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Autore: Kodama_    22/07/2022    2 recensioni
[OsaAka | 9000 parole | breaking up & making up]
Akaashi Keiji e la sua perenne guerra contro le parole.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Keiji Akaashi, Osamu Miya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho perso una scommessa con Atlante e ora devo sollevare il cielo al posto suo


I crave your mouth, your voice, your hair.
Silent and starving, I prowl through the streets.
Bread does not nourish me, dawn disrupts me, all day
I hunt for the liquid measure of your steps.
(Love Sonnet XI, Neruda)


Diario di Keiji, 17 settembre 2024

Ho sempre creduto che il peso e la leggerezza fossero due concetti opposti, e invece sono straordinariamente simili. Nonostante identifichino due condizioni differenti, tendono a comparire insieme come se si tenessero per mano, incatenati l’uno all’altro. Il peso si trascina dietro la leggerezza e viceversa. Sono amalgamati e indissolubili. I loro contorni sfumano e riconoscerli, distinguerli, diventa complicato.
Per esempio, quando ho paura sono sia troppo pesante che troppo leggero. Quando ho paura, paura vera, quella che trancia di netto ogni briciolo di razionalità presente nel corpo, c’è qualcosa che mi schiaccia. Qualcosa di immenso. Una valanga di buio mi scroscia addosso e mi paralizza. È il cielo che si frantuma e che comincia a precipitare come se fosse grandine, mentre io rimango immobile, senza neanche respirare.
Al contempo però mi sento leggero. Così leggero che temo che prenderò il volo. Fluttuerò lontano, mi staccherò dal mio stesso corpo e non sarò mai più in grado di tornarci dentro. Da questa improvvisa leggerezza scaturisce la certezza di essere l’essere più fragile al mondo. La paura mi rende leggero e quindi evanescente, leggero e quindi effimero, caduco. Mi sento leggero e un istante dopo mi sento già morto, perché capisco quanto fuggevole sia la nostra esistenza e visualizzo il nulla che c’era prima di noi e il nulla che lasceremo dopo. Noi esistiamo, distruggiamo quello che abbiamo intorno, e poi finiamo senza lasciare neanche una traccia del nostro passaggio. Quelli che invece riescono a lasciare qualcosa, lasciano solo briciole di un’eco momentaneo che prima o poi si zittirà per sempre. Un giorno ci dimenticheranno e niente di quello che per noi è stato fondamentale, niente di quello che abbiamo amato o sacrificato, significherà qualcosa. La memoria è la chiave dell’immortalità e per questo l’immortalità non esiste, perché il ricordo è destinato a essere provvisorio, sempre. E la portata di questa fine, la sua pesantezza, è strettamente allacciata alla leggerezza e alla fragilità della condizione umana. Anche l’odio e la rabbia sono momentanei, anche se trovo triste che siano proprio loro le emozioni più resistenti e quelle che impiegano più tempo per essere cancellate.
Per me, l’emozione più difficile da eradicare è la paura. Se qualcosa di me risuona, seppur impercettibilmente, quel qualcosa è fatto interamente di paura. Il mio cuore è fatto interamente di paura. E la paura è l’istante in cui convergogno il peso e la leggerezza.
Un’altra cosa pesante e leggera: la gioia. La gioia vera, come la paura, priva il corpo di peso. Sconfigge la forza gravitazionale, e ti permette di volare anche se sei privo di ali. Ti senti come se, chiudendo gli occhi, potessi arrivare ovunque, cadere ovunque. Come se potessi trasformarti in aria, o nei raggi del sole, e continuare a salire e a salire ancora.
Eppure la gioia, quella vera, è anche una scarica. Una scarica che inevitabilmente ti schiaccia a terra. L’adrenalina e l’intensità che si materializzano nelle vene concretizzano la tua luce e la tua ombra, e di conseguenza il tuo corpo, rendendolo pesante, rendendolo definito e netto, come se un bambino avesse preso un pennarello e stesse ricalcando a forza i tuoi contorni fino a bucare la pagina. Ti senti vivo, pulsante come un cuore, pesante come un cuore, pesante come la vita.
Peso e leggerezza, di nuovo. In egual misura.
Un’altra cosa che mi fa sentire pesante e leggero: Osamu.
La stabilità di Osamu non soltanto mi fa sentire ancorato a terra, ma è come se la terra fossi io. È come se dentro di me ci fossero milioni di radici. Mi sembra di avere un bosco in mezzo alle costole. E i fiumi, e le montagne, e il mare. Mi sento pesante e pieno. Eppure, al contempo, divento trasparente e intangibile. Quando c’è Osamu la realtà intorno a me si tramuta nell’ennesimo vestito di cui liberarsi.
Stare con Osamu significa dimenticare. Tuffarsi in un oceano fatto di luce. Ci si spoglia della pelle, delle ossa, l’ombra si lima finché non rimane soltanto la parte più inafferrabile e tiepida. Questo processo di graduale disgregazione non è doloroso. È naturale, liberatorio.
Pesantezza e leggerezza. Ho provato a studiarle. Ho provato a capire quale prevalesse sull’altra. Credevo che riflettere avrebbe potuto chiarire quello che sento. Credevo che la soluzione stesse proprio nel trasformare l’ignoto in un terreno conosciuto, come quando nei videogiochi esplori una mappa e quella piano piano si colora. Ma mi sbagliavo, perché esistono alcune cose che vanno accettate esattamente così come sono, altrimenti c’è il rischio di finire strangolati per mezzo delle nostre stesse mani. C’è un abisso dentro di noi che si spalanca all’improvviso. È doloroso, eppure affascinante e irresistibile, e il desiderio di sprofondarci dentro, di esplorare, cresce, si fa sempre più allettante. Ma bisogna, a un certo punto, voltarsi. Cambiare strada. Lasciare l’abisso lì, imparare a conviverci.
L’unica, l’unica cosa che vorrei capire adesso, è se ho il diritto di chiedere a Osamu di tornare indietro.


