non importava dove si trovasse nella casa o se stesse cascando il mondo.

 

Incrociò di nuovo gli occhi di Calogiuri e le venne un pensiero, assurdo forse, ma possibile, anche se mo, alla preoccupazione per Bianca, si sommava pure quella per Ottavia.

 

Non poteva perderla, non anche lei.

 

“Non possiamo perdere altro tempo: dobbiamo andare!”

 

Se, normalmente, il tono di Irene le avrebbe dato sui nervi, riconosceva che aveva ragione: nella scomparsa di chiunque, a maggior ragione di un bambino, le prime ore, anzi, i primi minuti erano fondamentali, e ne avevano già persi troppi.

 

E quindi aprì la porta e corse fuori, sentendo dietro di sé i passi di Irene e di Calogiuri, che scendevano le scale a due a due, come stava facendo lei.

 

*********************************************************************************************************

 

“Bianca! Bianca!”

 

Ormai a furia di gridare le faceva male la gola - proprio a lei, che sulla resistenza vocale, lo sapeva, era da primato - ma niente.

 

Aveva ispezionato quasi tutta la zona a lei assegnata da Mancini, ma nulla, nessuna risposta, nessun segno della presenza di Bianca.

 

Nessun cenno neanche dagli altri e cominciava a far buio.

 

“Bianca! Bianca!!” provò ancora a urlare, sconfinando dalla sua zona verso quella di Irene, cercando di capire se c’era un posto, a logica, dove una bimba dell’età di Bianca sarebbe potuta andare ad infilarsi.

 

Aprì di nuovo la mappa e poco distante da lì c’era un parco giochi. Ma di sicuro Irene c’era già passata, no?

 

E se Bianca da lei si fosse nascosta ancora di più?

 

Era stata una voce, quella del suo istinto, che non aveva altro timbro se non il suo, a farle venire quel dubbio.

 

Forse la zona di Irene era da ricontrollare, palmo a palmo.

 

Forse poteva chiamare gli altri ed avvisarli della sua intuizione o andare direttamente al parco e-

 

Meoooowww! MEOOOOWWWW!

 

La testa le scattò in alto, così bruscamente che si fece pure un po’ male al collo, perché quel miagolio… magari era solo una suggestione, ma le ricordava tanto…

 

“Ottavia?!” esclamò, sollevata e scioccata al tempo stesso, specie quando la micia le saltò in braccio, che per poco non cascavano tutte e due.

 

Era fredda come non l’aveva mai sentita e sporca, sporca di terra e fango, proprio lei che era sempre così ossessionata dal pulito.


“Ottavia, che c’è? Sai dove sta Bianca?” le domandò, sentendosi per l’ennesima volta scema a parlare con lei, ma Ottavia, per tutta risposta, fece un miagolio ancora più acuto, poi saltò giù e cominciò a correre in una direzione, guardandosi però indietro, dopo poco.

 

Senza farselo ripetere due volte, le corse appresso, perché forse… forse Ottavia, che era più percettiva di tutti loro messi insieme… forse si era accorta di quando Bianca era uscita, forse l’aveva seguita e-

 

Si trovò davanti proprio all’entrata del parco giochi e fu allora che notò, in un angolo, una zona di giochi con la sabbia, che però, con la pioggia di quella mattina e dei giorni precedenti doveva essere più simile a fango.

 

Infatti lei ed Ottavia corsero in contemporanea proprio lì ed in mezzo, sopra ad alcuni scivoli, scale e corde, c’era una casetta di legno, con giusto qualche finestrella e due porte, chiuse.

 

Ottavia, agile come non mai, saltò sopra la scala a pioli e, con pochi balzi, raggiunse la cima e si buttò dentro una delle finestre.

 

Ai miagolii seguì un “shh!” che le sembrò molto poco felino e molto umano, e soprattutto familiare.

 

“Bianca!” chiamò, perché non voleva spaventarla, anche se allo stesso tempo temeva che scappasse, “Bianca, sono Imma, lo so che sei lì!”

