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Autore: Soul of Paper    07/08/2022    6 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 74 - Crescere


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Sono a casa!”

 

Sorrise, estraendo la torta salata che aveva lasciato tiepida in forno.


Ormai le toccava cucinare quasi tutto, oltre ad evitare i salumi non cotti. Le gioie della gravidanza. Ma almeno, con le sue leggendarie torte salate svuota frigo, risolveva la situazione.

 

Sentì un bacio sulla guancia, seguito da un urlettino di protesta e poi da un risolino del piccolo gelosone, appollaiato nel suo seggiolone, al quale il grande gelosone aveva a sua volta dato un bacetto.

 

“Se ti vuoi dare una rinfrescata, qua quando vuoi è pronto.”

 

Calogiuri annuì e fece per voltarsi ma d’istinto le venne di fermarlo con un, “aspetta!”

 

“Che c’è?” le domandò, stupito.


“No, che c’è lo chiedo io a te, Calogiuri. Tieni uno sguardo strano. Che c’è qualche problema? Qualche cosa che dovrei sapere?” aggiunse, perché riconosceva benissimo quell’espressione, di quando era preoccupato e non sapeva come dirle qualcosa.

 

“Hanno… insomma… visti gli ultimi sviluppi e che le condizioni di Melita le consentono di testimoniare, anche se da remoto, e… tutto quello che è successo… hanno deciso di anticipare l’udienza di Milano. Me lo ha detto Irene e… e non sa se sia un bene o un male ma… devo andarci per forza, per testimoniare.”

 

Mollò la teglia sulla tavola con un po’ troppa poca delicatezza - pure per i suoi standard - e l’idea di averlo lontano, anche se le pesava, c’entrava solo in minima parte. Era tutto il resto che la preoccupava e che sicuramente preoccupava anche lui, a parte il pensiero di lasciarla sola, apprensivo com’era da quando aveva scoperto che lei fosse incinta.

 

“Quando?”

 

“Questo venerdì.”

 

“Tra quattro giorni? Ma da quanto lo sai, Calogiuri?”

 

“Io da oggi, che a te non si può nascondere niente nemmeno per cinque minuti: sei un segugio, dottoressa! Irene, da quanto ho capito, lo sapeva dalla settimana scorsa, ma non era ancora sicura della lista dei testimoni e… mi ha detto che non voleva farci preoccupare o darci disturbo in questo momento. Ma sono stato chiamato dalla difesa, vorranno cercare nuovamente di screditarmi, quindi mi tocca andarci per forza.”

 

“E allora vengo anch’io!” proclamò, col tono di quando non ammetteva risposta contraria.

 

“Imma!” ribatté lui, con lo stesso identico tono.


“Imma niente, Calogiù. Questa cosa l’abbiamo iniziata insieme e la finiremo insieme, a Milano e qua a Roma. Non esiste che ti ci mando da solo: dobbiamo fare squadra e preparati che ti tartasserò fino all’ultimo, non solo con lo studio per il corso, ma anche con la preparazione delle possibili domande per il processo.”

 

“Ma sei incinta e devi stare a riposo e-”

 

“E il frecciarossa è come stare a casa, Calogiù: mica è la Marozzi! E poi dobbiamo solamente stare in tribunale, mica ci dobbiamo fare i chilometri a Milano. Ti prometto che, soltanto ed esclusivamente per questa volta, accetterò pure di prendere i taxi per tutti gli spostamenti lunghi.”

 

“Ma e con Francesco come facciamo? Non… non credo che portarlo a Milano sia una buona idea.”

 

Guardò il piccoletto, che ricambiò con un sorrisone ed un altro urletto, le manine che si agitavano verso di lei e la teglia - sulle cose che gli piacevano era ingordo quasi quanto Noemi.

 

Ma no, non era una buona idea portarlo nella tana del lupo, affatto.


“E se… e se rimanessimo via per una notte soltanto e lo lasciassimo alla babysitter di Irene? Tanto pure lei… dubito si potrà portare dietro Bianca proprio a Milano.”

 

Calogiuri sospirò.

 

“In effetti ci ho pensato ma… ma Francesco ti è così attaccato che…”


“Sì, a quella poveretta probabilmente aspetterà una notte insonne. Ma possiamo fare le videochiamate, no? Come quando stava fisso da Irene e… e poi… e poi saranno soltanto poche ore, ma sono decisive, Calogiù, anche per lui e per… per Melita.”

 

Non le era riuscito di dire sua madre. Era stupido, lo sapeva, come sapeva anche di dovercisi abituare, ma per lei Francesco era più di un pezzo di cuore e non era affatto facile accettare che in un futuro non troppo lontano si sarebbero dovuti separare definitivamente.

 

La mano di Calogiuri sulla spalla, il mezzo abbraccio e il bacio sulla fronte, furono almeno un attimo di pace e di distrazione da quei pensieri.

 

Anche perché c’era qualcosa di molto più grave ed urgente a cui pensare mo.

 

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“Dai, pensa che domani lo rivedi e che lo riempiremo di coccole - e di cibo - per farci perdonare.”

 

Le scappò un sorriso, anche tra le lacrime di commozione e di senso di colpa: erano appena usciti da casa di Irene, lasciandosi alle spalle Francesco che ululava come un ossesso.


Si sentiva uno schifo, come se lo stesse veramente abbandonando, anche se sapeva che era necessario.

 

La mano di Calogiuri sulla spalla, di nuovo, le fece forza e si ripromise che ne avrebbe fatta almeno altrettanta a lui, in quelle ore decisive prima del processo.

 

Beccò Irene a guardarli, ma la ex gattamorta non disse niente e di sicuro non lo avrebbe fatto lei.

 

“Meglio se andiamo ora: non solo per non fare aspettare troppo Mariani, ma perché dobbiamo fare un giro largo per arrivare a Termini.”

 

Si guardò un’ultima volta con Calogiuri, annuì e si avviarono verso l’ascensore.

 

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“Aspetta: ti aiuto a salire.”

 

Con suo estremo imbarazzo, dopo che già le aveva impedito di sollevare qualsiasi cosa - pure la valigetta leopardata degli incartamenti - vide Calogiuri salire prima di lei sul treno, manco fosse uno di quei regionali che ti ci dovevi arrampicare sopra, e non un treno moderno con giusto un paio di gradini, e tenderle una mano.

 

“Calogiù…” sospirò, tra il grato e l’esasperato, accettando però la mano, perché già Irene li guardava un po’ stranita e temeva molto che la collega si stesse facendo due domande e pure dando due risposte.

 

Calogiuri poi, forse per mascherare il gesto, fece lo stesso anche con Irene che la guardò, si morse le labbra con aria divertita e con un “preferisco vivere, grazie, Calogiuri!” salì da sola i due gradini, anche se nel farlo si avvicinò un po’ troppo a lui.

 

Si stupì nel non provare gelosia: ormai si fidava di Calogiuri e pure di Irene, le toccava ammetterlo.

 

Mentre Calogiuri caricava tutti i bagagli, anche quello di Irene, che manco un facchino in un film, Irene le fece strada verso una sala come quella in cui l’aveva portata ai tempi Mancini.

 

“Ma… ma…”

 

“Almeno possiamo parlare del caso lontano da orecchie indiscrete. E poi… e poi, visto com’è apprensivo Calogiuri, credo sia stata la scelta migliore.”

 

Eccallà!

 

Irene la stava guardando in quel modo… in quel modo da Irene, come se sapesse tutto di te prima che lo sapessi tu stesso.

 

Rimasero a fissarsi, come a sfidare l’altra a dire qualcosa, finché la voce preoccupata di Calogiuri che chiedeva, “ma che succede? Tutto bene?” la fece guardare verso l’entrata. Notò un altro sorriso di Irene quando Calogiuri abbassò gli occhi, sicuramente in modo inconscio, verso la sua pancia ancora invisibile.

 

Sospirò: era ovvio che con la gattamorta il segreto sarebbe stato di pulcinella.

 

“Succede che se fai così sempre, Calogiù, tra un po’ che sono incinta lo saprà pure il capotreno,” proclamò, non appena la porta fu richiusa, tra la confusione, lo stupore di Calogiuri e lo sguardo trionfante di Irene, come a dire lo sapevo!

 

E anche Calogiuri, alla fine, capì, diventò rosso come un peperone crusco e balbettò uno “scusa, scusa, scusa!” a dir poco mortificato.

 

Si intenerì e le venne anche da ridere, in fondo, perché la ex gattamorta era l’ultima a cui avrebbe mai pensato di annunciare la gravidanza e invece, a parte la dottoressa amica sua, a Calogiuri e a Diana, era stata la prima a saperlo, manco a farlo apposta.

 

“Possiamo contare sul tuo ermetismo, immagino?” le chiese, in quello che era un ordine manco troppo velato ed Irene, per sua sorpresa, sorrise ancora di più, ma in un modo dolce che… che aveva visto solamente quando era con Bianca.


“Sono molto felice per voi, davvero. E pensare che…”

 

Non proseguì la frase ma era evidente che stava pensando alla fuga di Bianca e quello che ne era seguito.

 

“Eh… si vede che doveva andare così, per schiarire un po’ le idee a tutti, no?” proclamò, come se fosse la cosa più naturale del mondo, perché alla fine, fortunatamente, era andato tutto a posto.

 

E fu allora che accadde.

 

Uno dei segni dell’apocalisse sicuramente.

 

Si trovò stretta da due braccia, che non erano di Calogiuri e neanche il profumo, senza dubbio alcuno costosissimo, e che forse non era nemmeno un profumo ma lo shampoo o il gel doccia, per quanto era accennato.

 

Ma la cosa che la sconvolse più di tutte fu che non si sentì a disagio, anzi, ricambiò pure l’abbraccio, anche se solo per qualche secondo.

 

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“Tutto bene? Nausea? Affaticamento?”

 

“Calogiù, me lo hai già chiesto mezz’ora fa: sto bene, sto bene, tranquillo!”

 

Irene alzò gli occhi al soffitto e scosse il capo, tra il divertito e l’esasperato, mentre lei sospirava, “capisci con che cosa ho a che fare tutti i giorni?” e Calogiuri di nuovo si imbarazzava.


“Dai, che dobbiamo concentrarci sul ripasso per il processo mo. Irene, vuoi riprendere tu?”

 

“No, vai prima tu, Imma: visto che si tratta di un interrogatorio, preferisco lo tartassi di più tu. Io interverrò con le obiezioni al bisogno.”

 

Le toccava interpretare l’invidiabilissimo ruolo di avvocato dell’Avvocato. Un incubo praticamente, ma almeno così sarebbe stata un’esercitazione sia per Calogiuri che per Irene.

 

Anche se Irene nel contraddittorio era veramente molto brava, non c’era che dire. O forse era lei che a fare l’avvocato per i criminali non ci era proprio tagliata. Ma la cosa più importante era che pure Calogiuri se la stava cavando bene.

 

Mancava ancora un’ora a Milano e quattro al processo. Dovevano farcela.

 

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“Dottoressa Tataranni! Dottoressa Tataranni! Come mai qua al processo?”

 

“Deve testimoniare anche lei?!”

 

“O non sarà che non si fida del maresciallo e della sua testimonianza?!”

 

“Come vi sentite ad essere di nuovo in tribunale dopo quanto successo a Roma?!”

 

Un fuoco di fila di domande da far girare la testa, letteralmente, per non parlare della folla di giornalisti e curiosi nella quale erano stati schiacciati.

 

“No comment!” urlò, perché di sicuro non aveva voglia di perdere tempo ed energie con quei cretini.

 

“Lasciateci passare!” gridò Calogiuri, che la teneva abbracciata per proteggerla, mentre Irene con un, “non abbiamo niente da commentare, fateci passare!” faceva spazio tra i giornalisti, aiutata poi - alla buon’ora! - dagli uomini della sicurezza del tribunale.

 

Finalmente, dopo minuti che sembrarono ore, erano dentro all’iconico edificio del tribunale di Milano, teatro di tanti processi storici per l’onestissimo Bel Paese.


Si diressero verso l’ufficio assegnato a Irene per cambiarsi, accanto all’aula, la tensione che si tagliava con un coltello.

 

La sicurezza li fece passare ed intravidero il PM assegnato al caso, con il quale Irene aveva già avuto rapporti durante la sua famigerata trasferta milanese con Calogiuri, e presumibilmente anche negli ultimi tempi, se aveva accettato la sua collaborazione al banco dell’accusa.

 

“Voi andate pure in aula. Mi raccomando, Calogiuri: non abbassare mai la guardia.”

 

“Ci penso io a tenerlo sugli attenti, non ti preoccupare,” le rispose, guadagnandosi un sorrisetto di Calogiuri che in quel momento non ci voleva proprio, dopo tutta l’astinenza forzata - da lui e dalle sue paranoie.

 

Mannaggia a lui!

 

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“E quindi perché ha ritrattato la sua testimonianza contro l’avvocato Villari, che aveva deposto proprio in udienza in questo tribunale?”

 

Era stata Irene a fare la domanda: un interrogatorio da parte di un PM uomo sarebbe risultato assai peggio agli occhi dell’opinione pubblica, visto lo stato in cui ancora versava Melita.

