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Autore: WillofD_04    06/07/2022    2 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mi ero lavata i denti e mi ero infilata il pigiama. Non vedevo l’ora di poggiare la testa sul cuscino e chiudere gli occhi. Prima che potessi mettermi a letto, però, qualcuno bussò alla porta. Andai ad aprire con lieve fastidio.
«Maya...» feci, un po’ sorpresa di trovare lei sull’uscio.
«Posso entrare?» Sembrava tesa. Sperai che non fosse successo niente di grave e soprattutto che non avesse litigato con Omen. Non avevo le forze per affrontare una conversazione del genere.
Mi feci da parte e la lasciai passare.
«Ho bisogno di un parere femminile,» iniziò, anche se un po’ titubante.
«Certo, dimmi,» la incoraggiai, incrociando le braccia. Nonostante avessi sonno, non potevo abbandonare la mia amica nel momento del bisogno. In più ero stata indaffarata nelle ultime settimane e non avevo avuto tempo da dedicarle.
Andò a chiudere la porta, tirò fuori da sotto la divisa un foglio e me lo passò.
«Che ne pensi?» Si mordicchiò un’unghia, nervosa.
Quando lo dispiegai, rimasi a bocca aperta. «È... è...»
«L’ho fatto io.» Fece un mezzo sorriso. La guardai ancora più stupefatta.
«È davvero stupendo.» Lo osservai ancora per un po’. Era il disegno di un vestito da sposa. Era bellissimo: color avorio, a sirena, con uno scollo a cuore davanti e uno profondo dietro, che lasciava scoperta tutta la schiena. In vita aveva aggiunto una specie di cintura sottile, sempre bianca e con la fibbia quadrata e d’argento, che si attaccava direttamente al vestito. Sugli appunti accanto agli schizzi c’era scritto che voleva realizzarlo in seta, con uno strascico non più lungo di un metro.
Mi immaginai Maya con quello indosso. Era perfetto per lei, sarebbe stata la sposa più bella che avessi mai visto. Non che ne avessi viste molte, ma lei sarebbe stata ancora più bella delle modelle nelle riviste, ne ero sicura. E poi realizzai che il matrimonio si avvicinava e io non me ne ero resa conto. Avrei dovuto aiutarla a organizzarlo, ma tra la riabilitazione e i Mugiwara mi era totalmente passato di mente. Eppure i futuri sposi se la stavano cavando bene. Il mondo andava avanti anche senza di me, ciascuno seguiva i propri binari.
«Saresti meravigliosa in questo vestito. È... wow. Hai fatto un lavoro straordinario,» le dissi, ancora strabiliata.
«Ho imparato a conoscermi, so cosa potrebbe starmi bene e cosa no. E questo...» Indicò il foglio con l’aria di chi la sa lunga.
«Ti starebbe benissimo,» finii per lei, sorridendole. Poi mi feci più seria. «Maya, mi dispiace di non averti aiutata a organizzare il matrimonio. Avevo promesso che vi avrei dato una mano e non l’ho fatto. È che...»
«Sei stata molto impegnata, lo so. Anche Omen lo sa. È tutto a posto. Anche solo avere il tuo parere è un aiuto prezioso.» Stavolta fu lei a interrompere me. Mi accarezzò i capelli con fare materno. «Abbiamo scelto un periodo complicato per sposarci,» aggiunse ridendo.
«Sì, è vero, ma prometto che cercherò di fare di più per voi. Ve lo meritate.»
Ci scambiammo un cenno d’assenso, poi la mia amica mi diede un rapido abbraccio. «Buonanotte, ragazza mia.»
«Buonanotte.» Le feci l’occhiolino.
Dopo che si fu richiusa la porta alle spalle rimasi in piedi a fissare il vuoto per un paio di minuti. Maya e Omen si sarebbero sposati a breve. Era strano, per quanto bello. Avevo visto la loro relazione nascere e svilupparsi, avevo visto il loro amore crescere con loro e superare le difficoltà, li avevo visti guardarsi con occhi teneri, litigare e infine diventare imprescindibili l’uno per l’altra. A volte ciò che sanno generare gli essere umani è incredibile.
Dopo essermi infilata sotto le coperte entrai nell’applicazione della Stella per guardare le foto dei miei cari e leggere il capitolo del manga. Mi misi a ridere: era il capitolo che mostrava l’aumento di taglia dei Mugiwara. Rufy si era abbattuto perché credeva che la sua fosse diminuita, quando invece era triplicata. Sanji non aveva più la scritta “only alive” sul manifesto e finalmente avevano messo una foto del suo viso, anche se non gli rendeva giustizia. Purtroppo avevano aggiunto il suo cognome, “Vinsmoke”, ma almeno, con i suoi trecentotrenta milioni di berry, aveva superato Zoro. Una piccola grande consolazione.
Mi addormentai con la consapevolezza che i miei cari stavano bene e che, nonostante i tempi difficili che ci aspettavano, accanto a me c’era una delle ciurme più agguerrite e temute dell’universo di One Piece.