 

Ma, a parte i miagolii disperati di Ottavia, non sentì risposta.

 

“Guarda che se non mi rispondi salgo!” esclamò, sperando di potersi evitare l’arrampicata, anche perchè per lei la scala e la casetta erano piccolissime, ma ancora niente.

 

Del resto, se aveva imparato da Irene, una certa cocciutaggine doveva averla.

 

Con un sospiro, infilò il cellulare nella tasca dello spolverino, appese la borsa ad un piolo - che solo quella ci mancava - e cominciò piano piano a salire, le scarpe che a malapena entravano nei pioli.

 

Raggiunta la cima ed una delle due porticine, la aprì, giusto in tempo per beccare Bianca che cercava di scappare dall’altra, giù dallo scivolo, mentre Ottavia provava a trattenerla mordendole la gonna e tirando..

 

D’istinto, allungò un braccio ed abbrancò anche lei un pezzo di stoffa, bloccandola definitivamente, anche la piccola cadde un poco rovinosamente sul sedere. Per fortuna però era seduta e non aveva picchiato la testa. Lei invece, una botta sulla cima della cornice della porticina se l’era pure presa.

 

Ma ignorò il dolore e, con un ultimo sforzo, ci si infilò con il busto, sollevandosi poi a sedere accanto a Bianca, la testa che per poco non picchiava di nuovo sul tetto in legno, mentre tirava dentro le gambe.

 

“Bianca…” sospirò alla fine, guardando la bimba che però teneva gli occhi bassi sul pavimento di legno sbeccato, “Bianca… che dici? Parliamo un po’?”

 

La bimba tirò su col naso in modo profondissimo ma non rispose: le braccia incrociate sul petto e sul vestito candido come il suo nome che ormai era mezzo marrone. Per non parlare dell’espressione offesissima che le ricordò tantissimo Irene quando ce l’aveva a morte con lei, mentre continuava a fissare il pavimento.

 

Se pure l’ermetismo l’aveva preso da Irene, stavano freschi.

 

“Bianca…” provò un’ultima volta, ma niente, sembrava aver perso la lingua del tutto.

 

E quindi fece l’unica cosa che poteva fare. Sempre tenendola con una mano, estrasse il cellulare con l’altra e mandò a Calogiuri un messaggio con la posizione e la parola trovata, sperando che lo inviasse a tutti.

 

Per fortuna, Calogiuri era più solerte di chiunque altro e, nel giro di qualche secondo il messaggio fu letto e al suo avviso io gli altri? le bastò rispondere sì!

 

*********************************************************************************************************

 

“Bianca! Imma!”

 

Riconobbe immediatamente la voce di Irene, che suonava disperata, e dovette trattenere Bianca prima che scappasse di nuovo.

 

Fece capolino dalla porticina e vide la ex gattamorta e Calogiuri che correvano verso di loro, nonostante Irene fosse con tacchi e tutto.

 

“Dai, Bianca, mo però scendiamo. Che credo che tu ed Irene avete tante cose da dirvi,” la esortò, anche perché l’altra PM difficilmente sarebbe entrata in quello spazio angusto, alta e formosa com’era.

 

“Non ci voglio parlare con lei!” gridò Bianca, cosa che la sconvolse, perché di solito era sempre un angelo, per poi aggiungere, rivolta direttamente ad Irene, con un tono ed uno sguardo che furono una mazzata per lei, figuriamoci per la persona a cui erano diretti, “sei cattiva! Non mi vuoi bene! Mi vuoi abbandonare!”

 

Irene scoppiò a piangere, in un modo che non era nemmeno da lei, disperata come non l’aveva mai vista prima di quel giorno e di aver scoperto che Bianca non si trovava.

 

“Non è vero, non ti voglio abbandonare ma-”

 

“Ho sentito tutto! Tu mi vuoi lasciare a loro! Non mi vuoi bene! Sono solo un fastidio per te, come Francesco!”

 

Ammazza se ci andava giù pesante Bianca quando si arrabbiava!

 

Non che non la capisse, per carità, povera creatura, ma era più simile a Irene anche nel caratterino di quanto Irene stessa pensasse.

