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Autore: The Custodian ofthe Doors    26/07/2022    0 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XVIII- Burn.

 
 
 
 
Jonas non aveva fatto nulla di degno in tutta la sua vita, figurarsi qualcosa che gli potesse concedere il perdono.
Era un pensiero amaro da fare in un momento del genere, quando si stava per giungere alla fine, a quella eterna. Non che vi fosse nuovo, aveva già sperimentato quell’ansia, quei tumulti interni ad un passo dalla morte e anche al tempo aveva creduto che quella fosse “la fine eterna”. Ma allora non credeva neanche nell’aldilà, figurarsi immaginarsi un inferno pagano a cui avrebbe acceduto per gentile concessione dei suoi natali semidivini.
Questo però non avrebbe impedito alla sua anima di dissolversi nel nulla assoluto, di bruciare come legna, consumato nelle fiamme del dolore delle persone che aveva conosciuto, che aveva amato, fino a quando non sarebbe rimasto più niente di lui, fino a quando non avesse espiato tutte le sue colpe e, forse, anche quelle degli altri.
A ben pensarci, in tutti quei decenni di Campi di Pena, non se l’era vista così male. La sua tortura più grande era quella di infliggerne ad altri e provare quell’agonia riflessa sul suo collare. Era forse giunto finalmente il momento di soffrire davvero per le sue azioni invece che per quelle dei suoi compagni di sventura?
Chiuse gli occhi, le persone che si susseguivano davanti a lui erano straziate, logorate da dolori di ogni sorta ma di cui, in un qualche modo, Jonas sapeva d’esser legato. Consisteva in questo, quindi, la prova del Guardiano? Era davvero un enorme occhio di luce pronto a scrutare in ogni anima, nel suo passato, e valutare quando dolore questa avesse inflitto a chi la circondava?
Ma com’era possibile? Come aveva fatto Jonas in neanche sedici anni a ferire così tante persone? Quello che gli stava mostrando il Guardiano era una sfilata di genti che, per la maggior parte, Jonas non conosceva. C’erano i suoi famigliari, c’erano i suoi amici, i compagni di scuola, qualche volto noto, ma era realmente riuscito a portare dolore e disperazione a tutti loro?
 
Com’è possibile? Come posso avervi feriti se la maggior parte di voi neanche mi degnava di uno sguardo? Non mi ha mai offerto una mano amica?
 
Era ancora più desolante saper di esser il fautore della tristezza di qualcuno a te ignoto, ma non era devastante quanto vedere i volti delle persone che amava piangere tutte le loro lacrime.
La figura austera di suo nonno con il capo basso, i lineamenti tesi, lo sguardo puntato su di un oggetto che entrambi conoscevano fin troppo bene, la vecchia walther che l’uomo gli aveva insegnato ad usare. Sullo stesso piano, ma distanziata da lui, sua nonna teneva le mani strette al petto ed un rosario intrecciato ad esse. Pregava muovendo le labbra velocemente, come se la rapidità della sua preghiera avrebbe potuto battere il giudizio divino.
Più distante la servitù del palazzo, le cameriere dai volti stravolti, gli inservienti con le espressioni attonite, una donna, tra le tante, che faceva saettare il suo sguardo ovunque, in cerca di qualcosa.
Quel qualcosa che Jonas vedeva in primo piano, rintanato in un angolo della dispensa, rannicchiato su sé stesso, le ginocchi al petto e le mani premute sulla bocca per soffocare i singhiozzi, gli occhi verdi scintillanti di lacrime.
Ed in fine il viso di sua madre, contorto in un’espressione di mal trattenuto dolore, che si piegò d’improvviso, deformandosi in una smorfia mostruosa, ingoiandone i lineamenti e mutandola fino a farla divenire un’altra donna, un’altra madre.
 
Madre?
 
Dita sottili gli sfiorarono la vita. Tocchi gentili lo voltarono con delicatezza, come se fosse un oggetto di fine cristallo.
Una mano risalì la schiena con lentezza, come se faticasse a muoversi in quell’inferno di fuoco.
Ah, inferno, alla fine c’era comunque tornato, no?
Eppure quelle carezze gentili sembravano quasi essere in grado di spegnere un poco le fiamme, di renderle meno feroci, meno calde.
La sua guancia sfiorò un tessuto morbido, un petto solido, portandolo ad incastrare la testa sotto il mento di un uomo che non sapeva riconoscere, che non poteva vedere per colpa del volto di quella madre, una donna dai capelli castani, tenuti sciolti sotto il pesante velo nero che le avvolgeva il capo, che le cadeva sulle spalle e la schermava dal mondo mentre piangeva disperata il suo dolore, mentre ogni cosa perdeva significato per lei.
Sovrapposti alla donna si rincorsero d’improvviso centinaia di altri visi, espressioni affrante, distrutte, irose, ferite, morenti, deluse, amareggiate, avide, invidiose, lussuriose, ingorde, innamorate.
Due occhi scuri, caldi, avvolgenti, così diversi da quelli verdi che tanto avevano popolato i suoi sogni, lo fissavano risoluti, orgogliosi di qualcosa che credevano essere giusto ma che, in verità, aveva solo segnato la fine definitiva di tutto.
Un rumore sordo, un panno umido che cade a terra, tra la polvere, che sprofonda nell’abisso distruggendo l’unica certezza rimasta, la speranza che per tanto tempo si era nascosta sul fondo di uno scrigno, timorosa d’uscire, di credere che quella fosse la volta giusta, che fosse finalmente giunta la fina di quell’eterno attendere, di quell’eterno soffrire.
 
 
“Io mi fidavo di te! Credevo mi amassi! Io ti ho amato! Ma era un’illusione, solo una patetica e crudele illusione! Una maledetta malia generata da un mostro! Ti amavo! Ti amavo e mi hai tradito! Sei esattamente come tutti gli altri, sei come loro! Non è di me che t’importa ma solo del premio, del prestigio che ti porterà! Non sei disposto a sacrificare nulla per me! Non il tuo dannato orgoglio! Io ti amavo e tu hai deciso di tradirmi così, hai deciso di fidarti di uno sconosciuto e di distruggere l’ultima speranza che mi era rimasta!”
 
 
Il dolore che lo trafisse in quel momento era del tutto diverso rispetto a quello che aveva provato fino ad ora, così diverso da quello di sua madre, dei suoi nonni, dei suoi amici, di Lu.
Era disperazione, era tradimento, era qualcosa che Jonas non avrebbe mai immaginato di poter provare e che faceva male, dio, faceva così male.
Era solo, non c’era più speranza, non c’era più un domani. L’unica cosa per cui aveva atteso tutta la vita, l’unica cosa che avrebbe finalmente potuto ripagare anni ed anni di sofferenza gli era appena stata strappata da sotto gli occhi, dalle mani, dall’unica persona che avesse davvero mai amato.
Ormai non vi era più nulla per cui vivere.
Jonas serrò gli occhi più forte che poté e si strinse al corpo martoriato da cui sgorgava tutto quel male, quel dolore accecante ed insopportabile, suo e di chissà quanti altri.
Si strinse in quell’abbraccio rendendosi improvvisamente conto di star piangendo, singhiozzando ad alta voce singulti alti e strazianti. Voleva solo che tutto smettesse, che quel dolore cessasse, anche se non gli apparteneva, anche se sapeva, in sé, che ciò che stava provando lui non era che il riflesso di ciò che stava provando l’altro.
Singhiozzò senza vergogna domandandosi se quello era ciò che aveva provato il suo di amore sapendolo morto, se si fosse sentito tradito in quel modo, se avesse sofferto così, si fosse disperato come quell’anima aveva fatto e stava facendo in quel momento, a distanza di secoli.
Non riusciva a muoversi, a far nulla se non piangere e ripetere quanto gli dispiacesse, chiedere scusa anche se non era sua la colpa, anche se le parole non avrebbero mai potuto riparare il torto subito, né ora né mai.
Chiedeva scusa a lui per ciò che aveva fatto ad altri, pregava il perdono, pregava che la sua famiglia non avesse sofferto così, non come stava facendo quell’anima, non come aveva fatto per tutto quel tempo, come continuava a fare anche in quel momento. Un dolore più forte di quello delle fiamme, di quello della luce.
Eppure, leggere, delicate come un petalo, le mani tremanti dell’altra anima lo carezzavano senza posa, sfiorandogli i capelli, stringendolo a sé come a volerlo consolare.
Cosa aveva fatto? Perché si era buttato nel fascio di luce con lui? Pensava di poterlo salvare?
Se solo Cade non fosse svenuto Jonas non avrebbe dubitato neanche per un attimo che quelle braccia potessero essere le sue. Ma quello che ormai reputava un fratello non aveva avuto la sfortuna d’assistere al suo rogo, Ipno, o chi per lui, aveva posato le mani sui suoi occhi prima che l’irlandese potesse vederlo saltare nel raggio luminoso.
Jonas però sentiva, sapeva in un qualche modo, che quell’anima non aveva pensato troppo prima di raggiungerlo. Come toccava il suo dolore così percepiva le sue intenzioni, i suoi pensieri. L’altro aveva capito qualcosa, forse ciò che il Guardiano avrebbe ricercato, e si era lanciato verso di lui. Non aveva avuto intenzione di salvarlo, sapeva che non sarebbero potuto uscire dal suo sguardo a meno che non avessero superato la prova, ma aveva ugualmente rischiato, spinto da una forza sovrannaturale che gli aveva gridato di non poterlo lasciare lì, solo, a soffrire tutte le pene di coloro che aveva toccato in vita. Non si aspettava che i loro dolori si sarebbero uniti e sommati, che si sarebbero sovrapposti in quel modo prima che i suoi fossero riusciti a sovrastare quelli di Jonas.
Era così sciocco, era stato così stupido.
Era così umiliante, così mortificante sapere che il ragazzino stava assistendo a tutto ciò, a tutti gli individui che avevano incrociato la sua strada e a quelli che vi avevano messo fine, a quelli a cui lui aveva messo fini.
E Jonas lo sentiva, lo sentiva perfettamente. Riusciva a sentire il dolore, l’umiliazione, l’imbarazzo che si trasformava in qualcosa di più profondo, di più oscuro, fino a diventare rabbia e grida e lacrime e sangue e morte.
I volti delle persone che l’avevano sfiorato, che avevano provato ogni sorta di sentimenti verso di lui, dai più gentili ai più crudeli, dai più innocenti ai più bassi, dall’amore al tradimento. Jonas sentiva tutto, lo comprendeva come se fossero sentimenti suoi, come se fossero pensieri suoi.
 
Come se fossero uniti.

Uniti?
 
Cicno?

 
*



Il corridoio di pietra era desolato e silenzioso, le ombre che lo popolavano scivolavano mute sulle mura antiche, i grandi mattoni levigati dal tempo cercavano di rallentarle, impigliando i loro bordi negli angoli più acuminati, nei vecchi ganci di ferro dove un tempo vi erano impalate torce fiammeggianti.
Non c’era più luce, non c’era più fuoco, non serviva ormai. Nessun uomo mortale varcava quelle porte, nessun mortale era più autorizzato a farlo da secoli ormai.
Eppure, in quel momento, la vita ripopolava gli infiniti dedali del castello, calcando i pavimenti che un tempo avevano visto eroi, cavalieri e re camminarvi fieri.
La donna che vi passava in quel momento non era mai stata nulla di tutto ciò e similmente a lei l’uomo che avrebbe dovuto incontrare.
Sprofondando le mani della felpa calda Eris quasi saltellò impaziente, un’antica ed infantile gioia l’animava dal profondo, l’eccitazione che un tempo aveva fatto tremare anche il suo stesso regno le brillava negli occhi come avrebbero fatto le vecchie torce.
Oh, c’era così tanto che voleva ancora vedere, che doveva ancora sapere, tanti dettagli succulenti, tante sfumature al momento invisibili che avrebbero portato alla creazione di un quadro, un puzzle, chiaro ed intricato, rivelandole forse il piano più ambizioso che l’ultimo secolo aveva potuto partorire.
 
Se non fosse che proprio la mente dietro tutto questo è stata partorita da un piano quasi più folle ed ambizioso. Ma dopotutto, i mostri possono essere generati solo da altri mostri.
 
La Dea della Discordia sorrise sorniona piroettando su sé stessa.
Aveva davvero voglia di infilarsi nella Sala del Delta o nell’angolino di mondo preferito del suo umano preferito, o perché no, andare direttamente a fargli visita in casa sua, ma aveva un compito da svolgere, una gentilezza, se la sia voleva chiamare così, che proprio non aveva intenzione di negare ad un caro amico.
Per anni si erano scambiati pettegolezzi succulenti, sin dal momento in cui erano venuti a conoscenza l’uno dell’altra ed Eris non poteva non aggiornarlo anche sugli ultimi sviluppi.
Non quando le era ormai chiaro che anche lui e tutta la sua stirpe ne sarebbero stati coinvolti.
Fremendo dall’eccitazione che il solo pensiero le scatenava si affrettò a raggiungere la vecchia sala che, un tempo, aveva ospitato gli esperimenti di un uomo che era quasi giunto a sfiorare il potere degli Dei, appropriandosi di una magia che l’aveva consegnato alla storia, lui e la sua degna rivale.
 
Anche se sarebbe corretto dire che Lei era molto più forte sotto molti aspetti.
 
Giunta di fronte alla sua meta Eris non dovette neanche schioccare le dita affinché le doppie ante si aprissero senza il minimo cigolio.
Sorrise radiosa e s’addentrò nell’antro buio come se fosse illuminato a giorno, evitando con facilità il mobilio ancora presente, puntando dritta verso il fondo della stanza dove sapeva esserci il giaciglio su cui, ne era sicura, il suo amico l’attendeva.
 
«Ho parlato con Ade! Anche con la sua consorte, a dire il vero, e con i gemelli della notte.» esordì ad alta voce. «Erano tutti lì riuniti, a rimuginare e cercare di capirci qualcosa, sai, sulla gara che è in corso ora negli Inferi, la starai seguendo mi auguro.» continuò con uno sguardo ammonitore. Solo un leggero sbuffo le arrivò di rimando, ma fu più che abbastanza per farla sorridere ancora.
«Ci sono cose poco chiare dietro questo nuovo reality show, che pareva incredibilmente logico e anche privo di possibili vittime, in un qualche senso. O per lo meno, vittime vive. Di vittime morte, fiuuu- quante ne vuoi, ma servivano al gioco, quindi pace.»
Passò di fianco ad un tavolo da lavoro, sui cui erano allineati alambicchi polverosi e storti, una sfera di cristallo rotta ed un paio di guanti di pelle nera senza dita. Li sfiorò a mala pena, la scossa che ne ricevette la fece gongolare solo di più.
«In ogni caso, ciò che so io, per ora, è più che sufficiente ad attirare la mia attenzione e farmi immediatamente firmare per arruolarmi! Olimpo, era da anni che non mi sentivo più bruciare così.» si fermò un attimo sospirando, la mano premuta sul cuore come cercasse di contenere l’emozione.

«Dev’essere un gioco molto emozionante, se è in grado di ridurti in questo stato.»
La voce dell’altro arrivò bassa e suadente, quasi sibilante come quella di un serpente.
Eris riaprì gli occhi, due sfere verdi scintillanti che galleggiavano nel buio, proprio come le aveva viste Eolo nella sua sala di registrazione.
«Oh, non ne hai idea, mio caro.»
«Sai che questo genere di cose mi incuriosisce sempre. Ambiguità vestita da perfezione, morti che competono per la vita. Ma perché tocca te così tanto? Così nel profondo?» domandò curioso.
La Dea si avvicinò di più fino a poggiare la mano sulla testiera del triclinio sui cui l’altro era adagiato.
«Toccherà anche te, quando ti avrò detto chi ha mosso le fila per dare il via a questa sceneggiata e chi le sta muovendo da dietro il sipario.» C’era un ghigno nella sua voce, lo stesso che le tirava le labbra in uno squarcio ferino, affamato.
Si sedette nel posto che le era stato lasciato libero, piegando una gamba sul vecchio materasso di crine e stringendosi la caviglia con entrambe le mani, per cercare di calmare il tremore che le scuoteva, tanto era incontenibile il fuoco che l’animava.
«Chi?» chiese lui a bassa voce.
Quel suo sorriso folle le stava facendo dolere le guance, ma la dea non vi prestò la minima attenzione.
«Da quanto tempo è che non vedi tuo nipote?»
 
Davanti a lei, nel buio assoluto di quello che un tempo era stato il laboratorio delle pozioni del mago più famoso al mondo, due piccole scintille apparvero a mezz’aria, epicentro luminoso di fari verdi che s’accesero come le torri che i mortali utilizzavano per scacciare l’oscurità dai mari.
Quegli occhi che la fissarono, accecanti come solo i suoi potevano esserlo, furono tutto ciò di cui ebbe bisogno prima di scoppiare in una fragorosa risata acuta.
 