 

I tiranti ed alcune cicatrici erano ben visibili, nonostante il monitor, tanto che, quando era apparsa sullo schermo del tribunale, molti avevano fatto un’esclamazione di sgomento.

 

Irene le aveva fatto ripetere più o meno la testimonianza resa a loro, omettendo ovviamente i dettagli sulla paternità di Francesco e concentrandosi di più sul ruolo dell’avvocato Villari in tutta quella vicenda.

 

“Perché… perché mi hanno ricattato: lui, Stefano Mancuso, Nicola Giuliani e… e gli amici loro che mi controllavano. Mi avevano portato via mio figlio e mi hanno minacciata che l’avrebbero ucciso se non li aiutavo. Ed era il loro piano dall’inizio: che… che dovevo prima testimoniare e poi dopo dire che non era vero niente, che il maresciallo Calogiuri mi aveva convinta a mentire in tribunale. Così… così non ci avrebbe creduto più nessuno: a me, a quello che dicevo, a lui, a tutto.”

 

“E perché dovremmo crederle ora?” intervenne l’avvocato della difesa, deciso, anche se non era al livello di Villari, ovviamente.

 

“Forse perché è quasi morta e sarebbe pazza a difendere chi l’ha ridotta così? O forse perché abbiamo le prove su chi sia stato a ridurla così, oltre alla testimonianza diretta della vittima?” ribatté Irene, con una decisione invidiabile che, insieme alle condizioni di Melita, suscitò un brusio in aula e ridusse al silenzio l’avvocato.


“Ma la testimonianza su quell’incontro con gli amici milanesi dell’avvocato era vera?” domandò Irene, perché era quello il cuore del processo a Milano: Villari ed i legami con la criminalità organizzata milanese.


“Sì, era tutto vero. Ero con lui perché… perché ci dovevamo far vedere insieme per… per attirare la dottoressa Tataranni e il maresciallo nella trappola. Ma sono arrivati loro-”


“Loro chi? Può specificare dove sono seduti? Li vede dalla telecamera?”

 

Melita indicò con precisione i posti ai quali stavano i gentiluomini che aveva già indicato durante l’udienza milanese precedente, senza esitazioni.

 

“Ed è successo quello che ho detto l’altra volta. Hanno detto che… che l’avvocato Villari doveva far condannare il suo cliente e solo lui. E lo hanno minacciato e hanno minacciato me. E poi… lui e Mancuso, Giuliani e gli altri, mi hanno minacciata anche per questo. Ma… ma poi un giorno l’avvocato mi ha detto che l’avrei dovuto dire a Milano, a processo, quello che era successo. Io pensavo di aver capito male ma… ma poi ho capito. E… e avevo paura per mio figlio e… e ho accettato, ho accusato il maresciallo e ho sbagliato. Non c’è mai stato niente tra me e lui, mai, anzi, è sempre stato corretto con me, fino in fondo. Uno dei pochi uomini che… che mi ha sempre trattata con rispetto, come una persona e non come… come un oggetto. Lui e la dottoressa mi hanno aiutata e… e io li ho riempiti di bugie, li ho traditi ma… ma non avrei voluto farlo e… e non me lo perdonerò mai.”

 

Il battito accelerato di Melita era udibile anche da remoto, così come la voce della dottoressa Tulli che le raccomandava di calmarsi.


“Per me basta così, non voglio far stancare ulteriormente la teste,” intervenne prontamente Irene, anche perché tutto il pubblico in aula, i giornalisti, sembravano tutti molto colpiti.

 

“Avvocato, lei ha altre domande?” chiese il giudice e l’avvocato si guardò con Villari, che in teoria era il suo cliente, ma di fatto ne sapeva più di lui, e poi scosse il capo.

 

Sapevano benissimo che tormentare ulteriormente Melita in quelle condizioni non avrebbe fatto altro che peggiorare la percezione dell’avvocato da parte dell’opinione pubblica.


“No, anche noi non vogliamo stancare ulteriormente la teste, sebbene respingiamo fortemente le sue dichiarazioni, naturalmente. Ma, in considerazione del suo stato di prostrazione, possiamo passare oltre.”

 

“Se volete farmi passare per bugiarda, proprio lui poi che c’ha più facce che soldi, io posso andare avanti!” esclamò Melita, rivolta evidentemente a Villari.

 

Imma si guardò con Calogiuri e anche lui era preoccupato per lei e per quello che avrebbe potuto fare l’avvocato.

 

“Credo che la testimonianza della teste sia stata esauriente. Non si preoccupi, signorina Russo, passiamo al prossimo,” intervenne per fortuna il giudice, mettendo fine a quella parte così spinosa dell’udienza.

 

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“La difesa chiama a testimoniare il maresciallo Ippazio Calogiuri.”

 

Un senso fortissimo di deja vu la colse, insieme ad un’ansia profondissima di riflesso. Ma sentì la mano di Calogiuri nella sua ed udì quelle due parole: “sono pronto.”

 

E Calogiuri quando diceva che era pronto voleva dire che lo era veramente, fino in fondo, pure se era molto meno insicuro di prima.

 

Ricambiò la stretta, gli fece un sorriso il più possibile rassicurante e lo lasciò andare, ammirando il passo deciso e dritto, a testa alta, con il quale raggiunse il banco dei testimoni.

 

Sembrava quasi un’altra persona, rispetto anche solo all’udienza tremenda di qualche mese prima. Pure se, in fondo al cuore e nell’anima, rimaneva sempre il suo Calogiuri di Grottaminarda.

 

Ma si era fatto la scorza, la corazza ed aveva acquisito una sicurezza che non era sfrontatezza, ma consapevolezza dei propri mezzi e dei propri limiti.

 

Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza.”

 

La frase di rito, il mezzo sorriso sprezzante dell’avvocato ed iniziava la battaglia.

 

“Maresciallo, posso ancora chiamarla così, dopo tutto quello che è successo?”

 

“Obiezione! Il maresciallo non è più indagato né dalla giustizia penale né dall’Arma e, anzi, tra poco sarà molto probabilmente promosso a capitano.”


“Ed io questo intendevo, dottoressa, si rilassi,” intervenne l’avvocato, con faccia da schiaffi, e gliene avrebbe dati tanti, due a due fino a diventare dispari, gliene avrebbe dati.

 

“Avvocato, cerchiamo di evitare i preamboli e di procedere con le domande, per favore,” si inserì il giudice, che francamente parve irritato dall’atteggiamento dell’avvocato e forse quello poteva, letteralmente, deporre a loro favore.

 

“Maresciallo, non ho posto questa domanda alla signorina Russo in virtù del suo stato di prostrazione, ma lo chiedo ora a lei. Come possiamo credere ad una sola parola di quello che lei afferma, o di quello che afferma la Russo, quando lei e la dottoressa avete in affido il figlio della Russo stessa? Ditemi: che differenza c’è tra la posizione di potere che avete voi adesso su di lei e quello che la Russo sostiene sia stato il ricatto del mio cliente e delle altre persone da lei nominate? Cosa che, almeno per il mio cliente, non è mai avvenuta.”

 

Merda! Come lo avevano saputo sti stronzi?

 

Si guardò con Irene, visibilmente preoccupata - e non solo per la protezione di Francesco - e poi con Calogiuri che però, più che preoccupato, pareva rabbioso. Lo fissò, pregandolo di non fare scemenze, di stare tranquillo e lui ricambiò in un modo che… che, stranamente, ebbe il potere di frenare per un attimo il panico.

 

Perché Calogiuri non era in panico, anzi. A parte la rabbia non c’era agitazione alcuna e le fece un cenno come a dirle fidati di me!

 

E lei si fidava di Calogiuri, si fidava eccome.

 

“Francamente mi chiedo io come lei abbia la faccia tosta di fare questa domanda, dopo aver visto le condizioni in cui versa Melita - e no, non la chiamo la Russo perché io, Imma e tutti noi della procura ci teniamo veramente a lei, al suo bambino e al loro bene.”

 

“Convenientemente, devo dire, visto che è un’arma molto potente da usare e-”

 

“E quello di cui lei sta parlando come di un’arma è un bambino di pochi mesi che è stato strappato a sua madre, cresciuto da estranei che lo hanno comprato. Poi quasi ucciso: lo abbiamo salvato io e la dottoressa, insieme agli uomini della procura, dopo che stavano per uccidere i suoi compratori - perché chiamarli genitori adottivi sarebbe un insulto a chi con impegno e coraggio percorre la via non facile dell’adozione. Il figlio di Melita non è un’arma o un oggetto. Come non lo è Melita. Non lo è per noi, ma per voi sì. E, se ce l’abbiamo in affido temporaneo, è perché si è legato moltissimo a Imma, la dottoressa Tataranni, che lo ha trovato. E lo abbiamo avuto in affido temporaneo solamente dopo che la mia posizione è stata definitivamente chiarita, perché il bambino voleva e vuole solo Imma e vi sfido ancora oggi a separarlo da lei e a restare con le orecchie intatte. Adesso stiamo cercando di farlo riavvicinare gradualmente alla madre che, non per colpa nostra, non ricordava affatto, visto che le è stato tolto che aveva poche settimane di vita. Madre che, sempre non per colpa nostra, al momento non è fisicamente in grado di occuparsene. In modo che, appena possibile, potranno avere tutto ciò che è stato tolto loro dal suo cliente e materialmente da Mancuso e Giuliani. E potranno stare insieme come si meritano.”

 

“Ma come osa?! Le sue insinuazioni sono passibili di diffamazione e-”

 

“Non c’è alcuna diffamazione, sto solo dicendo, a mia responsabilità e sotto giuramento, la verità provata. Davanti al locale dove è stata trovata in fin di vita Melita - che come appare oggi non è niente in confronto a com’era allora - non ci stavo io. E chi ha portato via e venduto il suo bambino non siamo noi e nemmeno chi l’ha portata in quella clinica a partorire o chi poi l’accompagnava alle visite clandestine. O chi si è fatto passare informazioni dall’ex magistrato Santoro e, appena ha saputo che la donna che aveva riferito a Melita quei miei dettagli intimi aveva parlato, ha avvisato Coraini perché la mettessero a tacere. Quello che ha chiamato Coraini è stato proprio il suo cliente. Per non parlare di chi ora ha evidentemente violato la riservatezza e la sicurezza di un bambino sotto protezione. Quindi non c’è da credere a me, ma alle prove, che sono tantissime, oltre che alla testimonianza di una donna che è quasi morta per suo figlio. E non vedo perché non bisognerebbe credere a questo, ai fatti, invece che a lei e al suo cliente che oltretutto, detta proprio francamente, con il vostro atteggiamento non ispirate esattamente molta fiducia, anzi.”

 

Un boato, un boato in aula ed uno nel suo petto, nel suo cuore.

 

Perché Calogiuri… sarà stato pure di poche parole ma… ma quando ci si metteva… mannaggia a lui, mannaggia!

 

Si guardò con Irene, che sorrideva, incredula e commossa quasi quanto lei, perché manco era dovuta intervenire. L’avvocato, anzi, gli avvocati, sembravano aver mangiato un rospo, mentre i “bravo!” rivolti a Calogiuri e i “vergogna!” indirizzati alla difesa da parte del pubblico si sprecarono, tanto che il giudice dovette intervenire per riportare la calma e il decoro in aula.

 

Ma pure lui sembrava impressionato, anche se mai quanto lei.

 

Era orgogliosa, così orgogliosa di lui, tanto che le veniva da piangere - maledetti ormoni! - e non riusciva a fare altro che guardare quegli occhi azzurri che ricambiavano decisi e luminosi.

 

Non fossero stati in tribunale sarebbe corsa ad abbracciarlo e a riempirlo di baci.

 

L’avvocato era rabbioso, rabbiosissimo, ma sembrava non sapere come controbattere, a parte cercare di dissociare il suo cliente da Coraini, Mancuso e Santoro, cercando di sostenere che quella telefonata non volesse dire niente.

 

“E quindi per pura coincidenza poco dopo quella telefonata Coraini ha chiamato Mancuso e il Mancuso e Giuliani hanno ridotto in fin di vita la Russo? Mi sembra che ce ne siano parecchie di coincidenze in questa storia, avvocato, e che quel messaggio in codice sia chiarissimo, se riletto col senno di poi. O pensa davvero che qua tutti possiamo credere alle coincidenze, soprattutto dopo quanto dichiarato da Santoro? Sa cosa diceva sempre il suo cliente ai processi? Che lui non perdeva quasi mai, perché nella vita aveva imparato a scegliersi i clienti e le battaglie. Aggiungerei anche, visti gli sviluppi, che non perdeva mai perché barava al gioco ma… penso che invece lei, avvocato, i suoi clienti non li sappia proprio scegliere. Perché qua le prove sono talmente tante che la battaglia è persa e sarebbe nell’interesse del suo cliente iniziare a prendersi le sue responsabilità in questa storia, invece di pensare di poter manipolare ancora una volta il sistema a suo favore. Perché ormai il gioco è stato scoperto e il re, anzi, il principe del foro, è nudo.”

 

Irene, evidentemente, non si era voluta far bagnare troppo il naso da Calogiuri.

 

Villari praticamente schiumava e sibilò qualcosa all’avvocato che, anche in mezzo al boato dell’aula, suonò molto simile a “cretino, fai qualcosa!”

