Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: innominetuo    29/07/2022    8 recensioni
Essere medico in un reparto militare composto da potenziali martiri non dev’essere di certo una passeggiata. Meti questo lo sa bene.
Ma si sa: ci sono vocazioni e vocazioni, non sono tutte uguali.
Alcune sono un po’ più folli e disperate di altre.
Ma può andar bene… anche così.
(Questa fanfiction è scritta per puro diletto e senza scopo di lucro alcuno, nel pieno rispetto del diritto d'Autore)
N.B. La presente fan fiction è pressoché ultimata, ragion per cui le pubblicazioni saranno - salvo imprevisti di varia natura - regolari e nel fine settimana.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cuori in volo'
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(This image is from a google search, no copyright infringement intended)

 

«Come sarebbe a dire, che non sai se il tuo ciclo sia regolare o meno?»

Meti fissò uno sguardo perplesso sulla figurina seduta sul lettino, di cui aveva appena auscultato il cuore e i polmoni. Gli occhioni verdi rotearono fin su al soffitto, espressione accompagnata da una smorfietta che resero il viso di Isabel Magnolia, buffo ma carino, se possibile ancora più a punta.

«Boh, e che ne posso sapere io?»

Il medico sospirò. «Adesso mettiti supina, così… apri un poco le gambe, in modo da poterti visitare. Tranquilla,» le sorrise, vedendola impallidire prima ed arrossire poi «non ti farò male, ma sentirai un po’ di fastidio. Però è importante per ogni ragazza farsi visitare, una volta ogni tanto, per controllare che sia tutto a posto».

Dopo aver visitato le pari intime della ragazzina, sospirò di nuovo, aiutando Isabel a scendere dal lettino per rimettersi in piedi, con gesti delicati e gentili, cosa cui la giovane paziente non era più molto avvezza, e da tempo immemore. Annotando la propria diagnosi, Meti ripensò a quanto detto da Isabel. Nulla di nuovo o di strano, del resto. Non era di certo la prima volta che una componente femminile del Corpo di Ricerca, tra rossori e timidezza, le confessava di non avere le mestruazioni tutti i mesi… se non addirittura quasi mai. Se poi la ragazza in questione, tra l’altro palesemente sottopeso, proveniva da un ambiente malsano come la Città Sotterranea, era già tanto che non avesse problemi di deambulazione, visti i numerosi casi di poliomielite cui erano soggetti gli abitanti di quel disgraziato posto.

Altro che ciclo mestruale.

Da tanto andava a bussare da Shadis, sempre più spesso, a rampognarlo perché si facesse sentire nella Capitale per approvvigionamenti alimentari più soddisfacenti: il mese precedente alcuni soldati avevano mostrato persino i sintomi dello scorbuto, vista la penuria di frutta e ortaggi freschi. La carne e il pesce erano un sogno proibito, soddisfatto dalle alte sfere per gentile concessione ai tapini dell’Armata Ricognitiva, perlopiù, durante qualche ricorrenza festiva: e comunque non si trattava di certo di prodotti di prima qualità, e neppure di seconda, se è per questo. Scatolame, legumi, un po’ di cereali e farinacei dal sapore stantio… e tanti saluti. Ecco cosa passava la mensa, tutti i santi giorni.

Non esitava neppure a rimproverare il Comandante per l’eccessiva durezza degli allenamenti fisici cui egli faceva sottoporre i soldati, reclute comprese, per molte ore al giorno, portandoli allo sfinimento: non di rado erano capitati svenimenti e collassi, cui gli ufficiali medici, tra cui Meti stessa, avevano dovuto porre rimedio con gli scarsi mezzi a loro disposizione.

«Quello che vorrei sapere è se perdi sangue per qualche giorno al mese…» riprese, poco prima di congedare la fanciulla.

La figurina nervosa si stiracchiò leggermente, prima di bofonchiare qualcosa di appena intelligibile, facendo spallucce. «Se capita che mi ferisco, il fratellone prima mi sgrida e poi mi medica. Altro non so.»

La donna annuì. Non avrebbe cavato un ragno da un buco, inutile insistere. La fanciulla era in condizioni generali di salute non proprio perfette, ma per il momento c’era poco da fare. Rifletté su quanto appena detto da Isabel. Per “fratellone”, la ragazzina dai capelli rossi intendeva il “simpaticissimo elemento” che, circa una mezzora prima, le aveva fatto venire i sudori freddi, rendendo la visita medica di ordinanza un’esperienza assolutamente spiacevole da espletare. Un incubo: altro che dovere.