Anche il suo compagno avrebbe presto condiviso la sua stessa impazienza.
 
L’altra belva dagli occhi verdi la fissava affamato, come solo inganno e caos potevano esserlo difronte ad un’insinuazione che apriva le porte a così tante vie.
 
Tutte le Vie.
 
 
*



Era un illuso. Si era detto di sapere cosa stava facendo, cosa avrebbe fatto, come avrebbe fatto. Si era detto d’aver tutto sotto controllo, che il suo piano poteva funzionare e avrebbe funzionato e che, una volta messe a posto le cose, sarebbero potuti andare avanti senza problemi, senza doversi guardare indietro, senza più quell’onta a marchiargli a fuoco la coscienza. Ma si era illuso.
Nathan si morse la guancia con forza, gli occhi azzurri spalancati sul raggio di luce incandescente che inghiottiva i due corpi davanti a lui, senza riuscire a distogliere lo sguardo, malgrado il modo vergognoso in cui aveva iniziato a lacrimare.
Strinse il corpo svenuto che aveva tra le braccia. Cade pareva una bambola di pezza senza vita, un manichino simile a quelli che aveva usato per anni al Campo durante gli allenamenti, le esercitazioni di salvataggio. Solo che quella volta non c’era stoffa e paglia, non c’erano automi mal riusciti a cui i figli di Efesto avevano ormai rinunciato; c’era un’anima, un essere umano svenuto, debole, ferito, indifeso.
 
Che se solo fosse sveglio, ora, sarebbe un bel problema da tener fermo.
 
Dubitava che da solo Cade sarebbe riuscito a riprendersi in poco tempo e se la situazione fosse stata diversa non si sarebbe minimamente posto il problema perché aveva ben due figli di Apollo a cui affidare le sue cure. Se la situazione fosse stata diversa.
Perché Nathan aveva fatto in tempo ad afferrare l’irlandese, ad assicurarsi che Eliza, Jane, Úranus e Lea stessero bene, di aver superato il ragazzino in modo che non si trovasse troppo vicino al fottuto raggio della morte, che avesse tutto il tempo di tornare indietro e correre su quelle dannate gambette da fenicottero che si trovava. E invece era andato tutto a puttane.
Se fosse stato ancora vivo avrebbe giurato che quella scena se la sarebbe sognata per tutte le notti a venire fino alla fine dei suoi giorni. Nathan aveva provato quello che poteva essere descritto come puro e semplice terrore nel momento in cui, girando su sé stesso dopo aver afferrato saldamente Cade, si era reso conto che Jonas non si era fermato, che aveva proseguito la sua corsa e aveva fatto l’unica cosa più stupida di fidarsi di Cade Griffith che avrebbe mai potuto fare in vita – o morte – sua: si era lanciato nel raggio.
Una parte piccola, lontana e sibilante della sua mente, la parte logica che spesso aveva zittito nei momenti in cui ciò gli serviva veramente era solo abbassare la testa e menar duro, gli aveva sussurrato che quella fosse l’unica cosa sensata da fare: avevano visto come l’occhio di Sauron si fermasse non appena catturata un’anima, come si accanisse su di lei fino a consumarla e lasciarsi dietro solo polvere e puzza di bruciato. Il fascio di luce non si spostava all’impazzata, arrostendo un po’ qualcuno a destra e un po’ a sinistra, no, prendeva un’anima alla volta. Quindi era logico pensare che se, durante un inseguimento di un gruppo di anime, il Guardiano ne fosse riuscito a toccare una, avrebbe fermato la sua folle corsa verso le altre, permettendo loro di scappare.
 
E deve averlo pensato anche quella testa di cazzo.
 
Se lo sarebbe aspettato da chiunque un gesto del genere. Okay, non proprio da chiunque, non dalla pazza, per esempio, ma neanche da Jonas, non dal ragazzino che aveva paura di tutto e che pretendeva di non averne solo per soddisfare quell’eterno desiderio infantile e maschile di dimostrare a tutti che nulla poteva veramente toccarlo, che era un bambino grande ormai.
Ma mentre Nathan guardava il suo corpo andare a fuoco, bruciato da una luce tanto accecante da lasciar macchie azzurrognole impresse nella retina inesistente dei suoi occhi, non riusciva a far altro che pensare a come quel “bambino grande” avesse appena dimostrare di essere immaturo, stupido, un grandissimo deficiente convinto che l’unico modo per salvare tutti gli altri, qualcuno a cui evidentemente credeva di dover qualcosa, fosse sacrificando sé stesso.
 
E lui, dopo me, è quello che ha più senso torni sulla terra visto che è crepato prima ancora di arrivare alla maggiore età.
 
Invece aveva deciso di stupirli, il cretino, di dimostrar loro di essere cambiato, di non esser più il codardo che i tre Giudici avevano visto in lui, di “redimersi” dai suoi peccati e qualunque altra puttanata avesse pensato in quel momento.
Nathan non vedeva redenzione, vedeva solo un bambino, l’ennesimo, morto per colpa di un capriccio divino, andato a morire con la convinzione che quello fosse il suo destino.
Dei… se Cade fosse stato sveglio avrebbero dovuto placcarlo a terra per non farlo correre nel fascio di luce, perché era sicuro che l’altro l’avrebbe fatto, da lui se lo aspettava.
Eppure Nathan aveva fatto male i suoi conti, doveva ancora farci l’abitudine e forse, a questo punto, non gli sarebbe più servito farla, perché la terza ed ultima persona da cui non si sarebbe mai aspettato un gesto tanto folle e altruistico come buttarsi letteralmente nelle fiamme, era l’anima che invece l’aveva fatto, per giunta, nel palese tentativo di salvare chi vi era già dentro e non chi ne era scampato.
 
Cicno. Dannato greco.
 
Non sapeva perché l’avesse fatto, non aveva la più pallida idea del perché un essere con un così alto senso di autoconservazione e una così alta possibilità di vittoria si fosse tagliato le gambe in quel modo. Si era praticamente suicidato.
 
Di nuovo.
 
Quel pensiero sarcastico e caustico gli passò per la mente leggero e fugace, per poi scomparire nel nulla, divorato da quelle stesse fiamme che stavano divorando i loro compagni.
Tutto quello che poteva sperare era che sapesse ciò che stava facendo, che si fosse mosso con un proposito concreto e non per colpa dell’istinto, del senso del dovere o per qualche assurdo legame che quei due condividevano come dannati o-
-o per colpa dei bracciali?
Se avesse avuto ancora sangue caldo nelle vene, e forse lo era ancora, o di nuovo, in quel momento si sarebbe gelato.
I doni dei gemelli della Notte, doni così chiamati perché si presupponeva dovessero essere grati a chi li aveva ricevuti, avevano probabilmente spinto alla morte le due anime che li possedevano. Che fosse stato nella speranza di lavare le proprie colpe, nella convinzione di poter aiutare, mostrandosi coraggiosi, chi l’aveva sempre difeso, o che fosse stato per una motivazione istintiva, illogica, immotivata e forse anche rimpianta, ormai non aveva più importanza.
Nathan riuscì finalmente a chiudere le palpebre.
Anche ad occhi chiusi, la luce era tutto ciò che ormai riusciva a vedere.

 
*


 
Era stato come aprire gli occhi e tornare alla luce dopo esser stati immersi sotto la superficie opaca dell’acqua. La risposta a quella domanda gli era balenata in mente con una lucidità che non si sarebbe mai aspettato.

Correva a perdifiato, la terra battuta che si alternava alle strade lastricate delle vie principali, la gente attorno a lui chiacchierava animatamente come sempre durante quell’ora del giorno.
I suoi piedi erano piccoli ma svelti, le gambe magre ma scattanti, se si fosse fermato sarebbe stato perso.
Quando svoltò l’angolo era più alto di mezzo metro, si gettava occhiate furtive alle spalle, le ombre di quei due giovani erano lontane ma sapeva che nel momento in cui fosse giunto a destinazione non ci sarebbe stato nessuno a proteggerlo, solo la sua lingua tagliente e i doni del suo sangue divino.
Varcata la soglia della grande dimora, irrompendo nel giardino ben curato, era un giovane uomo e l’odore del vino era così forte da esser quasi nauseabondo. Quella volta non avrebbe avuto scampo, se non avesse scelto uno di loro, qualcuno a cui dare l’illusione di essere il prescelto, d’aver ogni diritto su di lui, si sarebbero tutti alleati per ottenere ciò che volevano e nessuno si sarebbe risparmiato. A quel punto sarebbe stata la sua vita o la loro.
Poi l’aveva visto.
Era un giovane di bell’aspetto, seppur un po’ semplice. Aveva lineamenti decisi ma ancora fanciulleschi, occhi caldi, capelli ricciuti e scompigliati.
Gli aveva sorriso voltandosi nella sua direzione e s’era congelato scrutandolo ben in volto. L’aveva visto battere le palpebre più e più volte e poi, imbarazzato, presentarsi e chiedergli a sua volta chi fosse, perché scappasse, se non fosse in pericolo.
Era stato lesto, al tempo, a rifugiarsi tra le braccia dello sconosciuto e chiedergli, con voce tremula che sapeva avrebbe smosso il lato protettivo dell’altro, di fingere d’essere un suo compagno, di fingere di essersi accompagnato a lui per quella notte.
 

"Ve ne sarei infinitamente grato. Mi salvereste da mani rozze e volgari obblighi."
"Basterebbe questo, a salvarvi dalle vostre pene?"
"Non potete neanche immaginare quanto questo significherebbe per me."
 

L’aveva capito poi, quando erano giusti un paio di vecchi uomini di rinomata fama, ubriachi e seguiti da valletti dalle facce timorose ma in un qualche modo abituate a quelle scene.
L’aveva capito quando quelli gli avevano chiesto se non fosse il fortunato vincitore di quella notte, quando avevano riso augurandogli di godere di ogni momento, perché difficilmente avrebbe potuto mai ritrovare qualcuno in grado di scaldare il suo giaciglio come avrebbe fatto il giovane che teneva tra le braccia.
Era stata forse l’espressione di malcelata rabbia, l’umiliazione nel sentirsi appellare come fosse una prostituta di basso rango, ad aver convinto lo sconosciuto a tener in piedi quel gioco.
Rimasti soli era regnato il silenzio tra di loro, finché il suo salvatore non gli aveva chiesto se non avesse piacere a visitare il resto dei giardini con lui.
 
Camminare tra la natura era sempre stato qualcosa di rilassante, lo ricordava ancora malgrado fossero passati millenni dall’ultima volta che aveva visto della vegetazione viva e non quella morta, scura e luminescente dell’Ade. Gli aveva sempre portato consiglio, aiutandolo a liberare la mente e forse, se quello che gli era stato detto in vita era vero, i boschetti dei Campi Elisi avevano influito su di lui anche se a separarli vi erano le mura più alte che anima umana avrebbe mai potuto osservare.
Era stato banale, quasi ovvio, a ben pensarci.
Aveva fatto, in vita, l’unica cosa per cui valesse la pena essere perdonati?
Se avesse dovuto scommettere, senza il minimo indizio, sarebbe scoppiato a ridere come non faceva da tempo perché no, Dei dell’Olimpo, no, assolutamente no, non c’era una singola azione nella sua vita che potesse concedergli il perdono supremo, l’assoluzione da ogni male.
Quindi perché si era buttato in quel raggio luminoso se era certo che nulla l’avrebbe potuto aiutare?
Perché in una piccola, piccolissima e profondissima parte della sua mente la sua coscienza gli aveva domandato se non ci fosse almeno qualcosa di buono in lui, nel suo passato, almeno una cosa buona, una cosa per cui nessuno avrebbe mai potuto criticarlo ma magari comprenderlo?
Oh, la lista di cose per cui esser criticato era lunghissima: le sue azioni, i suoi piani, i suoi intrighi, le sue prove ed il sangue che gli sporcava le mani. L’avevano accusato d’essere un traditore, un bugiardo, di essere un tiranno crudele e di essere un mostro. D’essere egoista e vanitoso, di essere ingordo, peccare di lussuria, di cupidigia di qualunque parola potesse indicare la sua inestinguibile fame di potere.
Era il responsabile della morte di molti, della disperazione di tanti altri, di quella dell’unica donna che l’avesse mai amato e che ora, davanti ai suoi occhi spalancati nel fuoco, piangeva la sua perdita, la sua morte prematura.
Il velo nero non faceva altro che accentuare il suo pallore, l’ombra che le gettava sul volto non nascondeva lo scintillio delle lacrime, il rossore dei suoi occhi.
Eppure, nel dolore straziante che quel visto gli procurava, Cicno avrebbe solo voluto urlarle contro, gridarle che l’aveva esposto e venduto come un gioiello prezioso per tutta la vita e che solo alla sua scomparsa si era inginocchiata a piangere per lui. Aveva pianto per la sua morte ma mai per la sua dannata vita, mai per tutto ciò che aveva dovuto subire in tutti quegli anni.
Ma Cicno la amava. Amava sua madre come solo un figlio può amare e se erano grida di rabbiosa disperazione quelle che voleva rivolgere alla donna, certo non avrebbe mai voluto vederla morta.
Non riusciva a chiudere gli occhi, non riusciva a smettere di fissare il suo volto mentre molti altri gli vorticavano attorno.
Erano centinaia, tantissimi visi che lui sapeva d’aver conosciuto in vita ma di cui non ricordava spesso il nome o le fattezze originarie.
Quel che era certo però, era che finalmente i suoi fantasmi avevano spazzato via quelli di Jonas, che gli si stringeva al petto come un infante, singhiozzando e chiedendo scusa per colpe che non erano sue, che non lo sarebbero mai potute essere. Ma Cicno capiva, capiva che forse alcuni di quei comportamenti li aveva avuti anche lui, se per fingersi più simile a ciò che il suo popolo si aspettava da lui, per educazione o per vera credenza, lui non poteva saperlo, però capiva.

Saresti potuto essere tu, vero? Saresti potuto essere tu al loro posto, o al mio.
 
Quel pensiero lo sfiorò leggero e Jonas si spinse ancor di più contro il suo petto, quasi gli volesse entrare dentro.
Oh, lo capiva quindi, lo sentiva. Ma certo, che sciocco che era stato a dubitarne. Così come lui poteva sentire i tormenti del giovane così l’altro poteva sentire i suoi.
Sciocca era stata anche la sua reazione, così impetuosa e immediata, nel momento in cui aveva capito cosa chiedesse il Guardiano degli Elisi.
L’unica cosa per cui valesse la pena vivere, l’unica cosa buona che aveva fatto Cicno in vita sua.
 
Ma ho sbagliato anche lì, lo so. Sono riuscito a peccare anche nell’unica cosa degna del perdono supremo.
 
Perché Cicno era riuscito a fare anche quello nel modo sbagliato.

Con gli occhi spalancati nel fuoco purificatore del Guardiano, Cicno cercò di pensare nel modo più lucido possibile, per quanto glielo permettesse quell’assurda situazione.
Non era certo la prima volta che veniva torturato con delle fiamme, che fossero queste di fuoco greco o di banale fuoco mortale, per decenni si erano susseguiti nel suo girone torturatori amanti delle ustioni, dei roghi. Oh, se solo fossero stati ancora capaci di morire, quanti dei suoi compagni sarebbero periti in quelle grandi pire che venivano innalzate nella sua terrazza.

La mia personale, personalissima terrazza.
 
Puntò lo sguardo tra la figura di sua madre e quella del bel giovane che lo fissava orgoglioso, lasciando sfocare la vista, lasciando che tutto s’appannasse. Non doveva guardare nessuno, non doveva concentrarsi su nessuno. Aveva passato di peggio, gli avevano inferto dolori più grandi di uno stupido falò.
Serrò la mascella e iniziò a respirare piano, cercando di entrare in quello stato di trance che aveva imparato ad assumere nei secoli di tortura, per sfuggire ad ogni male. Doveva trovare quella sottile connessione che gli era stata imposta da quando aveva lasciato i cancelli neri, quando era stato legato a Jonas. Il ragazzino percepiva i suoi sentimenti, le sue emozioni, ma non erano chiare, non erano lineari e soprattutto, non erano moderate. Probabilmente in quel momento si stava perdendo nei meandri del dolore che aveva inferto agli altri. No, non era dolore, o almeno, il dolore era solo il risultato finale.
Si costrinse a rallentare ancora di più il respiro, a diminuire la quantità di aria incandescente che andava riempiendo i suoi polmoni vuoti. Piano, piano, sempre più piano. Doveva ricordare al suo corpo, no- alla sua anima, che omani non avevano più bisogno d’aria per sopravvivere.
 
Sono morto. Sono morto.
 