 

L’avvocato deglutì un paio di volte, guardando non solo Villari ma anche gli altri gentiluomini a processo - e non lo invidiava, non lo invidiava per niente - ma alla fine, pronunciò, con tono di chi stava andando al patibolo, ma anche di chi sapeva che la resa era ormai inevitabile, “non ho altre domande.”

 

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“Sei sicura di non voler tornare in hotel? Potrebbe andare ancora per le lunghe.”

 

Vide Imma sospirare ed alzare gli occhi al cielo, come faceva sempre più spesso - e sì, lo sapeva che era forse troppo apprensivo, che si era pure fatto beccare da Irene come un ragazzino. Per fortuna però Imma non sembrava averla presa troppo a male, anzi, l’abbraccio tra lei e la da lei tanto amata collega lo aveva sorpreso quasi più di tutto il resto in quella giornata.

 

Compresa la notizia, arrivata a fine udienza, che il giudice riteneva di aver raccolto sufficienti elementi per giungere ad una sentenza.

 

E quindi erano rimasti lì in attesa, circondati dal pubblico, dai giornalisti, dai curiosi, ma erano già passate molte ore.


Erano ormai quasi le ventidue e non riusciva a non preoccuparsi per Imma, per lo stress di quella giornata, per le tante ore passate seduta per carità, non in piedi, ma comunque era dall’alba che non avevano avuto un momento di riposo vero.

 

“Calogiuri, lo sai benissimo che questo momento non me lo perderei per nulla al mondo.”

 

Imma non si sbilanciava, non lo faceva quasi mai, ma erano consapevoli entrambi che, visto com’era andato il procedimento, era molto probabile che sarebbe stato a loro favore. Non potevano sapere di quanto e chi sarebbe stato condannato, ma qualche condanna quasi sicuramente ci sarebbe stata.

 

Ed il modo pieno di orgoglio in cui Imma lo guardava, da quando aveva finito con la deposizione, valeva tutte le ore perse a ripassare domande che poi non c’erano state. Ma stare con lei, imparare da lei, vederla in azione, in tutti quegli anni, gli aveva insegnato molto ma molto di più di quanto avrebbe mai sperato quando l’aveva conosciuta ed Imma era per lui una supereroina, un mito irraggiungibile.

 

Anche se al livello di Imma non ci sarebbe stato mai, gli aveva insegnato a non arrendersi, a tirare fuori la voce ed il carattere quando serviva e mo… ce l’aveva fatta. E quello sguardo, quel sorriso, quella mano stretta nella sua, senza paura del giudizio della gente, valevano più di tutto il resto.

 

Il rumore di una porta che si apriva e videro rientrare il giudice con i suoi cancellieri. Si sistemò allo scranno e cominciò a leggere articoli di legge che, se non ricordava male dagli studi fatti con Imma…

 

“Si condanna l’imputato Villari Claudio per i reati di concorso in tentato omicidio, infedele patrocinio, intimidazione, induzione alla prostituzione, corruzione, concussione, associazione a delinquere di stampo mafioso, ad una pena detentiva complessiva di anni quaranta.”

 

Un altro boato in aula, mentre il giudice richiamava al silenzio per leggere le condanne agli uomini della cupola milanese, da trent’anni ad un paio di ergastoli.

 

Si voltò verso Imma, nonostante lo sguardo un poco appannato, ma poi avvenne un altro miracolo, perché si trovò con le braccia di lei al collo e stretto in quell’abbraccio liberatorio in cui avrebbe voluto stringerla, non solo da quando era tornato dal banco dei testimoni, ma in tutti i processi precedenti, nei quali era stato solamente il fido assistente della Tataranni.

 

Ma ora erano lì, nel luogo più sacro per Imma in assoluto e, sebbene fosse anche parte del rituale in quei momenti, quell’abbraccio lungo e stretto di rituale non aveva proprio niente. E valeva così tanto, tantissimo, più di qualsiasi dichiarazione pubblica d’amore.

 

Tanto che non sentì più nulla, né il brusio, né il rumore dei flash che illuminavano la sala.

 

Alla fine si dovettero staccare ed Imma, a sorpresa, si voltò di nuovo per abbracciare anche Irene, sebbene in modo più rapido e formale. Lui ed Irene si guardarono per un attimo, indecisi, ed Imma li stupì ancora con un, “volete decidervi ad abbracciarvi o stiamo qua a fare notte?”

 

Allo sguardo mezzo sconvolto suo e di Irene aggiunse un “sarebbe più strano se non lo faceste, anche per i giornalisti…” che fu una fitta al cuore perché sapeva benissimo cosa Imma volesse dire realmente, e che quella era un’enorme prova di fiducia.

 

E così, si trovò, con ancora un po’ di imbarazzo, ad abbracciare rapidamente anche Irene, con due pacche sulle spalle, e poi salutarono il collega milanese che non capiva se fosse più sollevato per aver avuto la sentenza servita su un piatto d’argento, senza sporcarsi nemmeno troppo le mani, o deluso per la scena rubata.

 

“Adesso sì che possiamo andare, Calogiù,” proclamò Imma, soddisfatta, e non vedeva l’ora di levarsi da lì e di poter festeggiare come si doveva con lei, da soli.

 

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“Aspettate!”

 

Stavano giusto giusto cercando di sgattaiolare via tra la folla, evitando i giornalisti, quando si era parato loro davanti non un esponente della categoria, per fortuna, ma uno dei cancellieri.

 

“Che succede mo?” domandò, impensierita.

 

“Il procuratore capo vi vorrebbe parlare.”

 

Bene! Giusto quella ci mancava!

 

Si guardò con Calogiuri, ma che potevano fare? Mica potevano rifiutarsi. E poi, in teoria, era andato tutto bene, erano giunti a condanna per tutti gli imputati del maxiprocesso meneghino, avvocato compreso, e che voleva di più mo?

 

Con un cenno di intesa seguirono il cancelliere, scortati da un paio di agenti della PG locale, che guardavano sia lei, ma soprattutto Calogiuri, con un rispetto di cui non sapeva se lui si rendesse conto, ma lei sì. E la inorgogliva il triplo che se fosse stato rivolto soltanto a lei.

 

Dopo quello che aveva detto in quell’aula e come lo aveva detto, doveva essere diventato un mito, un esempio per quei ragazzi. Un appuntato e un brigadiere, dalle divise.

 

Uscirono da una porta laterale, passarono davanti all’ufficio dove stava Irene col collega, salirono le scale ed arrivarono infine davanti all’ultimo ufficio di un lungo corridoio.

 

Segno di potere, ovviamente.

 

Il cancelliere bussò alla porta, facendo poi loro segno di entrare, furono salutati da una cancelliera donna, probabilmente l’assistente principale del procuratore capo e poi fu aperta loro la seconda porta, che dava su un ufficio molto ampio e molto lussuoso. Dietro la scrivania lucida e modernissima si stava alzando in piedi un uomo elegante e distinto, dai capelli bianchi, un po’ stempiati, ed enormi occhiali da intellettuale.

 

“Dottoressa Tataranni, maresciallo Calogiuri, grazie per essere venuti! E grazie a lei, maresciallo, per il suo intervento di oggi: è stato fondamentale.”

 

Calogiuri si fece un poco rosato e si toccò il collo per un attimo, anche se poi cercò di rimettersi più dritto, sull’attenti quasi, e rispose, “grazie, dottor…?”

 

“Avete ragione: non mi sono presentato. Massimo Cattaneo, molto piacere.”

 

La stretta di mano di Cattaneo era decisa, nonostante sembrasse un vecchietto prossimo alla pensione, e la cosa le piacque, ragionò, mentre la stringeva anche a Calogiuri.

 

“Piacere nostro, dottore, ma se ci ha convocato qua solamente per ringraziarci, ci fa molto piacere questo riconoscimento, per carità, ma non era necessario,” abbozzò, più che altro per capire se fosse davvero tutto lì, o dove volesse andare a parare il collega.


“In realtà no, vi ho chiamato qui per un’altra cosa,” ammise ed i campanelli d’allarme ripresero a suonare, almeno finché non aggiunse, “ho saputo che entrambi dovrete trasferirvi da Roma e che il maresciallo sta finendo un corso da ufficiale. Abbiamo delle aperture qua, sia a Milano che a Monza, per evitare il problema del conflitto di interessi. Per me e sicuramente anche per il mio collega di Monza sarebbe un onore avervi nel nostro organico. Sia lei, dottoressa, che lei, maresciallo, come preferite. Se volete pensarci, per qualche mese la proposta è valida.”

 

Si guardò con Calogiuri e gli sussurrò un, “devi accettare assolutamente, Calogiù! Io posso andare a Monza, che tu a Milano hai più possibilità.”

 

“No, no: il posto principale te lo meriti al limite tu, dottoressa,” ribatté lui, testardo come un mulo.

 

Ma Milano era una procura importante, importantissima, e lì avrebbe potuto fare la carriera che si meritava.

 

“Dottore, ci pensiamo, anche perché prima appunto c’è un corso da terminare e diverse cose in sospeso a Roma da chiudere. Le faremo sapere e grazie della fiducia.”

 

“Si figuri, dottoressa. Dopo quanto ho visto oggi sono sicuro che sarà ben riposta e le sue arringhe e le sue indagini, soprattutto, sono leggenda, dottoressa.”

 

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Esitò per un attimo, prima di suonare il campanello.

 

Perché aveva paura di cosa poteva trovare dall’altra parte - anche se ancora al portone in strada stava. Ma temeva di percepire l’imbarazzo, l’esitazione nell’aprire.

 

O forse che non aprisse affatto.


E poi temeva se stessa, le sue reazioni, anche involontarie. Non voleva bloccarsi come l’ultima volta, ma certe cose non si facevano a comando.

 

Però, dopo un viaggio lungo, alla fine di una delle ultime lezioni dell’anno, e dopo aver pure dovuto assistere online alla scena da diabete di sua madre e di Calogiuri che si abbracciavano - per non parlare di quella, quasi da chiedere l’interdizione, di lei che abbracciava la Regina Elisabetta dei poveri - aveva deciso che anche lei le rivoleva le scene da diabete.

 

Magari non così tanto - che per fortuna non erano mai state a quel livello di cringe - ma rivoleva quel lato di lei che non riusciva più a sentire senza Penelope. Quelle emozioni che sono con lei provava.

 

E quindi schiacciò il bottone, temendo che non fosse in casa nemmeno stavolta, essendo venerdì sera. Aveva ovviamente sbirciato sui social, ma non c’era stato niente fino a quel momento.

 

“Chi è?”

 

Due parole che le fecero battere il cuore fortissimo.


“Sono… sono io… posso salire? Ti… ti dovrei parlare.”

 

Un attimo di silenzio carico di tensione, mentre aspettava la sentenza.


E poi il suono metallico della porta automatica che si aprì. Si affrettò a richiuderla alle sue spalle e a salire le scale, che in quel momento neanche l’ascensore poteva sopportare, nonostante il borsone pesante sulle spalle.

 

“Vale…”

 

Vederla lì sulla porta, lo sguardo sorpreso, con una delle magliette disegnate da lei stessa ed i pantaloncini corti, le fece mancare un battito.

 

Cercò di leggere meglio, al di là della sorpresa, che aria tirava, ma Penelope si limitò a voltarsi e a farle segno di entrare.

 

Lo fece, un poco esitante, mentre Penelope con un “sono sola, tranquilla…” chiariva il primo dei tanti dubbi e delle tante domande che non riusciva ad esprimere.

 

Appoggiò il borsone all’ingresso, anche se quello non la liberò affatto del peso che sentiva.

 

“Allora… di che cosa dovevi parlarmi?”

 

Prese un respiro perché lì, davanti a Penelope, occhi negli occhi, i pensieri si azzeravano tutti. Anche quei discorsi che si era preparata mentalmente, cancellati completamente.

 

“Io… io ti amo,” esclamò, decidendo di non trattenersi e di dire tutto quello che poteva, che riusciva, “ti amo ancora e… e nonostante tutto quello che ho fatto e… anche se non sono avanti come te… io ti amo ancora e voglio stare con te. E, se non ci riprovassimo, lo rimpiangerei per sempre. Se tu ancora mi vuoi e-”

 

Due labbra sulle sue ed una scossa elettrica che la passò dalla testa ai piedi la zittirono, trovandosi letteralmente al muro, in un bacio che… era incredibile, sconvolgente, esattamente come se lo ricordava, forse anche meglio.

 

Tanto che tutti gli altri discorsi, su chi c’era stato durante la pausa, sulla distanza, sui problemi da risolvere, passarono in secondo piano perché non ci capiva più nulla: voleva solo sentire, sentire ancora e ancora.

 

Senza quasi capire come si trovò distesa sul divano, Penelope sopra di lei che le levava e si levava i vestiti. Ribaltò la situazione, placcandola al bracciolo opposto, mentre ridevano insieme e si baciavano, si ritrovavano e si perdevano in quelle sensazioni che mai con nessun altro aveva provato.


E seppe, istintivamente, di aver fatto la scelta giusta.

 

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“Sono distrutta!”

 

Calciò via più che volentieri le scarpe - dal tacco basso per i suoi standard, se no Calogiuri chi lo sentiva più?

