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Autore: WillofD_04    10/09/2022    0 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi svegliai nel momento in cui una folata di vento investì il mio corpo. Non aprii subito gli occhi però, non ne avevo la forza. Mi resi conto di non essere nel mio letto. La mia guancia poggiava su qualcosa di morbido e fresco, ma non era il mio cuscino. A quel punto sollevai le palpebre e realizzai di essere su un prato. Mi ero addormentata sul pratino della Sunny. Come diavolo ci ero finita lì?
«Nottata movimentata?» fece una voce a qualche metro da me. Girai cautamente la testa e vidi Zoro che mi stava fissando con un ghigno.
Mugugnai qualcosa di incomprensibile perfino per me stessa. All’improvviso mi ricordai dell’ignobile quantità di alcol che avevo ingurgitato la sera prima e tutti i sintomi della sbornia mi colpirono all’unisono. C’era il vento e mi stavo congelando, ma non riuscivo ad alzarmi. La testa mi girava terribilmente, e temevo che se mi fossi mossa anche solo di un millimetro avrei vomitato pure l’anima.
Lo spadaccino, in un atto di pietà, mi tirò su per un braccio. Quando fui in piedi trattenni un conato di vomito. Troppo movimento e troppo in fretta. Poi, come un’illuminazione divina, mi tornò in mente che prima di ubriacarmi avevo messo nel reggiseno – in mancanza delle tasche – un flacone di aspirina e uno di antiemetici, proprio perché mi conoscevo. Li tirai fuori sotto lo sguardo sconcertato di Zoro e feci una scorpacciata di pillole. A volte era utile avere un seno corposo.
«Come sono finita qui? Ti prego, parla a voce molto bassa.»
Scrollò le spalle. «Che diavolo ne so? Mi sono svegliato e ti ho trovato qui.»
«Che ore sono?» Il cielo era plumbeo, perciò non avrei saputo dirlo.
«Le sei.»
«Le sei!?» Alzai troppo la voce, fu come ricevere una martellata dritta in fronte. «Le sei di pomeriggio?» chiesi, stavolta con un tono minimo.
«No, di mattina.» Mi guardò perplesso, come se fosse scontato, ma io avevo un vuoto di memoria enorme che andava dalle undici di sera al momento in cui mi ero risvegliata sul ponte della Sunny, perciò non avevo idea di quante ore fossero passate.
Tirai un sospiro di sollievo. Anche se ero esausta e provata dalla sbornia, la giornata non sarebbe andata sprecata. La guerra si avvicinava sempre di più, dovevo darmi da fare.
«Se per te va bene, come ti ho detto ieri, oggi vorrei riprendere gli allenamenti,» feci sapere al mio interlocutore, che prima mi squadrò da capo a piedi, come se stesse valutando le mie condizioni, poi fece un cenno d’assenso.
«Se vuoi, possiamo riprenderli anche ora.» Sfoggiò un ghigno provocatorio sulle labbra. In quegli anni era diventato ancora più sfrontato.
Alzai gli occhi al cielo. «Ci vediamo dopo pranzo.»
«Cerca di recuperare energie. Non dureresti mezzo secondo nelle condizioni in cui sei adesso,» si raccomandò, sempre sogghignando e con un tono canzonatorio.
Resistetti all’impulso di mandarlo a quel paese e gli voltai le spalle. Mi separai da lui, che andò in palestra, e mi diressi in cucina. Per affrontare al meglio la giornata avevo bisogno di una grossa quantità di caffè. Quando entrai nella stanza le luci al neon mi investirono come un treno in piena corsa, facendomi dolere gli occhi, tanto che dovetti chiuderli e coprirli con una mano. L’antiemetico aveva già fatto effetto, per fortuna, ma l’aspirina no. Mi augurai per la mia sopravvivenza che agisse presto.
Una volta che mi fui abituata alla luce misi la polvere nel filtro della macchinetta. Mentre aspettavo che il liquido scuro uscisse, feci un “controllo danni”. Abbassai la zip del vestito che portavo e diedi una controllata alla ferita sul fianco: tutto a posto, stava guarendo bene. Mi faceva un po’ male, ma era normale, considerato che erano passati solo due giorni e che non vi avevo prestato molta attenzione durante la nottata. Ci avrei messo una pomata più tardi. Poi spostai lo sguardo sulle ginocchia: due grossi lividi bluastri erano stampati sulle rotule. Infine, sul gomito destro c’era un’abrasione rossastra. Che accidenti avevo combinato per ridurmi in quel modo?