Un basso ronzio iniziò a sfiorargli i timpani, un suono di sottofondo che lentamente mangiava il crepitio della luce, lo sfrigolio della carne arsa.
C’era uno spazio, tra quel suono, come una fessura tra due mattoni. Dietro di essi, nascosto per bene ma non completamente isolato, c’era il suo obiettivo.
 
“Jonas?”
 
Provò a chiamare con voce ferma.
Non ottenne alcuna risposta e provò ancora.
 
“Jonas?”
“Jonas.”

 
Un tremulio, qualcosa oltre la fessura, captò la sua voce, ma era come se non capisse davvero se fosse reale o meno. Non c’era abbastanza spazio e Cicno lo sapeva, l’aveva sospettato.
Il Guardiano stava concentrando il suo occhio su di lui sempre più, probabilmente perché ciò che c’era da giudicare, da scandagliare, era molto di più e molto più torbido di quanto non ci fosse nella breve e sciocca vita di quel giovinetto. Ma in quel momento non c’era tempo per quelle riflessioni, non c’era tempo per parlargli con gentilezza, per convincerlo ad accostare l’orecchio al muro e credere che i suoni che vi filtravano oltre fossero veri e non frutto della sua immaginazione.
Doveva allargare la fessura.
 
Bisogna infilare il coltello più in profondità, per estrarre la punta della freccia.
 
Avrebbe fatto male? Sì, probabilmente sì. Il ragazzino avrebbe potuto sentire altri frammenti del suo dolore e magari esserne anche sopraffatto, ma se non si fosse sforzato di sopportare un po’ non sarebbe mai potuto scappare da lì.
 
Nessuno dei due potrà farlo.
 
Così si protese verso Jonas, protese la sua anima, i suoi ricordi, il suo dolore e vi si spinse senza pietà.
I mattoni tremarono, la fessura s’allargò, la stretta delle mani di Jonas sulla sua pelle si fece più feroce, le unghie gli si conficcarono nella pelle, graffiandola via.
Scavava senza remore, cercando di contenere un male da cui prima gli era stato fatto scudo con tanta forza e che ora invece gli veniva offerto su di un piatto d’argento, come fosse la principale portata di un banchetto che non poteva rifiutarsi d’assaggiare.
La rabbia cocente bruciava più del fuoco, i sentimenti che si susseguivano, onde e onde di risacca lavica che si abbatteva sulle sue gambe come fosse stato immerso in un mare di plasma, erano ben diversi gli uni dagli altri, ma avevano tutti la stessa matrice: desiderio.
Che fosse possesso, che fosse gloria, fortuna, fama o puro piacere, tutti i sentimenti che traboccavano su di lui nascevano dal desiderio di ottenere qualcosa che avrebbe reso quella persona felice.
Sì, avrebbe reso altri felici, ma non lui.
 
No, non me. Cicno.
 
Cicno?
 
“Jonas.”
 
La voce arrivò bassa, piatta, priva di qualunque intonazione.
Jonas allargò le mani solo per poi riaffondare le unghie ancora e ancora sui solchi che aveva già scavato.
Come si poteva soffrire così tanto e non impazzire? Come si poteva rimanere vivi?
 
Ma lo siamo forse? Siamo vivi o siamo morti?
 
“Ascolta la mia voce. Segui i miei comandi.”
 
La voce di Cicno gli parlò ancora, ma Jonas non sapeva sinceramente se fosse vero o se si stesse immaginando tutto. Forse era davvero impazzito dal dolore.
 
“Devi allentare la presa, discostati da me. E quando non saremo più in contatto ti sarà più facile fuggire dal Guardiano.”
 
Fuggire. Sì, gli sarebbe proprio piaciuto fuggire da quel dolore. Sarebbe stato bellissimo.
Ma- da solo?
 
Insieme?
 
“No. Non possiamo fuggirgli entrambi.”
 
No. Allora no. In quel caso non se ne sarebbe andato.
Jonas spinse la testa contro il torace di Cicno, cercando disperatamente di stringerlo ancora di più a sé.
Si era buttato in quel dannato fascio di luce per salvare i suoi compagni, per dimostrare loro di essere utile a qualcosa, di essere coraggioso. Per dimostrare a tutti che non era più il codardo di un tempo, quello che aveva rubato la pistola a suo nonno e- non era più un codardo. Jonas non era un codardo.
 
Non scapperò più, se continuo a farlo ora, qui sotto, che speranze ho di sopravvivere sopra?
 
“Se non ti allontani ora non arriverai mai su. Né in questa vita né in un'altra.”
 
La sua voce era calma, logica, gli ricordava tutte quelle volte in cui gli aveva parlato con gentilezza, cercando di spiegargli qualcosa di semplice o complesso, di quietare tutti i suoi tormenti. Come poteva essere così tranquillo ora, in quel dannato rogo?
Cercando di assicurare la presa sul suo compagno Jonas si ripeté mentalmente le parole di Demetra, più e più volte.
Cosa diamine valeva l’assoluzione da tutte le colpe?
Cos’era l’unica cosa che valeva il perdono? L’unica cosa giusta, che tutti avrebbero potuto fare in vita?
Non lo sapeva, il calore era troppo forte, il dolore, seppur riflesso, affilato come una lama. Pesante come una pistola stretta in mano, puntata alla testa.
Cos’era? Cos’era? Cicno lo sapeva? Si era buttato nel fuoco perché lo sapeva o solo per colpa del loro legame?
 
Lo sa?
 
“Sì. Lo so. Ora lasciami andare.”
 
Quella rivelazione portò un po’ d’aria fresca sotto il getto bollente della luce del Guardiano.
Cicno sapeva come liberarsi, quindi non era stata colpa del legame, aveva un piano. E se aveva un piano forse poteva fidarsi, forse poteva allentare la presa, scostarsi. Forse poteva lasciare che fosse il greco a pensare a tutto, a sfuggire al Guardiano. Lui poteva andarsene, smettere di soffrire e lasciare che-
 
Lasciare che siano altri ad affrontare quello che verrà dopo che me ne sarò andato.
Di nuovo.
 
Il muro che li divideva s’incrinò ancora di più, i mattoni iniziarono a tremare mentre una rabbia sorda, così diversa da quella che filtrava da Cicno, l’avvolse come una corda. Stretta al collo.
Era questo dunque? Si era buttato in quel cazzo di raggio per dimostrare a tutti di non essere più il ragazzino codardo che era alla sua morte, per fare la cosa giusta per una volta e dare ai suoi compagni, ai suoi amici, una possibilità in più e poi? Poi qualcuno gli proponeva ancora una via di fuga e lui non ci pensava due volte ad accettare. Poi qualcuno gli dava la possibilità di sollevarsi da ogni decisione, alle conseguenze delle sue azioni, delle sue scelte, e lui accettava di nuovo la via più semplice.
No. Oh no, sarebbe stato dannato se avesse di nuovo scelto di scappare, se avesse di nuovo abbandonato qualcuno che soffriva come lui, che soffriva più di lui.
 
Se avesse abbandonato qualcuno nella sua stessa situazione invece di rimanergli vicino e affrontare il domani insieme.
 
La rabbia montò prepotente nel suo petto, il ruggito del fuoco che li avvolgeva si fece più profondo, intermittente, come la risata baritonale di un uomo. Che stesse ridendo di lui, della sua debolezza o che stesse ridendo per lui, per aver finalmente realizzato quale fosse la scelta giusta – giusta, non semplice, non di nuovo – Jonas non lo sapeva, ma gli diede uno strano brivido che l’aiutò a distaccarsi per un attimo dalla bolla di luce in cui si trovava.
Aprendo gli occhi a fatica, fra le fiamme, Jonas giurò di poter vedere un uomo, vestito in un lungo cappotto nero, scuro come i suoi capelli, come il sigaro che teneva tra le labbra tirate in un ghigno ferino. Era strano come riuscisse ad individuare il tizzone bollente tra le ondate di calore che gli sfocavano la vista, ma il suo cervello registrò solo marginalmente quell’informazione, perché tutta la sua attenzione, tutta la sua rabbia e la sua determinazione, si congelarono per un lungo momento quando incontrò gli occhi dell’uomo.
Occhi così non ne aveva mai visti in vita e neanche nella morte. Brillanti, accesi dai riflessi caldi delle fiamme contro la superficie lucida e inscalfibile dell’oro.
La risata si fece più alta, più profonda, come un eco. Cercava di dirgli qualcosa, cercava di spingerlo alla soluzione giusta, gli pareva quasi di poterlo sentire sussurrare.
 
 
Quasi. Ci sei quasi ragazzino. Vicino, ma non abbastanza.
 

Ma chi era? E perché voleva aiutarlo?
Aspetta- un uomo vestito di nero, con un sigaro, che spia da lontano, che aiuta-
Era lo stesso uomo che avevano visto gli altri? Perché li aveva aiutati? Perché continuava a farlo?
 
 
Perché è utile.
 
A chi?
 
A me.
 
Il brivido freddo si estinse, la rabbia lo riavvolse ancora.
La rabbia era positiva, la rabbia lo faceva ragionare più lucidamente, per quanto paradossale potesse essere. La sentì pizzicargli sulle braccia bruciate, sulle guance asciugate dal calore mortifero del Guardiano.
Utile per lui, per quel signor nessuno.
Così come la sua morte era stata utile solo a sé stesso. Così come quello stupido gioco era utile solo alla noia degli Dei.
Nathan aveva ragione, non era magnanimità quella che aveva mosso l’Olimpo nell’ideare questa gara, non era la volontà di dare una seconda possibilità ad un’anima meritevole.
Era per il loro divertimento. Era per l’utilità di qualcuno che si era divertito a guadarli camminare sul ciglio di un burrone per poi scostarli dal baratro solo quando pensava che cadendo avrebbe perso delle pedine.
Oh, Jonas era stato una pedina per tutta la vita, eseguendo gli ordini, cercando di ballare a ritmo di una coreografia che gli stava stretta, che non era stata scritta per lui. Era stato un personaggio in una tragedia più grande di qualunque uomo e alla fine era morto per colpa sua e sua soltanto, per colpa della sua paura, della sua codardia.
 
La paura di essere scoperto è stata più grande della voglia di vivere.
 
E la cosa lo nauseava come mai aveva fatto prima d’allora.
Aveva cercato di mettere le cose in ordine, di fare finalmente la cosa giusta e anche nel suo primo, vero ed unico atto eroico – decente – si era ritrovato a stringersi disperato al corpo di un altro interprete. Perché ancora una volta non era riuscito a sopportare a pieno le conseguenze delle sue azioni, delle sue scelte.
Cicno l’aveva raggiunto per salvarlo, ancora, come tutti facevano da quando si erano uniti in quello strano gruppo e malgrado stesse soffrendo, malgrado ci fossero più volti nel suo passato rispetto a quanti non ce ne fossero nel proprio, gli stava comunque offrendo una via d’uscita, un modo per scappare, di nuovo, dalle conseguenze. 
 
Vicino, così vicino, ma non abbastanza, mai abbastanza.
 
Utile. Utile per gli altri.
 
Forse, si disse Jonas con rabbia, era arrivato il momento di fare davvero qualcosa di utile per gli altri. Qualcosa di basilare, di semplice, di stupido e scontato come il non andarsene.
 
Non poteva vedere davvero oltre il raggio di luce, oltre quel faro che era il Guardiano. Non sapeva quanto fosse distante dal porto sicuro, ma sapeva invece che il suo compagno poteva scorgere la terra ferma oltre il mare in fiamme.
Doveva solo fidarsi di Cicno e rimanere al suo fianco.
 
 
«Andrà tutto bene, vedrai che le cose si sistemeranno. L’importante è non perdere la speranza, non lasciarsi sopraffare dalla paura. So che ne usciremo, insieme.»
 
 
«Cicno?» mormorò con voce rauca, le labbra secche come d’estate, spaccate come d’inverno.
Sentì una leggera carezza alla testa e non cercò di alzare il capo per guardarlo, tenendo gli occhi fissi sulla figura fantasma dell’uomo vestito di nero, che da lontano continuava a sorridergli.
Era forse un dio? Chissà di cosa.
«Allenta la presa, va tutto bene.» gli rispose lui di rimando.
Ma Jonas dissentì con un gesto secco. «Cos’è? Dimmi cos’è. Possiamo farcela anche in due.»
Per un lungo momento il greco non gli rispose e lui si ritrovò ad aspettare con il fiato in gola, quasi timoroso che l’altro rifiutasse il suo aiuto, che lo costringesse ad allontanarsi così come aveva fatto poco prima.
Non voleva abbandonarlo, non avrebbe voluto abbandonare i ragazzi, che sapeva essere assieme e capaci di difendersi, figurarsi abbandonare lui in quell’inferno.
 
Anche se tu ci vieni dall’inferno, vero?
 
«Non scapperò.» disse ancora. «Non questa volta. Mai più. Mai più la via più semplice.»
L’ultima parola fu poco più di un sussurro, ma Cicno dovette averla sentita chiaramente perché le dita affusolate ebbero un tremito, l’eco di un ricordo che solo lui poteva conoscere, poteva capire.
«Cos’è l’unica cosa per cui vale la pena essere perdonati?»

Le fiamme crepitarono sulle loro pelli, Jonas non sapeva cosa stessero facendo gli altri fuori dal raggio del Guardiano, non sapeva se fossero vivi, se fossero al sicuro, se stessero cercando di aiutarli, di tirarli fuori di lì o se fossero stati costretti a combattere contro altre guardie dell’Ade.
Non sapeva se Cade fosse ancora svenuto, se Lea fosse riuscita a farlo riprendere, se le sue condizioni fossero gravi, se la figlia di Apollo fosse riuscita a passare il varco oppure no. Se Nathan fosse ancora lì fuori ad aspettare il suo riscatto o a guardarli bruciare impotente. Non sapeva se Jane riuscisse a scorgerli o se tutto quello che riuscisse a vedere fosse la sua stessa morte. Non sapeva se Eliza avesse dovuto trattenere altri dal gettarsi nel fuoco, se non avesse cercato lei stessa di raggiungerli, di toccarli.
Non sapeva nulla se non che quell’uomo lo fissava da lontano e che Jonas, per una volta nella vita, aveva tutta l’intenzione di ripagare le sue aspettative e di fare esattamente quello che lo sconosciuto voleva: uscire di lì con il suo compagno, senza lasciarsi nessuno alle spalle, affrontando di petto il futuro e tutte le prove a venire.
 
Cos’era l’unica cosa al mondo per cui valeva la pena essere perdonati?
 
Oh, è abbastanza scontato se ci pensi, ragazzino. Tu ci sei morto.
 
Cosa?
 
Lui c’era morto? Per cosa era morto Jonas?
 
Un leggero movimento attirò d’improvviso la sua attenzione.
Cicno chinò la testa verso la sua, fino a sfiorargli l’orecchio con le labbra spaccate.
 
«In questo caso,» sussurrò, «dimmi che hai amato, figlio di Photos. Dimmi che hai amato e che sei stato amato, o impara a farlo ora.»
 
Avete fatto, in vita, l’unica cosa degna, per ambire al perdono? 

Hai mai amato, Jonas Frederich?
 
Oh.
 
 
*



Stava vivendo un incubo ad occhi aperti, qualcosa che non si sarebbe mai aspettata di provare in una situazione del genere. Da morta. Durante una gara.
Eppure Eliza se ne stava ferma immobile, in ginocchio, con le braccia abbandonate lungo i fianchi a fissare un fascio di luce potente come i fari di un treno, inghiottire completamente due dei membri più fragili del suo gruppo. Due che avevano già sofferto abbastanza.
Ad essere onesti, lei non poteva saperlo.
Era convinta che Jonas avesse assolto alle sue colpe già anni prima, la diserzione era una grande vergogna, ma da parte di un ragazzino, quando non era neanche stato chiamato alle armi, era un qualcosa di comprensibile, di giustificabile.
Cicno invece era tutt’altro discorso. Eliza non aveva la più pallida idea di cosa avesse fatto, di cosa si fosse macchiato le mani, ma erano secoli ormai che si trovava nei Campi di Pena e fuori da essi, in quel lungo tempo indefinito, si era dimostrato un valido compagno, un grande aiuto, una salvezza inaspettata. Era un dannato, non aveva vergogna o rimorso d’esserlo, eppure si era condannato a morte certa per cercare di recuperare Jonas.
Questo la feriva profondamente nell’orgoglio.
Se ci fosse stata lei al posto di Cicno, se non fosse stata impegnata a spingere Jane avanti a sé, se non avesse avuto Úranus e Nathan e Cade tra lei e Jonas, si sarebbe gettata anche lei nel fascio di luce per cercare di salvare il ragazzino?
 
Avrei accettato la sconfitta, la morte, la scomparsa definitiva della mia anima, per salvare un compagno?
 