 

Anzi, non avrebbe più sentito proprio nessuno, che Calogiuri le avrebbe fatto perdere l’udito con le sue preoccupazioni.

 

“Allora adesso ti metti tranquilla e-”

 

“La videochiamata con Francesco! Dobbiamo farla assolutamente: già è tardissimo!”

 

Ne avevano fatta una durante la pausa dell’udienza e Francesco aveva dato loro la schiena quasi tutto il tempo, offesissimo.

 

Avrebbe voluto chiamarlo molto prima, che ormai erano le ventitré passate, ma tanto sapeva benissimo, per esperienza, che molto difficilmente l’ululatore del suo cuore aveva appeso le corde vocali al chiodo per quella sera.

 

Sedendosi ai piedi del letto, raggiunta dopo poco da Calogiuri, fece partire la chiamata ed attese.

 

Giusto qualche secondo, che le sembrò comunque dilatarsi spaventosamente, e poi comparve la faccia di quella santa donna di Maria, la tata di Bianca.

 

“Dottoressa…” pronunciò ed Imma udì immediatamente non solo la stanchezza estrema nella voce ma anche il livello di decibel tremendo di sottofondo.

 

Francesco…

 

“Mi dispiace non aver chiamato prima, ma abbiamo finito molto più tardi del previsto.”

 

“Lo so, dottoressa, lo so: vi ho visti in televisione, a lei, alla dottoressa Ferrari e al maresciallo. Speravo anche che vederla, quando era inquadrata, tranquillizzasse un poco il signorino Francesco, ma più che altro voleva entrare nella televisione.”

 

Le venne da ridere per il signorino Francesco - la vita di Irene sembrava a volte proprio uscita da un film in costume, non fosse per le parti più che contemporanee, contemporaneissime - ma poi anche un groppo in gola.

 

“Ce lo fa vedere?” chiese, impaziente, e la baby sitter appoggiò il telefono da qualche parte e comparve con il piccolotto, che strillava talmente tanto da far gracchiare il telefono.


“Francesco, Francè, calmati!” provò a chiamarlo e vide il corpicino bloccarsi per un attimo e quegli occhi grandi, arrossati e scuri che la guardarono.

 

Ma poi si girò di nuovo di schiena, offeso.

 

Era proprio di famiglia, come Ottavia: altro che legami di sangue!

 

“Francé, ascolta, lo so che stai offeso mo, perché oggi non ci sono stata, ma domani torno e ti prometto che stiamo insieme e che per un po’ non sto più via la notte”, esordì, ma il bimbo ancora le dava le spalle, anche se almeno non strillava più, “e dai Francé, sono poche ore, e poi ti prometto pure, solo per stavolta, che giochiamo insieme a quello che vuoi. Pure a quei giochi scemi che piacciono soltanto a te e-”

 

Francesco si voltò, con uno sguardo ancora mezzo offeso come a dire giochi scemi saranno quelli che piacciono a te! ma poi rimase ad ascoltare.

 

“La vuoi una fiaba della buonanotte? Esclusivamente e soltanto per stasera te la racconto anche io, insieme a Calogiuri, che ne dici?”

 

Era difficile capire quali parole comprendesse Francesco, ma su fiaba e buonanotte, si girò ancora di più verso di loro, con aria interessata.

 

“Che storia vuoi raccontargli, dottoressa?”

 

“E mo ascolti… allora Francé, ascolta bene pure tu. C’era una volta un ragazzo, bello come il sole ma molto povero, che faceva il contadino. Sì, era bello quasi quanto te, Francè," proseguì, e vide Francesco rilassarsi un poco nelle braccia della babysitter, “ma il lavoro tra i campi era difficile, poi erano in cinque con i genitori, non bastava per sfamare tutti. Un giorno, dopo aver fatto mille mestieri, il ragazzo vide passare un banditore, insomma, uno che annunciava le notizie importanti, che diceva che il regno stava cercando nuovi soldati, per mantenere l’ordine nelle città. E lui, anche se era convinto di non esserne capace, decise di provare, per mantenere la sua famiglia ed anche la sua fidanzata che era molto, molto esigente, e sognava i profumi, i trucchi e i balocchi che solo i ricchi si potevano permettere.”

 

Un mezzo suono strozzato e, con la coda dell’occhio, vide che Calogiuri era incredulo e pure commosso.

 

Francesco invece era attento, attentissimo.

 

“Il giovane affrontò l’accademia per diventare soldato e poi gli fu assegnato il primo incarico. Non doveva soltanto tutelare la gente, né proteggere il re, o la regina, o qualche altro nobile. No, gli fu assegnato di lavorare con i giudici di una delle città più antiche e sperdute di quel regno, aiutandoli durante le indagini, ma soprattutto portandoli in giro, come scorta, di protezione. E fu lì che il giovane contadino incontrò il giudice più temuto ed insopportabile di tutta la città, anzi, pure di tutta la regione, anzi, diciamo pure di tutto il regno. Ed era una donna che era riuscita, a furia di tigna, di insistenze e di studio, a diventare l’unica giudice donna di quella città. Si agghindava con vesti di animali esotici, per incutere paura negli astanti, e camminava su scarpe altissime e rumorosissime, in modo che tutti potessero avvertire e temere il suo passaggio.”

 

Prima un sibilo e poi una risata, ed era Calogiuri, ma anche la babysitter, a giudicare da come sobbalzava Francesco, che però era felicissimo e rideva anche lui.

 

“Quando arriva la parte dove però specifichi anche come la giudice era la donna più bella ed affascinante che il povero contadino aveva mai visto?” si inserì lui, con una punta di avvertimento dietro il divertimento, perché, sì, le ricordava sempre di non sottovalutarsi e faceva crescere la sua autostima estetica a mille ogni volta, con i suoi complimenti.

 

“Alla perdita di vista del povero contadino, ormai soldato, causata evidentemente dai troppi studi, arriviamo dopo. Francé, devi sapere che la giudice era molto esigente con i suoi collaboratori, ma perché erano tutti degli scansafatiche. Amici o parenti di nobili, avevano avuto quel lavoro, pensando di non dover lavorare affatto. E poi molti di loro avevano l’intuito acuto come una spada spuntata: insomma, non distinguevano un mulo da un cavallo, ancora un po’. E quindi, quando si trovò davanti il giovane soldato, a parte notare la sua avvenenza e che finalmente non le avevano assegnato uno che pareva un pupo del presepe di un’altra ben più famosa città del regno, non seppe che pensare. Anche perché il giovane non parlava quasi mai. Il che, rispetto a certi altri soldati, era un vantaggio. Osservava e non parlava, non parlava ed osservava. Ma ogni tanto, tra la timidezza e mille non sono sicuro, forse è un’idea sciocca, il giovane tirava fuori dei ragionamenti che le facevano intuire che, caso più unico che raro per un umano di sesso maschile, ragionava, ragionava veramente, non come i suoi colleghi. Gli mancava solamente un po’ di studio e di fiducia in se stesso. E quindi la giudice, per la prima volta nei decenni in cui aveva terrorizzato la cittadina del regno, si intenerì, poco poco, giusto una piccola scorza nella sua armatura, e decise di prendere il giovane sotto le proprie ali. Figurativamente, perché non era di certo un drago sputafuoco, anche se alcuni ce la paragonavano pure. Ed il giovane crebbe e, anche se era un poco lento, imparava, appuntandosi tutto su rotoli di pergamena come il più efficiente degli scribi, e poi…”

 

Andò avanti a raccontare finché il giovane soldato aveva aiutato la temibile giudice a risolvere un caso in riva al mare di Io, la ninfa diventata giumenta per colpa di Giove. Finalmente, notò che Francesco non rideva e non batteva neanche le manine. Non solo, ma non la guardava nemmeno più con quei suoi occhioni scuri come la notte: si era finalmente addormentato.

 

E quindi si zittì e, tra lo sguardo divertito e commosso di Calogiuri e quello sollevato della povera Maria che sussurrò un “grazie!”-  che forse tanta gratitudine in vita sua manco dai parenti delle vittime dopo un caso risolto l’aveva sentita - chiusero la chiamata.

 

Fece appena in tempo a riporre il cellulare che si trovò stritolata in un abbraccio, anche se poi Calogiuri si distanziò di qualche centimetro, preoccupato, e le chiese “ti ho-”

 

“No, non mi hai fatto male, Calogiù, e basta! Se no, alla prossima, il giovane soldato lo faccio finire al confino insieme al di lui collega, Capoccium.”

 

Calogiuri rise ma poi chiese, più serio, “ma perché, quindi la storia del giovane soldato continua?”

 

“Eh certo! Che Francé deve imparare per bene da lui: ancora è molto lunga. E, anche se ogni tanto si è fatto fregare da qualche maliarda fattucchiera, dobbiamo arrivare fino al punto in cui il soldato, ormai diventato comandante, affronta l’azzeccagarbugli più pericoloso del regno, salvando non solo la città delle Nebbie, ma pure la giudice e tutto il regno. Hai idea di quanto sono orgogliosa di te, Calogiuri? Lo sapevo quando ti ho conosciuto che avevi enormi potenzialità - e non pensare subito male, anche se pure di quelle non mi posso lamentare!” precisò, facendolo ridere di nuovo, “ma non pensavo che saresti arrivato a questo punto, e sono sempre più sicura che sarà solo l’inizio. E mi dispiace quasi che non fai il magistrato, perché i sorci verdi agli avvocati li fai vedere meglio della maggior parte dei cari colleghi che conosco.”

 

Una specie di mezzo singhiozzo, e si trovò Calogiuri che piangeva come un vitello tra le sue braccia, mentre la riempiva di baci sulle guance, sul collo, sugli occhi, sui capelli, e continuava a tenerla come se non volesse lasciarla andare più.

 

“Calogiù, guarda che quella con gli ormoni a mille e le lacrime facili dovrei essere io e non tu, e-” provò a sfotterlo amorevolmente, mentre lo accarezzava, ma il rumore di nocche alla porta li fece bloccare.

 

Lo guardò, preoccupata, ma lui si asciugò, tirò su con il naso in un modo che solo lui riusciva a rendere adorabile e chiarì, “probabilmente è la cena: visto l’orario non è il caso che andiamo in giro. E l’extra per il servizio in camera lo pago io, dottoressa, non i contribuenti, non ti preoccupare.”

 

“Calogiuri!” provò a protestare, ma lui, di nuovo a passo deciso e sicuro, si avviò verso la porta, guardando dallo spioncino ed accertandosi di chi fosse, prima di aprirla.

 

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“Beh… per sbloccarti ti sei sbloccata: ancora un po’ e finivo all’ospedale!”

 

“Scema!” esclamò, dando un pizzicotto al fianco di Penelope, seguito da un altro bacio.

 

In effetti era stato tutto folle e bellissimo e sfiancante e incredibile. Ma avevano ancora molto, ma molto da recuperare, giusto il tempo di tirare il fiato.

 

E però, adesso che la razionalità era leggermente tornata, un pensiero si affacciava nella sua mente.

 

“Che c’è, Vale? Non dirmi che te ne sei pentita adesso?”

 

“Talmente pentita che non vedo l’ora di ricominciare da capo,” la rassicurò, bloccandola però con una mano quando stava per prenderla in parola, “ma… ma c’era anche un’altra cosa che ti dovevo dire e di cui dobbiamo parlare, finché sono qua a Milano.”

 

“E cioè? Se è per Jo, io-”

 

“Ma chi ci pensa a quella? Però, magari, se non me la nomini in questi momenti è meglio,” precisò, prima di aggiungere, “è solo che… dobbiamo parlare della distanza. Perché io voglio che le cose tornino come prima sì, ma non gli ultimi tempi, che non ci vedevamo mai.”

 

“Vale, tra un paio di mesi mi laureo, cioè tecnicamente mi diplomo, e poi posso venire a stare a Roma, se mi fai posto nel tuo monolocale finché non trovo un qualche incarico. Roma è piena d’arte e di sbocchi. Certo, fare la pittrice sarà difficile, ma magari qualcosa la trovo, nel frattempo che cerco di farmi conoscere, anche solo come guida in un museo o-”

 

“Tu puoi stare da me tutto il tempo che vuoi, ma devi inseguire i tuoi sogni! Almeno tu che sai quali sono…”

 

“Vale…”

 

La carezza sulla fronte la consolò solo in parte.

 

Perché sì, era felice, felicissima: la sola idea di poter vivere con Penelope, anche se da un lato, dopo l’esperienza con Samuel, un poco la preoccupava, dall’altro era un sogno che si avverava. E poi loro insieme non avevano mai faticato a stare bene ed almeno Penelope non avrebbe lavorato di notte: si sarebbero potute godere insieme tutte le sere o quasi.

 

Solo che… la laurea ormai si avvicinava e lei aveva ancora di meno le idee chiare su cosa volesse fare della sua vita di quando aveva iniziato il primo anno.

 

Sperava in un’illuminazione, che un giorno sarebbe arrivato qualcosa che l’avrebbe appassionata veramente. Ma forse su quello aveva preso più da suo padre, per cui il lavoro era un male necessario, non una vocazione o qualcosa da amare.