Ogni volta era sempre la stessa storia. Promettevo a me stessa che mi sarei contenuta, che non mi sarei ridotta male, che non avrei bevuto senza ritegno, e poi... facevo tutto l’opposto. Però in quell’occasione non potevo biasimarmi più di tanto: era un matrimonio, era d’obbligo ubriacarsi ai matrimoni tra pirati, e infatti avevano bevuto quasi tutti. Ma per quello che rammentavo era stata una bella serata. L’ultimo ricordo chiaro che avevo era di me che chiacchieravo con Nami e Robin. Avevamo riso, scherzato e preso in giro gli uomini delle nostre rispettive ciurme. Anche la cartografa si era data alla pazza gioia, solo che ero pronta a scommettere che lei non stesse male come me.
«Cami-chan! Luce dei miei occhi!» Una voce trapanò i centri nervosi del mio cervello, facendomi sussultare. Mi portai le mani a massaggiare le tempie mentre maledivo mentalmente i versi squittenti del cuoco.
«Cami-chan, qualcosa non va? Hai il mal di testa?» chiese poi, rendendosi conto del mio fastidio.
«Sì, ho il mal di testa, per cui parla piano.»
«Perdonami, principessa. Parlerò pianissimo,» disse in un sussurro, poi andò alla sua postazione e si mise a tagliare le verdure per il pranzo. Anche Ryu iniziava i preparativi per i pasti ore prima.
Il caffè uscì in quel momento e Sanji, da vero cavaliere, prese una tazza, ce lo versò dentro e me lo portò. Gli sorrisi e lo ringraziai. Mentre lo bevevo, qualcosa sul bancone attirò la mia attenzione. «Quello è rafano?»
Smise di affettare verdure e si girò verso di me, sorpreso. «Sì, come fai a saperlo?»
Feci spallucce. Era una storia che non mi andava di raccontare. C’era di mezzo sempre una sbornia. Il rafano era l’ingrediente principale di un rimedio – schifoso –  per il dopo-sbronza che una volta mi aveva preparato Kenji. E quest’ultimo era il tasto dolente. Erano settimane che non ci parlavamo, a parte quelle tre frasi che ci eravamo scambiati al matrimonio. Ero determinata a confrontarmi con lui, ma non sapevo cosa dire. Più ci pensavo e meno mi venivano le parole. Forse perché, in parte, avevo paura di perdere la sua amicizia. Però in questo modo, tra silenzi e occhiatine fugaci, era come se l’avessi già persa, quindi valeva la pena fare un tentativo di salvarla. No?
Finii il caffè e mi alzai, decisa a tornare sul sottomarino.
 
Mi risvegliai, per la seconda volta quel giorno, senza sapere che ore fossero. Alla fine ero tornata sul Polar Tang e mi ero riposata un altro po’, me lo potevo permettere: sarebbe stata una giornata dura e mi servivano tutte le energie che riuscissi a recuperare. L’aspirina aveva fatto effetto, ma avevo ancora qualche postumo della sbronza. Mi sentivo ricaricata ed esausta al tempo stesso.
Appena mi fui fatta la doccia ed ebbi infilato la divisa seppi subito dove andare. Mi diressi in infermeria a passo svelto e quando ebbi avvistato Kenji lo presi per un polso senza dire niente, lo trascinai nella mia cabina e chiusi la porta. Era l’unico luogo dove non ci avrebbe disturbato nessuno. Lui mi stava fissando con confusione e anche un po’ di timore. Aveva ragione, gli dovevo delle spiegazioni.
«Ci siamo entrambi evitati in questo periodo,» esordii con un po’ di imbarazzo. Era arrivata l’ora di chiarire una volta per tutte e chiudere la questione, non potevamo più rimandare. Rivolevo il mio amico e, se non avessi potuto riaverlo, almeno mi sarei messa il cuore in pace.
«Già.» Abbassò la testa e si fissò la punta dei piedi, incapace di guardarmi negli occhi. La tensione si poteva tagliare con il coltello. «Suppongo che tu abbia avuto molto da fare.» Anche se non lo aveva detto con malizia, mi arrivò come una frecciatina e mi sentii in colpa.