 
Quella notte feci un sogno confuso, ma che mi turbò un po’. Ero nella mia cabina e davanti a me erano apparse tre macchie di colore, una blu, una bianca e una rossa, che mi fluttuavano attorno come fantasmi. Poi avevano preso forma ed erano diventate tre persone: Sabo, Kenji e Rufy. In quest’ordine, si erano avvicinate a me e mi avevano baciato. Il bacio di Sabo, più passionale, si era consumato sulla terrazza della Base dei Rivoluzionari, che poi si era sgretolata per lasciare posto all’infermeria del Polar Tang, dove Kenji mi aveva dato un bacio rapido ma sentito. Infine mi ero ritrovata sulla sabbia dorata dell’isola CRUZ e tra me e Rufy c’era stata una semplice e innocente sovrapposizione di labbra. Tornata nella mia cabina, le tre figure erano state risucchiate da un vortice scuro e potente, che voleva portarsi via anche me, ma io ero riuscita ad aggrapparmi alla maniglia della porta e a salvarmi. Tutti e tre erano scomparsi nell’oscurità. Non li vedevo, ma li sentivo: stavano tentando con tutte le loro forze di risalire, di non lasciarsi inghiottire. E io volevo aiutarli, ma non potevo farlo, perché se avessi lasciato il mio appiglio avrei fatto la loro stessa fine. Dopo qualche minuto la spirale aveva smesso di tentare di risucchiarmi e nella mia stanza era tornata la calma. Quando mi ero avvicinata per capire se potessi fare qualcosa per i miei amici, la pozza di catrame li aveva fatti scomparire nelle sue profondità. Finché, all’improvviso, non era riemersa una mano.
E poi c’era stato un terremoto. No... non era un terremoto: era qualcuno che mi stava scuotendo. Aprii un occhio a fatica. Davanti a me c’era un faccione bianco e peloso.
«Bepo...» biascicai infastidita. «Lasciami in pace, è presto.»
«Veramente sono le tre del pomeriggio.»
«Cosa!?» Strabuzzai gli occhi, all’improvviso sveglissima. Allungai la mano per prendere il cellulare e controllai l’ora: erano le 15:05, per essere precisi.
«Mi dispiace di averti svegliato, ma sono sedici ore che dormi... Ci siamo preoccupati,» si giustificò l’orso, abbassando la testa in segno di scuse.
Lo ignorai, scostai le coperte e saltai giù dal letto. Ero in ritardo per l’allenamento con Zoro, dovevo sbrigarmi. I miei muscoli, però, non erano dello stesso avviso. Non appena mossi un passo, in tutto il corpo si irradiarono crampi dolorosi. Ed era così ogni volta che provavo a muovermi. Mi lasciai scappare diversi mugolii.
«Stai bene?» chiese con apprensione il mio compagno.
«Più o meno,» risposi distratta mentre cercavo la divisa.
«Sei sicura?»
Ignorai sia Bepo sia il dolore e, quando trovai l’indumento, mi precipitai in bagno. Ci rimasi giusto quei cinque minuti che mi servirono per fare pipì e rendermi presentabile, dopodiché recuperai la mia ascia e un asciugamano e raggiunsi il ponte del Polar Tang a tempo record.
Rimasi a fissare per qualche secondo con riluttanza i metri che mi separavano dalla Sunny. Dovevo saltare, e sapevo che i miei muscoli si sarebbero ribellati, ma sapevo anche che dovevo farlo. Dovevo abituarmi a stringere i denti, perché non si poteva mettere in pausa il dolore, durante una battaglia.
Presi un respiro profondo e piegai le gambe per darmi la spinta. Dapprima sussultai, poi mi concentrai e saltai sul tetto del sottomarino. Con un altro – sofferto – balzo fui sulla nave di Cappello di Paglia. Non considerai Sanji che mi stava venendo incontro con gli occhi a cuore, feci un saluto generale a tutti gli altri e salii su per la scala di corda quanto più in fretta i miei muscoli mi concedessero.
Aprii la porta della palestra con foga, tanta che entrò una folata di vento nella stanza. Zoro era lì, con un bilanciere gigante tra le mani, sempre a torso nudo, sempre sudato, sempre piacevole da vedere.
«Sono qui!» annunciai con un po’ di fiatone. «Sono in ritardo, lo so, ma... sono stata trattenuta dal mio Capitano,» mentii, sperando che, oltre al rum, si bevesse anche quello.
Si fermò per un attimo, mi squadrò e sbuffò una risata. Lo guardai interrogativa.
«È strano sentire che lo chiami Capitano,» mi spiegò, riprendendo i suoi esercizi.
Mi lasciai scappare un sorriso. Io ero abituata a chiamarlo così, ma lo spadaccino, che aveva visto il nostro rapporto nascere e sapeva quello che avevamo passato prima di finire in questo universo e quanto ci eravamo odiati, aveva ragione a trovarlo strano. La vita stessa era strana. Se qualcuno, quando avevo sedici anni, mi avesse detto che avrei finito per diventare un pirata e navigare sotto il vessillo di Trafalgar D. Water Law, gli avrei riso in faccia. Ero convinta che mi sarei diplomata, che avrei fatto l’università, probabilmente Scienze Infermieristiche, e che avrei condotto una vita banale e monotona. Non potevo neanche lontanamente immaginare ciò che mi sarebbe capitato negli anni successivi. Eppure, eccomi lì. Contro ogni probabilità, contro ogni legge della fisica e della razionalità. Ero lì, e non avrei voluto essere da nessun’altra parte. Perché la libertà e l’avventura erano come droghe: dopo che le hai assaggiate, non puoi più farne a meno.
«Hai intenzione di stare lì impalata a fissarmi per tutto il pomeriggio?» La voce di Zoro mi riportò alla realtà. Mi resi conto che avevo continuato a guardarlo per un paio di minuti mentre ero immersa nei ricordi e distolsi lo sguardo.