A porsi quella domanda Eliza si riscosse da sola, animata d’improvviso di un senso di delusione verso sé stessa.
Certo che si sarebbe buttata nel fuoco, certo che avrebbe scommesso la sua anima per salvare quella di un compagno.
Eliza aveva fatto di tutto, in vita, per poter combattere per il suo paese, per il suo popolo, per i suoi compagni e al fianco di essi fino alla fine. Solo perché ora coloro che combattevano al suo fianco non indossavano la sua stessa divisa non significava che la loro vita valesse meno di quella dei suoi commilitoni. Non significava che la sua fedeltà verso di loro fosse più labile, più debole.
 
Fidati dei tuoi compagni come ti fideresti della tua famiglia. Loro sono tuoi fratelli, sono coloro con cui vincerai o al fianco di cui morirai. Per la patria, per la libertà.
 
Strinse i pungi ma non distolse lo sguardo dal raggio. Al limitare del suo campo visivo poteva scorgere delle sagome ben riconoscibili: quella di Nathan, seduto a terra con Cade ancora stretto tra le braccia e quella di Úranus, impietrito, ancora in piedi, proteso verso la luce.
Era successo tutto così velocemente, Eliza sapeva che non potevano essere passati che pochi minuti, ma le pareva d’esser rimasta lì, ferma immobile, per ore.
Era come fissare una casa andare in fiamme senza poter spegnere l’incendio. Come osservare una nave affondare senza poterlo impedire.
Era come guardare la fine con la consapevolezza della sua inevitabilità.
Solo che Elizabeth Reed non aveva mai aspettato che la fine arrivasse senza far nulla.
Aveva combattuto fino all’ultimo respiro, fino a che le gambe avevano retto, fino a quando la benedizione di sua madre non si era dissolta e il suo corpo aveva ceduto, ormai allo stremo, all’abbraccio della morte.
Elizabeth- no, Alexander Johnson aveva agito finché gli era stato concesso di farlo, finché era stato necessario.

Non mi sono fermata al tempo, quando erano centinaia i compagni che chiedevano aiuto, quando era consapevole di non poterli aiutare tutti. Non mi fermerò certo ora che sono solo due.
 
Stringendo le mani con forza le riaprì subito dopo di scatto, poggiando un piede a terra per potersi far forza ed alzarsi. 
Non sarebbe rimasta a guardare, non l’aveva mai fatto, non avrebbe iniziato quel giorno.

«Jane.» chiamò con fermezza.
La figlia di Ecate scattò sull’attenti come un soldato ben addestrato, animata da una spinta sovrannaturale che s’impose sul suo corpo come una magia.
«Sì?» domandò insicura.
«Che incantesimi conosci che possano spegnere un fuoco, portare oscurità o anche attirare corpi a te?»
La sua voce suonò imperiosa, vibrante di una malia che Jane non riusciva a comprendere ma che Úranus, ancora fermo immobile in piedi, capì perfettamente.
Quella era la voce di Nike, era il tono che tutti coloro che erano stati benedetti dalla Dea, o ne discendevano, erano in grado di usare sugli altri, sui sottoposti soprattutto, per comandarli, per potarli ad agire come un’unica armata, per portarli alla vittoria.
Non lo disse però, fissando invece Jane che la osservava senza sapere cosa rispondere, balbettando qualche parola senza senso nella speranza di ricordare qualcosa.
Eliza non sembrò curarsi di quel tentennamento e si volse invece verso gli altri.
«Nathan, porta Cade oltre le Porte, lascialo al posto di guardia di Shilon Yu. Lea, tieniti pronta ad agire velocemente, saranno entrambi coperti di ustioni, dovrai curare prima chi ripoterà le ferite peggiori e poi l’altro, ma non ci sarà tempo per prendere fiato.
Úranus-» chiamò rigirandosi anche verso di lui. «Mantieni la calma e tieniti pronto a scattare, noi prenderemo entrambi e li porteremo più velocemente possibile nei Campi Elisi. A te Jonas, a me Cicno, sono stata chiara?»
I suoi compagni la guardarono sbigottiti, Jane teneva la testa bassa cercando di riportare alla mente qualcosa di utile, Nathan, che fino a poco prima aveva tenuto gli occhi chiusi ed il capo chino verso Cade, ora la fissava spaesato.
«Cosa?» domandò solo battendo le palpebre.
Eliza lo guardò con durezza, rimproverandolo per quella confusione quando sarebbe dovuto essere il più reattivo e scattante ai suoi comandi.
«Prendi Cade, portalo in salvo.» scandì con fermezza.
Nathan batté ancora le palpebre. «Non posso passare, non sono stato benedetto.» cercò di spiegare.
«Non m’importa. Provaci lo stesso, se non ti fanno passare lascia Cade sulla soglia delle porte.»
«Ti faranno passare.» mormorò Lea tirandosi in piedi lentamente. «Non è mai stato detto che solo i benedetti dalle guardie potessero passare.»
«Allora vai, forza.»
«Ma non sono stato benedetto!» ripeté riprendendo forza
«Non è il momento opportuno per preoccuparsi di questo.»
«Sì che lo è! Non posso entrare negli Elisi così, non capisci? Mi hanno sconfitto, sono stato sconfitto! Tu più di chiunque altro dovresti-»
«Non è il momento!» gli urlò contro Eliza. «Non è il momento di pensare al tuo orgoglio soldato! Non è il momento di pensare alla gloria e all’approvazione di tuo padre! Siamo in una situazione critica, due nostri compagni sono imprigionati in un getto di fuoco, l’unico che potrebbe essere abbastanza veloce da portare tutti noi lontano dal pericolo- un pericolo che non possiamo combattere- è svenuto. Abbiamo tre feriti ed un solo guaritore. Uno di noi rischia di distruggerci tutti se non mantiene la calma e nessuno di noi è immune al fuoco. Non ho tempo per i tuoi piagnistei, Wright! Fai l’uomo ed esegui gli ordini!»
Nathan la fissò a bocca aperta, gli occhi verdi della donna sembravano venati d’oro, il metallo più prezioso, quello per i vincitori, per le coppe. Il colore della vittoria.
Eliza non gli aveva mai urlato contro in quel modo, non gli aveva mai urlato degli ordini, non aveva mai messo in dubbio il suo essere un buon soldato, il saper valutare cosa fosse più importante, cosa fosse giusto fare. Ma in quel momento l’aveva fatto.
Ingoiando tutto l’orgoglio ferito che si ritrovava in corpo, Nathan dovette ammettere a sé stesso che la compagna aveva ragione: era rimasto fermo immobile davanti al fascio di luce, ad occhi chiusi perché non poteva sopportare di vendere quei due corpi ardere vivi, con Cade svenuto tra le braccia senza poter far nulla per aiutarlo. Per aiutare tutti.
Non era così che si comportava un guerriero, non era così che comportava un soldato, un Marines. Non era così che sua madre l’aveva cresciuto.
Nathan era un leader nato, ma anche i leader, prima di diventare tali, avevano bisogno di sottostare al comando di altri. Anche i leader dovevano capire quando era il momento di fare un passo indietro e lasciare le redini a qualcuno che ne sapeva più di loro.
Una mano gli sfiorò il braccio.
Il figlio di Ares si volse a guardare Lea, che gli sorrideva tirata.
«Portalo in salvo. Non c’è niente di più onorevole del mettere sé stesse ed i propri desideri dietro alla vita di un amico.»
Aprì bocca per risponderle ma non trovò nulla da dirle. Annuì solo e si alzò in piedi, abbassandosi poi di nuovo per tirar su Cade, aiutato da Lea a sistemare meglio l’irlandese tra le sue braccia.
«Stai facendo la cosa giusta, tuo padre è il Dio della Guerra, come pensi che reagirebbe se sapesse che pur di raggiungere un obiettivo personale hai lasciato indietro un compagno ferito?» continuò la bionda spostando la sacca di Cade per mettersela lei stessa in spalla. «È la cosa giusta.» ripeté.
«Fai quello che puoi, aiutali. Io- io sarò sulla soglia, non ci allontaneremo da oltre il bordo, okay?»
I due si scambiarono un lungo sguardo, cercando di infondersi a vicenda un minimo di forza e di speranza, mentre più avanti Jane contava sulle dita gli incantesimi che conosceva e quelli che pensava di poter eseguire in modo corretto, o quanto meno decente, anche se non li aveva mai fatto.
 
«Acqua- penso di poterne creare una piccola quantità, ma non so se sono in grado di farne tanta da spegnere il fascio di luce.»
«Non credo servirebbe comunque. È un raggio divino, non è un fascio di fuoco.» mormorò Úranus.
«Se è luce e non fuoco sì, l’acqua non serve a gran ché. Puoi creare dell’ombra?» chiese veloce Eliza.
«Quello possono farlo i figli di Ade, quelli di Ipno. Di Nyx. Non so se Ecate-»
«Mia madre è la Dea della Magia, sono sicura che lei sarebbe in grado di farlo. Io? Non lo so.» ammise Jane scuotendo il capo. Spostò lo sguardo sul fascio di luce e aggrottò le sopracciglia. «Non sta durando troppo? Perché il raggio li sta- bruciando così tanto, perché non li ha già inceneriti?» domandò sospettosa.
Eliza annuì. «Non penso siano passati che dieci minuti, ma sì, l’altra anima che abbiamo visto è bruciata più in fretta, ma non sfidiamo la nostra sorte. Quindi? Ombre?»
Jane respirò a fondo e poi espirò pesantemente. «Non l’ho mai fatto, ma non avevo neanche mai fatto diventare invisibile una lama di mia spontanea volontà.» affermò infine con uno slancio di fiducia che forse non aveva mai sentito.
La figlia di Nike la guardò con serietà, ma nei suoi occhi brillava anche qualcosa come soddisfazione, orgoglio.
«Allora fai la tua magia, figlia di Ecate.»
Jane annuì secca e si voltò a fronteggiare la cascata di luce incandescente che investiva i suoi compagni, gli unici due che come lei avevano conosciuto solo dolore e tormento.
Poteva farcela, aveva già affrontato il fuoco, aveva già affrontato una colonna di fiamme che aveva inghiottito un corpo ardendolo vivo.
 
Ci sono già passata, so cosa si prova, so cosa avrei voluto sentire in quel momento.
 
Nulla.
Il silenzio contro lo sfrigolio della carne, contro le urla. L’immobilità contro l’arricciarsi della pelle, il contrarsi dei muscoli, lo sciogliersi della carne.
Il buio contro la luce fiammeggiante del suo personale rogo magico.
C’era nebbia attorno a lei, banchi di Foschia che Demetra aveva tirato su con uno schiocco di dita e che con altrettanta facilità aveva fatto crollare. Jane era riuscita a sfruttare quelle rimanenze prima, quando c’eran altri in pericolo, poteva farlo anche ora. Doveva farlo anche ora.
Non era stupida, si era resa conto che la sua magia aveva più probabilità di funzionare e farlo al meglio quando erano coinvolti anche altri, quando una sua azione serviva per proteggere, aiutare, salvare.
Doveva solo concentrarsi e fare ciò che secoli prima non era riuscita a fare: estinguere le fiamme.
 
 
Eliza fece un passo indietro ma si protese in avanti, pronta a scattare, a prendere Cicno e portarlo il più velocemente possibile al sicuro. Così, a veder lei, anche Úranus si mise in posizione, al suo fianco.
Alle loro spalle Lea si era fatta silenziosa, rigida, vigile. Gli occhi chiari scattavano con attenzione da una zona all’altra, controllando il perimetro visibile prima dei banchi di nebbia, controllando Nathan che si avvicinava sempre di più all’entrata dei Campi Elisi, controllando Jane stessa che prendeva respiri sempre più lenti, sempre più profondi, per poi fissare il fascio del Guardiano come se quella luce non la ferisse, come se essere figlia del Sole le avesse donato la capacità di fissarlo senza accecarsi.
Nathan intanto avanzava a testa alta, la mascella serrata, i denti premuti così forte gli uni contro gli altri da poterli quasi spezzare. Cade, tra le sue braccia, pesava esattamente come un corpo inanimato avrebbe dovuto pesare. Molle, abbandonato, instabile e al contempo manipolabile. Non si era ripreso, non accennava a volersi svegliare, a muovere un solo muscolo, ma Nathan sapeva che non era morto – ri-morto – che necessitava solo di riposo, di cure mediche.
 
Cure che probabilmente non gli potremmo fornire perché Lea dovrà occuparsi delle ustioni degli altri.
 
Ma non era compito suo pensare a Cicno e Jonas. A lui spettava portare Cade in salvo, spettava vegliarlo finché i loro compagni, tutti, non sarebbero giunti al traguardo di quella quinta dannatissima prova. A lui spettava solo guardare e aver fede e queste erano entrambe due cose a cui Nathan non aveva mai dato importanza, che aveva sempre disprezzato, delegato a terzi. Non gli era mai capitato di essere lui quello in panchina, quello a cui non era permesso scendere in campo e mentre avanzava sempre con più sicurezza e ritmo verso l’entrata delle Mura Bianche, si disse che aspettare faceva davvero schifo al cazzo.
 
 
La magia le formicolò sotto la punta delle dita, la sentì risalire verso i palmi scivolando tra le sue caviglie prima di arrotolarsi in volute fumose e proseguire il loro cammino. Incespicarono sull’orlo della gonna tagliata, sul vecchio grembiule logoro, sulle maniche squarciate e si legarono come un bracciate aderente ai suoi polsi.
Non doveva evocare nulla, non doveva creare nulla, doveva fare esattamente ciò che aveva fatto durante il duello con la guardia dell’Ade: nascondere qualcosa agli occhi di tutti.
Abbassò le palpebre e il mondo si tinse di nero.
Questo, era questo quello che doveva fare, generare buio nascondendo la luce. Doveva nascondere la luce crepuscolare dell’Ade e con questa quella accecante del Guardiano.
Doveva solo nascondere, non eliminare, non distruggere.
Nascondere la realtà come era stato fatto a lei per tutta la vita.
Nelle profondità della sua memoria la voce fastidiosa ed esageratamente acuta di sua cugina continuava a ripete la stessa frase.
 
“È lei la strega! È lei la strega”
 
Non avrebbe mai creduto che fosse così tanta verità in quelle parole, anche se non erano state riferite a lei. Ma Jane era la strega. Jane. Jane sola e nessun altro. Lei era la strega. Lei era la strega. Lei-
 
La magia si accumulò con prepotenza, scivolandole quasi di mano. Ad occhi chiusi Jane non poté vedere i muri di Foschia avvicinarsi sempre di più a loro, al Guardiano, ma sapeva che non era ancora il momento giusto, sentiva che non era ancora al massimo della sua potenza, al massimo delle sue capacità. Doveva aspettare ancora un po’, mentre la Foschia le si infilava silenziosa sottopelle e le si insinuava nella cassa toracica, raggrumandosi come un nugolo umido, impalpabile e gocciolante lì dove ci sarebbe dovuto essere il cuore.
 
Non ancora.
 
Non ancora.
 
 
Eliza iniziò a fremere. Le Foschia si era avvicinata, continuava ad avvicinarsi e lo stava facendo ad una velocità sempre maggiore.
Era una sensazione che non le piaceva, come se ci fosse qualcosa che stesse risucchiando tutta l’aria circostante verso di loro e per quanto spiacevole fosse era anche famigliare.
Come un fulmine a ciel sereno le tornò in mente quello strano fenomeno nell’Area Cani, quel vento che tirava verso il Tartaro che a sua volta aspirava ogni cosa verso sé.
Quindi era stato questo? Magia? Quello strano evento inspiegabile era stato generato da un grande rilascio di magia? Ma perché, chi era stato? E soprattutto: a cosa gli era servito?
Spostò solo gli occhi, cercando lo sguardo Úranus, sperando di scorgere in lui la stessa consapevolezza, ma l’uomo era rigido nella sua postura, le pupille rimpicciolite come teste di spillo, il fiato corto e la pelle ancora più pallida del solito, quasi azzurrina.
Era spaventato e l’ultima cosa che serviva loro in quel momento erano i poteri imbizzarriti del figlio di Fobetore.
Eliza allungò la mano stringendola con forza attorno al polso del compagno che, come percorso da una scossa, si girò verso di lei, il respiro pesante e le labbra socchiuse.
 
«Questo- è come…»

Non riuscì a terminare la frase, anche se Eliza sapeva perfettamente cosa stesse per dirle e aveva già iniziato ad annuire.
Poi vi fu un improvviso schiocco, come il rumore di una frusta nell’aria, il suono di una corda che si spezza, un tizzone che esplode nel camino.
Eliza spostò subito lo sguardo su Jane e l’attimo dopo non vide più nulla.
 
Buio.
 