Marzo 2023

Sono al ristorante. Ci sono solo loro due, perché è lunedì, e il lunedì il ristorante è chiuso. Osamu, la lingua sciolta dalla birra, inveisce contro una cliente con cui ha litigato il giorno prima.
Una parte di Keiji ascolta partecipe, scuote la testa allibita davanti alla presunzione delle persone. L’altra parte di lui è in estasi totale. La cucina di Osamu è ultraterrena. Osamu è ultraterreno. Il ristorante solo per loro due è ultraterreno.
E gli onigiri. Quegli onigiri sono inspiegabili. Si sciolgono in bocca, arrivano dritti al cuore, ricuciscono, aggiustano. La cucina di Osamu è balsamica. Osamu ha i superpoteri, Osamu è un eroe.
Keiji si domanda se nel riso non ci metta la droga.
“Keiji,” lo chiama Osamu. “Mi stai ascoltando?”
“Sì,” risponde la parte di Keiji attenta e pronta.
“Allora perché stai sorridendo così?”
Keiji torna immediatamente serio. Non se n’era accorto. Scuote la testa, arrossisce un po’ e dice: “è solo che sono troppo felice. Ti sto ascoltanto, davvero, ma sono comunque troppo felice.”
“Perché ho litigato con una stronza?”
“Per tutto questo,” risponde Keiji senza pensare, mimando un cerchietto con il dito. In quel cerchio ci sono gli onigiri, il ristorante, loro due.
È solo che si è creata una zona sicura. Una bolla di sapone calda e dorata, una scena dipinta ad acquerello. Keiji ci rimarrebbe dentro per sempre, loro due mentre mangiano e bevono e i problemi, il dolore, rimasti fuori. Non possono entrare. Il ristorante di Osamu è un posto magico: lì dentro niente può toccarli. All’ingresso c’è un filtro, e quando un cliente spalanca la porta per entrare e il campanello tintinna, la negatività, la tristezza, la paura e l’autodistruzione rimangono invischiate dentro quella ragnatela invisibile.
Il cibo di Osamu è in grado di rigenerare. Osamu è un cuoco perché cucina, ma è anche un sarto perché mentre mangi ti entra dentro e ricuce i tuoi contorni sfaldati. La tua sagoma, un groviglio indefinito e impiastricciato, torna ad assumere una forma familiare, una forma che apprezzi, una forma in cui ti identifichi. Scorgi un luccichio sulle mani che prima non avevi notato e scopri stupito e commosso che dopotutto ti vuoi bene, che dopotutto sei stato bravo, che sei dalla tua parte e fai il tifo per te stesso. Ti percepisci e ti scopri prezioso. Osamu ti guarda e ti dice: stai andando benissimo. Perciò per favore, sii più gentile con te stesso.
Da quando Keiji esce con lui, ha avuto il privilegio di scoprire che Osamu gli restituisce le cose belle che ha perduto cambiando. Osamu restituisce i sassolini e le conchiglie che Keiji collezionava da bambino e che crescendo aveva finito col dimenticare.
“Perché mi guardi così?” gli domanda Osamu, sogghignando.
Keiji sbatte le palpebre. “Così come?”
Osamu esita, poi risponde: “come se mi amassi.”
C’è un’impercettibile sfumatura di speranza nella sua voce. Per un istante, Keiji pensa: ha ragione. Ma la verità è che Keiji non sa cosa sia l’amore. Keiji sa solo che è come se lo stessero tagliando con delle forbici, strisciolina dopo strisciolina. È tempestato da sensazioni violente. Pensa che per Osamu sarebbe disposto a fare qualunque cosa, e poi pensa che non è vero, che per lui non ha intenzione di fare niente, vuole solo divorarlo. Guarda Osamu e si sente così affamato. Affamato e insaziabile.
Keiji pensa: questo non è amore.


Settembre 2021

Keiji sta bene.
È il compleanno di Bokuto. I suoi compagni di squadra gli hanno organizzato una festa a sorpresa nella casa in campagna di Shion. C’è anche Osamu, che cucina per tutti in giardino aiutato da Atsumu. Keiji non riesce a staccargli gli occhi di dosso. E non riesce a smettere di mangiare onigiri.
È piacevole. Piacevole e leggero. L’odore della carne e del riso, le voci vibranti, colorate. Keiji scopre che ridere è facile, che stare in mezzo agli altri è facile, ed è come se in quel momento riesca a fare pace con il tempo, integrandosi perfettamente all’interno della realtà, sentendosi parte di un meccanismo composto da tante persone. Fluisce fra gli altri e con gli altri come se fosse acqua.
Keiji sta bene, sta benissimo. Finché, a un certo punto, non sta bene più.
Gli attacchi di panico sono imprevedibili e ultimamente arrivano di frequente. Si manifestano all’improvviso, e in qualunque tipo di situazione.
Keiji sta bene, sta ridendo, e a un certo punto la risata gli s’impiglia nella gola, si paralizza. Più l’ansia cresce e si dilata, più il corpo s’intorpidisce. Le braccia formicolano. Sta perdendo il controllo.
“Scusa un momento,” dice a Konoha, interrompendolo, prima di voltarsi e andare verso l'interno della casa. Deve trovare un luogo isolato e aspettare che passi. Non ha alcuna intenzione di dare di matto fra tutte quelle persone e rovinare l’atmosfera allegra.
Mentre si sforza di camminare normalmente, incrocia lo sguardo di Osamu per un istante. Osamu gli sorride. Keiji non riesce a ricambiare e prosegue dritto.
Keiji sale delle scale e si infila in una stanza da letto al piano di sopra. È immacolata, ma l’aria sa di chiuso, come se qualcuno non entrasse lì dentro da tempo. Keiji si chiude la porta alle spalle e si accuccia per terra, cedendo al terrore che lo ingoia.
Il suo corpo lo vomita via. Keiji si ritrova scaraventato fuori da se stesso, incapace di muovere un muscolo.
Può solo aspettare che passi. E mentre aspetta, muore di paura.
“Akaashi-kun?”
È la voce di Osamu. Keiji rimane in silenzio, ma Osamu lo trova comunque.
Apre piano la porta, entra nella stanza, e poi lo vede per terra.
Osamu sgrana gli occhi. Keiji vede la paura strabordargli dalle pupille
“Attacco di panico,” sibila quindi con una voce che non è la sua, prima che Osamu si metta a chiamare aiuto. “Sto bene. Fra poco passa da solo.”
Osamu continua a fissarlo, esitante. Infine scrolla le spalle e si siede per terra accanto a lui, chiudendo la porta.
Vattene, pensa Keiji. E poi: ci saranno almeno trenta persone in questa cazzo di festa. Perché proprio tu devi vedermi così? 
“Ogni tanto è capitato anche a me,” confessa Osamu. Keiji si aggrappa alla sua voce, a quella distrazione. “Poche volte, credo tre in tutto. E ho sempre chiamato Tsumu, perché parlare con lui, ascoltarlo, mi faceva stare meglio.”
Keiji annuisce. “Sì, aiuta.”
“Va bene se rimango qui? Puoi ascoltare me.”
Non devi rimanere, pensa Keiji. Passerà da solo fra poco.
Però gli dice: “grazie.”
Osamu accenna un sorriso. “Vuoi che chiami Bokuto o Kuroo? Li conosci meglio, forse potrebbero-
“No,” lo interrompe Keiji. “Per favore, non chiamare nessuno. Non voglio rovinare la festa.”
“Non rovineresti nessuna festa.”
“Non puoi saperlo.”
“Okay,” risponde subito Osamu. “Ma ti è andata male. Perché quando inizio a parlare di cucina non la smetto più.”
Keiji esala una risata annacquata, e Osamu comincia. Keiji stringe forte quelle parole, un filo che lo guida all’interno di un labirinto. Ci sono dei momenti in cui la disconnessione è inevitabile, ma Osamu si accorge quando Keiji viene sopraffatto e cambia tono, lo guarda negli occhi, gli sfiora il braccio per ricordargli di respirare, sospingendolo verso la superficie.
Poi Osamu gli chiede come abbia trovato i suoi onigiri. E Keiji risponde che sono i più buoni che abbia mai mangiato. E riuscire a formulare una frase lo aiuta a rifocalizzare la realtà, a ritornare dentro la sua stessa testa.
Il tempo passa, e l’ansia si affievolisce. Rimane solo una sensazione densa, come se Keiji galleggiasse dentro la melassa, ma è sopportabile.
“Grazie,” gli dice infine. “Sei stato…
Keiji si interrompe. Osamu non dice niente.
“Grazie,” ripete Keiji.
Osamu sorride. “Va meglio?”
“Sì.” 
“Sei sicuro?”
“Sono sicuro.”
Rimangono zitti nella luce soffusa della stanza. Keiji chiude gli occhi e si crogiola nel silenzio. Gli piace il silenzio. È confortevole. Confortevole ma anche elettrico, perché le loro mani si sfiorano, e perché nessuno dei due si è ancora alzato.
Osamu gli accarezza l’indice col suo. È un tocco fugace e leggero, quasi inesistente, come se gli avesse soffiato piano sulla pelle. Keiji apre gli occhi e si volta a guardarlo sorpreso.
Osamu ritira la mano.
“Dovremmo tornare dagli altri,” dice Osamu infine, un po’ nervosamente. “Cioè, altrimenti penseranno che stiamo scopando dentro la stanza della nonna di Inunaki, o di chissà chi altro.”
Keiji lo guarda. Poi guarda la curva del suo collo, la camicia un po’ sgualcita.
“Lo sai, forse potremmo farlo davvero.”
Osamu inarca le sopracciglia. “Fare cosa?”
Keiji lo bacia.