 

E però invidiava Penelope, sua madre, il maresciallo, persino la Regina Elisabetta dei Poveri, che avevano tutti quel fuoco che bruciava dentro, che li portava a lottare per quello in cui credevano, per ciò che amavano fare.

 

Ma forse, semplicemente, non era il suo destino.

 

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“Tutto buonissimo e, ovviamente, perfettamente in linea con le indicazioni della ginecologa,” ironizzò, perché Calogiuri aveva ordinato un risotto allo zafferano da leccarsi i baffi ma senza alcun salume o alcolico e poi una bistecca alla milanese da dividere, ben cotta ma per niente unta, che si chiedeva quanta capa tanta avesse fatto a quelli del ristorante, visto che per lei i fritti ed i soffritti era meglio evitarli.

 

Il dolce, una piccola porzione di torta con le mele, fatta in un modo strano ma assai buona, l’aveva saziata definitivamente, nonostante la giornata quasi a stomaco vuoto.

 

Il caffè, rigorosamente decaffeinato, dopo la sola acqua minerale liscia, aveva posto fine alla cena in camera.

 

“Eh va beh… non volevo certo ordinare cose che non potevi mangiare, che poi mi avresti fatto una capa tanta sullo spreco di cibo.”

 

Sorrise e decise di fargliela passare, perché quando controargomentava così gli perdonava quasi tutto.

 

“Va bene, ma allora adesso-”

 

“Adesso, se non sei troppo sazia o nauseata, ti propongo un massaggio, dottoressa, ma nella mia SPA personale.”

 

Un altro sorriso le si stampò in faccia, mannaggia a lui!

 

“Calogiuri, io fossi nel giovane soldato starei molto attento a nominare la SPA nella Città delle Nebbie!”

 

Lo vide deglutire e poi fare un’espressione impanicata, balbettando un, “no, no, ma io, cioè non-” e le venne da ridere di gusto.

 

Almeno sui pali e paletti il sacro terrore gli era ancora rimasto. E molto meglio così.

 

“Imma!” protestò lui, fintamente offeso, e lei gli stampò un bacio.

 

“Dai, che ormai dovresti averlo capito che non sono più gelosa della gattamorta. Ma le SPA vere solo ed esclusivamente con me, non appena ci posso tornare.”

 

“Promesso!” esclamò lui, con una mano sul cuore, prima di sussurrarle, in un tono che le rimescolava lo stomaco - e non c’entrava il soffritto, “perché non vai a farti una doccia, che così preparo tutto per il massaggio e se andiamo in doccia insieme… è troppo pericoloso.”

 

Sospirò: quella gravidanza sarebbe durata veramente troppo - o almeno sperava, perché l’alternativa, manco ci voleva pensare. E quindi si avviò verso il bagno, dove fece una doccia veloce e si infilò altrettanto rapidamente l’accappatoio, dopo essersi fermata per un solo istante ad osservare la sua pancia di profilo.

 

Ma la lieve protuberanza era soltanto frutto della lauta cena: ancora non si vedeva nulla, ovviamente, e non poteva essere altrimenti.

 

Scacciando quei pensieri, con i capelli raccolti in un turbante e l’accappatoio indosso, tornò verso la porta del bagno, l’aprì e-

 

Gli occhi dovettero per un attimo abituarsi alla penombra e misero a fuoco delle lucine - candele per la precisione, anche se finte, probabilmente per motivi di sicurezza - che circondavano il letto. E, ai piedi del materasso, c’era Calogiuri, che le fece segno verso il lenzuolo sopra al quale notò sia un ampio asciugamano, sia una bottiglia d’olio - rigorosamente di mandorle e non profumato, Calogiuri ormai era pure peggio della ginecologa - e petali di rose sparsi ovunque, insieme ad un paio di rose intere.

 

“Calogiù… che ti sei portato avanti con la distruzione di sti poveri fiori?” scherzò, mentre si accomodava sul letto e, di proposito, si sfilava l’accappatoio e lo buttava a terra, restando nuda.

 

Insomma, la carestia doveva pure finire e, se non riusciva a convincerlo così a smetterla di preoccuparsi, doveva iniziare a preoccuparsi lei e molto seriamente.

 

Lo vide deglutire di nuovo, pure nella penombra e pronunciare un “mettiti a pancia in giù” che le provocò uno strano brivido e, per una volta, fu ben felice di obbedire.

 

“Resta ferma così, con gli occhi chiusi, mi raccomando,” ordinò lui, prima di iniziare il massaggio dalle spalle, le dita che spalmavano l’olio e poi-

 

E poi qualcosa di più delicato, di setoso e capì solamente dal profumo, oltre che dalla sensazione di solletico, che la stava massaggiando anche con i petali di rosa.

 

Proseguì, più in basso, sempre più in basso, poi in alto, sempre più in alto, in una tortura che se non fosse finita come pensava lei lo avrebbe denunciato, come minimo!

 

Se alcuni muscoli erano rilassati, per il resto era tesa un fuso, altro che rilassata, la pelle che sfrigolava di elettricità.

 

Osò per un attimo contravvenire all’ordine e lanciò un’occhiata indietro, giusto il tempo per notare che anche Calogiuri non era messo molto meglio, anzi.

 

E quindi decise che il massaggio era già andato avanti pure per troppo: mo era il turno di Calogiuri, da bravo Garibaldi, di dire obbedisco.

 

Si voltò di nuovo, ma stavolta lo afferrò per la nuca e lo trascinò in un mezzo bacio, prima di cercare di tirarsi in ginocchio, a carponi e-

 

Ed un morsetto sull’orecchio, seguito da un “stai ferma così” la bloccò in quella posizione, mentre, col collo quasi torto, cercava lo sguardo di Calogiuri che le sussurrò, “ho sentito che è una posizione ideale anche in gravidanza: ti ho promesso che avrei fatto le mie ricerche, no?”

 

Le venne da ridere, sia per come lo aveva detto, sia per il sollievo che Calogiuri non aveva smesso del tutto di funzionare, almeno fino a quando sentì due mani sulle anche ed un morsetto alla nuca.

 

“Non so se sia ideale per la gravidanza, ma io di sicuro non mi lamen-”

 

Non fece in tempo a finire la frase che le uscì il primo lamento, anche se non di dolore, anzi.

 

Dopo le settimane di astinenza ed il massaggio si sentiva come se stesse andando a fuoco, sensibilissima, in ogni punto che lui toccava, o anche solo sforava.

 

E quell’impunito ne stava approfittando per ridurla a mordere il cuscino per cercare di non farsi udire dagli altri ospiti dell’hotel, mentre malediceva e benediceva insieme il giovane soldato.

 

Che di inesperto non aveva proprio più niente, sempre mannaggia a lui!

 

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“C’ho delle occhiaie da spavento! Tutta colpa tua! E siamo pure in ritardo, però questa chiamata non possiamo non farla!”

 

Si osservò nell’immagine che restituiva la telecamera frontale del cellulare: i capelli talmente mal ridotti da averli dovuti raccogliere con due forcine, giusto per tenerli buoni per il viaggio; la faccia stravolta ma soddisfatta; le occhiaie pesantissime ed un certo maresciallo che sorrideva sornione a lato dell’inquadratura, sempre più bello, nonostante pure lui sembrasse discendere dai panda.

 

Avviò la chiamata e, dopo qualche squillo, ritrovò la povera Maria che però era meno disperata della sera precedente.


“Ha dormito fino a mezz’ora fa, dottoressa, un miracolo!” esclamò la donna con un sorriso. La vide allontanarsi un attimo per riprendere in braccio Francesco al quale sussurrò, con molta tenerezza, “guarda qua chi c’è di nuovo?”

 

E, stavolta, Francesco quando la vide non fece le sceneggiate degne di Ottavia, ma un sorrisone che le pizzicò gli occhi - sempre maledettissimi gli ormoni! - e poi cominciò a farle dei saluti con la manina e mandarle i bacini, come aveva imparato a fare poco tempo prima.

 

“Amore…” le venne spontaneo sussurrare, senza potersi trattenere, noncurante di Maria - con la quale tanto la reputazione era ormai perduta - ricambiando i bacini ed i saluti, promettendo, “tra poche ore siamo lì, torniamo presto, preparati!” a cui seguì un risolino da scioglimento di risposta.

 

Rimase ancora per un po’ così, a dirgli “ciao, ciao!”, muovendo la mano e godendosi il modo in cui la imitava e cercava di pronunciare qualcosa senza riuscirci, finché il “purtroppo dobbiamo andare, dottoressa…” la costrinse a chiudere la chiamata, davanti ad un Calogiuri più sciolto di lei.

 

“Ti amo!”

 

Un sussurro nelle orecchie, prima di un bacio dolcissimo sulla guancia.

 

“Ti amo pure io, Calogiù. Ma mo meglio se non ci baciamo più, se no qua il treno lo perdiamo. E far pagare doppio ai contribuenti non si può.”

 

La risata di lui la seguì fin fuori dalla porta della camera.

 

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“Ma ne sei proprio sicuro? Sei sicuro di riuscire a starmi dietro? Guarda che non è facile, poi la schiena, le giunture…”

 

“Mariani!” intimò, come gli veniva spontaneo fare quando lei lo prendeva in giro, anche se bonariamente.


Perché la differenza d’età… per lei era più facile scherzarci su, per lui un po’ meno.

 

“E dai, che il fisico non ti manca, dottore. L’abilità manuale, almeno su queste invece, cose ho qualche dubbio…”

 

“Guarda che io a montare sono bravissimo!” esclamò, prima di rendersi conto di quello che aveva appena detto, sentirla scoppiare a ridere e darsi dello scemo da solo.

 

“Mariani, Mariani… sei stata troppo in caserma…” sospirò, ancora un poco imbarazzato della gaffe, mentre si metteva in ginocchio davanti a lei e si allungava per afferrare non lei - sebbene se ne fosse stato per un attimo assai tentato - ma il manuale di istruzioni che le stava vicino al fianco destro.

 

“E che sarà mai? Certo che qualche descrizione a parte le immagini potevano metterla. Le viti ci sono tutte? Ma si fa tutto con una chiave a brugola?”

 

“Le descrizioni non ci sono mai, così si va a libera interpretazione. Le viti le ho contate e ci sono e sì, si fa sempre tutto con l’unica chiave del potere. Poi c’è chi usa l’avvitatore automatico, ma io non ce l’ho. Però in due facciamo prima, no? Da cosa vuoi iniziare?”

 

“Dal divano letto,” proclamò, di nuovo senza troppo pensarci e, alla risata divertita di lei, “almeno hai un posto dove dormire. Sì, sei stata decisamente troppo tempo in una caserma.”

 

Quando lo aveva portato in quel monolocale, in zona Nomentana, abbastanza lontano rispetto alla procura da esserlo anche da occhi indiscreti, ma abbastanza vicino a casa sua da essere raggiungibile anche a piedi, volendo, e gli aveva chiesto cosa ne pensasse, era stato a dir poco entusiasta all’idea che lei si fosse decisa ad emanciparsi. Sinceramente aveva temuto che lo avrebbe fatto aspettare molto di più, ma dover centellinare le uscite ed avere le ore contate perché Mariani non poteva passare quasi mai la notte fuori, era stata una tortura per entrambi, anche se per poche settimane.

 

Si sentiva in colpa a farla spendere quei soldi anche per lui, pure se lei gli aveva garantito che era un passo che meditava da tempo, ma che le era sempre mancata la motivazione per farlo.

 

Quindi, onorato di essere parte della motivazione, aveva insistito per darle almeno una mano coi mobili, dato che il monolocale era ad un ottimo prezzo proprio perché non ammobiliato. Ma Mariani si era rifiutata categoricamente, orgogliosissima della sua indipendenza economica.

 

E poi lo aveva rassicurato che tutti i mobili sarebbero stati low cost. Ma, a quel punto, le era venuta quell’espressione furba, che preannunciava guai e che lo faceva impazzire, e gli aveva chiesto una mano per montarli, una volta comprati - che insieme per negozi proprio non ci potevano ancora andare - se ne era capace.

 

Ovviamente aveva risposto di sì: come poteva deluderla sull’unico favore che gli aveva concesso di porgerle?

 

E quindi, nonostante la preoccupazione per il peso dei mobili, aveva giusto giusto potuto aiutarla a scaricare scatole su scatole - quasi tutte uguali e con nomi astrusi - dal furgoncino noleggiato per l’occasione. Dopo essersi fatti svariati piani di scale - che l’ascensore era già tanto se teneva due persone, figuriamoci un carico qualsiasi - Mariani aveva proclamato che era ora di iniziare.

 

Era un monolocale, quindi per fortuna i mobili non erano poi molti, ma dovevano essere calcolati ed incastrati al millimetro o quasi.

 

La cosa più semplice da montare, con meno pezzi, sembrava proprio il divano, anche se aveva pure le doghe oltre ai cuscini. Forse sarebbe stato meno scomodo, quantomeno, il che non era male per la sua schiena.

 

Ma quelle istruzioni, piene di frecce, di omini, di numeri di pezzi e di viti, non è che fossero chiarissime.

 

Nonostante ciò, prese la sua chiave a brugola e cercò di mettere insieme almeno la struttura principale del divano, per poi pensare alle doghe, che avevano un meccanismo per ripiegarle che non capiva.

