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Autore: denn_nanni    31/08/2022    0 recensioni
Alice è una ragazza solare e schietta, fortemente legata ai suoi amici e alla sua casa; le piace la sua vita così com'è ed è difficile per lei abbandonare la sua zona comfort. Un giorno però le viene imposto di trasferirsi lontano, oltreoceano, da un padre che non conosce, in una città che non è la sua e abbandonando i suoi amici proprio per l'ultimo anno di scuola. Verrà inghiottita dal risentimento e dalla rabbia o riuscirà a trarre beneficio da questa esperienza? Rimarrà attaccata disperatamente alla sua vecchia vita e alle sue vecchie conoscenze o accetterà di ricominciare? Riuscirà a trovare quelle persone per cui sarà valsa tutta la sofferenza per il cambiamento?
H. S.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO QUATTRO
Nuove conoscenze

Alice.

Oggi a Londra è previsto bel tempo, ma da quello che so spesso è grigio e piove. Forse anche il tempo atmosferico si prende gioco di me ora. Cammino a passo spedito per il corridoio principale. Mia madre mi ha detto che mi aspetteranno in aeroporto. Ma saprò riconoscere mio padre? Chissà quanto sarà cambiato dall'uomo che ricordo io... Continuo a camminare per l'ampio corridoio e mi stupisco notando un uomo vestito di tutto punto che tiene un foglio in mano con scritti il mio nome e il mio cognome. Mi avvicino a lui che mi squadra. «Lei è la signorina Gray?» mi chiede cordialmente piegando in quattro il foglio. Annuisco, lui mi prende le valigie accompagnandomi verso l'uscita intanto si presenta.
«Io sono George Jefferson, l'autista di suo padre signorina Gray. Lei mi può chiamare Jeff.» lo guardo interessata, quanti soldi deve avere uno che si può permettere un autista? «Suo padre è al lavoro signorina, ma mi ha chiesto di informarla che sarà di ritorno verso l'ora di pranzo.»
Arriviamo ad un auto nera, una Range Rover. "Mio padre ha i soldi che gli escono dal culo." penso aiutando George o Jeff o come voglio chiamarlo a caricare le valigie nel baule spazioso. Salgo nei sedili posteriori, estraggo il mio telefono dalla borsa. Jeff o George sale davanti e mette velocemente in moto l'auto.
Il silenzio che cala nell'abitacolo è alquanto imbarazzante perfino per me perché sento che dovrei fare un milione di domande ma mi sto limitando a tacere. Mi decido ad iniziare una conversazione destinata a finire presto.
«Quanto dista ancora casa?» chiedo a Jeff, che ci pensa su prima di rispondere.
«Non molto, signorina Grey.» annuisco consapevole del fatto che mi sta guardando dallo specchietto retrovisore.
«Mi può parlare di mio padre, Jeff?» chiedo appoggiando il cellulare di fianco a me. Lui comincia a illustrare la sua personalità e riesco a fare un quadro del suo aspetto. Mi racconta anche alcuni episodi della sua vita lavorativa e poi passa a parlare della moglie e del figlio. Il tempo trascorso in macchina non è noioso, tutt'altro, Jeff è molto dettagliato nella descrizione della signora Gray e del "signorino" Gray. Arriviamo alla casa poco dopo e, a dire la verità, chiamarla casa è un errore, è una villa e immagino con piscina. Un'ombra di malinconia cala sul mio viso al ricordo di tutte le giornate indimenticabili passate nella piscina dei Davis.
Il cancello si apre, Jeff percorre il vialetto ciottolato fino ad arrivare al garage. Mi chiede di scendere così io apro lo sportello, scendo dalla macchina e mi allontano un po' lasciandolo parcheggiare e osservando il giardino. È molto grande, sembra che prosegua anche dietro la casa, un piccolo sentiero sempre fatto di sassi porta alla scalinata in cima alla quale si trova la porta. Ci sono cinque alberi sistemati in modo asimmetrico nel giardino, due davanti e tre dietro e offrono un ampio spazio ombreggiato. Su uno di questi alberi si intravede una casetta incastrata tra i rami, mi sa che più tardi farò un giro per il giardino. Jeff scarica le valigie e me le porta dentro casa, entro anche io.
L'interno non è interamente placcato in oro ma ha l'aria di essere tutto terribilmente costoso. Nell'entrata c'è, oltre ad un tappeto beige e due attaccapanni appesi ai lati del piccolo corridoio, un ripiano ordinato e perfettamente spolverato sulla sinistra sul quale sono disposte varie chiavi con la propria targhetta insieme a un soprammobile a forma di gatto, sulla coda lunga di questo sono infilati alcuni braccialetti. Davanti a me, poco più avanti, c'è una scalinata che probabilmente porta alle camere e al piano di sotto. Ci sono due spazi aperti appena prima dell'inizio della scala, mi avvicino e entro a destra.
Davanti a me si apre un ampio salotto, un caminetto spento sulla sinistra della stanza, un enorme TV, dei divani formano una "U" davanti ad essa. Ci sono quattro finestre che eseguono alla perfezione il loro compito di illuminare completamente la stanza, nonostante il sole sorto da poco. Decido di entrare nella stanza di fronte, una sala da pranzo simile al salotto, anche questa piena di finestre con un grande tavolo al centro. Mi prendo del tempo per gironzolare per la casa, facendomi un'idea dell'ambiente in cui ora vivo. Jeff nel frattempo ha già portato le mie valige nella camera e, dopo avermela indicata, è scomparso. Entro finalmente nella stanza in cui dormirò, noto con piacere che non è del tutto inadatta a me: l'arredamento è tutto bianco e nero, sarebbe perfetto se i muri non fossero dipinti di rosa perlato, l'armadio è più grande di quello che avevo a casa. La stanza in generale è molto luminosa, come il resto della casa. La pecca più grande che trovo è la mancanza di uno specchio, dovrò dirlo con mio padre.
Mi siedo sul letto, prendo le auricolari dalla tasca, le collego al cellulare e faccio partire la musica. Mi stendo dopo essermi tolta le scarpe e chiudo gli occhi. Sono in Inghilterra, non ci credo di essere davvero a così tanti chilometri da casa, fatico a credere che tra me e i miei amici ci sia un oceano.