Dicembre 2022

Nel ristorante si diffonde una canzone che Keiji non riconosce. Il testo è in inglese, perciò Keiji riesce ad afferrare solo qualche parola, ma la melodia è passionale, toccante, coinvolgente. Ha il ritmo frenetico e intenso di un’ode: è una celebrazione.
“La canzone,” dice Keiji, sgranando gli occhi. “È stupenda. Come si chiama?”
“Non ne ho idea,” risponde Osamu. “Ho collegato le casse alla radio, magari il titolo ce lo dicono alla fine. Altrimenti la cerco con qualche app.”
Keiji scuote la testa. “No, non importa. Balliamo?”
Osamu inarca le sopracciglia, sorpreso. Keiji è sorpreso quanto lui, però si alza, sorride un po’ impacciato, e gli porge la mano.
Osamu scopre i denti in un sorriso, si alza pure lui, gli prende la mano e gli stringe l’altro braccio attorno al fianco.
“Credevo che ballare non ti piacesse.”
“Infatti non mi piace,” conferma Keiji, mentre Osamu gli accarezza il polso con il pollice. “Non so neanche come si faccia. Mi andava e basta.”
Perché è una bella musica. Perché qui dentro tutto diventa bello.
Cominciano a dondolare insensatamente fra i tavoli, tentando di seguire il ritmo. Poi però i tavoli svaniscono e svanisce persino la musica. Ci sono solo gli occhi di Osamu agganciati ai suoi. Che li accarezzano, che ci si sciolgono dentro. 
Keiji gli stringe le mani. Ha la sensazione di squagliarsi come burro. Non pensa più a nulla, ascolta solo il fruscio dei loro vestiti e delle scarpe sul pavimento, il respiro di Osamu, petto contro petto.
E quel momento, quell’istante in cui i pensieri si cancellano, in cui le parole si annullano, è qualcosa di incredibilmente prezioso. Di prezioso e vero e primordiale, come se Keiji sia tornato indietro nel tempo di centinaia di milioni di anni. Tutto ciò che è stato costruito arbitrariamente cessa di esistere. La realtà si sbriciola, strato dopo strato, privandosi di tutto ciò che è fittizio e orchestrato. I pensieri muoiono. Le parole muoiono. Rimane solamente una tempesta di sensazioni ancestrali, ridotte sino all’osso, alla loro essenza più vera, l’anima.
Keiji odia le parole. È una guerra continua e corrosiva. Le parole vorticano, le parole tagliano come carta sottile, le parole sono frammenti che devi mettere in ordine, costantemente. La comunicazione è un puzzle perpetuo che devi risolvere in un battito di ciglia se vuoi esprimere quello che davvero vuoi dire e se vuoi che l’altra persona ti capisca, ma alla fine il risultato sarà sempre fraintendibile, sempre incerto. La tua essenza, trasposta a parole, diventa vaga e indefinita. Tu sei le parole che dici ad alta voce e le parole non sono altro che tasselli dalle molteplici sfumature che possono essere ricomposti e ordinati in modo differente da chiunque ti ascolti. Tu, quando parli, puoi venire compreso in maniera differente, e quindi diventare incompreso. Tu, quando parli, diventi qualcosa di ambiguo. La profondità di quello che sei, di quello che provi, non può essere espressa nella sua interezza tramite parole, ma emergerà solo una piccola parte di essa se sei fortunato. Non puoi esprimere quell’intensità e quell’astrazione con un mezzo concreto e semplice come quello del linguaggio. La tua verità si trova imbottigliata dentro la tua testa e rimarrà lì per sempre.
Le parole per Keiji sono come le scadenze: le sente incombere su di lui, sono a un soffio dal crollargli rovinosamente addosso. Le parole prima o poi lo schiacceranno. Lo stanno già facendo.
E questo è il motivo per cui Osamu delle volte non gli sembra neanche reale. Perché con Osamu, delle volte, spesso, le parole non servono. Tutto si riduce all’essenza dell’anima. Anzi, non si tratta di una riduzione, quanto piuttosto di un’evoluzione intensa, repentina, violenta. Keiji si libera di tutto quel peso che grava sulle sue spalle, più pesante del cielo, di tutta quella leggerezza che lo rende labile e pericolante, e diventa invece vero. Osamu capisce con esattezza quello che Keiji prova perché lo sente dentro, nella carne, e per Keiji è lo stesso: sente con chiarezza che Osamu capisce quello che prova, lo vede riflesso nel suo viso, vede la gioia, vede la felicità, come se Keiji entrasse dentro gli occhi di Osamu e gli abbracciasse le pupille, lo abbracciasse da dentro. C’è l’intimità, e l’intimità non ha bisogno di essere spiegata a parole, l’intimità non vuole le parole, le ripudia perché sono un velo, sono una deviazione, una distorsione della verità di quello che Osamu e Keiji sono.
Keiji si abbandona a quella sensazione. Si abbandona a quella marea densa e dolce e salata in cui rimane solo l’interezza. Ci sono solo la musica e il suono del loro respiro e dei loro passi sul pavimento lucido. Keiji e Osamu respirano e si stringono forte le mani e si guardano negli occhi e galleggiano sull’acqua, sospinti dalla corrente.
Eppure a un certo punto finirà. La corrente continuerà ad attraversare l’oceano e loro finiranno arenati su un’isola deserta. E rimarranno immobili, in piedi, le labbra secche e gli occhi rossi, aspettanto che una nuova marea torni a prenderli.


Novembre 2022

Silenzio.
Silenzio, e il respiro di Osamu che oscilla nel buio, che batte il tempo.
Keiji ha gli occhi aperti, e aspetta che le pupille si abituino alla notte. Percepisce la schiena di Osamu contro il suo viso, la sua pelle contro le labbra, il suo odore. Keiji è al buio ed è praticamente cieco, eppure la schiena di Osamu potrebbe disegnarla a memoria.
Vuole toccarla. Vuole accarezzarla con le dita e affondargli i denti nelle spalle ampie mentre gli conta le vertebre, una per una. Poi vorrebbe accarezzargli il fianco e poi la coscia e mettergli la mano in mezzo alle gambe. Ma si trattiene, perché il respiro di Osamu è il respiro placido di quando è addormentato. E Keiji sa che Osamu non dorme tanto, che non dorme quasi per niente, perciò si impone di rimanere immobile e respirare piano.
Prova a respirare adeguandosi al suo ritmo. Lo impressiona sempre constatare quanto sia complicato per lui seguire il respiro di Osamu. Osamu fa respiri densi e ampi, con pause prolungate. Keiji si sforza di emularlo, ma verso la fine di ogni pausa va in apnea per qualche istante. Keiji ha bisogno di respirare prima. Il ritmo del suo respiro, almeno da sveglio, è più celere, nervoso, come se avesse paura di qualcosa. Osamu invece è come se andasse a fondo, come se ogni respiro non si limitasse a consegnare solo ossigeno al sangue, ma anche qualcos’altro, qualcosa di pesante e iridescente come l’anima. Osamu è saldo, ha radici penetranti e ramificate, non crollerà. Keiji invece è la foglia secca in balia delle risate del vento.
Le pupille si sono abituate all’oscurità. Ora riesce a distinguere l’ombra della schiena di Osamu, la sua sagoma distesa accanto a lui.
C’è qualcosa di Osamu che gli fa perdere completamente la testa. La sua ragione si annulla, implode, e dentro Keiji si riversa un oceano costituito solo da fame, una fame feroce e irragionevole che lo spinge a desiderare il corpo di Osamu, l’anima di Osamu, solo per lui. Keiji la vuole vicina, la vuole dentro, vuole che gli appartenga. E delle volte baciarlo non basta, mordergli il collo non basta, succhiarglielo non basta, farsi scopare forte non basta. Se potesse, Keiji ingoierebbe Osamu intero. Anzi, vorrebbe che fosse Osamu a ingoiare lui.
Keiji vorrebbe solo sprofondare dentro Osamu come un sasso nel mare. Andare sempre più giù mentre intorno a lui si materializzano stelle e fulmini e riecheggia la musica. Keiji ballerebbe sprofondando, felice di essere chiuso a chiave dentro al corpo di Osamu.