Davvero una strana combriccola, quella che il Caposquadra Smith le aveva appioppato quella mattina per farle verificare le condizioni di salute.

Un giovane uomo di bassa statura ma dall’espressione poco raccomandabile, un ragazzo biondo dall’aria spaesata, ed una ragazzina nervosa come una scimmietta. E la giornata non era ancora finita: dopo il turno della pel di carota, le restava ancora il biondo stralunato da visitare. Per non parlare dei resoconti medico-sanitari da compilare e consegnare al Caposquadra.

Quello non era un periodo facile.

Il suo superiore, l’Ufficiale Medico Ron Hervert, era stato da poco colpito da un principio di infarto per il sovraccarico di lavoro, dato che la Legione Esplorativa non poteva di certo passare per un reparto militare burocratizzato e dai ritmi regolari, come invece lo era la Guarnigione e, a maggior ragione, la privilegiatissima Gendarmeria: l’anziano dottore stava cercando di rimettersi in sesto con un periodo di forzato riposo, dato che la convalescenza si stava rivelando assai più lunga del previsto. Meti si era quindi ritrovata pressoché da sola, aiutata da un pugno risicato di infermieri e di tirocinanti, a svolgere, per il momento, il duro compito di unico ufficiale medico.

In fondo, quello era stato un giorno abbastanza positivo. La prossima spedizione si sarebbe svolta tra quasi un mese: per alcune settimane, pertanto, la donna non avrebbe dovuto amputare arti, frenare emorragie, chiudere gli occhi. Quelli erano frangenti terribili, in cui ogni secondo era prezioso e non andava sprecato, per cercare di svolgere al meglio il compito di strappare alla morte quanti più soldati possibile. Ogni giovane che le moriva davanti, magari dopo aver mormorato “mamma…” era per Meti un regalo che le veniva indirizzato direttamente dall’Inferno. Il senso di colpa non finiva mai di torturarla, ogni volta che perdeva un paziente.

«Va bene, cara, abbiamo finito. Puoi rivestirti e uscire.» le disse, in tono materno.

«Non sono malata, vero? Beh, lo sapevo, sennò il fratellone me lo avrebbe detto!»

Meti sorrise. «Hai molta fiducia in tuo… fratello. La fiducia è una gran bella cosa, sei fortunata ad avere qualcuno di cui ti fidi.»

La rossina annuì. «Lui sa tutto di tutto. Ciao, ciao!» Non era uscita dallo studio medico da neppure un minuto, che Meti si rivide di nuovo davanti la ragazzina con un’espressione estatica in volto.

«Vedo che hai fatto amicizia con Princess.» Al che la giovane donna accarezzò la testolina della sua anziana micia d’angora, ora in braccio ad Isabel, e tutta intenta a fare le fusa alla sua nuova amica.

«Com’è morbida… è la cosa più morbida del mondo…» sospirò Isabel, abbracciando la candida gatta con maggior trasporto, e chiudendo gli occhi, rapita.

«Le piaci. Di solito è molto timida con gli sconosciuti. Se vuole fare amicizia con te è perché si vede che sei speciale, e lei, questo, lo sente». Una carezza leggera scompigliò appena la zazzera ramata.

«Davvero?»

Meti le accentuò il sorriso. «Beh, vedi…Isabel, gli animali non sbagliano, in queste cose. Mai.»

Gli occhioni verdi le rivolsero uno sguardo supplichevole: Meti intuì subito la muta richiesta della fanciulla: richiesta che non osava dirle espressamente.

«Certo. Certo che puoi venire a trovare Princess: nel tempo libero, si intende. Se fa piacere a lei, io non ho nulla in contrario».

****

Gli risultava sempre più arduo cercare di rabbonire l’ufficiale medico.

Le discussioni tra loro, oltre che sempre più frequenti, spesso erano sfociate in veri e propri litigi, solitamente sedati da Smith. Sapeva che Meti avesse ragione, soprattutto per quanto concerneva le scorte alimentari e di medicinali, ma lui non era oggettivamente in grado di garantire dei cambiamenti, né nel medio, né nel lungo termine.

Non sapeva più se ridere o piangere, quando si ritrovava a discutere con quello scricciolo di donna, che sapeva tenergli testa… a lui, sì, che era alto quasi due metri, mentre il medico era una cosetta minuta di media statura, tutta occhi e capelli, tra l’altro questi perennemente arruffati. Lei non faceva che rinfacciargli le condizioni “al limite della decenza” in cui erano tenuti i soldati dell’Armata Ricognitiva, “poco più che ragazzini”. Ma lui non poteva che abbozzare, alla fine. Nelle alte sfere era diventato sempre più difficile ottenere un’udienza: se poi la classe dirigente avesse avuto sentore di lamentele da parte degli ufficiali della Legione Esplorativa, ecco che i pesanti portoni riccamente intarsiati della Sala del Consiglio Reale se ne sarebbero rimasti tenacemente chiusi.