«Che devo fare oggi?» Poggiai l’asciugamano sulla panca che c’era lì e sperai che i miei muscoli reggessero a qualsiasi tortura volesse propormi il verde.
«Prima di tutto devi acquisire consapevolezza delle tue possibilità.»
«Che intendi?»
«Devi imparare ad ascoltare il tuo corpo, a capire come controllarlo. Se saprai farlo, avrai vita più facile.»
Annuii. Aveva senso: non potevo migliorare se non sapevo da dove partire o come far funzionare i meccanismi del mio corpo. Pensavo di saperlo, ma Zoro se ne intendeva di sicuro più di me, pertanto dovevo fidarmi.
«Ma ti avverto, potrebbe essere estenuante,» disse poi, facendomi sbuffare. Perché doveva essere tutto estenuante? Perché qualcosa non poteva essere, per una volta, piacevole, o facile? Feci un rapido calcolo dei pro e dei contro: non potevo distruggere il mio corpo ancora prima che iniziasse la guerra – ed ero già sulla buona strada, considerato lo stato dei miei muscoli – ma il tempo stringeva. Forse non valeva la pena rischiare per qualcosa in cui non ero neanche sicura di riuscire, però dovevo provare.
«Se prometti che non mi lascerai morire, possiamo iniziare.» Il mio sguardo era fermo e deciso.
«Non ti succederà niente, se ascolterai il tuo corpo.»
Mi lasciai sfuggire una risata. Il mio corpo stava gridando pietà. Se lo avessi realmente ascoltato non sarei stata lì, a dare il colpo di grazia ai miei muscoli. Avrei riempito la prima vasca da bagno che fossi riuscita a trovare di ghiaccio, mi ci sarei immersa per tutto il pomeriggio e avrei usato il vino come antidolorifico. Ma la mia testa non voleva sentire ragioni, e non sapevo se questo fosse positivo o negativo.
 
Nella mia vita avevo avuto tre figure che potevano essere considerate simili a quella di un allenatore. Bepo era stato duro con me per necessità, Hack era stato duro perché faceva parte della sua personalità. Ma Zoro non era duro, se non con se stesso, era “solo” una macchina da guerra. Macinava e macinava, finché non raggiungeva l’obiettivo che si era prefissato. Non eravamo tutti così, però. Io non ero così. Per questo avevo avuto bisogno di prendere una pausa dopo appena mezz’ora di allenamento con lui, anche se non avevo fatto altro che un po’ di riscaldamento. Era vero che suddetto riscaldamento consisteva in numerosi addominali e flessioni, ma non pensavo che il mio corpo avrebbe dato forfait così presto.
Mentre bevevo, seduta sulla panca, osservai il verde che si allenava con il bilanciere. Non si fermava mai. Almeno da lì c’era una bella vista. Asciugai il sudore con l’asciugamano e mi rialzai.
«Sono pronta per ricominciare,» gli annunciai, tanto per farglielo sapere.
Si voltò verso di me, continuando a fare i suoi esercizi. «Il riscaldamento è terminato. Ora devi farmi vedere cosa sai fare.»
«Cioè?»
«Combattiamo.»
«Che!?» strillai, presa alla sprovvista. «Intendi... io e te?»
Lo spadaccino mi guardò come se fossi ebete.
“È un suicidio,” pensai, ma ebbi la decenza di non dirlo. Considerata la differenza di forza tra me e lui e i miei muscoli intirizziti, non era una buona idea. Anzi, era una pazzia. Avrei dovuto ascoltare il mio corpo – e il mio buon senso – e rinviare il combattimento, ma dall’altra parte, a premere una pistola sulla mia schiena, c’era la mancanza di tempo. Non potevo permettermi di rimandare niente.
Mi schiarii la gola. «D’accordo, combattiamo.»
«Non qui.» Mi fece cenno di seguirlo.
Non dissi una parola e gli andai dietro, ma non era rassicurante: se lo spazio che aveva in palestra non gli bastava significava che voleva fare sul serio e che io dovevo fare attenzione. Ci fermammo al centro del ponte della Sunny, sul pratino. Era l’unico posto in cui potevamo combattere senza doverci trattenere. Il rischio di distruggere qualcosa c’era sempre, ma contavo sulla responsabilità del Cacciatore di Pirati. Eravamo solo io e lui, non si vedeva nessun altro in giro. Non sapevo perché, ma era meglio così. Era una questione privata.
Sguainò due delle sue katane e si mise in posizione. Presi un respiro profondo – ero tesa come una corda di violino – e attivai l’Ambizione. La sua aura risplendeva fiera nel buio, non ne avevo mai vista una così potente e luminosa fino a quel momento. Era maestosa, traboccava di bramosia. Udii i suoi pensieri risuonare nella mia testa e percepii le sue intenzioni. Non lo facevo così scorretto: voleva andare verso destra e farmi credere che mi avrebbe attaccato con la mano sinistra, per poi fare una torsione del busto all’ultimo secondo e sferrare il colpo dall’alto. Lo schivai. E così feci con quello dopo e quello dopo ancora. Gli altri provai a pararli. Non era facile, Zoro non ci andava giù leggero, per quanto non stesse usando tutta la sua forza. I colpi di Bepo erano una brezza estiva, a confronto. Per fortuna l’adrenalina mi permetteva di non sentire dolore ai muscoli.