Maggio 2023

“Ti amo,” gli dice Osamu all’improvviso.
Stanno passeggiando per il centro di Osaka. Keiji si blocca in mezzo alla strada. Una ragazza sbatte contro la sua schiena. Keiji non chiede scusa.
“Cosa?”
Osamu scrolla le spalle. “Ho detto che ti amo.”
Nella folla le parole di Osamu sembrano scaturire via da un sogno. Le lettere si disgregano, si disperdono come una nuvola di farfalle. Keiji perde il senso della realtà. Lo sguardo serio di Osamu, però, è una pugnalata, una secchiata di acqua fredda che lo agguanta per il colletto della maglia.
Ha detto che mi ama. Devo dirglielo anche io.
Ma quel dovere è una ghigliottina. Quel ti amo di Osamu improvviso pesa come l’ennesima scadenza indesiderata. Keiji si sente tradito.
“Non devi dirmelo anche tu,” si affretta ad aggiungere Osamu. “Volevo solo… non lo so, volevo solo che lo sapessi.”
Non dovrebbe sentirsi così. Terrorizzato come una preda all’angolo. Dovrebbe essere felice da scoppiare. Dovrebbe soltanto essere grato che una persona come Osamu abbia scelto di amare qualcuno come lui.
“Keiji,” gli dice Osamu. “Non impanicarti, per favore. Non importa che tu lo dica o meno, mi piace stare con te a prescindere.”
Poi Osamu sorride. È rassicurante, è un sorriso che emana solo luce.
Ma Keiji oramai ha imparato a vedere. Ha imparato a distinguere le diverse sfumature di luce dentro i suoi occhi. Perciò Keiji discerne chiaramente il cuore di Osamu raggomitolarsi su se stesso come un gattino stanco. Sente il rumore del vetro che si incrina.
È terrificante quanto l’amore sia fragile, quanto renda fragile gli esseri umani. Osamu, temprato come l’acciaio, adesso potrebbe sbriciolarsi con un soffio come cristallo. Basterebbe una parola di Keiji, una avvelenata, per ucciderlo sul colpo.
Keiji capisce in quell’istante la reale portata del potere che detiene. Ed è così spaventosa. Fatale. Non la vuole.


Novembre 2023

Silenzio. È notte e Osamu è sveglio. Keiji lo sa perché il suo respiro è leggero, tocca piano il buio come se ne avesse paura.
Keiji rimane immobile e spera che Osamu non parli. Spera che rimanga in silenzio come lui, fingendo che tutto vada bene. Ma Osamu è diverso.
“Keiji,” lo chiama Osamu sottovoce, perché anche lui conosce il respiro di Keiji quando dorme. “Non ti piaccio più?”
Gli viene da ridere, e poi gli viene da piangere.
Certo che mi piaci, vorrebbe dirgli. Certo che mi piaci, ma
Il problema è ciò che segue quel ‘ma’. Il problema sono le parole e i pensieri e la sua testa, che non riescono a descrivere quel gorgo denso e angosciante che c’è dopo il ‘ma’. Se Keiji fosse in grado di descrivere con esattezza quello che prova, non ci sarebbero problemi. Se Keiji fosse in grado di comunicare nella stessa maniera cristallina di Osamu, la loro relazione continuerebbe a essere un pilastro fisso e stabile, un faro di luce, e non quella costruzione di cristallo tremendamente fragile e pericolante. Osamu prova a raddrizzarla, a ripararla, a saldarla, ma Keiji distrugge. O meglio, più che distruggere, Keiji semina dubbio e insicurezza, ogni suo passo crea una tela fitta di crepe sottili ma profonde.
Quanto è difficile trovare le parole esatte? Quanto è difficile trovare la parola esatta, con la sfumatura perfetta, collocarla nel giusto ordine in modo tale che l’altra persona riesca a cogliere un briciolo di verità in quella sequenza arbitraria di suoni? Dov’è il collegamento? Come possono le parole riuscire a portare a galla, anche solo in minima parte, la verità dell’anima?
Per Keiji è inconcepibile. Per Keiji è impossibile, e per questo non riesce a capire neanche lui cosa c’è dopo quel ma. Cos’è quella sensazione burrascosa e opprimente, quella specie di matassa appiccicosa e impermeabile, nascosta lì, sotto le costole? Quel peso insostenibile eppure talmente leggero da risultare invisibile?
“Keiji. Ci sei?”
Keiji chiude gli occhi. Spera che il buio lo inghiotta. Che il buio lo trascini lontano, come un buco nero, il fiume dell’oblio in cui tutto è uguale e non si può sentire né ascoltare né vedere niente. L’annullamento dei sensi. Keiji vorrebbe essere trascinato giù brutalmente, contro il suo volere, vorrebbe che qualcuno lo prendesse per il collo e gli ficcasse la testa sott’acqua tenendola ferma fino a farlo morire. Soltanto così avrebbe una giustificazione. Soltanto così potrebbe dire: non è colpa mia, non è colpa mia, non l’ho deciso io di non riuscire a parlare, di non riuscire a dirti quello che provo.
E invece è colpa sua. Perché non c’è nessuno che lo sta affogando. È Keiji che sceglie di tenere la testa sott’acqua costantemente, di non vedere né sentire niente. Keiji è un codardo. Keiji ha paura di tutto. Keiji sente la matassa pesante e leggera di indefinito che gli riveste le ossa, che le strangola. E c’è un ticchettio irregolare, il ticchettio di qualcosa che è rotto, che assomiglia agli occhi delle bambole quando si chiudono, alle chele di un granchio.
“Lo sai,” continua Osamu, “non sei obbligato a stare con me. E se non ti piace più quello che abbiamo, se non ti piaccio più io, va bene. Ma devi dirmelo. Perché non posso leggerti nella mente, non ho ancora i superpoteri.”
Keiji non risponde. Il corpo paralizzato. Non sa che dire, la testa è svuotata, c’è solo la voce di Osamu e tutta la tristezza e la paura che trapassano dal suo tono. E c’è l’incapacità di Keiji di esprimere se stesso, il rifiuto di guardarsi dentro. Codardo. Crudele.
Keiji abbraccia l’apatia che gli anestetizza la lingua. La mente fluttua. Keiji è un cadavere. Keiji vuole essere un cadavere, un bozzolo vuoto.
“Keiji?”
Keiji vorrebbe esplodere. Vorrebbe mettersi a urlare che ci tiene, ma la polvere da sparo è troppo umida, troppo lontana, recondita, estranea, cementificata dall’ansia, dalla stanchezza. Non ha ossigeno, non c’è fuoco.
Vorrebbe piangere, perché piangere significa tenerci. Se singhiozzasse Osamu capirebbe, vedrebbe una manifestazione concreta della sua verità dell’anima. Ma Keiji non piange.
“Io lo so che delle volte per te parlare è difficile. Lo capisco. Ma ci devi provare, ci dovrai riuscire prima o poi, perché io non posso andare avanti così.”
Silenzio.
Osamu sospira. Clic-clac. Orologi e occhi di bambole che sbatacchiano, chele di granchio.
Keiji gli cerca le mani. Le stringe forte e se le porta sulle guance. Le stringe forte forte.
Ti prego, non te ne andare. Ti prego, scusami, scusami se non riesco a dirti quello che sento, ma ti giuro che dentro sono paralizzato.
Osamu stringe di rimando le sue mani.
Keiji non si merita niente di tutto questo.