 

“Posso almeno vederti? Così mi guardi in faccia…” implorò Irene, in un modo che, di nuovo, le fece tenerezza, ma Bianca rimase mezza nascosta dietro la sua spalla con le braccia conserte.


“Eddai, Bianca. Almeno ascolta cos’ha da dire. Guarda che non è come pensi, veramente, lo so che quello che hai sentito ti ha sconvolto, ma se Irene lo ha fatto è perché ti vuole fin troppo bene e si sottovaluta e pensa di non essere abbastanza per te.”

 

Bianca la guardò come per dire perché dovrei crederti? ma poi sentì la voce di Calogiuri confermare, “è come ha detto Imma, veramente. Irene ti vuole un bene grandissimo, ancora più grande di quanto pensavo, anche se… magari a volte ha un modo strano di dimostrarlo.”

 

Irene guardò Calogiuri tra il grato e il e magari se l’ultima parte la omettevi era meglio.

 

Bianca si morse le labbra, poi incrociò di nuovo le braccia, ma alla fine sbuffò e gattonò fino all’entrata dalla scala, proclamando, decisa, “io da qui non mi muovo però. Allora, cos’hai da dire?”

 

Imma si guardò con Calogiuri attraverso la fessura lasciata dal corpicino di Bianca, che occupava quasi tutta la cornice della porta, e sapeva che stavano entrambi pensando che Bianca le frasi da PM le aveva imparate tutte.

 

Assurdamente, a volte, sembrava quasi un’adolescente, probabilmente come conseguenza dell’educazione ricevuta e dell’aver avuto quasi sempre a che fare con persone molto più grandi di lei.

 

“Bianca…” esordì Irene, asciugandosi le lacrime con le mani - proprio lei che probabilmente di solito solo fazzolettini delicatissimi usava - per poi cercare di chiarire, la voce roca e il fiato che ancora sembrava mancarle, “non ti voglio abbandonare, anzi, non vorrei mai separarmi da te. Ma… ho notato che, come Francesco, sei più felice e a tuo agio con Imma e Calogiuri che con me. Con loro sei serena, le tue ansie se ne vanno, hai fatto così tanti progressi in questi mesi che sembravano impensabili, grazie anche a Noemi. E… e lo so che ti manca una figura paterna e… e io non te la posso dare, e non so se te la potrò mai dare. Imma e Calogiuri invece tra qualche mese si sposeranno e potrebbero adottarti definitivamente, altra cosa che io purtroppo non posso fare. Potrebbero garantirti una stabilità che con me è impossibile. Sono sicura che saresti felice con loro, con Noemi come cugina e con Francesco, se rimanesse con loro. E io non ti voglio impedire di essere felice solo perché mi fa male l’idea di lasciarti andare: non voglio essere egoista, proprio perché ti voglio un bene che neanche ti immagini. Voglio che tu abbia una mamma e un papà e-”

 

“E io una mamma già ce l’ho e sei tu, e non ne voglio un’altra! Anche se non vuoi che ti chiamo così e non dici mai a nessuno che sono tua figlia ma-”

 

Un singhiozzo fortissimo squarciò l’aria e rimbombò fin dentro al legno e poi Irene, le guance ormai completamente lavate ed il trucco tutto sbavato, si proiettò in avanti, salì giusto un gradino - che lei era altissima, con quei tacchi poi - e vide le sue mani avvolgere la vita di Bianca, che sparì per un secondo dalla sua visuale, almeno finché le vide entrambe ai piedi della scaletta, Irene che si abbracciava fortissima la bimba, che le si aggrappava alle spalle, e le riempiva le guanciotte di baci.

 

Un’altra occhiata con Calogiuri ed anche lui era un fiume di lacrime, come doveva esserlo lei, che continuava a sfregarsi gli occhi per riuscire a vedere qualcosa.