E tanti saluti.

Si sentiva stanco e rassegnato. Andava avanti nella missione che si era prefisso oramai da molti anni, quando era entrato nella Legione Esplorativa a soli diciotto anni. Keith Shadis portava sulle sue spalle un peso immenso: quello del senso di colpa, dovuto a tante, troppe morti di giovani soldati al di fuori delle Mura, nelle fauci dei mostri che oramai da tempo immemore tenevano in scacco l’umanità.

Le continue rimostranze del medico non facevano che mettere ulteriore sale sulle ferite del suo animo. Sospirando, chiuse a chiave uno stipetto della sua scrivania, ove teneva documenti ricoperti dal segreto militare. Un altro peso da portare da solo… Ancora per quanto tempo?

E, soprattutto…perché?

****

L’aria era fresca, con le prime luci dell’alba che, scherzose, creavano giochi di ombre che si rincorrevano sulle pareti dello studio medico, creando paesaggi fantastici.

Meti era solita alzarsi molto presto, per poter iniziare la giornata con la dovuta calma.

Amava organizzare il programma quotidiano in modo meticoloso e tranquillo: soprattutto se era agitata e nevosa, i piccoli riti mattutini, lenti e ripetitivi, cui era abituata le infondevano la predisposizione d’animo per poter affrontare la giornata con la giusta dose di equilibrio. Ricontrollava l’archivio dei medicinali, appuntando con cura i farmaci e i presidi medici vicini all’esaurimento o al deperimento. Metteva in ordine gli ultimi dispacci medici, catalogandoli nello schedario.

Proprio mentre era intenta a controllare lo stato dei bisturi, sentì un leggero bussare allo stipite della porta, lasciata aperta. Pur sapendo all’occorrenza essere silenzioso come Princess, Erwin non tralasciava mai le buone maniere. Né trascurava di fare spesso capolino da Meti, più che altro al mattino presto, quasi come se fosse un rito, per lui, per iniziare bene la giornata.

«Disturbo?»

Ad un gesto di diniego del medico, lo sguardo del Caposquadra si rivolse rapidamente ad una sedia accostata ad un tavolino, in un angolo della stanza. «Posso…?».

«Certamente. Ho già preparato del caffè, come vedi: fammi compagnia» decise Meti, per tutti e due.

Erwin sorrise. Il piglio conciso della donna era una delle cose che più apprezzava, in lei.

Offerta la tazza al biondo ufficiale, Meti si accomodò a sua volta su una poltroncina bassa, sospirando leggermente. «Ho letto i tuoi resoconti medici. Non mi lasciano stupito più di tanto, soprattutto quanto emerso sul conto di Levi. Ci avevo visto giusto.»

«Sostanzialmente le sue condizioni fisiche sono molto buone, e c’è da stupirsi, visto e considerato da dove proviene. Gli altri due ragazzi presentano invece qualche problematica di salute, la ragazzina soprattutto, come avrai potuto leggere. Non so se siano adatti a vivere qui.» concluse, mormorando.

Erwin finì di bere il suo caffè e posò la tazza con un gesto leggero sul tavolino di bosso. «Beh, se sono riusciti a sopravvivere, e più che discretamente, nella Città Sotterranea, non dovrebbero avere particolari problemi ad abituarsi a questa nuova vita. E, comunque, a me interessa solo Levi, a dir la verità. Gli altri due ragazzi mi sono necessari per poterlo tenere qui con noi. Altrimenti… in loro mancanza non mi sarebbe possibile tenerlo legato al Corpo, piuttosto si farebbe ammazzare, come un randagio che ringhia pur annusando la polpetta.»

Meti aggrottò le sopracciglia; alzandosi, si diresse alla scrivania, con fare nervoso, per riordinare alcune carte. «Cos’hai in mente? Pensi di poter ammaestrare un randagio, come tu stesso l’hai definito?» gli chiese, a schiena voltata. Erwin le si avvicinò, per appoggiarsi, a braccia conserte, al bordo della scrivania, ponendosi a lato della donna, e fissandola in viso, cercando un contatto visivo.

«Levi non ti piace, o sbaglio?»

Meti si voltò leggermente, e lo fissò a sua volta. Due diverse sfumature di azzurro si incontrarono, per un lungo istante: il limpido celeste degli occhi di Erwin si sposò con il cupo ardesia dello sguardo del medico.