Diario di Keiji, 20 maggio 2023

Mi sento così pieno. Pieno e sovraccarico, come se qualcuno mi tenesse la bocca aperta e ci vomitasse dentro, continuamente.
Si tratta del lavoro. È colpa delle scadenze, della lista delle cose da fare che si allunga e del tempo che non è mai abbastanza, eppure non si tratta soltanto di questo. C’è qualcos’altro, qualcosa di intrinseco, che mi incatena e mi pietrifica, e anche semplicemente alzarsi dal letto richiede uno sforzo sovrumano, come se dovessi sollevare il cielo.
Osamu è quello che sta pagando le spese di questa specie di accidia mischiata allo sfinimento. Perché io mi sono chiuso nel mio silenzio, e Osamu è quello che ancora una volta deve impegnarsi a trovare le parole che io non riesco a dire. La nostra relazione oramai è diventata come il gioco dell’impiccato, spazi vuoti che Osamu deve riempire tirando a indovinare.
Mi manca. Mi manca eppure non rispondo neanche al telefono se mi chiama, perché ogni volta che apro bocca c’è soltanto il vuoto dentro la mia testa. È come se mi stesse per scoppiare il corpo, come se mi stessi per scucire perché sento troppe cose. Eppure, nell’esatto momento in cui provo ad esternarle, queste mi sfuggono, si nascondono, affogano da qualche parte.
L’altra volta Osamu ha detto che mi ama. Ed è vero, lo vedo, lo sento, perché se non mi amasse non sprecherebbe le sue giornate a tentare di decifrarmi. Non sceglierebbe di rimanere con me quando lui mi dà così tanto, e io non riesco a restituirgli nulla in cambio. Non si tratta solo di egoismo. Io non sto risucchiando solo lui, ma sto risucchiando anche me stesso, è nichilismo puro.
Quando me l’ha detto, la prima sensazione che ho provato è stata paura. E mi vergogno di dirlo, mi vergogno così tanto, lo so che dovrei solo essere felice, ma quel ‘ti amo’, quell’amore palesato in maniera così diretta e trasparente, mi ha terrorizzato. Mi ha terrorizzato perché io non sono in grado di fare lo stesso. Io non sono in grado di amare qualcuno in maniera così genuina, perché sono una brutta persona. E non si tratta di autocompatimento, è la verità: sono egoista, vigliacco e crudele, mentre Osamu è tutto il contrario. Osamu cura, restaura, aggiusta, io brucio e prendo quello che mi serve perché mi sento disperato.
Voglio stare con Osamu. Voglio stare con lui e mi manca da morire, ma lo voglio e mi manca perché lo amo o perché ne ho bisogno? La linea è sottile. O forse non è sottile, forse la differenza è netta, sono soltanto io che mi rifiuto di distinguerla perché non voglio ammettere a me stesso che forse, da parte mia, non c’è mai stato niente di vero o di genuino, ma solo sfruttamento. Forse l’ho usato perché mi sento solo. Forse l’ho usato perché mi può dare quello di cui ho bisogno. E se così fosse, io non mi devo azzardare a parlare di amore.
Forse quello che conta di più nel mio piccolo, insulso mondo sono io. Io e il mio lavoro, io e i miei progetti, io e le scadenze dei miei progetti. Io gravito intorno a me stesso. Tutto ciò che non è per me o non riguarda il mio lavoro, diventa secondario. E mi piacerebbe definirlo come un senso di responsabilità estremo, ma la responsabilità è un concetto positivo e caldo - Osamu è responsabile - mentre io, dentro me stesso, percepisco solo ghiaccio. La verità è che trascurarsi è facile, ma è molto più facile trascurare gli altri. È molto più facile sbatterli fuori dalla tua vita, è molto più facile essere egocentrici, essere menefreghisti, essere pigri.
Credevo di aver bisogno di tempo, credevo che prima o poi sarei riuscito a comprendere il suo ritmo febbrile e caotico, agganciarmi a una lancetta e diventare parte di questo gigantesco orologio che ci ha ingoiato tutti. Ma la verità è che non l’ho fatto, che qualcosa dentro di me è rotto, e non riesco a incastrarmi da nessuna parte.
Non ha senso. Vivo come se un mio fallimento possa determinare la fine del mondo. Ma è un concetto totalmente insensato, perché il mondo non smetterà di girare se non rispetto una scadenza a lavoro. Questa enorme pressione che ci autoinfliggiamo è narcisismo allo stato puro, perché nessuno di noi è così importante. Letteralmente: non siamo un cazzo di nessuno. Possiamo permetterci di andare piano o di fermarci del tutto, perché il tempo continuerà a girare impassibile anche se noi ci tiriamo indietro.
Eppure, nonostante razionalmente lo capisca, la sensazione che qualcuno continui a vomitarmi piombo in bocca non accenna a svanire. E sono sempre più pesante, e voglio sempre più solitudine, e voglio Osamu ma forse lo voglio perché mi è utile.
C’è questo ticchettio che risuona perennemente, persino mentre dormo. Il ticchettio della vita che prosegue e che mi ricorda che sono ancora fermo, che sono ancora indietro, che sarò sempre più indietro, come un allarme che si intensifica.
E il tempo non basta mai. Non basta mai. Eppure il tempo è uguale per tutti, anche per Osamu, che riesce a mandare avanti un ristorante da solo, che è occupato sedici ore al giorno e che nonostante tutto riesce a vedermi, a chiamarmi, a farmi sentire così importante.
Non riesco a pensare ad altro se non al momento in cui si stancherà. Perché lo farà, prima o poi, perché per quanto possa capire i miei problemi, per quanto sia bravo a entrarmi dentro la testa, a riempire i vuoti, prima o poi capirà che non ne vale la pena.


Luglio 2022

Sono a casa di Osamu, sul suo divano. Stanno vedendo Ratatuille. È il film preferito di Osamu, lo conosce a memoria. Anche a Keiji piace, ma più che il film gli piace l’espressione serena di Osamu mentre lo guarda. Sono nella loro bolla. Osamu gli tiene la mano, ogni tanto la stringe, ogni tanto l’accarezza.
Keiji lo guarda e pensa che qualcosa in Osamu non funzioni. Osamu continua a vedere dentro Keiji qualcosa che non esiste. Per questo lo abbraccia, per questo lo accarezza come se fosse la cosa più preziosa dell’universo, perché Osamu vede una bugia e ha deciso di credere che fosse sincera.
Keiji dentro di sé custodisce il peso di quella menzogna. E sa che prima o poi finirà per proiettarglielo addosso, sullo stomaco, e Osamu capirà. Keiji può solo sperare che accada il più tardi possibile.
Keiji poggia la guancia contro la sua spalla. Sente il suo odore, e comincia ad accarezzargli l’addome, e a giocare con l’elastico della tuta che indossa.
“Keiji,” sibila Osamu. “Hai promesso. Non durante Ratatuille.”
Keiji gli infila la mano dentro i pantaloni. Osamu chiude gli occhi e soffia.
“Puoi continuare a vedere il film,” mormora Keiji, abbassando il viso.
“E tu?”
“Te lo succhio,” risponde Keiji, la bocca sulla stoffa dei pantaloni. “E ascolto i dialoghi.”
Osamu scoppia a ridere.
“Stai davvero per farmi un pompino mentre mi vedo Ratatuille?”
Keiji annuisce fra le sue gambe, la testa leggerissima, l’odore di Osamu sulle labbra.
Osamu gli conficca le unghie nelle braccia.
“Delle volte non posso credere che tu sia reale.”
Keiji sorride.
Infatti non sono reale. Sono solo pieno di bugie. E spero che non le scoprirai mai.