«Dove sono tutti?» chiesi, ansimando. In realtà era solo un espediente per poter riprendere più fiato possibile senza chiedergli una pausa. Sapevo di poterlo fare in tranquillità, solo che non mi andava. Era una scommessa con me stessa che volevo vincere.
«Nel laboratorio, credo. Franky e Usop hanno ideato un nuovo marchingegno e lo stanno mostrando agli altri, o qualcosa del genere.»
Sbuffai una risata. Nonostante fosse parte integrante della ciurma, non sapeva mai niente sulle attività degli altri membri e non gli importava di sapere, era come se fosse al di fuori di tutto. Ma agli appuntamenti importanti non mancava mai di esserci e trovarsi al posto giusto al momento giusto. Quando non si perdeva, se non altro.
«Allora, hai ripreso fiato?» mi chiese poi, sollevando un angolo della bocca.
Mi irrigidii. Se ne era accorto. Cominciavano ad esserci troppe persone con gli occhi di lince in quell’universo, per i miei gusti. Annuii e mi rimisi in posizione.
Mi attaccò di nuovo e io utilizzai la Mr. Smee per parare il colpo. Emisi un grugnito sofferto: avevo le braccia pressate al petto, le mani tremavano e stavo facendo una gran fatica per fermare le lame di Zoro. Eravamo così vicini che sentivo il suo alito sul collo. Anche se vedevo solo il candore della sua aura, sapevo che stava ghignando. Lo percepivo. Poi, a sorpresa, si staccò da me e cominciò a squadrarmi, come se gli stesse sfuggendo qualcosa e stesse cercando di comprendere. Non capivo cosa potesse essere, dato che nel nostro combattimento si era dimostrato superiore a me su tutti i fronti.
«La tua Haki è diversa,» disse rinfoderando le katane.
Corrugai la fronte. «In che senso?»
«Non lo so, ma non è come le altre.» Avrei voluto chiedergli come fossero le “altre”, però era chiaro dove volesse andare a parare, e aveva ragione. «Come l’hai sviluppata?»
Sospirai e approfittai di quel momento di pausa per posare l’ascia e mettermi seduta sul prato. Non era pigrizia, era risparmio energetico. Non sapevo se Zoro volesse saperlo per curiosità personale o se pensava che questo potesse aiutarmi, ma tanto valeva raccontarglielo.
«È stato un trauma.»
Sollevò un sopracciglio, perplesso.
«Voglio dire che è scaturita da un trauma. Ad alcune persone succede.»
Un mezzo sorriso comparve sul suo volto, le cose per lui si erano appena fatte interessanti. Per me invece un po’ meno, non mi piaceva ricordare certe vicende.
«Un incubo.» Mi venne da ridere, perché raccontata così sembrava ridicolo. «Dopo la battaglia con Doflamingo ho avuto gli incubi tutte le notti, per mesi. Rivivevo ancora e ancora le stesse scene. Finché, una sera, ho fatto un sogno più vivido e brutto degli altri. Quando mi sono svegliata, potevo sentire le persone nella mia testa. O meglio, i loro pensieri.» Mi strinsi nelle spalle.
«Tu senti i pensieri delle persone?»
Annuii. Sembrò tanto sorpreso da quella rivelazione quanto interessato. Un piccolo ghignò fece capolino sulle sue labbra.
«Che cosa sto pensando in questo momento?» Piegò la testa da un lato, in attesa.
Attivai di nuovo l’Haki. La sua aura irradiava spavalderia. Essere capace di usare l’Ambizione consumava le mie energie in fretta, ma era meraviglioso. Era come avere accesso a un altro universo – nel mio caso, il terzo della mia vita – in cui tutto era cristallino. Mi sentivo connessa con tutto e tutti, percepivo le persone. Sentivo i loro pensieri, avvertivo le loro emozioni, il loro stato d’animo, captavo la loro posizione e le loro intenzioni. Una volta imparato a controllarla meglio, era una benedizione divina in una battaglia. Almeno potevo contare su questo.
Se riesci davvero a sentire i miei pensieri, ti offro una bottiglia di rum delle mie.”
Mi misi a ridere. «Grazie, ma preferisco il vino.»
Allargò il suo sorriso e sguainò le sue spade. «Allora ti offrirò un bicchiere di vino quando avremo finito di combattere.»
Mi tirai su e ripresi in mano l’ascia, trattenendo un grugnito di dolore mentre i miei muscoli gridavano pietà.
«Qualcosa mi dice che avrò bisogno di tutta la bottiglia...» sussurrai, rimettendomi in posizione d’attacco.
 
«Ora basta,» decretò Zoro dopo che ebbi parato qualche colpo – per il suo potenziale – molto blando. «È ora di fare sul serio.»
Un brivido scivolò lungo la mia schiena nel momento in cui sfoggiò uno dei suoi ghigni pericolosi.
«Zoro, con tutto il rispetto, non credo che...»
«Per poter scagliare un fendente volante, devi prima essere in grado di pararne uno,» mi interruppe lo spadaccino, facendo un movimento secco con la Shusui.
Ciò che accadde dopo fu rapido e confuso. Non avevo idea se a salvarmi fosse stata la mia Haki o il mio istinto, ma sapevo che se non mi fossi buttata alla mia destra con tutto il corpo il colpo di Zoro mi avrebbe tagliato in due. Tuttavia non ero stata abbastanza veloce. Emisi un lamento di dolore. Controllai il fianco sinistro e mi resi conto che mi ero tagliata. Sulla divisa c’era una chiazza rossa e uno squarcio di una ventina di centimetri in verticale. La ferita mi bruciava un po’, ma non sembrava nulla di grave a una prima occhiata.