Mi sento completamente fuori posto in questo lusso. L'appartamento in cui vivevamo io e mia madre è molto modesto, non una catapecchia, ma adatto per due persone soltanto. Avevamo un bagno, un locale con salotto e cucina e due camere. Nemmeno la casa del suo nuovo compagno è eccessivamente grande. Qui ho l'impressione che possano viverci comodamente dieci persone. Ricordando i racconti di Jeff su mio padre, immagino che l'ampia sala da pranzo sia spesso usata per cene di lavoro o comunque formali.
In questo momento penso di essere in casa da sola, potrei fare quello che voglio ma risulta difficile dato che non conosco l'ambiente. Infatti da quando mio padre mi ha abbandonato non ho mai visto la sua nuova casa, tanto meno ho mai immaginato potesse essere così grande e lussuosa. Deve essere stato davvero devastante per lui in questi anni il pensiero di star vivendo in questo modo mentre la sua famiglia si trovava oltreoceano acondurre un'esistenza modesta, penso con sarcasmo. Mi immergo nei miei pensieri, rimanendo in uno stato di dormiveglia per diverso tempo.

Ad un tratto mi ricordo che non ho fatto un giro per il cortile. Sono davvero stanca, ma il luogo estraneo mi impedisce di addormentarmi, così mi metto di nuovo a sedere, stiracchiandomi e sbadigliando, mi rinfilo le scarpe ed esco dalla camera con la musica che mi aiuta a metabolizzare il tutto.
Mi avvicino alla casetta che avevo intravisto tra i rami di un grande albero, è davvero carina e avrei voglia di salirci per vedere com'è dentro ma non lo faccio per la paura che la scaletta di corda appesa al ramo non mi regga. Mi allontano andando verso il retro della casa dove prosegue il giardino e, come avevo previsto, nel centro c'è una grande piscina coperta da un telone verde. Mi guardo intorno, è tutto molto curato, immagino che mio padre abbia un giardiniere. La siepe è perfettamente squadrata, preceduta qua e la da aiuole piene di fiori. Nell'angolo a sinistra è collocata una casetta di legno. Mi avvicino, apro la piccola porticina e sbircio dentro, trovando solo attrezzi da giardino e oggetti per la piscina. Mentre richiudo la porta, noto un buco nella siepe, nascosto dalla casetta. Mi avvicino prestando attenzione a non calpestare i bellissimi fiori e scopro un piccolo cancellino di legno, un po' malmesso, alto e stretto. È leggermente aperto. Sento la curiosità montarmi dentro e, anche se so che dovrei farmi gli affari miei, sgattaiolo al di la di esso, alla scoperta di qualsiasi cosa esso chiuda.
Sbuco in un piccolo giardino interamente recintato, decisamente meno curato di quello da cui sono arrivata, immagino che sia un luogo non molto frequentato. L'unica cosa che riempie il luogo è un salice, ancora abbastanza piccolo per non essere notato dietro l'alta siepe. Sorrido spontaneamente. Da bambina, disegnavo questi alberi nelle mie ambientazioni di fate, mi affascinavano molto, ma non ne avevo mai visto uno dal vivo. Adesso che me lo trovo davanti, posso percepire la sensazione di magia che mi immaginavo.