 
*



La domanda risuonò nella sua mente come avevano fatto i suoi stessi passi lungo i grandi corridoi vuoti della magione della sua famiglia.
Si sentì fluttuare, il bruciore sulla sua pelle non lo ancorava più al terreno arido dell’Ade, la stretta sanguinosa sulle braccia di Cicno non gli impediva più di distaccarsi da quel mondo di dolore. Improvvisamente Jonas non era più lì. Non era più nelle Praterie degli Asfodeli, alle porte dei Campi Elisi.
Aveva mai amato?
 
“Tu ci sei morto”

Amore. Jonas era morto per amore.
Ma era davvero così?
No, la triste verità era che Jonas non era morto per amore. Ma per paura di questo.
Il corridoio di casa sua prese spessore, prese forma e colore. Era freddo e blu, proprio com’era quando l’aveva attraversato l’ultima volta prima di arrivare nell’ufficio di suo nonno. Solo che ora non si stava più dirigendo lì, ma faceva la strada a ritroso, verso la sua camera, verso quell’antro caldo e confortevole che profumava di casa, profumava di loro.
La porta si aprì, lui rientrò, si richiuse.
Il tempo si riavvolgeva come un nastro cinematografico, le sue azioni scorrevano all’indietro, i movimenti che compieva parevano in un qualche modo curiosi ora che avvenivano nell’ordine sbagliato.
Qualcuno rientrò in camera sua e Jonas si ritrovò a fissare le iridi verdi e scintillanti di forse l’unica persona che avesse mai amato al mondo.

Ma è stato amore? Ti ho amato davvero? Ci siamo amati? O eravamo troppo giovani, troppo piccoli per poter capire davvero cosa stavamo facendo?
Ti ho amato abbastanza per potermi salvare la vita? Mi hai amato abbastanza?
 
Se solo avesse potuto vedere altro in quel momento Jonas si sarebbe reso conto che l’espressione sul volto del suo compagno era diventata terrea, funerea.
Cicno l’aveva sospettato, aveva avuto il timore che Jonas, presunto il caso in cui avesse provato l’amore sulla sua pelle, non sarebbe stato in grado di riconoscerlo, ne avrebbe dubitato anche solo perché non se ne sentiva degno.
Era per questo che voleva allontanarlo, era per questo che non lo voleva lì con lui quando avrebbe sconfitto la crudele prova della Divina Demetra.
Perché la prova, quella vera, era questa: giudicare se i loro animi fossero disposti all’amore, se avrebbero potuto dare qualcosa al mondo dei vivi, se avrebbero potuto essere degni di tornare in superficie, di fare la più basilare delle azioni. Amare.
Demetra, forse anche più di Era stessa, incarnava la madre adorate, quella che avrebbe fatto di tutto per i propri figli, per sua figlia. Come un albero aveva visto sbocciare il suo fiore, divenire frutto e poi cadere dal proprio ramo. Demetra aveva amato sua figlia come pochi Dei facevano, dedicandosi a lei, consacrandole uno degli aspetti più gioiosi, vitali, del suo dominio. Persefone era la vita, la rinascita dopo il freddo gelo dell’inverno, dopo il sonno forzato a cui ogni essere veniva sottoposto. In un regno in cui i suoi fratelli si erano spartiti i poteri più grandi, in cui avevano lasciato a lei e alle sue sorelle null’altro che le briciole, a Demetra era stato affidato uno dei più delicati sistemi del mondo: la natura. A lei le alte fronde e le profonde radici, a lei i raccolti prosperosi, i campi di grano e quelli in fiore. A lei il sostentamento di ogni animale, di ogni uomo. A lei la vita, a lei una forma d’amore che probabilmente neanche Afrodite stessa poteva comprendere fino in fondo.
Un amore che era germogliato con sua figlia, un amore che l’aveva portata a combattere per riaverla al suo fianco anche se questo significava scontrarsi contro uno dei tre Grandi Dei.
Demetra non aveva voluto sentir ragione, non aveva accettato il tuonante ammonimento di Zeus che le ricordava come le leggi dell’Ade fossero inviolabili. Si era alzata contro il suo re, contro suo fratello, e gli aveva ricordato che anche lei svolgeva un ruolo essenziale, anche il suo regno aveva regole crudeli come quella per cui volevano farla capitolare. E Zeus aveva dovuto cedere, aveva trovato un compromesso con Ade, consci entrambi che Demetra sarebbe stata pronta a far morire l’intero pianeta, per riavere sua figlia.
Amore e fedeltà, due cose che raramente gli Dei comprendevamo.
Allora la domanda pareva semplice, avevano fatto loro, in vita, l’unica cosa per cui poter esser perdonati anche delle azioni più nefaste? Demetra che avrebbe condannato miliardi di innocenti alla morte, sarebbe stata perdonata dal Guardiano se questo avesse scorto in lei l’amore accecante che l’aveva spinta fino all’orlo della follia?
 
Essere perdonati di ogni male solo perché lo si è fatto pensando al bene di una terza persona.
Solo io trovo disgustosa una scusante del genere?

 
Evidentemente la Divina Demetra doveva trovarlo del tutto legittimo, ma Cicno non se ne stupì troppo, gli Dei reputano sempre legittimo ciò che volge in loro favore.
E Jonas? Anche lui l’avrebbe approvata? Anche lui avrebbe accettato questo come metro di giudizio? Aveva mai amato, amato davvero, intensamente, follemente, per poter capire il senso più profondo di quella prova?
Cicno non lo sapeva ma sentiva perfettamente le ondate di ansia che si sommavano a quelle cocenti del Guardiano e che provenivano dritte da Jonas.
Il greco serrò la mascella, maledicendo per l’ennesima volta il suo Signore, che gli aveva affidato proprio quel gruppo di semidei, e i Gemelli della Notte, che avevano voluto legare lui e Jonas.
Un Jonas che non gli sarebbe stato di nessun aiuto se non si fosse presto scosso e reso conto che quei dubbi non facevano altro che alimentare il Guardiano.
Strinse il ragazzino a sé, nel vano tentativo di rincuorarlo un minimo, di dargli un sostegno che evidentemente non sentiva più.
Doveva farlo uscire da quella bolla di paura in cui era ricrollato, liberarlo dalle catene che si stava mettendo da solo.
La sensazione della pelle bruciata contro altra pelle bruciata gli ricordava la corda ruvida della frusta che tante volte gli aveva percosso la schiena. Al contempo gli riportava alla memoria la sensazione cocente della pelle sudata premuta contro la sua.
Eros e Algos, il binomio che formava ciò che Demetra ricercava in ogni anima: amore.
Si aggrappò a quello, Cicno, al ricordo di un corpo massiccio ma gentile che si poggiava al suo, alle mani ruvide e callose che sfioravano il suo torace con leggerezza, contando le costole, fermandosi piatte sul suo cuore palpitante.
Il fuoco del fascio di luce l’aiutò a ricordare quello delle sue membra, dello stomaco che si contraeva, delle dita che tremavano cercando frementi il corpo dell’altro.
Filio.
Aveva avuto molti amanti nel corso della sua vita, ma mai nessuno gli aveva procurato la stessa foga, lo stesso desiderio di scoperta, la stessa voglia di esplorare, di comprendere. Nessuno gli aveva fatto desiderare la lentezza, le pause, gli attimi sospesi a riprender fiato spiando l’altro sotto le palpebre socchiuse, le ciglia che sfocavano e nascondevano la sua immagine.
Doveva ricordare lui, doveva pensare solo a lui, all’unica persona che avesse mai davvero amato con tutto sé stesso. 
E non importava che Filio l’avesse tradito, non importava che si fosse fidato delle parole di un tronfio nuovo dio figlio di Zeus, di un uomo che aveva ucciso i suoi stessi figli, che aveva fatto il bene ed il male da degno figlio di suo padre. Non importava che fosse tornato da lui a mani vuote, che l’avesse guardato con soddisfazione, convinto di aver fatto la scelta giusta. Non importava che gli avesse spezzato il cuore con il suo sorriso più felice.
Non importava più.
Cicno l’aveva amato, l’aveva amato così tanto da togliersi la vita, da reputare questa inutile senza di lui al proprio fianco.

Pronto a rinunciare a tutto come avrebbe fatto Demetra per Persefone.
 
Dopo tutto quel cercare, tutti quei duelli, tutte quelle sfide, tutte quelle morti, tutto quel sangue.
Era maledetto. L’aveva maledetto suo padre alla sua nascita, l’aveva maledetto sua madre facendolo così bello, l’avevano maledetto in centinaia perché il suo solo aspetto traeva in trappola uomini e donne, strappandoli ai loro amati. L’aveva maledetto ogni singola persona che aveva perso qualcuno per colpa sua e ogni singolo pretendente che si era arreso. L’aveva maledetto Ercole senza neanche saperlo. L’aveva maledetto Filio privandolo del suo amore. Si era maledetto da solo quando non era stato in grado di ingoiare l’orgoglio e accettare il giovane al proprio fianco anche se si era rifiutato di portare a termine l’ultima prova.
Cicno aveva amato Filio nonostante tutto. Forse l’amava ancora in quel momento.
 
Aveva fatto, in vita, l’unica cosa degna di perdono?

Sì. Nel bene e nel male, in così tanto male che aveva fatto, Cicno di Tebe, Cicno il Crudele, aveva amato, aveva amato così tanto da perdere ogni speranza, ogni lume, quando quell’amore gli era stato negato.
 
Il volto del giovane uomo si fece più concreto, più solido. Sembrava prendere corpo davanti ai suoi occhi e Cicno si sforzò di premere una mano su quelli di Jonas per non fagli vedere Filio. Il razzino aveva già sentito troppo, sapeva già troppo, non gli avrebbe concesso l’ennesima apertura al suo fianco. Non quando Filio gli sorrideva, bello come la sera in cui l’aveva conosciuto. Non quando il suo volto mutava, i capelli si facevano più lunghi e Cicno ricordava ancora perfettamente la sensazione delle proprie dita che passavano gentili tra qui ricci morbidi.
I bracciali di metallo sembravano quasi freddi contro la pelle mangiata dal fuoco e Cicno provò una voglia irrefrenabile di concentrarsi su quelli e non sul giovane uomo che si muoveva davanti a lui, riproducendo tutti i gesti, tutte le azioni che li avevano legati, che l’avevano portato ad amarlo.
Il Guardiano voleva vedere quello, voleva sapere se Cicno era stato in grado d’amare, se un solo uomo sarebbe stato in grado di pulire il sangue che gli sporcava le mani, incrostato tra le pieghe della pelle, tra le spirali delle sue impronte. Cicno prese un respiro tremulo, spinse la testa di Jonas contro il suo petto abraso e fece qualcosa che non faceva da millenni: si lasciò andare, si arrese.
Improvvisamente poté vedere la fonte di quella luce, una gigantesca sfera, un bulbo oculare senza palpebre, fatto d’energia e di oro scintillante. L’iride era cristallina, priva di colore se non l’azzurro accecante della luce, del sole. Era come guardare il sole senza la protezione del cielo, degli Dei a filtrarne la potenza devastante.
Nella sua mente, un pensiero lontano, gli ricordò di dire a Nathan che aveva ragione, che era proprio un occhio anche se non sapeva se quello di cui aveva parlato il figlio di Ares gli somigliasse.
Cicno sapeva perfettamente che doveva essere un artefatto divino, forse forgiato dal Dio Efesto in persona, intriso della magia degli Dei.
L’occhio divino che controlla i confini dell’unico luogo benedetto dell’Ade. Che giudica chi è degno o meno di passare le sue mura, malgrado vi fosse già stata una sentenza su ogni anima.
Il greco non distolse lo sguardo da quel piccolo sole, amareggiato, furioso a dir il vero, che ancora una volta sarebbe stato quel pallido ricordo della stella maggiore, di suo padre, a decidere se valesse la pena lasciarlo vivere o meno.
Il fascio di luce parve farsi più caldo, la sua vista si sdoppiò e ai lati della sfera azzurra il Filio dell’inizio e quello della fine si muovevano tranquilli, decisi.
Il sorriso timido della notte e quello tronfio del giorno.
Il fuoco lo rose dall’interno, mangiando ciò che le prove, il contratto ed il tempo gli avevano restituito fino a quel momento. Non c’era più nulla su suo corpo se non i bracciali, la carne - poteva chiamarla così? – bruciata e quel nugolo tremante che era Jonas.
 
Oh, Jonas è ancora qui.
 
Il ragazzino tremava senza posa, spaventato, sommerso dai propri dubbi e soffocato dal calore incandescente che aumentava sempre di più nel corpo a cui era poggiato.
Cicno sentiva la sua anima contorcersi in preda a mille sentimenti, mille pensieri, ma fu con un faticoso sorriso beffardo che si rese conto di cosa mancasse lì in mezzo.
 
Codardia. Senti il bisogno di scappare, ma senti il bisogno di farlo con me.
 
Non l’avrebbe lasciato indietro. Lo capiva dalla stretta delle sue mani, che ormai avevano penetrato la pelle aggrappandosi ai muscoli che il fuoco sfilacciava come un fascio di spighe.
Jonas era nel panico perché aveva paura di peggiorare la situazione, perché non sapeva se avesse mai amato davvero, abbastanza, e temeva che questa sua incertezza, questa presupposta mancanza, avrebbe avuto ripercussioni su Cicno. Credeva che avrebbe dovuto ti nuovo lasciar che fossero altri a fare il lavoro sporco per lui. E non aveva tutti i torti, ma non c’era più nulla che potesse fare, ormai il Guardiano era dentro di lui.
 
Il Guardiano scavava senza posa, senza pietà, raschiando ogni brandello di pelle per arrivare al centro della sua anima come Jonas graffiava via la sua carne per mantenere la stretta su di lui e non lasciarlo andare.
E le immagini si susseguivano, i due Filio si muovevano a specchio: quello dell’inizio, di quella sera d’estate, andava avanti e quello della fine, di quell’infernale mattina, andava indietro.
Correvano verso una meta che Cicno non conosceva, che credeva di non conoscere, sporcandosi uno di sabbia e l’altro di sangue, uno di fiori e l’altro di terra. Più il tempo passava e più le due figure iniziavano a somigliarsi, nel volto, nei modi, nel vestiario, finché non si fermarono.
Due identici Filio, vestiti con una casacca color porpora, un pesante mantello scuro ad avvolgere tutta la sua figura, aperto solo il necessario per permettergli di allungare le braccia verso di lui.
Qualcosa crepitò sotto i suoi piedi, Cicno abbassò lo sguardo per la prima volta e vide foglie secche, rossicce, marroni, gialle. I suoi sandali di cuoio erano coperti da un panno stretto ai polpacci da una striscia di cuoio. Quando alzò gli occhi per osservare Filio una nube biancastra ed umida gli offuscò per un attimo la vista.
 
 
“Per gli Dei, perché fa tanto freddo?”
Filio accennò un sorriso, allungando ancora di più le mani, facendo un passo verso di lui.
“Lo soffrite così tanto?”
Cicno annuì.
Lo ammetto, sono un figlio del sole.” Replicò con una certa amarezza.
Questa volte l’altro si lasciò scappare una leggera risata. “Siete un figlio di Tebe, direi che questo è il vostro unico problema. Non credo abbia mai fatto così freddo nella vostra terra.”
“Reputatevi quindi onorato, Filio, perché ho lasciato le mie calde lande per seguirvi fin qui.”
“Siamo solo sui monti! Tebe è ben lontana dal mare, dovreste aver avuto un assaggio dei giochi di Borea e dei suoi figli.”
“Questo non vuol dire che io li apprezzi. Gli Dei mi perdonino, ma dubito che il mio corpo sia stato plasmato per questo gelo.” Ogni volta che muoveva le labbra una nuova nube di vapore si spandeva nell’aria. “Non sono forte e resistente come voi, non sono un combattente.”
Filio lo guardò con un’espressione più seria ma comunque, in qualche modo, morbida.
“Se permettete, credo voi siate molto più forte e resistente di quanto non crediate, di quanto tutti coloro che vi vedono per le prima o la centesima volta possono pensare. Siete arrivato fino a qui, avete passato inverni, una nuova luna dopo l’altra. Siete anche voi un guerriero, ne so riconoscere uno quando lo vedo.”
Così dicendo chiuse con lentezza la distanza tra di loro, prendendo le sue mani nelle proprie e portandosele al cuore, sotto allo spesso mantello scuro.
Cicno non poté far altro che guardarlo, stringendo leggermente le mani prima di allargarle e posarle contro la casacca, premendole sul torace di Filio, avvertendo il palpitare del suo cuore sotto i polpastrelli resi insensibili dal freddo e rianimatisi nell’attimo in cui era entrato in contatto con quella fonte di calore.
Gli occhi di Filio erano scuri e caldi, le sue parole erano dolci e leggere.
Non c’erano rimostranze, non c’erano accuse. Non aveva parlato della sua bellezza, di tutti gli uomini che erano caduti per i suoi capricci e che avrebbero continuato a farlo finché qualcuno non si sarebbe dimostrato finalmente degno di lui. Non disse che anche lui, prima o poi, si sarebbe inginocchiato al suo cospetto chiedendo una prova, non gli disse neanche che data la loro vicinanza era certo d’aver già vinto il suo cuore.
Cicno continuò a guardarlo finché qualcosa non scattò nella sua testa.