Grugnii infastidita. Quell’attacco mi aveva messo di fronte alla realtà: ero ancora troppo debole per poter imparare a lanciare un fendente volante. Raggiungere il mio obiettivo sarebbe stato difficile. Sapevo che la strada sarebbe stata in salita, ma non pensavo che avrei dovuto scalare una parete verticale. Però non potevo arrendermi.
«Stai bene?» mi chiese il mio avversario, tendendomi una mano per aiutarmi a rialzarmi.
«Sì, sì.» La presi e lasciai che mi tirasse su. Nascosi una smorfia di dolore quando quel movimento brusco fece sfregare la stoffa della divisa contro la lesione. Le gambe mi tremavano leggermente, per lo spavento che mi ero presa. Avevo rischiato grosso.
«Stai sanguinando.»
«Sì, me ne sono accorta,» risposi infastidita. Un po’ ce l’avevo con lui. Come aveva detto? “Non ti succederà niente, se ascolterai il tuo corpo”? Di sicuro il mio corpo non aveva previsto che il verde mi avrebbe tirato addosso un fendente a sorpresa.
«Stai sanguinando parecchio.» Continuava a fissare il mio fianco, quindi lo feci anche io.
«Oh, cazzo,» mi lasciai sfuggire. La macchia rossa sulla divisa si era triplicata, il sangue era colato giù anche per la gamba. All’improvviso sentii la testa girare. Forse era più grave di quanto pensassi. Ma a me non faceva male il fianco. Sì, mi dava fastidio, però era sopportabile. Nulla a che vedere con la prima volta che mi ero affettata con l’ascia. Forse lo scontro con Doflamingo e gli allenamenti con Hack avevano aumentato la mia sopportazione del dolore. O forse erano stati gli ormoni di Emporio Ivankov. In ogni caso, mi andava bene così, in battaglia mi avrebbe fatto molto comodo avere una maggiore resistenza.
Pressai la mano sulla ferita per rallentare l’emorragia.
«Dovresti farti medicare da Chopper,» mi suggerì Zoro, rimettendo le katane nel loro fodero, segno che il combattimento era finito.
«No, faccio da sola. Mi farà bene fare un po’ di pratica su della carne umana,» riflettei ad alta voce, dirigendomi verso l’infermeria. Le gambe erano un po’ molli, ma dovevo resistere.
Con la coda dell’occhio vidi il verde ghignare. Mi piacque pensare che lo fece in segno di apprezzamento per la persona che ero diventata. Del resto, lui aveva conosciuto una Camilla totalmente diversa. Questa era la versione migliorata.
«Cami!? Che è successo?»
Poco più in là, appena fuori dal laboratorio di Usop, c’erano Nami, Robin, Sanji e Brook. Era troppo tardi per sperare che quel piccolo incidente passasse inosservato.
«Oh, mia dolce Cami-chan!» Il cuoco fece qualche passo verso di me. Sembrava turbato. «Sei ferita! Il mio cuore è disperato, non posso sopportare di vederti soffrire!»
«Non sto soffrendo, sto bene. È solo una ferita superficiale,» provai a rassicurarlo. Non era del tutto vero, avrei avuto bisogno di qualche punto, ma non era necessario che l’intero pianeta ne venisse a conoscenza.
Ci volle meno di un secondo perché il biondo capisse la dinamica degli eventi e se la prendesse con Zoro. «Come hai osato farle del male in questo modo, brutto marimo di merda!?»
Mi rifiutai di partecipare all’ennesimo litigio tra quei due e continuai a camminare verso l’infermeria. Nami era andata a sedare la discussione con un paio di pugni e Brook era scomparso. L’unica che ebbe la buona creanza di mostrarmi dove Chopper teneva l’equipaggiamento medico fu l’archeologa, che mi aveva seguito nella stanza. La ringraziai e lasciai che uscisse prima di iniziare. Tirai giù la divisa, mi infilai i guanti e iniziai a pulire e disinfettare la ferita. Senza tutto quel sangue non sembrava tanto minacciosa. Era un taglio abbastanza netto e regolare, che si estendeva per tutto il fianco sinistro fino a un quarto della coscia. Non era né troppo largo né troppo profondo, ma era necessario applicare dei punti per chiudere la lacerazione e fermare l’emorragia. Anche se non mi faceva male, avevo perso parecchio sangue.
Rimasi a fissare la siringa con l’anestesia per qualche secondo e presi un respiro profondo. Da fuori sentivo ancora Zoro e Sanji che litigavano concitatamente. Forse erano persino venuti alle mani. O ai piedi, nel caso del biondo. Perfino la cartografa aveva rinunciato a mettere pace tra quei due.
«Cami!» mi chiamò Chopper, che era apparso sulla soglia della porta. «Brook è venuto a chiamarmi! Cos’è successo? Stai bene?»
«Un piccolo incidente, nulla di cui preoccuparsi. Ho solo bisogno di qualche punto di sutura.» Gli sorrisi per non farlo allarmare.
«Oh. Posso aiutarti in qualche modo?» Si avvicinò a me, che ero seduta sul lettino.
Scossi la testa e continuai a sorridere. «No, grazie. Me la cavo da sola.»