«Non è giusto.» Strinsi i pugni e feci un passo verso di lui. «Non voglio che pensi che non sei importante per me. Lo sei. E molto.»
Alzò il capo e fece per parlare, ma io lo stoppai sollevando un indice. Mi ero preparata un discorso da fare e non volevo perdere il filo. «Voglio solo che tu stia bene. E forse sono io che non ti faccio bene.»
Scosse la testa e fece un mezzo sorriso. «Tu illumini le mie giornate, Cami.»
«È proprio questo il problema,» affermai, una ruga di preoccupazione sulla mia fronte. «Io non posso darti quello che vorresti da me, quello che cerchi.»
«Lo so. Va bene così.» Annuì appena, un’espressione amara dipinta sul volto.
«No, non va bene così. Ho finito per ferirti.»
Law mi aveva fatto capire che non dovevo sentirmi in colpa, eppure io mi ci sentivo. Non c’era modo di evitarlo, come non c’era modo di evitare che Kenji soffrisse. Ormai il danno era fatto.
«Direi che ferire ed essere feriti sono cose che fanno parte della vita.» Non mi guardava nemmeno negli occhi, era distrutto. Si girò e fece per andarsene dalla stanza, cupo e a testa bassa.
«Aspetta!» lo richiamai. Non poteva finire così, non potevamo lasciare di nuovo tutto in sospeso. «So che è egoista da parte mia dire una cosa del genere, ma... io non voglio perderti.»
«Cami...» Piegò la testa da un lato, lo sguardo di entrambi affranto.
Lo interruppi per l’ennesima volta: «Non voglio perderti come amico, come compagno, come confidente. Come... Kenji, in tutta la tua interezza. Perché sei la persona più bella e pura che io abbia mai conosciuto. E ti ho conosciuto sul sottomarino di un pirata che sventra cadaveri per hobby e si diverte a cavare cuori dal petto dei nemici, e talvolta anche degli amici. Immagina quanto tu possa essere prezioso, per me e per il resto del mondo.»
«Cami...» ripeté, facendo qualche passo verso di me. Sotto la tesa del cappello lo vidi arrossire e trasalii. Forse avevo appena gettato altra benzina sul fuoco senza volerlo.
«Ma capirò se mi dirai che non vuoi avere più niente a che fare con me. L’importante è che tu sia felice, perciò accetterò qualunque decisione prenderai,» gli feci sapere, per poi mordermi il labbro inferiore, consumata dalla tensione.
Sospirò e stavolta incastonò le sue iridi alle mie. «Tu non mi perderai. Mai.»
Sorrisi sollevata, ma la mia gioia durò poco, perché parlò di nuovo: «Credo solo che entrambi abbiamo bisogno di tempo per metabolizzare le cose.»
Annuii, in parte condiscendente, in parte sconfitta. Sarebbe stata una tortura stargli a distanza e non parlargli, mi rivolgevo a lui per la maggior parte delle cose. Quando avevo un dubbio chiedevo a lui, quando volevo condividere una cosa buffa che mi era successa la raccontavo a lui e ridevamo insieme, se mi serviva un consiglio – che non fosse strettamente “femminile” – andavo da lui. C’era sempre per me e io cercavo di fare lo stesso: lo aiutavo con le procedure mediche, supportavo le sue idee, ascoltavo pazientemente i suoi resoconti sull’inventario. Mi sarebbe mancato. Però capivo le sue motivazioni, gli serviva tempo per accettare la situazione, estinguere i suoi sentimenti per me e andare avanti. E siccome gli volevo molto bene, avrei rispettato la sua richiesta. Era giusto così, era il minimo che potessi fare.
«D’accordo, prenditi tutto il tempo che ti serve. Io, se e quando vorrai, sarò qui ad aspettarti,» gli dissi, cercando di mostrarmi comprensiva. In realtà una parte di me pensava che il rosso avesse ragione: entrambi avevamo bisogno di tempo, non solo lui. A me serviva per lavare via l’imbarazzo che provavo ogni volta che lo guardavo e attenuare il senso di colpa per averlo rifiutato.
«Che ne dici di un ultimo abbraccio? Da amici e solo amici,» mi propose, spiazzandomi.
Neanche a dirlo, accettai di buon grado. Sapevo che non ce ne sarebbe stato un altro tanto presto.