 

“Amore mio…” sentì sussurrare Irene, in un tono dolce come non mai, “scusami, scusami, scusami. Ma è che… non pensavo che mi vedessi come una mamma ancora e… e per quello non ti ho mai chiesto di chiamarmi così. I primi tempi temevo fosse una cosa temporanea e non volevo che ti affezionassi troppo a me, se poi ci avessero separate, o che… che pensassi che io volevo sostituire la tua mamma.”

 

“La mia prima mamma è la mia prima mamma, ma ora sta in cielo. Ma anche tu sei la mia mamma e sei qui. Perché non si può?”

 

“Certo che si può!” esclamò Irene, sorridendo ed accarezzando il viso di Bianca con una tenerezza di cui non l’avrebbe mai ritenuta capace.

 

Parli proprio tu, Imma! - la schernì la vocetta della Moliterni.

 

“Sarei onorata di essere la tua mamma e ti prometto che farò di tutto per tenerti sempre con me, finché lo vorrai. Va bene?”

 

Un singhiozzo molto più lieve ed era Bianca che piangeva, e la vide stringersi ancora di più al collo di Irene ed abbracciarla forte forte. E Irene faceva lo stesso, come se veramente non volessero lasciarsi più.

 

Una mano che si sporse nella cornice della porta ed era Calogiuri, commosso e sorridente, che l’aiutò a scendere.


“Che dici? Ce ne andiamo, dottoressa?” le sussurrò e lei annuì.

 

Certi momenti andavano vissuti da soli, ma era felice che il disastro e la tragedia sfiorata di quel pomeriggio fossero serviti a qualcosa.

 

E quindi, sciolta in un abbraccio con Calogiuri, camminò con lui fino all’ingresso del parco, Ottavia che, da brava regina, gli era saltata su una spalla per farsi trasportare.

 

“Stasera doppia razione di salmone, Ottà, ma mi sa che ti tocca pure un bagno.”

 

Lo sguardo di terrore di Ottavia fu impagabile e risero insieme, tra le lacrime.

 

Alla fine erano proprio una famiglia, anche così. Ma sperava, nel profondo del suo cuore, che non fosse per sempre solo così.

 

*********************************************************************************************************

 

“Pronto? Dottoressa?”

 

Il forte accento materano le era terribilmente familiare, ma anche la voce del proprietario del Bistrot 2.0 le ricordava sempre qualcuno, anche se non avrebbe saputo dire chi con precisione.

 

Però, sebbene si vergognasse a ripresentarsi con così poco preavviso, alla fine Calogiuri al matrimonio ci teneva tantissimo ed almeno di quello non lo avrebbe privato.


Quindi ci si sarebbe messa d’impegno e, con l’insistenza e l’animo da scassapalle di quando doveva sollecitare i fascicoli dal RE.GE. con la Moliterni, avrebbe ricontattato tutti i fornitori.


Per fortuna la location, come l’avrebbe chiamata Irene - che se ripensava a lei e a Bianca ancora le veniva un magone tremendo - era disponibile.

 

Il catering però…

 

E poi ci stavano le fedi, i vestiti - il suo doveva ancora sceglierlo e le avevano anticipato che poi ci voleva tempo per i ritocchi - le bomboniere - che col cavolo che quelle della cara Maria Luisa sarebbero state le ultime che Calogiuri avrebbe visto! - ed un sacco di altre terribili perdite di tempo che a quanto pare erano indispensabili per un matrimonio, per quanto semplice.

 

Oltre alle pubblicazioni, ovviamente, di cui avrebbe dovuto occuparsi prestissimo.

 

“Buongiorno. Senta, lo so che è da un po’ che non ci sentiamo, visti… gli imprevisti che erano sorti ma la chiamo per dirle che il matrimonio è confermato. Mi chiedo se possiamo ancora contare su di voi per il catering.”

 

Un attimo di silenzio.

 

Ma non preoccupato no, anche perché sentì il suono di una mano che copriva male la cornetta e diceva “La Tataranni!” a qualcuno lì vicino.

 

“Senta, le devo ricordare che deve essere tutto una sorpresa fino all’ultimo o quasi? Quindi se non squilla le trombe, magari!”