«Cosa ci fai qui?» sobbalzo per lo spavento e mi giro verso un ragazzo abbastanza alto, castano che sta fermo in piedi stringendo una sigaretta tra le labbra e un accendino nella mano. Non lo avevo proprio visto, doveva essere nascosto dal tronco dell'albero.
«Sono una persona curiosa.» gli rispondo, facendolo ridere.
Si avvicina a me. «Questo si intuisce, non tutti riescono a vedere un buco così ben nascosto.»
Mi stringo nelle spalle osservando le sue mani che armeggiano con l'accendino per accendere la sigaretta.
«Non dovresti intrufolarti nelle proprietà altrui.» mi dice con un tono severo ma sorridendo. È un ragazzo carino, i suoi occhi sono di un azzurro acceso, pieno di vita, non è tanto più alto di me, però mi supera. "Se i ragazzi sono simili a lui qui, allora ho fatto bene a venire!", penso tra me e me trattenendo una risatina. «Comunque, sono Louis.»
Mi fa un cenno con la testa che ricambio. «Alice.»
«Ora si capisce tutto, stai cercando il tuo paese delle meraviglie.» mormora, facendo riferimento al racconto di Lewis Carroll. Se avessi ricevuto un dollaro per ogni volta in cui una persona ha fatto una battuta simile, probabilmente mi sarei potuta permettere una villa simile a Washington.
«Scusami per l'intrusione, sono appena arrivata in zona, non so nulla di qui.» mormoro con una punta di imbarazzo. Avrei potuto immaginare di star compiendo azioni discutibili. Lui in risposta semplicemente scrolla le spalle e mi sorride.
Mi sembra un ragazzo a posto, la mia prima conoscenza. Ci sediamo sotto al salice a chiacchierare. Mi fa molte domande, è incuriosito dalla mia improvvisa apparizione; lui ha vissuto qui per tutta la sua vita, si può dire che in zona conosca tutti e tra quei tutti, anche mio padre. Sotto sua richiesta, gli spiego brevemente la mia situazione, omettendo quante più informazioni possibili. Sono una persona molto socievole, con chi conosco sono parecchio aperta, ma con gli estranei preferisco non spifferare troppi affari miei. Lui mi racconta che è figlio unico, che vive nella casa dietro la nostra. Solo allora noto un cancellino, simile a quello da cui sono entrata io ma sicuramente meno trascurato, dalla parte di casa sua. Mi dice che questo posto appartiene a loro, che lui viene spesso per rilassarsi e mi permette di tornare quando voglio.
Presto si fanno le undici e mezza, a detta di Jeff mio padre sarebbe tornato per mezzogiorno quindi sarebbe meglio farmi trovare a casa. Mi alzo e lo saluto, lui mi guarda dal basso e mi invita a tornare il giorno successivo, nel pomeriggio. Annuisco, poi torno da dove sono venuta, dirigendomi verso la porta d'ingresso. Mi tocca suonare perché ovviamente non ho le chiavi, altra cosa che devo far presente a mio padre. Mi apre Jeff, che nel frattempo si è messo in abiti più comodi, ma comunque curati e mi dice che posso aspettare mio padre in sala. Faccio come mi dice, e rimango in attesa, curiosa.

 

   
 
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