Gli buttai le braccia al collo mentre lui mi cinse la vita. Fu l’abbraccio di due persone che sapevano che prima o poi sarebbero tornate ad abbracciarsi alla stessa maniera, con affetto e senza complicazioni; che lo speravano. Fu un abbraccio stretto e lungo. Semplice ma carico di significato. Incerto e sicuro al tempo stesso. Fu un abbraccio tra due buoni amici.
 
Una gocciolina di sudore cadde sul pavimento, così come la mia Mr. Smee. Grugnii poco elegantemente. Più mi impegnavo e meno mi sembrava di migliorare. Anzi, mi sembrava addirittura di peggiorare. Ero consapevole che ci volessero mesi per ottenere risultati, ma io non avevo mesi, e speravo che in qualche modo si potesse compiere un miracolo. Era inutile prendersi in giro, non avevo possibilità di imparare a padroneggiare un fendente volante in tempo per la guerra. Questo non significava che dovessi smettere di provarci o di allenarmi con lo spadaccino, mi faceva bene e mi serviva per aumentare forza e resistenza, però non era facile. Se io ero sfinita, Zoro non aveva nemmeno il fiato corto. Avevo sempre saputo che tra il suo livello di forza e il mio c’era un abisso, ma dover fare i conti con questo ogni giorno era snervante. Era un promemoria del fatto che se non fossi migliorata non avrei avuto molte speranze. Mi tormentavo da giorni, da mesi, con quella storia. Non ne potevo più. Ero arrivata a desiderare che la guerra iniziasse e finisse presto, così io sarei stata libera dalle mie angosce, sempre che fossi sopravvissuta. Eppure non riuscivo a smettere di perseguitare me stessa. Per di più continuavo a pensare a quello che ci eravamo detti io e Kenji qualche ora prima. Mi vorticavano così tante domande – senza risposta – nella mente che mi era venuta la nausea. Ero proprio masochista.
Un’ondata di rabbia si impossessò di me e mi lasciai andare a un grido di frustrazione.
«Questo atteggiamento non ti aiuterà a vincere le tue battaglie,» affermò con tranquillità lo spadaccino, andando verso i bilancieri.
A quel punto, qualcosa in me scattò. Spalancai gli occhi e lo fissai con iridi infuocate.
«Zoro, ti consiglio di lasciar perdere.»
«Dico solo che pensi troppo a quello che verrà. Dovresti smettere di rimuginare sul futuro e concentrarti sul presente.»
Feci una lunga risata isterica. E poi le parole vennero da sole, come se fossero sempre state lì, incastrate in gola e pronte a uscire, come se avessi bisogno di pronunciarle ad alta voce.
«Sono esausta e terrorizzata. E tu non puoi capire, perché non sei mai esausto, neanche quando sei effettivamente esausto. E figurarsi se hai mai provato paura! Tu non sai cosa sia il terrore. Ma io sì, sono praticamente nata spaventata. E non posso lavare via la stanchezza o il panico che questa guerra mi provoca semplicemente non pensandoci. Sono un essere umano, cazzo! Sono una ragazza di vent’anni che sta per...» Cercai di calmarmi e mi misi a sedere sulla panca. Non me la potevo prendere con Zoro, non ce l’avevo con lui. Non sapevo neanche con chi ce l’avessi. Ero arrabbiata e basta. Presi un respiro profondo. «C’è una concreta possibilità che io possa soccombere. A te non importa niente, perché la morte non ti metterà le grinfie addosso finché non avrai raggiunto il tuo obiettivo, ma per me non funziona così. E non voglio morire, o perdere arti, o che mi succeda... qualsiasi cosa brutta potrebbe succedermi.»
Il verde rimase impassibile dinnanzi alle mie parole. Lo fissai in silenzio per un po’, in attesa di una reazione. Non si mosse, non cambiò espressione, non diede un cenno di vita. Magari lo avevo infastidito con le mie sentenze avventate.
«Mi dispiace. So che nemmeno tu sei immune alla stanchezza o alla paura e che questa guerra non sarà facile neanche per te. È che...»
«Quando ci siamo conosciuti, ho pensato che tu fossi come Usop,» mi interruppe, facendomi corrugare le sopracciglia. Che c’entrava Usop, adesso? Mi ci volle un po’ per capire.