 

“No, no, dottoressa, ci mancherebbe altro. Io e la mia famiglia siamo la DI - SCRE - ZIO - NE in persona, anzi persone, e mi auguro che lei lo sappia.”

 

No, non sapeva manco esattamente chi fosse questo tizio ma Diana ne parlava bene e ormai contattare qualcun altro avrebbe comportato molte più difficoltà a far accettare i tempi stretti.

 

“Me ne compiaccio, ma allora questo catering si può fare sì o no?”

 

“Sì, sì, certo dottoressa. Però vede… ci sarà da pagare un po’ di più alcuni ragazzi ai quali avevo già dato la disdetta, quindi spero non le dispiacerà se all’importo originariamente pattuito ci aggiungo la caparra già versata? Sa… per tutti gli extra… anche perché ci dobbiamo organizzare per avere tutto fresco, anzi, freschissimo, e tipico delle nostre zone.”

 

“Senta, capisco per i ragazzi, ai quali posso lasciare personalmente una mancia come bonus, ma neanche se le dovesse coltivare, pescare o cacciare quelle cose avrebbe bisogno di tutto questo preavviso per averle fresche, mi scusi. Anzi, rischia che i fornitori si scordano pure, che stiamo in Italia, mica a Tokyo.”

 

Almeno i soldi li avrebbero visti veramente i lavoranti, che si facevano il proverbiale mazzo, e non questo che le suonava sempre di più come la versione italica del venditore di auto dei film americani.

 

Un sospiro, un altro silenzio - per un attimo dubitò le avrebbe attaccato il telefono in faccia - ma poi la stessa voce di prima, molto meno spavalda ed iper entusiasta, acconsentì con un, “va bene, dottoressa, va bene, ma soltanto perché è lei e per la stima che in famiglia nutriamo nei suoi confronti. Oltre che per quello che è successo negli ultimi mesi. Ma, e lo dico contro il mio interesse, lei è proprio sicura di voler sposare questo… Colugiuri?”

 

“CA - LO - GIU - RI. E ne sono sicura molto di più di quanto sia sicura di volere davvero voi come catering, e di non richiedere pure indietro la caparra, se andiamo avanti così.”

 

“Va bene, dottoressa, ai vostri comandi. Ci sentiamo presto allora per concordare il menù definitivo. Buona giornata.”

 

Sospirò anche lei, ma di sollievo: e quella almeno era fatta e senza farsi spennare.

 

Che, piuttosto, si portava le oche di Ottavia a Matera e ci pensavano loro.

 

Con i suoi soliti poteri inspiegabili, Ottavia le saltò in braccio, per una volta che Francesco dormiva, e cominciò a strusciarsi sulla sua pancia. Dopo qualche minuto di coccole, saltò sul tavolo dove c’era la cartella della ginecologa, che aveva estratto dall’armadio dove l’aveva sepolta durante il periodo di distacco da Calogiuri, e che si era costretta a recuperare.

 

“Sei sempre saggia, Ottà,” sospirò, grattandola dietro le orecchie, ma la verità era che, se su altri responsi il suo motto era sempre stato via il dente via il dolore, l’avere la conferma definitiva della sua sopraggiunta sterilità era un altro paio di maniche.

 

Ma, in prospettiva di affidi o adozioni, prima si preparavano e cominciavano ad informarsi per le pratiche e meglio era.

 

E poi lo aveva promesso a Calogiuri e non voleva mai più disattendere una promessa che gli aveva fatto.

 

Quindi fece scorrere l’elenco fino al nome della dottoressa amica di Irene e fece partire la chiamata.

 

Un po’ di squilli, tanto che stava, con un po’ di sollievo, cedendo alla tentazione di chiudere la chiamata, quando un, “pronto, Imma? Quanto tempo! Come stai?” segnalò che fosse ormai definitivamente incastrata.

 

“A- abbastanza bene, tutto sommato.”