Gennaio 2024

È notte. Sono al buio completo, nel letto a casa di Keiji. Non si toccano, non si sfiorano nemmeno. Nessuno dei due dorme.
Keiji sente un orologio. Sente il ticchettio delle lancette, il rumore del tempo che sta per scadere.
Serra le palpebre. Spera che quella notte scivoli via, che sorga il sole in fretta, perché magari la luce scaccerà via quell’angoscia che si dimena lì con loro, fra le lenzuola. Il presagio di un cambiamento imminente bussa alla porta. E porta con sè sofferenza, Keiji lo sa, esattamente come sa che è inevitabile.
Né lui né Osamu devono parlare. Non si devono neanche toccare. Devono rimanere immobili come se fossero stati tramutati in pietra, perché sono le parole, i gesti e la voce a veicolare il cambiamento, a permettergli di insinuarsi dentro di loro.
Finché restano immobili, il cambiamento non avrà niente a cui aggrapparsi. Non potrà toccarli.
Ma poi Osamu parla. Parla e spalanca la porta alla catastrofe.
“Keiji,” dice. “Non ce la faccio più.”
Keiji vede il buio. Vede più buio del buio della stanza. Vede il buio e ingoia la rabbia, perché Osamu sapeva, sapeva che sarebbe dovuto rimanere in silenzio, sapeva che l’immobilità era l’unico luogo in cui nascondersi, in cui rimanere acquattati come prede ad aspettare che la minaccia passasse. Eppure Osamu ha scelto di parlare. Li ha condannati a morte.
“Non ce la faccio più,” ripete.
Sì che ce la fai, vuole dirgli Keiji. Sì che ce la fai, che ce la facciamo. Troveremo un modo. È colpa mia, è colpa mia, e sistemerò tutto, te lo giuro, ma devi darmi un’altra possibilità. Devi farlo. E devi smetterla di parlare adesso.
Keiji vuole dirgli tutto questo. Ma in gola, come una marea, si materializzano sensazioni veementi e nauseanti, scaraventandosi l’una contro l’altra. Paura, disperazione, supplica, rabbia, crudeltà, senso di colpa. E poi, cristallino, Keiji riesce a distinguere e a isolare un solo pensiero.
Non ne ho il diritto. Non ho il diritto di chiedergli di farmi riprovare.
Osamu sospira affranto. Poi si muove.
Fermati. Fermati e fa’ silenzio. Dobbiamo rimanere immobili, immobili e nascosti.
Ma i vestiti frusciano, la lampadina si accende. Osamu si alza dal suo letto.
“Dove vai?” domanda Keiji atterrito, la voce rotta. 
“A casa,” risponde Osamu. “Non posso rimanere qui. Ti amo tantissimo Keiji, davvero. E delle volte penso solo a quanto cazzo sia ingiusto che io ti amo e tu no. Ma succede, la merda capita, la vita capita. E non è colpa tua. Amare o non amare qualcuno, non è una cosa che puoi scegliere. Ma non posso restare con te. E tu non puoi costringermi a farlo, perché non sei uno stronzo. Però sei triste. E sono triste anche io.”
Keiji lo fissa stralunato mentre si riveste.
No, pensa. Non voglio. Non ce la faccio. Non posso perderti. Ho bisogno di te. Se te ne vai, io muoio.
Keiji gli afferra il polso.
“Lascia.”
Lo sguardo di Osamu luccica e brucia.
“No,” risponde Keiji. “Ti prego. Ho solo bisogno di altro tempo. Per capire-
“Cosa?” gli domanda Osamu, arrabbiato. “Che c’è da capire? L’amore non è un cazzo di puzzle impossibile, Keiji. Non c’è niente di complicato. Io ti amo e tu no. Smettila di provare a convincerti e a convincermi del contrario. Stai solo facendo del male a tutti e due. Lascia.”
Ma Keiji non lascia. Stringe più forte la presa.
Mi dispiace. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
Osamu ringhia e si libera con uno strattone. E poi va via.


Ottobre 2021

Il primo appuntamento con Osamu è strano. Keiji non si aspettava di sentirlo di nuovo dopo il compleanno di Bokuto. Credeva che di solito le persone con cui lo fai di nascosto alle feste di compleanno scomparissero, invece Osamu non soltanto si fa risentire, ma lo invita al cinema, e poi a bere birra in un izakaya a Osaka.
A Keiji non sembra neanche possibile, di essere lì, a sgranocchiare takoyaki mentre Osamu gli parla, la testa sempre più leggera. È la classica cosa che sembra troppo bella per essere vera. Però è reale, è lì.
Poi Osamu lo accompagna alla stazione. E mentre aspettano, Keiji prova a nascondere un sorriso.
Annunciano il suo treno. Osamu lo guarda e gli dice: “lo sai, potresti restare da me.”
Sembra un po’ imbarazzato. Lo guarda negli occhi, poi distoglie lo sguardo, e poi torna a guardarlo negli occhi. Keiji lo trova tenero. Gentile. Ha voglia di infilargli le mani nelle tasche della giacca.
Scuote la testa.
“Vorrei,” risponde. “Ma ho del lavoro che devo finire entro domani mattina.”
Osamu lo guarda impressionato. “Perciò adesso vai a casa e ti metti a lavorare?”
“Non farmici pensare.”
Poi tocca a Keiji distogliere lo sguardo, puntarlo sui binari vuoti davanti a lui. “Possiamo fare la prossima volta. Cioè, se ti va.”
Mentre arrossisce, Keiji si chiede se non abbia fatto il passo più lungo della gamba. Forse Osamu non ha la minima intenzione di rivederlo.
“Certo che mi va,” risponde subito Osamu, senza esitare. “Sono stato… uhm, molto bene. Dobbiamo decisamente rifarlo.” 
Keiji trova la situazione estremamente imbarazzante, ma è quel tipo di imbarazzo bello, quel tipo di imbarazzo che ti fa sorridere come uno scemo.
Poi il treno arriva. Keiji guarda Osamu, che esita un istante e poi gli sfiora la guancia con le dita, facendole scivolare dietro l’orecchio. È una carezza fugace e leggerissima, eppure è così intima. Keiji sente il tepore delle dita di Osamu pulsare sulla sua pelle pure se ha tolto la mano già da un pezzo.
Keiji sale sul treno. Il treno parte.
Alla prima stazione, Keiji scende. Chiama Osamu e gli dice: “ciao, ho cambiato idea. Mi aspetti?”
E Osamu lo fa. Keiji sale il primo treno che trova e torna indietro.
Osamu lo aspetta sui binari con un sorriso spalancato. L’audacia gli brilla negli occhi.
"Cos’è che ti ha fatto cambiare idea?" domanda compiaciuto.
"Non lo so, forse hai i superpoteri o qualcosa del genere," risponde Keiji. "In più sto morendo di fame, e mi hanno detto che tu sei bravo a cucinare."
"Non solo bravo. Sono il migliore. Ma come fai con le scadenze per domani?"
Keiji riflette per un istante. Poi solleva la mano e gli sfiora il collo e l’orecchio nello stesso modo leggero in cui Osamu ha fatto prima.
"Non me ne frega."