«Lui ha sempre paura, ma alla fine non si tira mai indietro,» riflettei io, annuendo. Poi sorrisi. Per quanto assurdo potesse sembrare, era il più grande complimento che qualcuno potesse farmi in quel momento.
«Però, a differenza tua, lui accetta le sue paure.» Si voltò e andò a mettere a posto il bilanciere. «Tutti abbiamo paura di qualcosa. Non è la paura a renderci deboli, ma la rassegnazione.»
Tornò ad allenarsi come se nulla fosse, come se avesse detto una cosa di poco conto. Non sapevo neanche in che modo replicare, mi aveva lasciato senza parole. Soprattutto perché era di Zoro che si stava parlando. Non era un idiota, tuttavia neanche la persona da cui sarei andata se mi fosse servito un consiglio nell’ambito emotivo. Eppure non solo mi aveva spiazzato, ma mi aveva anche aperto gli occhi.
Ripresi in mano l’ascia. Non dovevo darmi per vinta.
 
«Ciao, Cami.» mi salutò Usop non appena entrai nella “Usop Factory”. Era intento a mettere insieme i pezzi di un congegno strano. Anche lui, come me, stava ultimando i preparativi per la guerra.
Sollevai una mano per ricambiare il saluto e sorrisi. Era una giornata storta, ma le parole di Zoro mi avevano risollevato un po’ il morale.
«Come stai?» mi chiese poi, ridacchiando. Alzai un sopracciglio. Che aveva da ridere? «Hai bevuto parecchio ieri sera! Non ti avevo mai vista in queste condizioni!»
In quel momento avrei voluto essere uno struzzo e andare a nascondere la testa nella sabbia. Non avevo idea di come mi fossi comportata, e non ero sicura di volerlo sapere. Sperai solo di non aver detto o fatto niente che potesse minare la mia già scarsa dignità. Nessuno dei miei compagni mi aveva preso in giro o riportato nulla, perciò era un buon segno.
«Cadevi a terra, ti rialzavi e ricadevi. Sei anche rotolata giù per una collinetta,» mi spiegò il moro, sempre ridendo. Mi ricordai dei lividi e delle escoriazioni sul mio corpo e capii a cosa erano dovuti. «E continuavi a dire: “non ditelo a Kenji, lui diventa triste quando bevo”.»
Ed ecco che la mia giornata era appena tornata buia. Ogni volta che sentivo il suo nome il cuore mi si stringeva. Ci tenevo a lui, tanto da pensarlo anche quando ero ubriaca persa. Eppure, a quanto pareva, non potevo fare a meno di ferirlo. Scossi la testa, come a scacciare quel pensiero. Non era il momento di pensare a lui.
«A proposito, come stanno gli sposini?»
«Felici come non mai.» Evitai di dirgli che in realtà non li avevo visti per tutto il giorno. Si erano chiusi nella loro cabina, e sospettavo che non sarebbero usciti nemmeno se fosse finito il mondo. Erano in modalità “luna di miele” e nessuno di noi osava disturbarli. Ma era giusto così, dovevano avere il loro spazio e il loro tempo.
«Beati loro,» considerò, guadagnandosi un cenno d’assenso da parte mia. «Allora, qual buon vento ti porta qui?»
«Al matrimonio mi hai dato un Dial per amplificare i suoni. So che esistono infiniti tipi di Dial e che possono essere molto utili anche in combattimento, perciò...» Non ci fu bisogno che continuassi, perché capì subito dove volevo andare a parare.
«Vuoi che te ne dia uno da usare in guerra.»
Annuii. L’allenamento che avevo fatto con lo spadaccino dopo la nostra chiacchierata non aveva fatto altro che confermarmi che avrei fatto meglio a puntare su altre strategie di battaglia. Quella mi sembrava la più praticabile. Avevo comunque intenzione di chiedergli una mano; il giorno prima, al matrimonio, mi aveva dato uno spunto.
«Mettiti seduta. Ti farò vedere uno a uno tutti i tipi di cui dispongo, così potrai decidere qual è quello più adatto a te.»
«Grazie per la disponibilità.» Gli sorrisi. «So che ti piace barattare i tuoi possedimenti.»
«Sì, ma in questo caso non ce n’è bisogno. È un favore tra vecchi amici.» Allungò le mani davanti a sé e le agitò.