 

Lo schienale ed i braccioli, tutto sommato, riuscì a montarli abbastanza agevolmente.

 

Ma quando arrivò il momento delle doghe, cominciò a girare le istruzioni da ogni lato, per cercare di capire meglio quale fosse quello giusto. Provò a poggiare dei pezzi nella struttura, e ci entravano pure, ma poi non riusciva ad assemblarli con gli altri e non capiva dove stesse sbagliando. Tra un tentativo e l’altro, le ginocchia cominciarono a protestare, dopo tanto tempo sulle piastrelle e, in effetti, anche la zona lombare tirava un poco, a furia di sporgersi e spostare pesi.

 

Alla fine, quando cercò di alzarsi per prendere altri pezzi, si udì un rumore netto. Erano le sue ginocchia che avevano scricchiolato in un modo assurdo, tanto che Mariani - che nel frattempo aveva quasi finito di montare un armadio, ma come aveva fatto? - lo guardò tra il preoccupato e il divertito.

 

“Se hai bisogno di una mano basta chiedere. Te la do volentieri, come in procura e-”

 

Fu il turno di lei di diventare bordeaux, scoppiando in una serie di colpi di tosse che allentarono la tensione e lo fecero ridere.

 

Era così bella, sia quando lo sfidava ed era sicura di sé, sia quando tornava ad imbarazzarsi come una ragazzina.

 

“In procura purtroppo certe cose non le possiamo proprio fare… ma qua sì…”

 

Ne approfittò per riprendere per un attimo il controllo, gettando a terra la maledetta brugola ed avvicinandosi a lei, afferrandola per la vita, per poi sollevarla e schiacciarla contro il muro.


“Ma le ginocchia? E la schiena? Ed il posto dove dormire?”

 

“A quello ci pensiamo dopo… e poi al limite ci basta il materasso, no?”

 

“Ho capito che finiremo di montare questa casa quando sarà ora per me di trasferirmi,” scherzò lei, ma sentì come un nodo nel petto, che sovrastò perfino le altre sensazioni, inevitabili, con lei così vicina.

 

“Giorgio…”

 

Un sussurro ed una mano sulla guancia. L’aveva capito al volo, come sempre.

 

“Se non finiamo all’ospedale, tra un… montaggio e l’altro… ti prometto che cercherò di far di tutto perché ci scoprano il più tardi possibile, quando saremo pronti. Se il prefetto non ha ancora detto niente… magari siamo salvi, no?”

 

“Ma il fatto che tu viva da sola porterà la gente a porsi delle domande, lo sai.”

 

“Lo so, ma… posso sempre inventarmi un fidanzato di fuori Roma. Magari trovo una foto di un amico che non vedo da un po’ e, se qualcuno chiede-”

 

“Non se ne parla!” la interruppe subito, perché l’idea che lei andasse in giro a dire di essere fidanzata con un bellimbusto non gli piaceva per niente.

 

Tranne se il bellimbusto sei tu! - gli ricordò la voce di Irene.

 

“Va bene, va bene… ma comunque… basta essere discreti, no? Tu puoi venire qua quando vuoi, tanto non ci conosce nessuno. E io pure, se esco la mattina presto ed evito i tuoi vicini.”

 

Sospirò e la strinse più forte, in un abbraccio vero, chiedendosi perché dovesse essere tutto così complicato.

 

Ma poi avvertì dita sotto il colletto della polo, muscoli che si muovevano contro ai suoi e la possibilità di essere scoperto volò via insieme ai vestiti, uno a uno, sul pavimento, insieme alla maledetta brugola.


E, alla fine, del materasso nemmeno ebbero bisogno.

 

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“Eccoci qua!”

 

Fece appena in tempo a dire quelle due parole che venne accolta da una sirena antiaerea e la baby sitter si affrettò ad accompagnarli verso l’ovetto dove era sistemato Francesco.

 

Si abbassò, lo sganciò e lo prese in braccio, d’istinto, senza perdere nemmeno un secondo in più.

 

Si sentì stringere fortissimo, mentre il pianto si calmava, sostituito da dei bacetti sulla guancia e sul collo, le braccina e le gambette che le si attaccavano a mo di koala, tanto che per un attimo fece quasi fatica a respirare.

 

“Ehi, calmo, calmo, siamo qua, non andiamo da nessuna parte, tranquillo.”

 

Era la voce di Calogiuri che, con un paio di carezze e dopo essersi beccato un urletto indignato, riuscì a far staccare leggermente Francesco e poi a riposizionarglielo meglio addosso, tenendone però parte del peso.

 

Ma il piccoletto la presa non la voleva mollare, non del tutto.

 

Dire che fosse commossa era dire poco, lusingata anche, in colpa pure. Ma c’era soprattutto tanta preoccupazione: il trauma dell’abbandono, nonostante le chiamate, nonostante fossero passate poche ore dall’ultima volta che si erano visti, era evidente.

 

E, mentre gli accarezzava i capelli e le guanciotte, si chiese quanto ci sarebbe voluto e se sarebbe mai passato del tutto.

 

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“Jerusalemaaa…”

 

Melita stava cantando, anche se a fatica, e Francesco smise di piangere e la guardò, come la volta precedente, mentre lei continuava a cantare, allungando anche una manina per afferrarle il camice verde.

 

Melita si interruppe un attimo e sorrise con gli occhi lucidi, dicendo, “spesso quando gliela cantavo… o doveva dormire, o stava mangiando e lo allattavo, al seno o col biberon. Dopo… dopo che me l’hanno portato via, il latte ci ha messo qualche giorno ad andarsene e… e ho cercato di mantenerlo, ma… ma sapevo che non l’avrei più rivisto fino alla fine del piano. E poi ho pensato davvero che…”

 

“Melita… cerca di non ripensarci adesso. Goditi questo momento con… con tuo figlio.”
 

Gli veniva difficile dirlo, quasi quanto veniva ad Imma. Perché Francesco era veramente come un figlio per loro, forse non di carne e sangue, ma di cuore sì.

 

Però la carne ed il sangue Melita li aveva versati per lui e… e aiutarli a riavvicinarsi era la cosa giusta da fare.


“Perché non provate a dargli un biberon con un po’ di formula? Magari può aiutare… Che marca usa?”

 

Era stata la voce dell’assistente sociale, che osservava tutto dalla finestra della stanza di terapia intensiva.

 

Melita lo guardò incredula, mentre lui rispondeva alla domanda e, dopo qualche minuto, entrò la dottoressa Tulli, bardata da capo a piedi, con un biberon in mano.

 

Lo porse a Melita che, estremamente tremante, lo avvicinò alla bocca di Francesco.

 

All’inizio lui fece una faccia mezza schifata e spinse via il biberon - anche perché ormai preferiva cibo decisamente più solido e gustoso.

 

Allora, con un cenno e un “posso?” prese il biberon dalle mani di Melita. Anche se non era Imma, che era sempre e per sempre la preferita da Francesco per tutto - e lo capiva benissimo - alla fine anche lui gli dava da mangiare, sia per far riposare Imma che per abituarlo.

 

Per fortuna stavolta il piccoletto, dopo uno sguardo interrogativo ed intelligentissimo, afferrò la cima del biberon e cominciò a poppare.

 

Piano piano, facendo attenzione a non spaventarlo, fece un cenno alla dottoressa e a Melita e con un “prova tu…” lasciò che Melita appoggiasse la mano sulla sua, guantata, e poi piano piano ritrasse le dita, fino a che era lei e solo lei a reggere la bottiglietta.

 

Temette per un attimo un ululato dei suoi, ma Francesco li guardò come a dire per me siete tutti scemi! e continuò a ciucciare. Quando Melita riprese a cantare, commossa, si concentrò solo su di lei, alternando poppate a qualche sorrisone edurlettino.

 

Melita continuò a dargli da mangiare, finché, piano piano, gli occhi del piccoletto si chiusero e si addormentò.

 

“Guarda che è un miracolo che si addormenti…” pronunciò, anche se gli costava, perché doveva dare a Cesare quello che era di Cesare. La dottoressa e l’assistente sociale si guardarono soddisfatte.

 

“Almeno quello… chissà se riuscirà a volermi… senza il cibo o le canzoni… come… come vuole Imma… anche un poco de meno me basterebbe…”

 

“Su quello ti capisco benissimo…” scherzò, perché non sapeva come fare per alleggerire l’atmosfera, ma poi Melita lo guardò dritto negli occhi, serissima, e gli chiese, “ma come mai Imma non ci sta? Non è che… che ce l’ha con me e-”

 

“No, no, Melita, non pensarci neanche! Dopo quello che è successo a Milano, io e Imma - e pure tante altre persone - ti siamo solo che grati. No… è che… Imma è piena di impegni e tocca quasi sempre a lei tenere Francesco. Dorme pure poco e quindi… se posso farla riposare un po’-”

 

“E sei riuscito a convincerla a riposare?” domandò Melita, incredula e sì, era intelligentissima pure lei, come suo figlio.

 

“Diciamo che ci sto provando… ed oggi è uno dei tanti tentativi.”

 

“Mi spiace se… se vi sto dando tanti problemi con Francesco e-”

 

“Ma no, anzi: per noi occuparci di Francesco è soltanto che un piacere, veramente.”

 

“Appunto! E… e proprio per questo… non sarà facile… dovermelo ridare, no? Specie se poi andrete via da Roma e- ma il matrimonio poi? Vi sposate ancora, vero?”

 

“Sì, ma… appunto è un periodo pieno di impegni, stiamo decidendo cosa fare dopo il mio corso e l’esame finale. Ma ovviamente non ti devi preoccupare, Melì: fino a quando non sarai in grado di occuparti di Francesco noi da qua non ci muoviamo e… e se avrai bisogno di un aiuto noi ci saremo sempre, te l’abbiamo già detto.”

 

Melita, per tutta risposta, scoppiò in lacrime, tanto che Francesco si svegliò ed iniziò pure lui a piangere e gli toccò - anche se con molto piacere - prenderselo in braccio per cullarlo, mentre Melita si riprendeva.

 

“Sei… sei davvero troppo buono, Calogiuri. Non so come hai fatto a perdonarmi… io fossi in te mi odierei tantissimo.”

 

“E come ti ha già detto anche Imma, l’unica cosa che ci dispiace è che tu non ti sia fidata prima di noi, Melita. Ma… per un figlio… per un figlio si farebbe di tutto e… e stando con Francesco l’ho capito ancora di più.”

 

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“Mà, ma che stai a dieta?”

 

“Come?”

 

“Prima niente aperitivo, mo solo due tonnarelli cacio e pepe, non è da te.”

 

Sospirò: erano con Valentina a farsi un pranzo da sole, per riuscire un po’ a parlare senza gli ululati di Francesco, di cui Calogiuri si stava occupando.

 

Ma ovviamente lei i fritti e i salumi non li poteva vedere neanche col binocolo, gli alcolici figuriamoci. Già la cacio e pepe non è che fosse esattamente consigliata, ma era la cosa meno peggio sul menù, pure se le toccava ammirare ed invidiare i piatti meravigliosi che i camerieri portavano avanti e indietro.

 

“No, è che… ultimamente ho un po’ di problemi di digestione e-”

 

“Ma non è che hai ripreso le cure per rimanere incinta?”

 

Per poco non le cascò la forchetta di mano, perché Valentina evidentemente si ricordava bene le restrizioni di quel periodo, che erano simili a quelle della gravidanza stessa, effettivamente.

 

Aveva due possibilità: mentire o confessare.

 

Ma, fino all’amniocentesi, il rischio di dover interrompere la gravidanza era ancora alto e… e non voleva far abituare Valentina ad un’idea e poi magari costringerla a vivere un lutto, se poteva risparmiarglielo.

 

“Diciamo che… su un pargolo… ci stiamo lavorando, Valentì”, rispose quindi, anche perché alla fine era la verità, pure se molto parziale, “ti dispiacerebbe?”

 

“No, a patto che, come ti ho già detto per Francesco, non mi fate fare da babysitter. E che tu e Calogiuri non fate più cretinate.”

 

Era proprio uguale a lei quando faceva così.


“Va bene, va bene…”

 

“E per il matrimonio? La data è confermata?”

 

“In realtà… con tutti i casini degli ultimi tempi, ho deciso che rimandiamo, all’estate prossima, credo. Stessa data. Voglio che ce lo possiamo godere per bene.”

 

“Un matrimonio in estate, mà, sai te che godimento!” ironizzò Valentina - e c’aveva ragione, c’aveva, ma doveva essere così, e pace se qualche invitato si sarebbe lamentato.

 

“Comunque basta che non fate più casini e che a questo matrimonio ci arrivate. Anche perché ormai voglio proprio vedere l’abito che sceglierai. Che come minimo sembrerai uscita da uno di quei programmi sugli abiti da sposa più trash d'America."

 

Sapeva che, nel linguaggio di Valentina, quello era tutto sommato un sigillo di approvazione, tra una frecciatina e l’altra.


“E invece tu, signorina? Ci sono novità? Che ti trovo bene, meglio dell’ultima volta che ci siamo viste…”

 

Valentina, per sua somma soddisfazione, arrossì leggermente: un po’ per una non faceva male a nessuna.