Tornai a concentrarmi sulla ferita e ne divaricai i lembi con le dita.
«Sei sicura che non vuoi che lo faccia io? Ti trema la mano, forse perché hai perso parecchio sangue,» mi fece notare Chopper, tuttavia con gentilezza. Nulla a che vedere con i modi di Law.
Sospirai. Non mi stava tremando il polso sinistro, ma il destro, e non tremava perché avevo perso tanto sangue, né era un regalo di Doflamingo, quanto della mia fobia degli aghi. Non era facile, però dovevo farmi coraggio e procedere.
«Sì, sì. È tutto a posto,» dissi, più rivolta a me stessa che alla renna.
«Se per te va bene, preferirei rimanere per accertarmi che non ci siano complicazioni.»
Annuii e lui si mise a sedere sulla sedia. Era un bravo medico, uno dei pochi empatici e premurosi.
Presi un altro respiro profondo e infilai l’ago nella lacerazione. Trattenni il fiato, un po’ per il fastidio, un po’ per il dolore. La cosa brutta dell’auto-medicarmi era che non potevo chiudere gli occhi o girare la testa dall’altra parte. Stare a guardare era una tortura, e il carnefice ero io.
Quando ebbi anestetizzato la zona, presi ago e filo e prima di procedere tornai con la mente sull’Isolachenoncè.
 
«Wow,» commentò Chopper dopo che ebbi finito applicare i punti. Avevo deciso di utilizzarne otto, distanziandoli l’uno dall’altro. Del resto servivano solo per impedire che mi dissanguassi prima che la ferita potesse rimarginarsi. Mi ero presa il mio tempo, ma non ero stata lenta: ero stata semplicemente accorta. Avevo assaporato la gioia che mi dava la chirurgia. Una gioia che non pensavo di provare di nuovo, invece il mio polso non aveva più tremato. Era bello essere tornata in pista.
Mi allungai per prendere una garza adesiva. La lacerazione era in un punto particolarmente soggetto allo sfregamento con i vestiti, perciò per diminuire il fastidio preferivo coprirla.
Sorrisi, accettando silenziosamente il complimento. «Ho avuto un bravo insegnante. Anzi, il migliore.»
Anche la renna mi sorrise e annuì con eloquenza, per poi aiutarmi a mettere via il kit da sutura e misurarmi la pressione. Era un po’ bassa, com’era normale che fosse, nulla di preoccupante. Mi consigliò di non fare altra attività fisica per quel giorno. Avrei voluto continuare ad allenarmi, ma anche io ero un medico, e sapevo che aveva ragione.
Ringraziai il dottore per le sue premure e uscii dall’infermeria. Ad aspettarmi per sincerarsi delle mie condizioni c’erano Nami, Sanji e Brook.
«Sto bene,» li rassicurai, facendo loro l’occhiolino.
«Non abbiamo avvertito Traffy né nessun altro dell’incidente perché sapevamo che eri in buone mani.» Nami mi fece l’occhiolino a sua volta. Era molto meglio così. Non volevo che i Pirati Heart venissero a sapere cosa era successo. Non avevo paura di dirglielo e non mi vergognavo, pensavo solo che non fosse necessario sollevare un polverone per nulla. E poi, anche se mi ero fatta male, ero tornata alla mia vecchia gloria: quella era una piccola vittoria per me, e se non potevo condividerla con l’unica persona con cui avrei voluto condividerla – Kenji – allora l’avrei tenuta per me e custodita come un tesoro, nella speranza di poter risolvere le cose con il medico dagli occhi verdi e renderlo partecipe del mio trionfo.
«Sì, era in buone mani. Ma io non ho fatto niente, ha fatto tutto da sola,» intervenne Chopper, che nel frattempo era uscito dalla stanza.
Sembrarono tutti sorpresi da quell’affermazione, ma nessuno dubitò neanche per un secondo che non fosse vera.
Mi strinsi nelle spalle, imbarazzata e lusingata allo stesso tempo. «Sono un chirurgo, o perlomeno provo ad esserlo, è il mio lavoro.»
La cartografa mi poggiò una mano sulla spalla e mi guardò divertita. «Sono lontani i giorni in cui ti ho proposto di occuparti del nostro diario di bordo, eh?»
Non potei rispondere, perché intervenne Sanji: «Mia regina, sei così abile e coraggiosa!»
Lo ignorai e decisi di tornarmene sul sottomarino, fare una doccia e riguardarmi. Non potevo allenarmi con Zoro e non ero in cerca di guai, perciò non avevo più niente da fare sulla Sunny. Salutai tutti, rifiutai l’ennesimo invito a rimanere a cena del cuoco, mi feci prestare dei vestiti – la mia divisa era in condizioni disastrose – e andai dallo spadaccino, che nel frattempo era tornato in palestra, per fargli sapere che ero viva e che avremmo ripreso presto il nostro scontro.
Il difficile venne quando dovetti saltare sul ponte del Polar Tang. Era un bel salto. Avevo paura che i punti mi si potessero strappare, ma non avevo scelta. Riatterrai in piedi e mi lasciai andare ad un’esclamazione di dolore quando percepii i due lembi di carne lacerata tirare nelle direzioni opposte.
Due dei miei compagni mi salutarono mentre mi passavano davanti, senza accorgersi di niente: erano intenti a piazzare scommesse su cosa avrebbe cucinato Ryu per cena. Non potevo controllare la ferita lì, dovevo andare a prendere i guanti e il disinfettante in infermeria e poi chiudermi nella mia cabina.