 
Oh. È forse questo amore?
 

Se non vi fosse stato un fuoco così devastante a deformargli il bel volto, a corrodergli la pelle, Cicno era sicuro che silenziosamente, una dopo l’altra, lacrime amare si sarebbero susseguite veloci, rigandogli il viso contratto da una smorfia di dolore.
Era quello. Era ciò che il Guardiano voleva. Era l’attimo in cui Cicno si era reso conto di amare, amare incondizionatamente, e di esser ricambiato.
 
Amare e essere amati. L’unica cosa che valga il perdono supremo.
 
Cicno il Crudele aveva amato con grazia, con delicatezza, con gentilezza. Aveva amato con passione, con rabbia, con violenza. Ma nessun Dio avrebbe mai potuto portarglielo via, nessuno avrebbe mai potuto negarlo.
 
La pupilla del Guardiano si dilatò, ingoiando l’iride cristallina, aprendo un pozzo oscuro nell’occhio artificiale, osservando, scansionando, giudicando quell’amore in tutte le sue sfaccettature più infime e nascoste. E poi, con un ruggito di fiamme, diede il suo giudizio.
 
Buio.
 

*



La magia aveva avvolto ogni cosa, ingoiando la luce crepuscolare che seguiva le anime, quella calda e tenue che proveniva dalle mura bianche e anche quella accecante del fascio del Guardiano.
Dalla sua posizione, sul bordo dell’entrata, con un piede oltre la linea di mattoni che segnava il confine dei Capi Elisi e l’altro fuori, Nathan si era ritrovato a sporgersi in avanti, incapace di restar fermo al fianco di Cade che ora riposava a terra, sul mattonato che componeva la strada d’ingresso. Oltre questo però, non appena iniziava la terra battuta, l’erba nera delle Praterie, non vi era assolutamente nulla. O meglio: Nathan sapeva che doveva esserci qualcosa. Sapeva che c’erano le Praterie stesse, che c’era Lea, che davanti a lei c’erano Eliza e Úranus e ancora più avanti Jane. Sapeva che davanti a tutti loro c’era una colonna di luce infuocata, un faro puntato dritto su Jonas e Cicno. Eppure non vedeva nulla.
Era buio pesto, lo stesso buio che l’aveva accolto alla sua morte, quando le immagini si erano fatte sempre più sfocate e l’unica cosa che riusciva a vedere era il volto di Olivia.
 
La mia seconda opportunità.
 
Ma era stato un miraggio, allora, così com’era un illusione l’oscurità che abbracciava i prati fuori dai Campi Elisi.
Era magia, la più pura e semplice magia evocata da una figlia di Ecate, giunta a formazione grazie all’accumulo dei grandi banchi di Foschia che ancora aleggiavano nella zona.
Jane era riuscita in qualcosa di cui non l’avrebbe mai creduta capace, ma era servito allo scopo? Era il più grande esempio di incantesimo a cui avesse assistito, ma aveva estinto anche la torre di fuoco che aveva imprigionato i loro compagni?
Aveva quasi il timore di fare un passo avanti e sprofondare nelle tenebre, nel nulla. Non perché avesse paura del buio stesso, ma perché temeva di non essere in grado né di trovare gli altri né di tornare da Cade.
Volse la testa ad osservare l’irlandese che giaceva quasi senza vita. Non sembrava respirare, anche se Nathan sapeva non fosse vero perché aveva controllato più volte, e non accennava a muoversi.
Serrando i denti e ingioiando il groppo d’ansia che gli si era formato in gola, pura paura che quei coglioni facessero più danni di quanti Eliza non potesse gestire da sola, non certo apprensione per una missione di cui lui non poteva far parte, di cui non era stato incaricato, entrò di nuovo nei Campi Elisi e si guardò nuovamente attorno per controllare che nessuna guardia dell’Ade lo sbattesse fuori perché senza benedizione.
Una benedizione che forse si sarebbe potuto guadagnare se fosse rimasto a combattere.
 
Contro cosa poi? L’occhio di Sauron? Me la può dare lui la benedizione o invece di una macchia luminosa mi accende direttamente come una cazzo di lampadina?
 
Probabilmente non l’avrebbe mai saputo e avrebbe dovuto aspettare la missione successiva per potersi riscattare.
Partendo dal presupposto che avrebbe dovuto riscattare solo quell’onta e non anche quella di aver perso due compagni in un bagno di fuoco.
Si accucciò vicino a Cade, tirandolo a sedere con attenzione per poterlo tenere poggiato contro il suo fianco. Anche se era sciocco e non sarebbe servito a nulla, tenere così vicino uno dei suoi, sostenerlo, gli dava l’impressione di fare qualcosa di utile.
Una volta accomodato il ragazzo, controllato per l’ennesima volta che non avesse ferite alla testa o contusioni al collo, Nathan tornò a fare l’unica altra cosa concessagli: fissare il buio in attesa di vedere i suoi amici emergervi vincitori.
 
Come Nathan anche Lea fissava l’oscurità che la circondava congelata sul posto.
Era stato uno schiocco, un attimo e l’Ade si era come spento, formando quel denso agglomerato di ombre che le impediva di vedere le sue stesse gambe.
Con un analisi veloce si rese conto che nessuno dei suoi arti sembrava colpito dall’improvviso cambiamento, che doveva essere quindi puramente visivo, ma che non riusciva a vedere oltre il suo petto. Se avesse tenuto le braccia basse non avrebbe scorto i suoi gomiti.
Jane aveva davvero portato l’oscurità all’inferno e con questa aveva cancellato anche quel vago calore che emanava la luce tenue che seguiva ogni anima.
 
Ma basterà a spegnere il fuoco?
 
Questo era il dubbio più grande, la paura che la stava mangiando da dentro.
Lea era la guaritrice del gruppo, Cicno sarebbe stato troppo provato se non gravemente ferito, una volta uscito dal getto di luce – se ci fosse riuscito – e sarebbe spettato a lei correre in soccorso di tutti.
Tutti chi però, se non riusciva a vedersi la punta delle dita? Se non riusciva a vedere più in là del suo naso, se non vedeva, non sentiva, non percepiva neanche Eliza ed Úranus. Come poteva dare un primo soccorso a Cicno e Jonas se nessuno poteva vederla? Se non sapevano dov’era?
Con il panico che le faceva tremare le mani Lea prese respiri lenti e profondi, anche quando il suo corpo le richiedeva aria a gran voce. Si impose di calmarsi, di tornare ad essere padrona di sé perché in caso contrario non sarebbe stata di nessun’utilità. Non solo non sarebbe stata in grado di curare i suoi amici, ma avrebbe rischiato anche di alimentare il potere di Úranus.
Jane aveva eliminato la luce, ma questo non significava certo che avesse reso ineffettivi i poteri di tutti loro. Quindi doveva mantenere la calma, recuperarla, e ricordarsi che era una guaritrice.
 
Non c’è tempo per il panico, non c’è tempo per la paura e per il dubbio. Quando la vita di altri è nelle tue mani l’unica cosa che sei autorizzata a fare è il tuo meglio.
 
Giuseppe le aveva detto spesso che la serietà, la professionalità, facevano un medico tanto quanto la conoscenza e malgrado Lea non fosse completamente d’accordo con questa massima di suo fratello non poteva neanche dirsi contraria.
Se avesse mantenuto il sangue freddo sarebbe riuscita a fare tutto ciò che era in suo potere e anche qualcosa di più. Ma prima di quello, doveva capire se gli altri erano ancora al loro posto e se potevano sentirla.
Si schiarì la voce e provò da prima a chiamare debolmente Úranus, poi Eliza.
Quando nessuno dei due le rispose provò con più veemenza.

«Eliza? Eliza!»
Fece un passo avanti, con cautela, tenendo le mani protese in avanti. Fletté leggermente le gambe e s’abbassò di poco, cercando di toccare a tentoni il terreno.
«Eliza? Úranus?»

«Lea?»
 
«Sì! Dei grazie. Sono qui! Credo di essere ancora dietro di voi. State bene?»
Non poteva vederli ma Eliza annuì. «Sì, stiamo bene, siamo assieme, lo tengo per un braccio.» la informò svelta. «Non ti avvicinare troppo, rimani dove sei, credo ci siano almeno nove piedi tra di noi.»
Lea storse il naso. «Quanti sono?»
«Sono nove piedi Lea, non so quanti sono per te e non è il momento di fare conversioni.» tagliò corto.
Sentì un vago rumore, fruscio di erba e di stoffa. Úranus si stava muovendo incerto sul posto.
«Pensi di poter creare di nuovo la tua sfera di luce?» domandò con voce più chiara, probabilmente si era girato verso di lei.
Lea scosse il capo. «Posso provarci ma non so quanta energia mi richiederebbe e se servirebbe a qualcosa.»
«Meglio di no. Dobbiamo evitare di renderci noti al Guardiano, dobbiamo sfruttare quest’ombra per quanto durerà.» rispose la mora.
«E Jane? Jane?!» chiamò di nuovo Lea rimettendosi dritta. «Non vedete nulla, vero?»
«Non vedo Eliza, anche se sento la sua stretta su di me.»
«Neanche io vedo più giù delle mie spalle.» concordò. «Jane? Sei presente? Riesci a sentirci?» domandò a voce alta.

«Certo che vi sento.»

Lea tirò un sospiro di sollievo. «Grazie a Dio. Perché non ti sei subito palesata!» la rimproverò. La voce flebile e lontana della figlia di Ecate non le era mai parsa così bella.
«Perché riuscivo a sentirvi, perfettamente.» ripeté lei atona.
«Che vuol dire? Stai bene?» La voce di Eliza invece suonò guardinga, quasi si stesse preparando ad un attacco a sorpresa.
Ma Jane non disse nulla per un lungo momento, lasciando che il silenzio ovattato del buio li avvolgesse tutti.
«Non sento nulla.» mormorò. «Vi sento bene.»
Lea batté le palpebre, pur essendo consapevole che quel gesto frenetico non avrebbe migliorato la sua visuale.
«Che vuol dire? Non senti nulla ma ci senti bene?»
«Jane? Che succede?» provò anche Úranus, preoccupato.
«Non sento nulla.» ripeté ancora. «Voi non sentite nulla?»
«A parte te? No, non sento nulla.» concordò Eliza.
«Perché, cosa dovremmo sentire?» continuò Lea.
Jane stesse ancora in silenzio, lasciandoli in balia del suono dei loro respiri, l’unico presente tra le ombre.
 
«Fuoco. Rogo. Il rumore di un rogo. Non sento nulla. Non ci sono più fiamme.»
 
Quell’informazione arrivò loro con tanta violenza quanto sollievo.
Era vero, il suono della cascata di luce non si sentiva da nessuna parte, neanche in lontananza, eppure poco prima erano stati abbastanza vicini da sentirla sfrigolare nelle orecchie.
Questo significava-
 
«Ce l’hai fatta! L’hai spento!» esultò Lea saltellando sul posto, incapace di contenere la propria gioia.
«Ottimo lavoro,» arrivò invece la voce più calma di Eliza. «riesci a ritirare le ombre, ora?»
«Dobbiamo raggiungere Jonas e Cicno, potrebbero essere in condizioni molto gravi.»
Jane non rispose subito ed Eliza aggrottò le sopracciglia.
«Jane? Pensi di riuscire a dissipare la Foschia che hai chiamato a te?»
«Non l’ho fatta ricomparire la spada.» disse solo.
«Ma non hai neanche provato. Ora devi farlo o non ritroveremo gli altri. Non sentiamo più il suono del raggio di luce del Guardiano ma io non sento neanche gemiti di dolore o respiri.»
Lo sapeva, Jane ne era perfettamente consapevole e non aveva dato voce ai suoi pensieri solo perché aveva il terrore di essere arrivata troppo tardi, di nuovo.
Ma dissipare la Foschia tutta insieme? Così, come se nulla fosse? Era riuscita a richiamarla a sé solo perché era tanta ed era ovunque, non sapeva se poteva comandarla di nuovo, se le avrebbe dato ascolto una seconda, no, una terza volta.
Doveva però provare. Per una volta la vita di due persone, di due anime, era nelle sue mani. Lo era stata quando aveva evocato l’oscurità, lo era ora che doveva imporle di disperdersi.
Alzò ancora le mani davanti a sé, pregando silenziosamente sua madre di non metterle i bastoni tra le ruote, neanche di aiutarla, ma solo di non impedirle di fare il suo dovere. Si concentrò, richiamò tutta la sua forza, tutte le sue scarse capacità, ma questa volta era diverso, questa volta era più difficile.
L’Ade era fatto di ombre, ogni cosa era nera in quel mondo, ogni cosa assorbiva la luce ed una volta ingurgitato ogni frammento di questa era difficile che il buio si sarebbe fatto da parte per ridare spazio a ciò che aveva appena fagocitato.
Era resistente come un’erba infestante in un giardino, come un’edera che s’arrampica sui tetti e copre le finestre, si annoda agli arbusti e li stritola come un serpente.
Come l’edera di Persefone che l’aveva inghiottita, legandola con i suoi rami sinuosi e resistenti.
Il buio aveva vinto sulla luce crepuscolare e ora, per nulla al mondo, si sarebbe fatto scappare il suo nuovo dominio.
 
«Non ci riesco.» esclamò affannata. «Il buio è troppo forte.»
«Non è il buio, è la Foschia! È solo la Fischia! Fa parte del potere di tua madre, deve piegarsi alla tua volontà così come si piega alla sua.» cercò di incoraggiarla Úranus, ma la cosa la infastidì solo.
«Lo so che è una sua serva! Lo so! Ma non con me! Non sono mai piaciuta alla magia!»
«Hai creato tutto questo, puoi disfarlo!»
Eliza non proferì parola, stringendo però il polso di Úranus nel tentativo di fargli capire di non tirare troppo la corda.
Volse il capo all’indietro, dove presupponeva ci fosse Lea.
«Avete detto qualcosa su una sfera di luce. Potresti farla davvero?» chiese modulando il tono.
Lea alzò le sopracciglia sorpresa. «Non mi hai appena detto che non doveva attirare l’attenzione?» domandò sbalordita. «Il Guardiano
«Potrebbe individuarci, sì, ma se Jane riuscisse a ritirare le tenebre saremmo comunque esposti e se così non fosse, ci serve una soluzione alternativa. Jonas e Cicno sono stati travolti da una doccia di fuoco per troppo tempo, sei un medico, sai meglio di me quali potrebbero essere le loro condizioni.»
«Lo so anch’io e ci sto provando!» esclamò Jane con asprezza. «Ma le ombre non vogliono lasciare le lande!»
Lea imprecò a denti stretti, felice che non ci fosse nessuno che potesse sentirla, prese un bel respiro e poi urlò a pieni polmoni.

«JONAS!»
 

*
 


Sentiva caldo, un caldo incredibile ma non più soffocante come quello di prima.
La sensazione, se avesse dovuto paragonarla a qualcosa, sarebbe stata la stessa dell’addormentarsi poggiato ad una stufa. Non c’era fuoco vivo a contatto con la pelle, ma il ferro bollente finiva per ustionarti la pelle e lasciarti brutte macchie rosse e croste estese che prudevano sull’epidermide.
Non era più lui a bruciare, era il corpo a cui si reggeva ad essere incandescente.
Oltre le palpebre chiuse il mondo era nero, come se si fosse trovato in una stanza ben chiusa, come quando si svegliava nella sua vecchia camera. Ma non era sdraiato, non era sotto le coperte malgrado il caldo. Era in piedi, poggiato a qualcosa che scottava, qualcosa di umido e secco al contempo, che gli bagnava le mani e gli graffiava la faccia, qualcosa di morbido in cui affondava le dita e qualcosa di ruvido contro cui sfregava la guancia.
Dov’era finita la luce accecante del Guardiano? Perché non vedeva più quell’arancione così acceso, così chiaro da virare veloce verso il bianco? Perché c’era buio? Perché c’era silenzio?
Oh, non stava urlando. Nessuno lo stava facendo. Jonas non sentiva neanche più i propri singhiozzi, non sentiva gemiti di dolore, non sentiva la pelle sfrigolare come carne su una piastra ardente.
C’era solo nero e silenzio ed un corpo caldo, solido e lieve, ruvido e morbido, bagnato e secco.
Poi un suono finalmente, vago e lontano, un brusio concitato che si alzava sempre di più, che passava dall’essere rumore di fondo a interferenza radio. Si unì al costante sciabolio d’acqua che avvertiva lontano, alla gola.
Lentamente iniziò a prendere più coscienza di quello che lo circondava, della situazione in cui si trovava.
Si era buttato verso il raggio del Guardiano perché sapeva che una volta trovata una vittima non si sarebbe curato degli altri, dando loro il tempo di scappare. Poi era arrivato Cicno, che aveva capito cosa chiedesse la prova di Demetra e pensava di poterla risolvere, di poter superare il giudizio del Guardiano, ma i doni dei gemelli della Notte dovevano aver interferito con i suoi piani e ben presto, al dolore e ai volti di tutti coloro che aveva conosciuto in vita, si erano sommati anche quelli del greco. A quel punto Cicno doveva aver fatto una qualche magia perché d’improvviso lo sguardo di fuoco del Guardiano si era concentrato sull’altro, lasciando lui ad assistere impotente al dolore del compagno. 
Cicno l’aveva protetto, aveva cercato di metterlo in salvo e Jonas, un improvviso lampo d’orgoglio gli balenò nel petto, non aveva accettato di scappare, era rimasto a combattere con il giovane che aveva messo a rischio la sua intera esistenza per salvarlo.
Poi? Poi non ricordava molto, gli eventi erano accavallati. Sentimenti non suoi, le pene dell’inferno, i rimpianti, il tradimento, la morte, il volto di un bel giovane che sorrideva trionfante ma- non era giusto, non era la cosa giusta, non c’era nulla di cui gioire. Tradimento, rancore, morte.