 

Il silenzio dall’altra parte e l’imbarazzato, “mi fa piacere di sentirtelo dire!” le fecero capire che la dottoressa aveva, come tutti, letto giornali, guardato programmi tv, aperto pagine internet eccetera eccetera e che quindi sapeva perfettamente di cos’era successo con Calogiuri.

 

Del resto, non l’aveva mai chiamata per sollecitare visite di controllo, evidentemente per non girare il dito nella piaga.

 

“E allora come mai mi chiami? Come va la cura che ti ho prescritto? Ci sono novità?”

 

“In realtà… in realtà la cura l’ho sospesa qualche mese fa perché… perché le circostanze erano cambiate. Ma ora io e Calogiuri vorremmo adottare. Ci sposiamo tra pochi mesi e… e poi potremmo fare le pratiche.”

 

“Ma quindi l’idea di un figlio biologico l’avete accantonata definitivamente?” domandò la dottoressa, e percepiva, nonostante il tono professionale, un poco di qualcosa che vagava tra dispiacere e sorpresa.

 

“In realtà no ma… ma temo che il mio corpo l’abbia accantonata definitivamente. Credo… credo di essere in menopausa. Non ho il ciclo da un paio di mesi e… e prima sono stati sempre molto irregolari.”
 

“Allora adesso cerco di trovare un buco libero e ti dò appuntamento, va bene? Che sono un po’ piena in queste settimane ma credo che sia meglio inserirti il prima possibile.”

 

Non capiva che fretta avesse la ginecologa: tanto la menopausa sarebbe durata letteralmente per il resto della sua vita. Ma assentì, sperando che non fosse in un orario assurdo e che non le toccasse di nuovo lasciare Francesco alla tata.

 

Perché chissà quando e se le sarebbe mai ricapitato di avere un piccoletto da sopportare, ma anche da spupazzarsi, insieme a Calogiuri, e di ammirare lo spettacolo meraviglioso che era Calogiuri che faceva il papà.

 

Tanto che, nemmeno l’ululato esigente che veniva dall’ovetto - che quello c’aveva un sonno leggerissimo - le provocò altro che un sorriso malinconico ed una voglia matta di coccolarselo per bene.

 

Almeno finché era da sola, che mica poteva perdere la reputazione!

 

E che cavolo!


Nota dell’autrice: Eccoci alla fine di questo luuuungo capitolo che avrebbe dovuto essere ancora più lungo nelle intenzioni, fossi arrivata dove volevo arrivare ma… sarebbe venuta veramente un’epopea infinita e non volevo lasciarvi a bocca asciutta per un’altra settimana, soprattutto visto le anticipazioni uscite oggi che so che sono state una grande batosta per chi è fan di Imma e di Imma e Calogiuri.

La situazione con Francesco ormai è solo temporanea, i preparativi per il matrimonio però paiono procedere e per il resto Imma, oltre ad affrontare diversi eventi tra giallo, processi e il rosa, dovrà anche decidersi a fare questa benedetta visita dalla ginecologa.

Nel prossimo capitolo quindi ci saranno giallo e rosa in abbondanti quantità e anche un momento attesissimo, stavolta è sicuro che ci sia. Come andrà, se nel bene o nel male però… toccherà leggerlo per scoprirlo.

Vi ringrazio tantissimo per tutto il supporto che state dando a questa storia, per i messaggi di incoraggiamento, di sprono (a volte anche quasi “minacciosi” :D).

Grazie tantissimo a chiunque ha lasciato una recensione o un commento e mi ha fatto sapere che ne ha pensato della mia storia. Vi ringrazio di nuovo anticipatamente se vorrete farmelo sapere anche questa volta. Come sempre i vostri pareri sono preziosissimi per capire come prosegue la scrittura.

Grazie mille anche a chi ha inserito la mia storia nelle seguite e nelle preferite.

Il prossimo, ricco capitolo dovrebbe arrivare domenica 10 luglio, visto che a questo punto voglio che sia un capitolo pieno, quindi andremo un po’ oltre dove avevo pensato di giungere in questo.

In caso di ritardi vi avviserò come sempre sul mio profilo autrice.

Grazie ancora e buona settimana!



 
   
 
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