«Non così in fretta,» fece una voce una volta che mi fui incamminata nel corridoio. Law era dietro di me. Ecco. Lo sapevo. Se ne era accorto.
Mi girai con calma, ma cercando di mantenere delle movenze naturali. Se prima non avevo provato molto dolore, adesso iniziavo a sentirlo, forse perché l’adrenalina stava svanendo. Il Capitano mi squadrò dalla testa ai piedi.
«Dov’è la tua divisa?»
Avevo indosso una maglietta fucsia con una grossa margherita disegnata sul davanti e dei calzoncini bianchi, non potevo sperare di passare inosservata. Sapevo che sarebbe potuto succedere, perciò mi ero preparata una scusa. Non doveva pensare che non avessi rispettato il nostro patto.
«Rufy ci ha versato sopra una salsa strana. Un’intera bottiglietta.» Mi finsi infastidita. «Ho dovuto buttarla, purtroppo, e per non restare nuda mi sono fatta prestare dei vestiti da Robin.»
Rimase a fissarmi mentre soppesava la mia risposta, o forse cercava un qualche cenno involontario del mio corpo che potesse confermare o smentire la mia versione. Mi era andata bene, parve crederci, del resto era una giustificazione plausibile.
«Vado subito a mettermi una divisa nuova,» lo rassicurai, rigirandomi e continuando a camminare.
«Dove credi di andare?»
«A mettermi una divisa nuova, come desidera il mio Capitano.»
«Domani sbarcheremo su un’isola. Devi fare l’inventario.»
«No!» esclamai disperata, fermandomi e tornando a guardarlo.
«Fai parte di questa ciurma, non di quella di Cappello di Paglia. Hai delle incombenze da rispettare.»
«Ma perché lo devo fare proprio io!?» protestai, gettando la testa all’indietro. Aveva ragione, ma questo non incrementava la mia voglia di farlo.
«È quasi ora di cena, perciò ti concedo di farlo dopo aver cenato. Dopotutto, non sono un mostro.» Mi ignorò e sfoggiò uno dei suoi ghigni migliori.
«No, sei solo uno stronzo,» sussurrai mentre se ne andava.
Scossi la testa sconsolata. Se dovevo fare l’inventario, oltre al disinfettante avevo bisogno dell’ibuprofene. Decisi di barricarmi in infermeria per controllare la ferita. Era tutto a posto, i punti erano ancora intatti, avevo fatto bene a scegliere quel tipo di sutura. Applicai di nuovo la garza adesiva, cestinai i guanti e andai a fare la doccia. Ormai avevo imparato come fare per non far bagnare le bende.
 
«Stai bene?» Qualcuno mi posò una mano sulla spalla.
Mi ridestai dal mio stato di torpore e mi girai in direzione della voce. Era Shachi.
«Non hai toccato neanche un goccio di vino, stasera,» continuò, quasi preoccupato. Fissai il calice davanti a me, che era ancora pieno, e sospirai.
«Sì, sono solo stanca.» Gli dedicai un sorriso forzato. Non era una bugia, ero davvero stanca, ma ero più che altro assorta nei miei pensieri. Avevo più di una preoccupazione. Tanto per cominciare, la ferita sul fianco sinistro, che sapevo avrebbe rallentato i ritmi del mio allenamento. Poi il sogno che avevo fatto quella notte. Quando ero tornata nella mia cabina per farmi una doccia, me ne ero ricordata. Era stato strano. A tratti inquietante. C’era un vortice sul pavimento della mia stanza che aveva risucchiato tre delle persone a cui volevo più bene e aveva tentato di inghiottire anche me. E poi una mano, una sola mano, era spuntata fuori da quella pozza oscura. E, prima di ciò, avevo rivissuto i momenti in cui le mie labbra avevano toccato quelle degli altri. Che il mio subconscio stesse tentando di dirmi qualcosa? Forse voleva suggerirmi di lasciar perdere tutti quei drammi inutili e concentrarmi sulle battaglie che avrei dovuto combattere a breve. O magari voleva avvertirmi che sarebbe stato meglio non innamorarsi di nessuno e pensare a coronare i miei sogni. In ogni caso, le distrazioni non erano positive. Però poteva anche essere una rielaborazione in chiave onirica di ciò che era successo nell’ultimo periodo. Ma perché la mano?
«Sei sicura di stare bene? Non hai nemmeno finito i calamari,» fece Penguin, piegando la testa da un lato.
Lo guardai con eloquenza e gli allungai il piatto. «Puoi finirli tu.»
«Ti amo.» Mi rivolse un sorriso a trentadue denti, la sua preoccupazione aveva lasciato posto alla gioia.
Ryu aveva fatto gli anelli di calamari fritti per cena, e quando li faceva c’era sempre fermento. Era una vera e propria competizione cercare di assicurarsene quanti più possibile, perché erano buonissimi e nessuno voleva rinunciarvi. Io non riuscivo mai a regolarmi e ne avevo presi più di quanti riuscissi a mangiarne, per questo li avevo ceduti a Penguin. Non era stato un atto di gentilezza, non c’era spazio per la gentilezza quando Ryu faceva gli anelli di calamari fritti.
«Ho sempre saputo che preferisci lui a me...» Shachi si finse offeso.