Amore?
 
Era stato in grado di amare in vita? Era stato amato?
Jonas non aveva saputo rispondere a quella domanda, l’incertezza ancora lo attanagliava, ma Cicno non si era fatto trovare impreparato e aveva risposto al posto suo.
Sì. Nonostante tutto ciò che aveva fatto – Jonas ancora non sapeva cosa e quanto – Cicno di Tebe aveva amato e questo, evidentemente, doveva esser stato abbastanza.
Quindi era questo? Era finita? Il buio era solo l’Ade ombroso dopo tutta quella luce? Era solo la gigantesca macchia nera che nascondeva ogni cosa quando la si guardava dopo aver fissato il sole?
No, avrebbe dovuto vedere una macchia azzurra piuttosto. Che diamine era quel buio?
 
«Ssssh. Non è niente, ora passa tutto.» mormorò piano una voce roca, flebile.
 
«JONAS
 
«Ti stanno chiamando, senti? Tra poco finirà tutto. Lascia.»
Il ragazzino scosse il capo.
No, non poteva lasciare, se l’avesse fatto era sicuro che Cicno gli sarebbe scivolato di mano, che si sarebbero divisi e mai più ritrovati in quel buio pesto e per quanto Jonas fosse una persona sospettosa di natura, per quanto non si fidasse neanche di sé stesso alle volte, in quel preciso istante sapeva di non poter perdere Cicno, di non poter abbandonare qualcuno che gli aveva salvato la vita anche se non ne aveva avuto alcun motivo. Si era fidato del greco, non poteva lasciare.

«Piano, lentamente.»

«JONAS!»
 
«No-»
«Sì, puoi farlo. Piano, apri la mano.»
Jonas scosse il capo, cercando di sollevarlo dal suo appoggio, aprire gli occhi e guardarsi attorno, per cercare proprio Cicno e accertarsi che stesse bene, che fosse tutto a posto. Ma qualcosa gli si posò sul volto, impedendogli di sollevare le palpebre.
«Ssssh. Ssssh. Tieni gli occhi chiusi. Lascia la presa.»
 
«JONAS!»
«JONAS!»
 
«Senti? Ti stanno chiamando. Lascia la presa e potrai andare da loro.»
«Non posso. Cicno-»
«Andrà tutto bene. Tieni gli occhi chiusi, lascia la presa, discostati. Andrà tutto bene. Tutto bene.»
 
 
«Jane! Continua a provare! Lea! Anche tu!»
«Non ci riesco, sono troppo agitata! E poi la luce non funziona così, mi serve un luogo dove andare!»
«Da loro! Dobbiamo andare da loro!»
«JONAS!»
«CICNO! CICNO RIESCI A SENTIRCI?»


«Ti stanno chiamando.»
«Se lo lascio, poi non riuscirò più a trovarlo. Non posso lasciarlo, non posso lasciare un’altra persona nel buio.» mormorò spaventato, dando finalmente voce a quella che forse era una delle sue più grandi paure.
Non voleva abbandonare di nuovo qualcuno che gli era stato vicino, non voleva lasciarlo ad affrontare il buio dell’avvenire.
Un rumore simile ad una leggera risata gli solleticò l’orecchio, ma era roca, poi acuta, come se l’altro avesse problemi a parlare, come se avesse problemi alla gola ed il tono schizzasse impazzito da un livello all’altro.
Dopo quel suono la cosa – era una mano? – che gli chiudeva gli occhi iniziò a farsi più calda, come una brace che man mano prende fuoco.
La risata si ripeté, questa volta più bassa, più profonda.
«Oh, mio giovane fanciullo, nessuno ti ha mai detto che il buio è la condizione fondamentale per far risplendere la luce?» 
La domanda gli giunse sarcastica, pungente.
La mano stava diventando troppo calda, dolorosa, e Jonas si ritrovò costretto ad allentare la presa su Cicno per potersi allontanare quel tanto che bastava per sottrarsi al tocco rovente.
Strizzò gli occhi e scosse la testa con vigore, un giramento di capo gli fece nuovamente serrare le mani sulle braccia di Cicno per poi riallentarle velocemente. Batté le palpebre cercando di mettere a fuoco ciò che aveva davanti, per combattere l’oscurità ed individuare il suo compagno, ma quando finalmente vi riuscì desiderò non averlo mai fatto.
Gli aveva detto di tenere gli occhi chiusi, di allontanarsi, ma lui stupido, sciocco e testardo Jonas, non aveva minimamente pensato che ci fosse un motivo dietro quella richiesta.
Ma dopotutto, cosa si sarebbe dovuto aspettare? La cascata di luce del Guardiano non era acqua fresca, non era raggio tiepido, era fuoco.
 
Ed il fuoco brucia, corrode, scava.
Uccide.
 
Davanti a lui si trovava il volto martoriato e squagliato dal calore di un essere umano. Le ossa degli zigomi e delle arcate sopraccigliari erano esposte, annerite, fratturate. I bulbi oculari scomparsi nelle orbite da cui colava lento uno strano liquido pastoso. Le guance bucate dalle fiamme lasciavano intravedere i denti incrinati, mentre un lembo di pelle bruciata si staccava lentamente dal mento squarciando il collo fino alle clavicole.
L’interferenza radiofonica si fece più forte, Jonas urlò con quanto fiato aveva in gola ma questo gli si bloccò nella trachea e non uscì, facendolo gridare afono tutto il suo terrore, tutto il ribrezzo, il dolore. Flash bianchi, accecanti come quel dannato fascio di luce, gli apparvero davanti agli occhi, macchiandogli la retina ed impedendogli di soffermarsi su altri particolari, sul torace aperto, le costole su cui si tendeva la pelle fina e arida, bucata come uno straccio bruciato, la fossa dove lo sterno si era rotto ed era sprofondato verso l’interno.
Fece un passo indietro ed urlò ancora e ancora.
Non voleva vedere, non lo voleva vedere. Non capiva cosa fosse ma non voleva vederlo.
Un altro passo e le ombre iniziarono ad abbracciare la figura carbonizzata davanti a lui.
Urlò di nuovo e non riuscì a sentire le voci dei loro compagni che li chiamavano.
Il teschio s’inclinò verso sinistra con un rumore inquietante, che non riusciva neanche lontanamente a fronteggiare la paura che gli si stava espandendo nel petto, divorandolo dall’interno assieme all’aria e a quel poco di contegno che era riuscito a rimettere assieme.

Il buio è la condizione fondamentale per far risplendere la luce
 
Ciò che rimaneva delle guance si tirò in quello che voleva essere un sorriso, un tremulio s’espanse da quei resti umani, vibrando come i bulloni di una rotaia al passaggio del treno. Sempre di più, sempre di più. Vibrò fino a diventare solido, denso, una leggerissima linea bianca, una vago alone chiaro, luminescente come i fiori dell’Ade.
Jonas osservò terrorizzato e al contempo ipnotizzato la luce espandersi ed avvolgere il teschio, scendere lungo la spina dorsale, le braccia, il torace.
Un’aura luminosa avvolse lo scheletro che avanzò verso di lui mentre la luce, quella stessa luce che aveva investito Jonas fino ad un momento prima, s’aggrappava a quel corpo come i muscoli alle ossa.
Il giovane non riuscì a fare un passo, i denti gli battevano forte come il cuore, che galoppava all’impazzata, cercando di pompare tutto il sangue che non aveva e l’adrenalina che non era più in grado di produrre.
Quella cosa si avvicinò d’un altro passo e Jonas chiuse gli occhi, spaventato, ammutolito, codardo.
Le mani dello scheletro si poggiarono sulle sue braccia e lentamente risalirono fino al collo, prendendo consistenza, brillando fiocamente da prima e poi più intensamente.
Dita delicate giocarono con il collare di filo spinato che Ipno gli aveva donato, facendolo rabbrividire senza però convincerlo ad aprire gli occhi. Sfiorarono il pomo d’Adamo, la mascella, con gentilezza gli spostarono i capelli dietro alle orecchie e gli carezzarono la pelle bruciata degli zigomi.
Adesso, oltre le palpebre chiuse con forza, Jonas poteva scorgere una fonte di luce chiara, candida, piacevole.

«Sssssh. Va tutto bene. Tra poco sarà tutto finito.»

Jonas tremò, il respiro tiepido di quell’essere si infranse contro le sue labbra tese, premute con forza tra di loro per evitare di lasciarsi scappare anche solo il minimo suono.
 
«Rilassati, rilassati.»
 
Come comandato da una forza esterna, il semidio sentì la sua mascella allentarsi, la lingua trovare finalmente spazio tra i denti, le labbra socchiudersi.
Il respiro si fece più vicino, la luce più forte e poi, lieve come l’aria che lo sfiorava, altre labbra si posarono sulle sue.
Jonas avrebbe voluto spalancare gli occhi, vedere chi fosse, vedere cosa fosse. Era sempre lo stesso corpo carbonizzato? Non era possibile fosse lui, non aveva labbra, non era così morbido, non poteva essere così gentile.
Eppure qualcuno lo stava baciando, con calma, con attenzione, bagnandogli le labbra secche, la pelle tirata dal calore. Un bacio e a Jonas sembrò che tutte le bruciature che gli arricciavano l’epidermide si stessero distendendo, ogni ferita aperta si stesse chiudendo.
Era come infilarsi in una vasca d’acqua fresca dopo aver passato ore ed ore sotto il sole cocente, come bere finalmente dopo giorni di siccità.
Ferite che non sapeva d’avere, dolori che non aveva percepito si estinsero uno ad uno, mentre un corpo piacevolmente tiepido si stringeva al suo, facendogli venire la pelle d’oca. Non si era reso conto d’aver lasciato libero movimento all’altro finché non percepì la propria lingua sfiorarne un’altra, approfondendo il bacio, portandolo inconsciamente ad allungare le mani ed afferrare quel corpo che prima gli aveva fatto tanta repulsione da spingerlo alla fuga.
Jonas s’abbandonò ad una sensazione che credeva non avrebbe mai più provato e ad una che non aveva mai sperimentato prima.
Baciare quell’essere non era come baciare Lu. Non c’era nulla di simile, nulla, neanche l’azione pareva la stessa, neanche Jonas era più lo stesso.
Se in vita ogni bacio era stato un segreto, un rischio, una promessa silenziosa mai espressa ad alta voce, mai rivelata nemmeno a sé stesso, questo era una boccata d’aria, era un balsamo, era una lunga nottata di sonno nel più morbido dei giacigli, l’abbraccio di una persona amata, il silenzio dopo tanto rumore, l’ombra delle fronde d’estate, le stelle che luccicavano placide in cielo.
 
Un cielo che lui non aveva mai visto.
 
Non avrebbe mai creduto che un bacio potesse essere dissetante, eppure quelle labbra gli stavano togliendo ogni traccia di fuoco di dosso, carezzandogli la pelle liscia del petto, sostenendolo per la vita fine, solleticandolo con quelle dita lunghe e morbide che si aprirono sulla parte bassa della sua schiena, disegnando linee immaginarie contro le sporgenze delle vertebre esposte.
Si spinse con il torace contro quello dell’essere, facendo scivolare le mani lungo le sue braccia, seguendone la stretta che lo sosteneva, sforando il freddo metallo di due lucidi bracciali.
Quando gli toccò le labbra morbide si tesero per un secondo, un ultimo e più intenso attimo e poi s’allontanarono.
Jonas allora non osò fare lo stesso errore due volte, non provò neanche ad aprire gli occhi, rimase solo così, fermo, con le labbra socchiuse e tumide, il capo reclinato, le mani formicolanti e le gambe tremanti. La terra bruciata era incredibilmente morbida sotto i suoi piedi, la cenere soffice gli si infilò tra le dita quando si ritrovò ad arricciarle, cercando quasi un ulteriore sostegno per non cadere.
Ma l’altro non lo lasciò, infilò una gamba tra le sue, lasciando che si poggiasse ulteriormente a lui, poi spostò una mano per accarezzargli nuovamente il viso, passando il pollice sotto il labbro inferiore, prima di chinarsi di nuovo su di lui e depositargli un bacio casto a fior di labbra.
 
«Ora puoi aprire gli occhi.»
 
La voce non era più roca, rauca, acuta, rovinata, ferita.
Era una voce calma e bassa, gentile e dolce, melodiosa, di miele, quella che qualcuno avrebbe chiamato “voce d’angelo”. E chi era Jonas per non esaudire la richiesta di uno spirito celeste?
Lentamente aprì gli occhi, un mondo sfocato e scuro gli apparve davanti, unica macchia di luce il corpo davanti a lui.
Mise a fuoco prima i capelli mossi, chiari, castani. Poi la fronte liscia, il naso dritto, gli occhi azzurri e tersi. Le labbra rosee, lucide, morbide, che si piegarono in un sorriso.
«Resta così, non ti muovere.» sillabarono con lentezza.
Jonas annuì, abbassando lo sguardo sul collo da cigno, le spalle larghe, aperte ma rilassate ed il torace glabro, gentilmente modellato, perfetto come una statua greca in un museo.
Nudo come una statua greca in un museo.
Battendo improvvisamente le palpebre con più vigore Jonas si rese conto che Cicno, perché di lui si trattava, non aveva più una maglia, o il pezzo sopra del suo completo. Ad onor del vero non aveva più il suo vestito.
Fu in quel momento che si rese conto che la mano destra del giovane era poggiata attorno alla sua via, per tenerlo stretto a sé, a contatto con la sua pelle. Non c’era la camicia a separare il torace del greco dal suo, non c’erano neanche i pantaloni a proteggerlo dagli sguardi della gente.
 
Sono nudo?
 
Quella realizzazione lo fece sussultare. Cercò disperatamente di allontanare il proprio corpo da quello dell’altro ma Cicno evidentemente doveva aspettarsi una mossa del genere perché rafforzò la presa e se lo tirò ancora più vicino, facendolo sbattere con forza contro di lui.

Era nel bel mezzo delle Praterie degli Asfodeli, davanti alle porte dei Campi Elisi, appena sopravvissuto da una cascata incandescente di luce, in piedi, nudo, premuto contro un altro uomo nudo.
Quindi era così che sarebbe morto questa volta?

«Fai un respiro profondo, tranquillo. No- non ti muovere, ti copro io.» lo rassicurò con una nota divertita.
Jonas boccheggiò imbarazzato, terribilmente imbarazzato. Mortificato, forse era quella la parola giusta. Umiliato? Sì, era anche umiliante in effetti.
Cicno però pareva non pensarla come lui, non dal modo in cui accomodò meglio la gamba tra le sue, spingendo ancora una volta il ragazzino contro di sé.
«Dimmi,» iniziò con tono vago, colloquiale, «è la prima volta che ti ritrovi stretto ad un uomo nudo, o non ho il piacere di questo primato?»
Se solo spostarsi non avrebbe implicato la possibilità di lasciar vedere a chiunque la situazione quasi degradante in cui si trovava in quel momento, Cicno si sarebbe preso più di un pugno in faccia e se malauguratamente si fosse piegato si sarebbe beccato anche una bella ginocchiata nello stomaco.
Con una smorfia omicida Jonas lo fulminò. «No.»
«No non ti è mai successo, o no, non ho l’onore del primato?»
«Perché siamo nudi?» preferì chiedere invece lui ignorando la domanda per la seconda volta.
Il greco fece un’espressione pensosa e palesemente falsa. «Forse le nostre vesti potrebbero esser state bruciate dal fascio di luce del Guardiano. Oh, parlando di questo, aveva ragione il figlio di Ares, è un occhio, un artefatto divino a forma di occhio.» disse con leggerezza.
Al solo sentir nominare Nathan Jonas alzò la testa e cercò disperatamente di guardarsi attorno per capire dove fosse.
«Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo-»
«Ben quattro volte, spero le signorine non ci sentano.»
Le signorine.