 

“Io e Penelope siamo tornate insieme!” proclamò, tutto d’un fiato, con un sorriso che la sollevò immensamente, “e poi… e poi abbiamo parlato di quella cosa della distanza e lei dopo il diploma all’accademia vuole venire ad abitare a Roma.”

 

“Insomma… tutte le strade portano proprio a Roma…” scherzò, perché ormai la capitale era sempre più sovraffollata, anche se almeno lei e Calogiuri se ne sarebbero dovuti andare presto.

 

Ma sua figlia sarebbe stata felice e quella era l’unica cosa che contava. E poi, se davvero fossero andati a Milano, alla fine poche ore di treno e ci si poteva vedere pure sovente, ululatori seriali permettendo.

 

Magari la voce delicata non prenderla da me e da tua sorella. E neanche da Francè! - pensò, dando di nascosto una carezza alla pancia, ringraziando la spessa tovaglia che impediva a Valentina di vedere alcunché.

 

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Sospirò, mentre si infilava la giacca della divisa, chiedendosi se presto avrebbe dovuto cambiarla.

 

Era riuscito ad alzarsi dal letto, a lavarsi e a cambiarsi senza svegliare né Imma, né Francesco. Un miracolo, praticamente.

 

La notte era passata quasi insonne, tra la sua agitazione ed il fatto che Francesco forse l’aveva percepita, ma in ogni caso aveva pianto quasi tutto il tempo.

 

E mo, tra un paio d’ore, lo aspettava l’esame.

 

Era tentato, tentatissimo, di salutare Imma con un bacio, perché era il loro rituale. Ma dormiva così bene, finalmente, aveva bisogno di riposo. Svegliarla sarebbe stato da egoista.

 

Quindi si sporse leggermente, le scostò una ciocca che le era finita sugli occhi e le baciò i capelli, delicatamente, godendosi per un attimo quel profumo, prima di alzarsi e, con quanta più delicatezza poteva, uscire dalla stanza da letto e poi dall’appartamento.

 

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“Giù le penne: è ora della consegna.”

 

Fece come ordinato, riguardando un attimo le risposte che aveva dato, mentre uno degli esaminatori, in divisa, passava a ritirare il foglio.

 

Gli sembrava di aver risposto bene, nonostante la stanchezza. Quantomeno aveva risposto a tutto e già quello non era scontato: aveva visto alcuni colleghi faticare su alcune domande.

 

Ora doveva soltanto tornare a casa, tutto intero possibilmente, visto il sonno che, ora che l’adrenalina stava calando, riemergeva prepotentemente.

 

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La porta che si aprì la fece correre verso l’ingresso - perché va bene la prudenza, ma qualcuno l’avrebbe sentita!

 

Che si spariva così senza salutare, in un giorno così importante poi?

 

Si trovò davanti, per la seconda volta in qualche mese, ad un mazzo di rose gigante su due gambe, che si scostò leggermente per lasciare spazio ad un volto stanco ma soddisfatto.

 

Bastò quello per afferrargli le guance e trascinarlo in un bacio, perché… sapeva benissimo cosa volesse dire.

 

Poi però si staccò, gli puntò un dito al collo, nello spazio lasciato libero dalle rose, e gli intimò, “la prossima volta se provi a non svegliarmi sei morto! E comunque, allora, tra un po’ mi toccherà chiamarti Capitano!”


“Eh… speriamo… ma ho una buona sensazione…”

 

Il che era praticamente una certezza per Calogiuri. Lo trascinò in un altro bacio ma, all’improvviso, un conato. Si dovette staccare bruscamente, correndo di nuovo sì, ma verso il bagno, dove fece appena in tempo a sollevare la tavoletta del wc e a vomitarci tutta la colazione.

 

“Imma, Imma…”

 

Una mano fresca sulla fronte, seguita da una salvietta bagnata, non appena ebbe finito con gli ultimi conati, e la voce preoccupata ed un poco accusatoria di Calogiuri che le chiese, “ma ti succede spesso di vomitare? Non me l’hai mai detto!”

 

“No, no… è la prima volta… non so… forse l’odore di così tante rose, tutte insieme, è stato troppo forte. Però almeno stavolta siamo già al secondo trimestre, quindi non dovrebbero durare troppo a lungo, spero. Anche perché tu non puoi cavartela per troppo tempo e dobbiamo festeggiare, Calogiuri!”

 

“Sei tremenda!” lo sentì pronunciare, sollevato, divertito, ma anche esasperato, prima di essere stretta in un abbraccio dolcissimo.

 

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“Come si può notare dal reddito del mio cliente, tolte le spese vive, riteniamo che abbia molta più possibilità reddituale la controparte, sebbene il mio cliente abbia una situazione abitativa e familiare molto più stabile e-”

 

“E vivere a casa degli ex suoceri non può essere definita una situazione più stabile. Inoltre il suo cliente ha le spese pagate quando è in viaggio, giustamente, così come ha vitto e alloggio gratis quando è a casa degli ex suoceri. E non mi risulta che passi del tempo altrove e che quindi abbia particolari spese, anzi. La mia cliente invece ha una situazione indipendente e si sta sobbarcando tutti i costi di mantenimento suoi e della bambina, facendo anche molti sacrifici. Quindi si merita il supporto di un aiuto per gli alimenti, da ora a quando la figlia sarà indipendente economicamente.”

 

“Peccato che la sua cliente abbia un compagno, che evidentemente contribuisce con le spese e-”

 

“E la mia cliente non accetta alcun contributo economico dall’attuale compagno, proprio perché appunto vuole essere indipendente. Il massimo del contributo, se così lo possiamo chiamare, è qualche pranzo o cena, quando sono insieme, e qualche gioco per la minore. Cose che dovrebbe fare il padre biologico, anzi, dovrebbe fare molto ma molto di più e-”

 

“E lo farà, se gli sarà concesso l’affido della minore. Oltre al fatto che, ritenendo la signora Minichiello-”

 

“Calogiuri!” intervenne Rosa per l’ennesima volta, snervata da quel topo di fogna dell’avvocato che continuava apposta a chiamarla così.

 

“Insomma la signora Calogiuri è colpevole di abbandono del tetto coniugale e di aver voluto e deciso lei questa separazione, molto probabilmente perché già invaghita dell’attuale compagno. E quindi il mio cliente non le deve proprio niente, anzi, dovrebbe chiederle i danni morali e materiali, psicologici ed esistenziali. E poi la signora Calogiuri non può voler essere indipendente quando fa comodo a lei, ma pretendere allo stesso tempo di continuare ad essere mantenuta dal mio cliente e-”

 

“La mia cliente è quasi un anno che non vede un euro dal suo cliente. E non chiede il mantenimento per se stessa, ma un contributo al mantenimento della figlia, responsabilità che il suo cliente in teoria si dovrebbe essere preso quando la minore è nata. Anzi, non dovrebbe essere nemmeno una responsabilità, ma un desiderio, una necessità morale e materiale di provvedere al meglio per la propria figlia minore e per la sua crescita. E non trattare il tutto, sia l’assenza di mantenimento, sia l’assenza fisica del suo cliente - che è da natale scorso che non vede sua figlia - come arma di ricatto in una separazione, mentre la mia cliente non gli ha mai impedito le visite. Non si può voler essere genitori solo quando fa comodo, alle proprie condizioni. Non funziona così: l’amore per una figlia non dovrebbe essere condizionale a nulla, figuriamoci al fatto di poterla o meno avere sotto il suo controllo, o di farla prima pagare alla ex moglie.”

 

Si guardò con Calogiuri che aveva pure lui la faccia da ammazza!

 

Il nipotino se la cavava sempre meglio: era proprio bravissimo, niente da dire, anzi!

 

Pure in quell’udienza, che praticamente era stata uno stillicidio di numeri, redditi, spese. La cosa che tollerava meno in udienze di questo tipo ed uno dei tanti motivi per cui non avrebbe mai voluto fare la matrimonialista - a parte che l’avvocatura in generale le faceva venire l’orticaria.

 

“Va bene. Direi che i punti in oggetto sono stati trattati più che esaustivamente. Per oggi abbiamo concluso: vi invierò comunicazione sulla data della prossima udienza.”

 

Pure il giudice probabilmente non ne poteva più, ma il fatto che avesse concluso dopo l’arringa di Galliano e non quella di Pace poteva essere un buon segno. Ma l’ultima parola era ancora lontana dall’essere scritta.

 

Uscirono dall’aula e quasi si aspettavano un agguato, ma stavolta niente quasi suocere e niente quasi cognati, per fortuna. E nemmeno bimbi ululanti che si stavano finalmente abituando ad essere lasciati per qualche ora con la baby sitter, senza montare tragedie greche. Non che Francesco non gliel’avrebbe fatta un po’ pagare al ritorno a casa.

 

In compenso si trovò davanti una quasi sorella, che era venuta ad assistere all’udienza.

 

“Imma! Ti trovo bene! Stanca ma… ma luminosa. Si vede che siete felici!” commentò Chiara, dopo averle dato, con giusto un paio di secondi di esitazione, un rapido abbraccio, ed aver poi salutato Calogiuri.

 

“Vado un attimo a parlare con Rosa, Pietro e l’avvocato… cioè… Andrea…”

 

Calogiuri, dopo aver balbettato quella scusa poco credibile, si era allontanato alla velocità della luce, lasciandole sole.

 

“Te lo sei scelta proprio bene, Imma! Ma del resto hai sempre avuto un gusto sugli uomini di gran lunga migliore del mio…” sorrise Chiara, prima di chiederle, un poco intimidita, “visto che ci hanno lasciate sole… ti va di fare due passi? Il parco qui dietro mi hanno detto che non è male… anche se tu ci sarai di casa.”

 

“Va bene, avverto solo un attimo la mia scorta personale, che se no chi lo sente se non mi vede più?”

 

Vado un attimo a fare due passi al parco con Chiara. Tranquillo che non faccio sforzi.

 

“Eh, con tutte le minacce che avete… capisco che sia prudente… lo sarei pure io… poi ora che quello stronzo dell’avvocato di Milano ha rivelato che tenete voi… Francesco, giusto?”

 

“Sì,” confermò, non potendo fare a meno di sorridere, perché Francesco era talmente una meraviglia ed era così orgogliosa, di lui e dei progressi che stava facendo, che le veniva spontaneo.

 

“Hai fatto bene a non portarlo oggi. Ma forse vuol dire che è anche un po’ meno disperato?”

 

“Sì, sì. Vivace è vivace e… non so quando gli passerà e se mai gli passerà il trauma dell’abbandono ma… ma è più tranquillo di prima. Credo che stia finalmente cominciando a credere che torneremo, anche se non ci vede sempre.”

 

Chiara sorrise, gli occhi un poco lucidi, in un modo che le ricordava sua figlia, nei rari momenti in cui era più dolce e tenera.

 

Cominciarono a passeggiare con calma, rimanendo però in un silenzio assoluto ed un poco imbarazzato.

 

C’erano talmente tante cose da dirsi, che era difficile trovarne anche solo una da cui avesse senso iniziare.

 

“Hai… anzi… avete già programmi per le vacanze? Ormai agosto si avvicina.”

 

“In realtà… in realtà no, non sappiamo cosa riusciremo a fare, fra tutti gli impegni.”

 

Non era una bugia, perché la loro vita era realmente un delirio. Certo, ci stavano parecchie omissioni.


“No, perché… se volete un posto tranquillo e riparato… volevo invitarvi a cavalcare in Puglia da me, almeno per qualche giorno, che so che ti piacciono tanto i cavalli. E poi c’è pure il mare, che è bellissimo, e-”

 

“E ti ringrazio ma… ma forse per ora è meglio niente cavalcate, poi con un bambino piccolo, in mezzo ai cavalli, e-”

 

“Sei incinta?”

 

Per poco non inciampò in una radice, tanto le prese un colpo.

 

La guardò, con la bocca spalancata, non riuscendo a dire né sì né no, e chiedendosi soprattutto come avesse fatto, e se l’intuito fosse prerogativa di famiglia.

 

Chiara, per tutta risposta, rise di gusto e poi le diede un altro rapido abbraccio.


“Imma… prima di tutto, ti ricordo che sono un medico, anche se oculista, ma quindi la vista la devo mantenere buona per forza. E poi… a parte le occhiaie… appunto sei luminosa, radiosa, e… al di là dell’effetto che può farti il tuo bel maresciallo… riconosco gli effetti degli ormoni… sei anche leggermente più morbida in viso. E poi… lo so che magari era una scusa per non avere a che fare con me, ma… ma per rifiutarti di cavalcare… ce ne vuole. E sono sicura che Francesco in mezzo ai cavalli, anche con un po’ di apprensione, lo porteresti volentieri, come tutti noi che li amiamo tanto.”

 

Sì, l’intuito era di famiglia e pure la faccia tosta.

 

“Chiara… mi raccomando: non lo sa praticamente ancora nessuno. Non l’ho detto nemmeno a mia figlia o a Pietro che… sto aspettando di poter fare l’amniocentesi e di vedere come va. Non-”

 

“Tranquilla, Imma. Diciamo che, anche se tecnicamente sarei fuori servizio, c’è il segreto professionale. E poi c’è quello… tra due sorelle, no?”

 

Prese un fiato lunghissimo perché quella parola ancora faticava a sentirla, figuriamoci a pronunciarla.