«Quello che penso io non ha nessuna importanza. Non nego che la conoscenza di quell’uomo sia stata piuttosto sgradevole: non volendo essere visitato, quel tuo Levi mi ha fatto trascorrere un pessimo quarto d’ora. Se non fossi intervenuto tu, non sarei riuscita a fare il mio lavoro: lo sai, no? Ma, ribadisco, questo non è importante. Quello che vorrei sapere, sempre che tu voglia parlamene – eh, si intende – è cosa tu abbia in mente di fare con lui. Cosa ha a che vedere quell’uomo impossibile con te, con noi, con la nostra Armata? Perché darti tanta pena di andare a stanartelo in quel posto orrendo e trascinarlo qui, insieme ai suoi compari?»

Smith sorrise lievemente nelle belle labbra, sottili ma ben disegnate.

«Dici così perché non lo hai ancora visto in azione con il movimento tridimensionale. Non è un uomo comune»

«Intendi usarlo, quindi, nella Causa» concluse Meti, in tono secco.

«Può essere.» il sorriso del biondo ufficiale si accentuò.

****

Guardò con aria tra lo disgustato e il rassegnato la brandina e il comodino che gli avevano assegnato.

Aveva appena rimboccato le lenzuola con precisione meticolosa e disteso con le mani il copriletto, tendendolo bene: la biancheria da letto era, tutto sommato, fresca di bucato e non troppo lisa. Ma sotto la brandina faceva bella mostra di sé un discreto strato di polvere. Senza dire una parola, uscì dalla camerata per andare subito a procurarsi uno straccio, e magari pure un po’ di lisciva.

Aveva perso tutte le sue cose: la sua casa, piccola ma molto pulita e in ordine, il mobilio che si era procurato al mercato nero e che si era scelto di suo gusto.

Ci aveva guadagnato in aria pura, questo sì. Aria aperta, con la vista del cielo, del sole e delle stelle.

Ma tutto quello che conosceva sin da bambino ormai doveva lasciarselo alle spalle. E tutto questo per poter compiere la sua missione, per conto di Nicholas Lovof, e per guadagnarsi la sua fetta di paradiso alla luce del sole, insieme a Farlan e a baka (*).

Troppe incognite, però.

Levi non era di certo uno stupido. Ok: doveva uccidere un uomo, cosa che era benissimo in grado di fare, volendolo, anche se far fuori qualcuno a sangue freddo non è che fosse tanto nelle sue corde. Ma, come si diceva nella Città Sotterranea, “una volta che si accende il calderone della strega, il fuoco non si spegne mica più”.

Trovati uno straccio, uno spazzolone e un po’ di detersivo in una sorta di sgabuzzino, intendeva tornarsene di filato a pulire la sua nuova postazione da notte per come si deve, quando, nello svoltare a testa bassa in fondo al corridoio, andò ad urtare contro qualcosa, che gli si materializzò davanti come una figura sottile, piombata a terra con un tonfo sordo. Si ritrovò, masticando un’imprecazione tra sé e sé, ad aiutare a rimettersi in piedi quella rompiscatole del medico-donna del giorno prima, che lo aveva subissato di domande e che aveva cercato di auscultargli cuore, polmoni e chissà cos’altro, alla ricerca di malattie inesistenti. Scuotendosi via la polvere dal camice, Meti gli lanciò un’occhiataccia, restituitale da Levi con gli interessi. Quindi, ognuno si allontanò velocemente nella direzione opposta, in perfetto silenzio e con fare sdegnato.

«Dove sei stato, fratellone?», gli chiese Isabel, tutta giuliva, andandogli incontro.

A lei invece era piaciuta molto la camerata femminile, ove era stata assegnata da una soldatessa alta e carina, con un taglio di capelli corti e biondi che esaltavano i lineamenti fini del suo viso e i bellissimi occhi azzurri. Aveva già attaccato bottone con diverse ragazze, incuriosite dal suo buffo musetto, e dal suo strano accento, tipico della Città Sotterranea. Isabel Magnolia era una anomalia, in quel contesto militare, a tratti tetro: ma un’anomalia in senso positivo. La sua solarità, il suo entusiasmo, la sua aria da scimmietta curiosa le accattivavano le simpatie della maggior parte delle persone, soprattutto se di sesso femminile.

«Lascia perdere, mettiamoci a pulire questo porcilaio, piuttosto» bofonchiò lui.



Note (*): Baka vuol dire stupido/a, sciocco/a in giapponese: spesso fratellone-Levi così apostrofa amorevolmente Isabel Magnolia.
  
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