Agosto 2024

Il telefono squilla. Keiji sobbalza e prova a ignorare la delusione che gli sputa in faccia quando sullo schermo non compare il nome di Osamu, bensì un numero sconosciuto. Keiji soppesa la possibilità di non rispondere, ma forse si tratta di una chiamata di lavoro, perciò si arrende e dice: “pronto?”.
“Kaashi-kun.”
Keiji strabuzza gli occhi. È Osamu, pensa per un istante. Il forte accento del Kansai è inequivocabile. Ma c’è quella sfumatura irrisoria e un po’ spaccona che Keiji non ha mai sentito addosso alla sua voce.
“Miya-san? Atsumu-san?”
“Indovinato,” risponde l’altro. Keiji lo sente sorridere. 
Questo è strano, pensa.
“È successo qualcosa?” si affretta a domandare Keiji, allarmato.
“Niente di nuovo, se è questo che intendi. Ieri abbiamo vinto contro la EJP Raijin.”
“Lo so, me l’ha detto Bokuto-san. Hai bisogno di qualcosa?” 
“Volevo solo chiederti come stavi.”
Keiji rimane zitto. Non ha mai avuto un rapporto particolarmente stretto con Atsumu. Non perché non gli piaccia, ma perché le occasioni sono sempre state poche e perché né Keiji, né Atsumu, hanno sentito il bisogno di approfondire la reciproca conoscenza. Perciò sì, è decisamente strano.
“Bene,” risponde infine Keiji, incerto. “E tu?”
“Pure,” risponde Atsumu.
“Okay.”
“Okay.”
Keiji sta per mandarlo al diavolo - perché l’ha chiamato? è una specie di scherzo? - ma si impone di rimanere educato. Aspetta in silenzio finché Atsumu si schiarisce la gola.
“Senti, lo so che non sono cazzi miei. Ma perché vi siete lasciati?”
Fanculo l’educazione, pensa Keiji, prendendo fuoco.
“Decisamente non sono cazzi tuoi,” sibila. “A malapena mi conosci.” 
Atsumu ride sguaiatamente dall’altra parte del telefono. Quella è una di quelle rarissime volte in cui Keiji ha voglia di tirare un pugno in faccia a qualcuno.
“Andiamo, ‘Kaashi-kun. Voglio solo capirci di più. Mi dispiace vedere ‘Samu così.”
Così come?
“Perché non chiedi a lui? È tuo fratello.”
“L’ho fatto. Ma ci sono sempre due versioni.”
“Non in questo caso,” risponde Keiji. “Qualunque cosa Osamu ti abbia detto, è vera. Ha ragione. Non gli ho mai dato niente. Ho solo preso. Sono stato un ingrato ed egoista pezzo di merda.”
Silenzio.
“Io ho sentito una storia diversa,” dice Atsumu.
Keiji sbuffa rumorosamente. “Ah sì? Illuminami.”
“Osamu mi ha detto che stai passando un brutto momento e che l’ingrato egoista pezzo di merda è stato proprio lui. Mi ha detto che ti ha lasciato solo proprio quando avevi bisogno di più aiuto.”
Keiji sbatte le palpebre. “Cosa?”
“Mi ha detto che non ha il diritto di chiederti scusa. Crede che ti abbia rovinato la vita, o qualche stronzata del genere, che non se lo perdonerà mai, eccetera eccetera.”
Keiji sbatte di nuovo le palpebre. Il pavimento sotto di lui dondola. “Cosa?”
“Te l’ho detto. Ci sono sempre due versioni.” 
Keiji rimane muto e sconvolto. Non è possibile.
“Posso dirti una cosa?” 
Keiji esita, poi annuisce. “Fa’ pure.” 
“Non sei una brutta persona, Kaashi-kun.”
“E come lo sai?”
“Lo ami anche tu. Semplicemente avete due modi diversi per farlo. Ti ricordi quando Samu è rimasto senza cameriere e ti sei offerto di fare i turni finché non avesse trovato qualcun’altro? È finita che sei rimasto al ristorante per quasi due mesi, nonostante il lavoro e tutta la tua roba da correggere. Ti ricordi quando gli hai comprato un biglietto per Napoli semplicemente perché ti ha detto che voleva mangiare una vera pizza? O uno per Rio perché voleva assaggiare la Feijoada?”
Keiji annuisce. Se lo ricorda.
“L’hai sempre ascoltato. L’hai sempre incoraggiato. Lo so che pensi di non esserci mai stato per lui, troppo preso da te stesso. Ma non è vero. Non è vero perché lo so, perché me l’ha detto ‘Samu, perché ogni volta che stava male o era stanco, mi diceva ‘meno male che c’è Keiji’. Io non lo so perché nella tua testa ti vedi come un mostro o come la causa di tutte le sofferenze di mio fratello, e probabilmente non lo sa neanche lui, ma credimi, non lo sei. E mi dispiace distruggere i tuoi deliri di onnipotenza, ma tu non sei una persona crudele, o difficile, o irrecuperabile. Avete avuto una crisi, ma beh, è una cosa che capita a tutti, è capitato anche a me. E so che il modo in cui ama Samu può spaventare, ma è semplicemente il suo modo di fare le cose. Non significa che tu lo ami di meno o che non lo ami affatto.”
Keiji sente gli occhi che bruciano. Si impone di ricacciare indietro le lacrime. Non riesce a credere di star per scoppiare a piangere mentre parla al telefono con Atsumu Miya. È surreale.
“Kaashi-kun? Ci sei?” 
“Sì,” risponde Keiji. “Ci sono. Solo che non so cosa dire.”
“Potresti iniziare con un grazie.”
“Grazie.”
“Potresti anche dire che sono il miglior alzatore sulla faccia del pianeta e che sono più bello di mio fratello.”
“Potrei, ma non lo farò.”
“Chissenefrega,” risponde Atsumu, schioccando la lingua. “Tanto sono cose che so già, non ho bisogno che tu le dica ad alta voce. Credo solo che tutta questa stronzata della rottura sia molto, molto stupida.”
Keiji esala una risata annacquata. “Sì, forse hai ragione. Posso chiederti una cosa?”
“Spara.”
“Hai detto detto che è capitato anche a te. Con chi?”
Atsumu ride.
“E perché dovrei dirtelo? A malapena ti conosco,” risponde, rifacendogli la voce.
Keiji sorride.