Cazzo!
 
No, no, non poteva farsi vedere nudo da Nathan, sarebbe stata l’umiliazione suprema, ma farsi vedere nudo da Eliza, Jane e Lea sarebbe stato ancora peggio.
Certo, Lea era un’infermiera, ne aveva sicuramente vista in vita di gente così come mamma l’aveva fatta. Ed Eliza aveva militato nell’esercito americano, quindi anche lei doveva averne visti di commilitoni con le braghe calate. Ma l’imbarazzo sarebbe stato troppo, davvero troppo. Senza menzionare Jane poi.

O Cade, chissà quanto mi prenderà per il culo Cade.
 
Cade, che l’ultima volta che aveva visto era svenuto, ripreso al volo da Nathan.
 
«Ecco cosa faremo.» propose Cicno distogliendolo dai suoi pensieri. «Ci abbasseremo lentamente e ti siederai a terra, ti sentiresti più nascosto in questo modo?»
Jonas annuì, rabbrividendo quando sentì la gamba dell’altro scivolare via tra le sue. Strinse immediatamente le ginocchia e si lasciò cadere a terra di peso, senza neanche aspettare, portandosi le gambe al petto, cercando una posizione che lo coprisse il più possibile.
Attorno a loro l’oscurità si stava lentamente diradando, sembrava quasi che il raggio della morte avesse alzato un enorme nuvolone di fumo che andava disperdendosi.
Jonas chinò la testa nascondendo una smorfia imbarazzata, frustrata. Di tutte le cose che potevano capitargli in quella dannata gara la perdita dei vestiti non l’aveva mia contemplata.
Si mosse solo per cercare Cicno con lo sguardo quando realizzò che non si era seduto.
Fosse rimasto a farsi gli affari suoi sarebbe stato meglio.
Davanti a lui, in tutta la sua altezza, in tutto il suo splendore, in tutta la sua innegabile bellezza e consapevolezza di sé il greco osservava con attenzione l’ambiente che li circondava, il capo leggermente reclinato a destra e all’indietro, le orecchie tese a captare anche il più minimo dei rumori. Ma a voler essere onesti, a Jonas non interessava minimamente cosa stesse facendo. Ciò che aveva magnetizzato il suo sguardo era il corpo pressocché perfetto dell’altro.
Ogni linea era al suo posto, ogni muscolo era gentilmente accennato, poteva scorgere il disegno dei muscoli addominali, le due mezze arcate che partivano da sotto le costole e proseguivano fino ai fianchi, l’ombelico incavato, le anche sporgenti, la vita stretta, una leggera curvatura a v che incorniciava il basso ventre e-
Strizzò gli occhi più forte che poté, una moltitudine di puntini colorati esplosero del buio dietro le sue palpebre e Jonas sentì le guance andargli a fuoco mentre abbassava la testa nel tentativo vano di riprendere contegno, pregando di non esser stato scorto. Dopotutto Cicno era così concentrato sui rumori di fondo che provenivano dalla direzione in cui ci sarebbero dovuti essere i Campi Elisi, figurarsi se stava prestando attenzione a lui.
 
«Presumo che il “no” di prima fosse per “no, non ne ho mai avuto l’occasione”.» c’era divertimento nella sua voce e di nuovo quell’accenno di presa in giro che Jonas cercò disperatamente di ignorare.
«Puoi guardare, se vuoi. Per quanto ben proporzionato e attraente, il mio corpo rimane solo questo: un corpo. Non ho nulla di diverso da ciò che hai tu.» continuò con sincerità. Non lo stava giudicando, non lo stava più sfottendo, gli stava comunicando soltanto un dato di fatto.
«Non lo trovi imbarazzante?» Si azzardò a chiedere.
«Non aver mai viso un altro uomo nudo? Un po’ sì in effetti.»
«Non quello! Essere nudo nel mezzo delle Praterie degli Asfodeli! Dove potresti essere visto praticamente da chiunque! Potrebbero vederti Lea, Eliza, Jane! O anche Úranus, o Nathan.» elencò veloce facendo un’altra smorfia al solo pensiero.
Non poté vederlo, ma Cicno ghignò. «Spero vivamente che il figlio di Ares mi veda, così potrà dirmi se ai suoi occhi somiglio realmente ad una principessa oppure no.»
«Oh, e pensi di convincerlo a smettere di chiamarti così facendogli vedere il tuo- le tue- sì, insomma, i-»
«Genitali? Pene?» domandò sarcastico, «Vuoi un termine più volgare? Lo hai ripetuto per bene quattro volte. In ogni caso, un paragone tra la mia e la sua virilità potrebbe giovare, smetterebbe di atteggiarsi a generale.»
Jonas si lasciò sfuggire un gemito di pura vergogna. «Ti prego, ti scongiuro, non dire mai più quella parola.» frignò imbarazzato.
«Virilità dici?»
«Ti prego!»
«Va bene, va bene.» rise leggero, poi gli diede le spalle e si poggiò le mani sui fianchi. «Sento parlare i nostri compagni, ma non c’è ancora abbastanza luce per poterli scorgere, vogliamo avvicinarci?» gli chiese cambiando discorso.
«NO! Dio santissimo onnipotente, no! No, no, no. Non ci muoveremo da qui. Non mi alzerò a meno che non abbia qualcosa per coprirmi.» affermò allarmato, sfregandosi le mani contro le braccia nel tentativo di togliersi di dosso la sensazione di essere così scoperto.
Com’era, per altro.
Non poteva crederci che le fiamme del guardiano avessero bruciato tutti i suoi vestiti e non lui, o i suoi capelli.
Quel pensiero lo fece tentennare per un momento. Lentamente lasciò scivolare le mani via delle sue braccia e le osservò confuso: non c’erano bruciature, non c’erano tagli o graffi, neanche quelli che si era procurato nelle altre gare. No, i suoi arti erano illesi, così come lo era il suo torace, la pancia, i capelli che sentiva forse secchi ma folti sul capo. Eppure era stato nella cascata di fuoco, eppure le sue vesti erano scomparse, e le sue mani-

Le mie mani sono macchiate di sangue? Perché sono macchiate di sangue?
 
Le guardò scioccato, sotto le unghie corte c’era una spessa linea rossa e dei granelli mollicci. Le spirali delle sue impronte erano colorate si sangue ma non c’era una sola ferita sul suo corpo. Il sangue non era suo.
 
Ma se non è mio…

Si ritrovò di nuovo a scandagliare il corpo di Cicno da capo a piedi, questa volta con il preciso intento di trovare qualche segno dell’inferno che avevano appena passato, ma tutto ciò che riuscì a scorgere furono delle linee rosse, come graffi superficiali, sulle sue braccia.
Braccia a cui Jonas si era aggrappato con tutte le sue forze.
 
«Perché sono illeso? Perché tu hai dei graffi?»
Cicno non si voltò neanche per rispondergli. «Ti ho curato, ogni ferita che avevi è ora scomparsa, ma curare danni di quella portata è molto impegnativo e dopo ciò che abbiamo affrontato non sono al massimo della mia potenza. Per questo sono riuscito a far guarire anche le cicatrici dalla tua pelle ma non dalla mia, non ho più forza per farlo.» E mentre parlava continuava ad ergersi fiero e dritto davanti a lui, come se non fosse davvero affaticato dalla prova appena trascorsa.
Jonas ascoltò in silenzio e deglutì a vuoto, prima di porre un’altra domanda. «Quindi è tuo il sangue che ho sulle mani?»
Cicno annuì. «Hai una bella stretta.»
«Mi dispiace. Non volevo ferirti, non ti volevo graffiare.»
«Graffiare?» sbuffò ridendo, «Non mi hai graffiato, sei riuscito a giungere quasi all’osso. Come ho detto, hai una bella stretta.»
Il ragazzino quasi scattò in piedi, prima di ricordarsi che così facendo si sarebbe esposto in tutta la sua gloriosa nudità. Portò istintivamente le mani all’inguine, «Ti ho infilato le unghie nella carne?» chiese orripilato.
Cicno si strinse semplicemente nelle spalle. «Nella mia terrazza mi frustavano con una corda uncinata, neanche applicandoti con tutto l’impegno e l’attenzione di cui sei capace potresti essere in grado di superare millenni di torture.» disse come fosse scontato. «Aver sensi di colpa non ti aiuterà, non ti permetterà di far scomparire le tue azioni passate e ti creerà solo disagio.»
Jonas era allibito, non sapeva cosa rispondere e rimase a fissarlo come un pesce lesso.
Stava cercando le parole migliori per poter spiegare al greco che no, non era vero che non poteva fare nulla, poteva farsi perdonare, poteva sdebitarsi in qualche modo. Per le braccia, per il getto di fuoco, per le cure. Ma Cicno stroncò sul nascere ogni sua possibile obiezione.
«Lo senti anche tu?» chiese d’improvviso allungando il collo in avanti.
Jonas rimase un attimo interdetto, per nulla felice di lasciar cadere quel discorso, poi però sospirò, prese un respiro profondo e cercò di sentire quello di cui l’altro stava parlando.
«Senti qualcosa?»
«Qualcuno. Hai già dimenticato chi ti stava chiamando prima?»
Prima? Prima quando? Quando lo scheletro bruciato aveva cercato di consolarlo?
Un momento. Lo scheletro. Lo scheletro a cui era stretto, in cui aveva le dita infilzate nella pelle molliccia e cadente delle braccia sciolte dal fuoco.

Cicno.
 
Un conato di vomito gli salì alla gola.
Lo scheletro bruciato era Cicno, quella era la condizione in cui il Guardiano l’aveva lasciato.
Come stavo messo io? Ero un cadavere ustionato anche io? Ero come lui?
Ci ha curati entrambi fino a farci riprendere le nostre vere sembianze?
Quello era il teschio di Cicno?

«Ti chiedo gentilmente di non dare di stomaco. Non so se posso permettermi di sprecar altre energie, anche i nostri compagni potrebbero essere feriti e necessitare di soccorso.»
Jonas annuì piano, senza trovare il coraggio di guardarlo in faccia.
Avrebbe visto il suo volto o quello scheletrico?
«Eri- e-eri tu?»
Il suo uscì tentennante, la r bassa, lunga, scivolata sul palato, come le fusa di un gatto.
Cicno inclinò il capo e s’avvicinò a lui fino ad inginocchiarglisi davanti.
«Quando?» domandò solo.
«I-i-il, il te-e-eschio?» pigolò spaventato della risposta.
Il giovane lo osservò e poi sospirò. «Di rado ciò che viene contenuto è bello come il suo contenitore. Un corpo è solo un corpo, piacevole o meno che sia. E il fuoco corrode.»
«Quindi eri tu.» disse con più sicurezza, improvvisamente animato da una foga che non pensava d’avere. «Eri lo scheletro carbonizzato? Era- eri così e ora sei- sei riuscito a… rigenerarti?»
Cicno gli sorrise magnanimo e gli fece l’occhiolino. «Il fuoco è fratello della luce. Entrambi sono fautori di vita, così come di morte. Ciò che distrugge può costruire, io sfrutto questo principio. E no, prima che tu me lo chieda, non eri ferito quanto me.»
«Ferito? FERITO!? Cicno tu non eri ferito, eri un morto vivente, eri uno scheletro come quelli al comando di Ade! Io ho-»
«Avuto paura, terrore, ribrezzo. Lo so, lo percepivo, ma non potevo consolarti in nessun modo se non avessi riassunto il mio vero aspetto.» si fermò un attimo. «Sto bene. Stiamo entrambi bene, non siamo più in pericolo. Per ora.» aggiunse infine tornando a sorridere gentile come sempre.
Se Jonas fosse stato in grado di sfruttare veramente i loro doni divini, se non fosse stato così confuso, stanco, spaventato, stravolto, avrebbe sentito la rabbia cocente che animava Cicno, affiancata da un’umiliazione ben più forte della sua e di tutt’altro tipo.
Il ragazzino aveva aperto gli occhi e l’aveva visto cadavere, l’aveva visto in quelle condizione pietose, come il Guardiano l’aveva ridotto per scavargli nell’anima e cercarvi traccia d’amore.
Un amore che Cicno aveva provato in passato ma che era stato talmente sommerso dall’odio, dalla sete di venetta, che era servito abbattere tutte le sue barrire per giungere al nucleo interno. Vestiti, pelle, muscoli, organi, ossa, ogni cosa bruciata, corrosa, sciolta, divorata dalla furia delle fiamme e dalla fame di conoscenza.
Se non fosse stato importante, se non fosse un punto fondamentale del suo lavoro, Cicno avrebbe cancellato tutta la memoria di Jonas per far sì che dimenticasse quell’abominio, per far sì che scordasse com’era Cicno all’interno.
Dentro di sé si sentiva tremare. Non aveva mentito quando gli aveva detto che gli era servita molta energia per curarli entrambi, per far sì che riprendessero un aspetto umano, malgrado Jonas non fosse stato trasfigurato come lui. Ora Cicno però si sentiva debole, instabile, fragile… se non fosse stato per quel buio sovrannaturale e per l’ansia che lo stava divorando dall’interno, Jonas sarebbe stato in grado di scorgere molte più cicatrici sparse per tutto il suo corpo, lividi che lentamente prendevano colore a macchiargli l’epidermide.
Sentiva la pelle del retro delle cosce tirare, le spalle infilzare da centinaia di spilli, la cute della testa bruciargli ancora. Aveva subito terribili ed indicibili torture e sì, era abituato, poteva sopportare dolori estremi, ma questo non significava esserne immune in assoluto. E nonostante tutto ciò, la stanchezza del combattimento, del difendere un compagno completamente inutile, le discussioni sterili con gli altri, la cascata di fuoco e la razzia del suo stesso corpo, dopo aver attinto al potere del suo maledetto padre per salvare sé stesso, il giovinetto spaurito e quel poco di apparenza che ancora manteneva, dopo tutto questo, non gli era concesso neanche riposare.
Non poteva sedersi a terra ed attendere, doveva rimanere in piedi sulle gambe doloranti e tremanti, pronto a scattare al minimo segno di pericolo, non poteva farsi trovare impreparato, raggomitolato come il bambino. Non poteva neanche smettere di cercare gli altri, doveva assicurarsi che stessero bene, che non fossero feriti. Sperava che Lea avesse già fatto rinvenire Cade o sarebbe toccato a lui farlo. Sperava anche che nessuno si fosse ferito nel mentre. E ritrovati i suoi compagni, raggiunte le porte dei Campi Elisi, maledetti, maledettissimi campi di pace, si sarebbero dovuti dirigere verso un’altra battaglia.
Non potrò riprendere fiato, non potrò fermarmi un momento.
Avrebbe desiderato trovare un angolo sicuro, nascosto e sfogare la sua frustrazione, il suo dolore, la rabbia ed il tradimento che ancora gli cocevano sottopelle. Voleva urlare, contro il mondo, contro gli Dei e la loro crudeltà, quella stessa che gli dava il nome ma che da troppi anni ormai lo tormentava.
Voleva solo riposare per un momento, leccarsi le ferite in solitaria, in pace. Voleva solo piangere, se solo si fosse ricordato come si facesse, se solo il Guardiano non l’avesse prosciugato dall’interno.
Dei, quanto avrebbe desiderato chiudere gli occhi e lasciarsi andare solo per un momento, solo un attimo di riposo.
Ma non poteva.

Si rimise in piedi e tornò a scrutare il mondo che li circondava, il buio si stava lentamente diradando, poteva scorgere qualche spanna in più di terreno e continuando di quel passo entro non molto sarebbero riusciti a vedere almeno a sei metri di distanza.
Non c’era altro da fare che aspettare.


Dopotutto aveva passato secoli a soffrire in attesa della prossima punizione, cosa sarebbe stato attendere un altro po’?







 Salve dal regno dei morti.
Per chi sta ancora leggendo questa fic, complimenti, avete più forza di volontà e pazienza di me. Ma non vi preoccupate, fino ad ora ho avuto un cuore un po’ troppo tenero forse, ma credo sia giunto il momento di applicare seriamente le regole poste all’inizio, così da potermi dedicare per bene al resto. Spero serva a far scorrere meglio la storia.
Nel prossimo capitolo un po' più di trama "esterna" e poniamo il punto d'inizio alla prima missione di Gio.
Buona estate gente, andate al mare anche per me.


   
 
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