Alzai gli occhi al cielo e gli passai il bicchiere di vino. «Tu puoi finire questo.»
I suoi occhi si illuminarono. «Ti amo.»
I due idioti poi tentarono di abbracciarmi.
«Limitiamoci all’amore platonico,» li respinsi, stoppandoli prima che potessero avvicinarsi troppo. Ci rimasero male, ma ormai era prassi per loro, lo avrebbero dimenticato in un paio di minuti.
Il resto della cena era scorso tranquillo. Poi ero andata di nuovo in infermeria: mi aspettava l’inventario, per la mia gioia.
 
«Ecco qui, Chuck.» Diedi una pacca sulla spalla al manichino. Avevo deciso di fare un po’ di pratica con Chuck. Non era lo stesso senza Kenji vicino che mi incoraggiava, era un po’ noioso, ma comunque efficace. Stavo migliorando con le suture: ero più veloce, più precisa e il polso non tremava più. La paura che iniziasse a farlo c’era sempre, però per quello avevo l’Isolachenoncè. Se sentivo arrivare il tremore mi bastava chiudere gli occhi, andare lì con la mente, lasciarmi fluttuare in aria e ammirare il panorama; e tornavo a rilassarmi e a credere in me stessa. Quel pomeriggio aveva funzionato.
«Ci vediamo presto.» Salutai il mio amico di gomma con la mano e lo riposi nel suo armadio. Avrei preferito di gran lunga intrattenere una conversazione con un fantoccio inanimato piuttosto che eseguire gli ordini di Law, eppure non avevo altra scelta.
Mi ritrovai a fissare la mensola dei medicinali, indecisa sul da farsi. Alla fine optai per prendere un’altra compressa di ibuprofene. Mi avrebbe aiutato a tenere sotto controllo il fastidio che mi provocava la ferita e anche quello che mi provocava fare l’inventario.
Mentre stavo compilando il foglio degli antipiretici mi misi a ridere. Qualche ora prima ero stata quasi tagliata in due. Se non avessi avuto i riflessi pronti avrebbero dovuto raccogliere il mio cervello con il cucchiaino. Avevo rischiato di morire, quel giorno. In realtà avevo rischiato di morire anche nei giorni precedenti, più volte. E adesso stavo facendo la lista dei medicinali che servivano ai Pirati Heart come se non fosse successo nulla di che. Era assurdo. Era quella la mia nuova normalità? Stare con Cappello di Paglia e la sua ciurma era un azzardo, era vivere sempre sul filo del rasoio. Ti cambiava la prospettiva delle cose e spesso anche la vita. Loro vivevano come se ogni istante fosse l’ultimo. E fu lì che mi venne l’illuminazione.
Mi alzai e mi diressi a passo svelto verso la cabina di Maya e Omen.
«Credo che dovreste sposarvi,» dissi dopo che la mia amica ebbe aperto la porta. I due erano già in pigiama.
«Sì, è quello che vorremmo fare.» Sembrava perplessa.
«Intendo subito.»
«Sei sicura di stare bene?» mi chiese Omen, dietro di lei.
«Sentite, la vita è breve e le insidie sono molte. Domani potreste cadere in un mulinello, o rimanere bloccati su un’isola sott’acqua, oppure essere trafitti da un fendente volante scagliato all’improvviso. Tutti noi potremmo lasciare questo sottomarino in qualsiasi momento e non tornarvi più.»
«Io non credo che...» provò a dire la ragazza, ma io non la lasciai parlare.
«Siamo pirati, le nostre vite sono sempre in bilico. Dobbiamo cercare di vivere senza rimpianti, perché potremmo morire ogni giorno. Non voglio dirvi cosa fare, ma... stiamo per andare in guerra contro Kaido. Sapete che non sarà facile, che c’è una buona probabilità che alcuni di noi non sopravvivano, o che vengano catturati. Voi vi amate! Quindi, perché aspettare a sposarsi? Perché non coronare subito il proprio sogno d’amore?»
«Non si può dire che tu non sappia fare discorsi ispirati,» commentò Omen. Potevo percepire che qualcosa era scattato in lui.
Lo ignorai e continuai: «Le cose non torneranno più come prima, dopo la guerra. Adesso voi siete qui, state bene. Avete la felicità a un palmo dal naso, dovete solo allungare le mani e afferrarla. E se ci tenete a condividerla con i vostri cari, fatelo subito, perché la vita non aspetta.»
Li avevo lasciati senza parole. Non era facile lasciare Maya senza parole, ma quella volta lo feci.
«Non sto cercando di convincervi a sposarvi ora, non dovete farlo se non vi sentite pronti o se volete un matrimonio in grande e organizzato nei minimi dettagli. Non intendevo mettervi pressione, volevo solo condividere il mio pensiero, un pensiero che ho maturato passando del tempo con Cappello di Paglia e i suoi, che vivono ogni giorno come se fosse l’ultimo.» Sorrisi e diedi una pacca sulle spalle a entrambi. Li lasciai che si guardavano perplessi ma complici, come sempre. Si guardavano con complicità anche dopo un litigio pesante. Era una delle cose per cui ammiravo e invidiavo allo stesso tempo ciò che avevano loro due.
«Accidenti a te, ne sai una più del diavolo, ragazzina!» mi gridò Maya mentre me ne tornavo in camera. A quanto pareva avevo centrato il bersaglio. E avrei fatto meglio a darmi da fare: avevo un matrimonio da organizzare.
   
 
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