Lettera a Osamu, 3 ottobre 2024

Cosa significa amare qualcuno?
Ci ho pensato. Lo so che per te penso troppo e che l’amore è una cosa che avviene spontaneamente, non qualcosa da vivisezionare. E ti giuro che quello che abbiamo avuto, almeno per me, è stato vivo e irrefrenabile. Tu mi hai agguantato e io mi sono lasciato travolgere con tutto me stesso. Ma dovevo capire. Dovevo capire se per te sarei andato bene, o se al contrario avrei finito solo col farti del male. 
Mi hanno detto che non esiste un solo modo di amare. E credo che sia vero, credo che esistano diversi tipi di amore propri di ogni persona e relazione. Perciò amare te, amare specificatamente Osamu, è qualcosa di irripetibile, di mai visto prima e di esclusivo,perché non esiste nessuno come te e nessuno come me. Ma questa esclusività, almeno ai miei occhi, lo rende difficile da capire. Non posso paragonare quello che abbiamo avuto noi a quello che ho avuto con un’altra persona. Quello che c’è stato fra noi, quello che c’è ancora per me, è complesso, imperscrutabile e profondissimo. Cresce, diventa bollente, diventa gelido, è un bozzolo da cui è difficile estrarre la verità. Ed è proprio la verità che ho provato ad afferrare. Perché verità e bugia, proprio come leggerezza e pesantezza, sembrano due concetti opposti, eppure sono uniti, sfumano l’uno nell’altro e diventa difficile riconoscerli.
Per te non è difficile. Tu sei sempre stato sincero. Il tuo modo di amare è trasparente. Tu riesci ad amare pienamente, e lo fai con la stessa facilità con cui respiri. Ma io non sono come te: per me, capire se ti amassi davvero o se avessi solo bisogno di te è stato difficilissimo.
Io sono egoista. Sono egoista e ho bisogno di te. Ho bisogno di te perché sono felice quando stiamo insieme. Ho bisogno di te perché da quando ci siamo lasciati mi sento vuoto, o meglio, mi sento pieno di vuoto. Quello che hai, quello che sei, il modo in cui vivi la realtà, la gentilezza con cui la tocchi, sono diventati fondamentali. Mi servono. Non mi bastano più solo i miei occhi, o solo le mie mani. Ho bisogno di te, di te intero, corpo e ombra, ho bisogno di parlarti, di ascoltarti, di abbracciarti, di toccarti, di esistere all’interno di una scatola stretta con te vicino.
Queste necessità, questo desiderio insaziabile, mi terrorizzano. Mi terrorizzano perché mi fanno capire la portata del mio egoismo. E mi terrorizza anche pensare che, prima o poi, il mio egoismo finirà per inghiottirti e per farti del male. Ma è proprio quest’ultimo terrore a farmi pensare che forse non c’è solo egoismo dentro di me. Non può essere solo egoismo, perché se lo fosse stato ti avrei mangiato e basta. Invece mi sono fermato. Mi sono fermato e ho riflettuto, e riflettuto ancora, e ho finito col perdermi nei miei pensieri e ferirti comunque, alla fine.
Io penso di essere crudele. O meglio, una parte dentro di me è crudele e violenta, acida. Gli piace corrodere. Gli piace corrodere te. E tu, Osamu, sei buono e mi ami e quindi scegli di farti corrodere perché l’importante è che io stia bene. E questa tua dolcezza mi pietrifica. Mi spinge a starti lontano. Perché tu, da quando ci conosciamo, non fai altro che sacrificare te stesso e il tuo tempo pur di stare con me, non fai altro che dare e dare e dare, continuamente, mentre io non faccio altro che ingoiare tutto quello che mi dai. Ma nonostante lo strazio, nonostante il dolore, tu per me ci sei sempre, sempre stato.
Ho pensato che forse, in realtà, anche tu sei egoista. Forse anche tu vuoi stare con me perché fa stare bene te. Forse questo tuo modo di amare facilmente e pienamente è una scelta nata da una tua necessità, forse la tua dolcezza non è altro che una manifestazione meno affilata di un’anima egoista quanto la mia. Forse è così, forse non è così. Probabilmente no. Secondo me tu sei buono e basta, ti piace aggiustare quello che è rotto, ricucire. A prescindere da quale sia la risposta, c’è una verità che resta inconfutabile: io e te siamo diversi, e quello a sbagliare sono stato io.
E mi dispiace. Mi dispiace tantissimo. E mi manchi. Mi manca la temperatura specifica del tuo corpo e della tua anima. E anche se non riesco ad amare come ami tu, anche se non riesco a essere gentile e balsamico come sei tu, c’è qualcosa di vero in quello che provo. Qualcosa di vero, che brilla di luce propria, che non è uno stupido riflesso del mio lato egoista, o del mio bisogno di stare con qualcuno. Qualcosa di disperato e intenso e grezzo, ma puro. Qualcosa che è senz’altro amore.


*

Osamu ti guarda. Gli tremano gli occhi come pozzanghere. Ti afferra le mani e ti spinge dentro casa, prima di abbracciarti forte.
“Mi dispiace,” dice. “Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.”
E ci sei tu, sconvolto, perché ti aspettavi astio, diffidenza, una porta sbattuta in faccia; di certo non delle scuse, di certo non delle lacrime.
Strofini il viso contro il collo umido di Osamu.
“Non devi chiedermi scusa,” la voce ti trema. Sei così emozionato che temi ti si spezzi la gola. “Non hai fatto niente di sbagliato. Niente, Osamu. È stata colpa mia.”
Osamu scuote la testa.
“No,” dice. “No. L’ho fatto di proposito. Lasciarti, andarmene, l’ho fatto solo perché ti volevo fare del male, volevo vendicarmi, volevo farti sentire come ci si sente, volevo che tu pagassi. Ma non dovevi pagare niente, Keiji. Sono stato io a non capirti. Sono stato io a metterti ansia e fretta per tutta questa storia. Per me amarti è facile, ma non significa che sia così per tutti. Non significa che siccome per te è complesso, o difficile, allora mi ami male o mi ami di meno o non mi ami per niente. Non sei una persona crudele, Keiji. Sei dolce. Sei buono. Soltanto che delle volte senti tutto troppo forte e anneghi, e io invece di aiutarti, di reggerti, ti ho solo spinto con la testa ancora più sott’acqua. Mi dispiace moltissimo.”
Keiji chiede scusa e mentre chiede scusa lo bacia. Osamu ride sulle sue labbra, brilla, e Keiji si crogiola in quella luce che trema.
Poi gli dice che lo ama. E Osamu risponde che lo sa, lo sa, l'ha sempre saputo.
La verità che ha cercato per tutto quel tempo, Keiji l’ha trovata.


Note
CIAO! Importantissimo: il paragrafo iniziale sul peso e sulla leggerezza è stato ispirato/influenzato dal libro ‘L’insostenibile leggerezza dell’essere’ di Kundera che mi ha dato la spinta per iniziare questa storia.
Detto ciò, grazie mille per essere arrivati sino alla fine, significa tantissimo e niente abbracci per chiunque!
Breve storia di questa storia: è stato un periodo in cui volevo dire tanto, volevo proprio mettermi al computer e vomitare parole su parole, perché ero super piena di cose che pungevano e si scontravano e volevo sputarle via. Il problema è che non riuscivo proprio a tirarle fuori. Avevo tantissime cose di cui volevo parlare, tantissime cose che avrei voluto che questa storia fosse, però quando provavo a scrivere davanti a me e nella mia testa c’era solo questo grandissimo vuoto che faceva spazio a tanta frustrazione per l’incapacità di scrivere. Perciò Akaashi in questo caso è stata un po’ la mia ombra, nel senso che lui ha proprio la necessità di parlare e di provare a descrivere almeno un briciolo di quello che c’è dentro la sua anima, ma non ci riesce, perché delle volte utilizzare il linguaggio sembra un atto completamente futile e quasi incompatibile con quello che c’è di vero dentro te stesso. Insomma, questa storia avrei voluto che fosse qualcosa di fluido, una specie di valanga perché io mi sentivo letteralmente satura di roba, ma niente è venuto fuori con facilità, l’80% di quello che avete letto me lo sono cavato dalla testa con un uncino praticamente e secondo me si sentono sia la frustrazione che la fatica che mi hanno super impedito di creare una roba scorrevole e intensa e insomma questa storia non rappresenta neanche il 5% di quello che avrebbe dovuto essere il risultato finale, ma mi sono sforzata così tanto che mi sono rifiutata di eliminarla (magari ne è valsa la pena anche solo per una frase, ecco, perché comunque anche se ci ho messo tantissimo e il risultato non è quello desiderato è comunque una cosa che ho concluso nonostante proprio la sensazione di GRRRRRRRHHKDAAAAH e l’incapacità di esprimere quello che avevo dentro). Insomma, il problema di questa storia è che non sono riuscita ad andare minimamente a fondo, ho semplicemente girato intorno al nucleo senza sfiorarlo, però vabbé davvero la fatica immane con cui l’ho buttata giù è stata troppa per cancellarla e rendere tutto vano ahahah. Fine papiro, alla prossima sperando di trovare al più presto uno spiffero dove soffiare via le parole! GRAZIE PER AVER LETTO!
OLÈ!!
See ya! ♥

   
 
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