 

Però, forse, era ora di cominciare ad abituarcisi.

 

“Ma quindi… ma quindi prendermi così da parte, chiedermi dei cavalli, era tutta una trappola per costringermi a confessare?” le venne poi il dubbio, perché, visto che era di famiglia… le tecniche quelle erano - e ci si metteva pure lei in prima persona.

 

Chiara rise di nuovo, non sembrando offesa.


“No, no. Mi era venuto un poco il dubbio oggi, vedendoti in aula ma… l’invito è vero ed è sempre valido. E poi volevo avere l’occasione per parlare con te, che ci vediamo così raramente. Ma insomma, se la ginecologa te lo consente e… se ti va… un po’ di mare fa bene. Galleggiare in acqua è un toccasana per la schiena. E poi, pure se hai la ginecologa, ricordati che hai anche un medico in famiglia e che se hai bisogno di qualsiasi cosa io ci sono. Anche perché a Roma ci sto venendo più spesso.”

 

Scacciò la visione di un inseminatore seriale e di un vecchietto che diceva una parola è troppa e due sono poche, in una serie tv assai improbabile ma che a Valentina piaceva tantissimo e pure alla sua ex suocera.

 

“Grazie ma… per ora ce la caviamo, non ti preoccupare.”

 

“Va bene… lo so che sei indipendente… altro che Rosa! Che comunque ha un bel carattere!” sospirò Chiara, un poco rassegnata, ma non risentita, “a proposito, ma… ma adesso che pensate di fare? Perché so che non volevate stare più a Roma, ma con la gravidanza, Francesco, il bimbo in arrivo… il sesso già lo sai?”

 

“No, ancora no. La ginecologa sta decidendo se aspettare l’amniocentesi alla diciottesima settimana o se farmi un’ecografia alla sedicesima. Per fortuna le analisi sono abbastanza a posto, ma devo prendere alcune cose per prevenire il diabete gestazionale ed altri problemi, vista la mia età non più… di primo pelo. E pure controllarmi più spesso delle donne più giovani di me. E comunque… su dove finiremo dopo Roma… ancora non lo sappiamo.”

 

“Io tifo per Matera, lo sai. Un po’ per egoismo, perché mi piacerebbe averti più vicina. Anche se… capisco che non sarebbe facile per voi, con tutte le malelingue e… e anche se forse in altre città avreste più possibilità. Anche il piccolo o la piccola. Sia come lavoro sia come… mentalità più aperta. I miei figli, come sai, sono scappati tutti.”

 

“Lo so… e… vedremo… anche se Matera resta nel mio cuore e pure in quello di Calogiuri,” commentò, quasi tra sé e sé, perché l’idea di tornare lì, se da un lato la spaventava, dall’altro…

 

Sarebbe stato così bello vedere un piccolo Calogiuri correre per i Sassi di Matera e crescere nella città dove lei era nata e cresciuta e dove era nato e cresciuto anche il loro amore, a dispetto di tutte le probabilità e le previsioni.

 

“In ogni caso… possiamo vederci lo stesso, indipendentemente da dove finiremo,” si lasciò sfuggire, con enorme sorpresa di Chiara, ma pure sua, “però… te l’ho già detto, io non sono molto brava con la socialità.”

 

“Ah… neanche io… ma va benissimo così… tanto a me il tempo libero per viaggiare non manca. A te invece… mi sa che mancherà eccome!”

 

Si toccò leggermente la pancia, inconsciamente o quasi, ma la verità era che non vedeva l’ora di avere una vita ancora più incasinata di così.

 

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“Ti direi di stare calma, Imma, ma mi sa che è più agitato lui.”

 

Erano nello studio della ginecologa: era giunta finalmente, dopo un’attesa che era parsa infinita, la sedicesima settimana.

 

Mancava ancora ben più di metà gravidanza ma, tra l’apprensione di Calogiuri, che era ancora più un lenzuolo del solito, le - per fortuna rare - nausee mattutine e la stanchezza, dovuta non solo alla gravidanza ma al piccolo terremoto che avevano a casa, quel mese o poco più, da quando aveva scoperto di essere incinta, era sembrato non passare mai.

 

Poi… c’era ancora pure la tensione per i risultati dell’esame di Calogiuri, che tardavano. E certo: era estate e gli esaminatori se la prendevano comoda, mannaggia a loro!

 

Cercò di fare un sorriso rassicurante a Calogiuri, che si era seduto accanto al lettino dove era sdraiata e che le stritolava la mano peggio di lei quando stavano in aereo.

 

Un po’ per uno non fa male a nisciuno! - le ricordò la voce della buonanima di sua madre.

 

Almeno la Moliterni, a quell’ecografia, magari se la sarebbero risparmiata.

 

“Non mi svenire mo, Calogiù,” si raccomandò, visto che teneva le labbra quasi blu, pure se se le mordeva a sangue, il che non prometteva niente di buono.

 

Almeno la battuta ebbe l’effetto sperato: Calogiuri arrossì dall’imbarazzo ed un poco di sangue gli finì pure al cervello.

 

Il freddo del gel sulla pancia, il clic dello schermo che si accendeva ed il fastidio della sonda che vagava sulla pancia.

 

E poi un altro rumore ed eccolo: il suono più bello del mondo, che però forse correva un poco meno rapido dell’ultima volta.

 

“Ma-?”

 

“Tranquilla, Imma, è normale: quando ci siamo visti l’ultima volta eri in una fase della gravidanza in cui, di solito, il feto ha circa 170 battiti al minuto. In questa fase della gravidanza si assesta tra i 140 e i 150 e scenderà ancora prima del termine.”

 

Per un attimo si chiese se la dottoressa sapesse leggere nella mente, ma chissà quante pazienti che le domandavano tutte esattamente la stessa cosa, peggio dei giornalisti alle interviste.

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri, la cui stretta si era leggermente allentata, e lo trovò con gli occhi e la bocca spalancati, a fissare lo schermo, due lacrime che gli scendevano lungo le guance, le pupille dilatatissime e lucidissime.

 

“Ma è… è…”

 

Le venne da ridere e da commuoversi al tempo stesso perché, quando non scassava tutto lo scassabile con l’apprensione, le notizie sulla gravidanza lo rendevano ancora più di poche parole che agli inizi.

 

“Su, su… che ai neopapà la prima ecografia può fare questo effetto, anche se devo dire che uno commosso come lei raramente l’ho visto,” scherzò la dottoressa, mettendogli una mano guantata sulla spalla e dandogli due colpetti.

 

Per un attimo, pure così, le venne un piccolo moto di fastidio: non ci poteva fare niente, anche fidandosi di Calogiuri, quando qualcuna allungava le mani, pure innocentemente, l’istinto ed il ruggito quelli erano.

 

Sentì però qualcosa anche nell’addome, una sensazione indefinibile, quasi impercettibile, si voltò e vide che il bimbo era ben più grande e riconoscibile come tale. Era quasi un venti centimetri, aveva la testa dritta, non più ripiegata del tutto sul corpo, e molto più tonda; le manine ed i piedini molto più ben definiti, così come la boccuccia che si apriva e chiudeva. Riusciva persino a distinguere le palpebre, anche se chiuse.

 

Ma, la cosa più bella di tutte, era che si muoveva: altro che una palla attaccata all’utero!

 

Muoveva le braccine e le gambine e cercava di scalciare, anche se lei ancora non sentiva niente ma, come Calogiuri singhiozzò un’altra volta, si mosse ancora di più.

 

“Mi sa che ti sta dicendo di non fare lo scemo, Calogiù,” ironizzò, anche se la vista le si stava appannando un’altra volta, la mano di lui che tornava tipo boa constrictor e Calogiuri che piangeva e rideva. E poi si sentì sollevare la mano in bacio tenerissimo, prima di tornare allo stritolamento.

 

“In realtà il feto non può ancora sentire i rumori, ma le vibrazioni sì ed anche le emozioni della mamma…”

 

“Insomma, è comunque e sempre colpa tua che mi fai emozionare, Calogiù!”

 

“Ma… ma è tutto a posto, dottoressa?” domandò poi lui, perché era quella la cosa più importante.

 

“Da quello che vedo sì: la gravidanza sta procedendo regolarmente, secondo i parametri. Ovviamente, per avere la certezza definitiva, ci vorrà l’amniocentesi, ma ormai mancano solo due settimane. Il responso però arriverà dopo tre settimane, vi avverto.”

 

“Cioè in totale ancora cinque settimane?!” domandò, alzando involontariamente la voce, perché quella cosa non l’aveva capita la volta precedente, “ma… ma ormai fatico a nasconderlo a mia figlia e poi magari si comincerà a notare di più: già la pancia comincia ad essere più tesa e un po’ più gonfia.”

 

“Lo capisco, e capisco anche i motivi della prudenza verso sua figlia e nel rendere pubblica la notizia ma… già a pochi giorni dall’amniocentesi potremmo avere un primo responso, almeno per escludere le malattie più comuni e gravi. Quindi di solito è già abbastanza rassicurante.”

 

“Eh… abbastanza… è quell’abbastanza che mi preoccupa!”

 

Perché la cosa peggiore sarebbe stata rilassarsi, pensare che andava tutto bene e poi avere la mazzata tre settimane dopo.


“In ogni caso… se volete… posso azzardare il sesso del feto. Con l’amniocentesi avremo la certezza definitiva ma… direi che è già abbastanza chiaro.”

 

Le saltò un battito, il bimbo che fece un altro balletto quasi impercettibile nella pancia - chissà se anche quella era tra le vibrazioni che riusciva a sentire - e staccò gli occhi dallo schermo per incrociare quelli azzurri, acquosissimi ed enormi del… del papà.

 

Un’altra botta di ormoni ed emozione solo a pensarlo.

 

Bastò uno sguardo, uno solo e si capirono.

 

“Sì, già c’ha fatto la sorpresa di arrivare così, all’improvviso, almeno su questo vogliamo essere preparati,” pronunciò e Calogiuri annuì, baciandole di nuovo la mano.

 

La dottoressa sorrise e, dopo l’ultima conferma, mosse ancora per un po’ la sonda, finché la fermò e, indicando la zona tra le gambette scalcianti, proclamò, “a meno che si nasconda molto ma molto bene, e non mi pare proprio, direi che è in arrivo una bambina, tosta come la madre.”

 

Le scappò un singhiozzo, ma pure due o tre - mannaggia alla dottoressa, al piccoletto, anzi, alla piccoletta e a Calogiuri!

 

Calogiuri, che era una valle di lacrime, continuava a guardare lei e lo schermo come se le Madonne mo fossero due, a baciarle la mano e poi il viso e poi… nonostante il gel, lo sentì appoggiare la mano sulla pancia, accarezzarla e piegarsi per proclamare, a pochi centimetri dalla pelle, “amore mio… pure se non mi puoi sentire, io e la mamma ti aspettiamo! Sarai bellissima come lei, ne sono sicuro, e non me ne farai passare neanche mezza!”

 

Le venne un altro singhiozzo, ancor di più con le carezze di Calogiuri. La bimba si muoveva come un’ossessa, che manco Valentì si muoveva così, se non ricordava male. Anche se la tecnologia all’epoca era meno precisa.

 

A posto stavano, proprio!

 

“Eccalà! Un’altra cocca di papà in arrivo, con la quale dovrò litigare per tutta l’adolescenza e che verrà su viziata all’inverosimile!” scherzò, anche se un poco di timore di replicare gli errori fatti con Valentina ce l’aveva veramente.


“Eh no!”

 

Calogiuri aveva smesso con le carezze e le aveva di nuovo stretto la mano, in modo deciso, nonostante il viscidume del gel, “viziata mai. E se dovremo lottare, lotteremo insieme. Anche perché, se viene su con il tuo carattere, dottoressa, basteremo a malapena in due per contenerla.”

 

“Pure se piglia la tua testa dura, maresciallo, che mi pare proprio di sì! A posto stiamo!”

 

Una risata, un bacio sulle labbra - alla faccia della ginecologa e della buoncostume - e di nuovo quelle specie di farfalle nello stomaco che, mo lo sapeva, non erano soltanto di felicità.

 

Anzi, erano della felicità più grande di tutte.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo capitolo che, a dispetto dei miei timori, sono riuscita a terminare prima delle vacanze.

Spero che vi sia piaciuto e voglio rassicurarvi ancora che i capitoli che ci attendono non saranno una succursale del reparto di ostetricia e ginecologia, perché già dal prossimo ci aspettano notevoli casini per Imma e Calogiuri. I problemi ed i pericoli ancora non sono finiti e c’è molta gente che trama, più o meno nell’ombra. Nonostante, anzi, soprattutto ora che sul giallo hanno ottenuto un’importante vittoria in quel di Milano.

Vi ringrazio tantissimo per le vostre recensioni che mi danno sempre una grandissima carica per scrivere.

Un grazie particolare anche per chi ha inserito questa storia tra le preferite o le seguite.

Come preannunciato, salvo miracoli e più tempo per scrivere del previsto, in queste settimane sarò in vacanza, quindi il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 4 settembre. Se riuscirò ad anticipare e a farvi una sorpresa la troverete qua.

Grazie mille ancora e buon mese di agosto!

 
   
 
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