«Ci tengo a farlo. E credo che ciò con cui voglio barattare i Dial possa farti comodo.»
«Ok, allora se proprio insisti... Con cosa vuoi scambiarli?»
Feci un ghigno sapiente. «Oh, lo vedrai.»
«Questo non è molto rassicurante, sai?» Mi guardò con sospetto, facendomi ridere.
«Lo vedrai,» ripetei.
Non mi rispose. Sapeva che avrebbe dovuto pazientare, perciò si alzò e andò a prendere i Dial.
 
«Sei sicura di non volere un Vision Dial?»
«E che cosa ci faccio con un Vision Dial in guerra? Scatto foto ai nemici e le raccolgo in un album dei ricordi?»
Usop fece spallucce e io scossi la testa. Se fosse dipeso da me, a parte qualcuno che era inutile, avrei preso tutti i Dial: quello accecante, quello che emetteva fuoco, quello che rilasciava gas e perfino quello in grado di registrare suoni. In prospettiva di una battaglia tutti potevano servire, bastava aguzzare l’ingegno e non pensare ai loro utilizzi comuni. Anche ingannare i nemici era una tattica. Ma oltre a non voler sembrare “ingorda” – del resto quelle specie di conchiglie non erano mie, stavo usufruendo di un favore che mi stava facendo il cecchino – sapevo che sarebbe stato inutile fare scorpacciata di Dial. Avrei solo avuto la testa più piena di nozioni da ricordare e, se mi fossi confusa, avrei rischiato di peggiorare la situazione. Avevo bisogno di avere la mente vuota e di concentrarmi sulla battaglia, per cui avevo deciso di prenderne in prestito solo un paio: l’Impact Dial e l’Heat Dial. Il primo mi sarebbe servito più che altro per assorbire i colpi dei nemici fisicamente più forti di me, quelli che non avevo speranza di parare, mentre il secondo, che Usop e Franky mi avrebbero sistemato direttamente nelle lame dell’ascia, avrebbe scaldato la punta della mia Mr. Smee, così da renderla un’arma più offensiva. Se ero fortunata, potevo sperare di riuscire a bruciare ciò che colpivo.
«Vuoi prendere solo questi due? Guarda che non devi fare complimenti.» Piegò la testa da un lato e mi fece un sorriso rassicurante.
«Va bene così, grazie.» Gli sorrisi anche io, per poi tirare fuori due fialette dalla scollatura. Avevo scoperto che era un posto molto comodo dove tenere le cose in mancanza di tasche.
Gliele tirai e lui le prese al volo.
«Cosa sono?» Se le rigirò tra le mani e le osservò con l’aria leggermente sospettosa che lo contraddistingueva.
«La mia merce di scambio,» gli feci sapere, sogghignando fiera. «È un siero che ho creato io. Chiunque lo ingerisca sarà praticamente morto per un lasso di tempo indeterminato, che dipenderà dalla resistenza dell’individuo.»
Quando ero tornata sul Polar Tang avevo proseguito le mie ricerche per migliorare il siero “Giulietta”. Ci ero riuscita, avevo prolungato l’effetto di cinque minuti, ma ne avevo anche scoperto alcuni limiti. Ad esempio che non funzionava su tutti. Per una persona normale l’effetto durava un quarto d’ora, per uno come Zoro – anche se non l’avevo testato direttamente su di lui – si riduceva in maniera drastica. Su uno come Kaido nemmeno avrebbe avuto effetto. Su Law aveva funzionato per tutti i dieci minuti durante la battaglia con Doflamingo perché il suo corpo era gravemente danneggiato, altrimenti sarebbe durato poco anche con lui. Il siero, come la maggior parte delle cose, non era infallibile.
«In che senso “sarà praticamente morto”?» Il cecchino assottigliò gli occhi.
«Ti spiego tutto domani, promesso. Ora devo andare.» Recuperai i due Dial che avevo scelto e mi alzai da terra. Usop aveva passato una ventina di minuti a spiegarmi le funzioni di tutti i Dial di cui disponeva, come riconoscerli dalla forma e dal colore e come attivarli in base alla tipologia. Era un miracolo che i miei neuroni non avessero deciso di scioperare. Il meccanismo di funzionamento era semplice, ma erano troppe informazioni e mi era venuto un mal di testa atroce, complici anche gli strascichi della sbornia.
«Allora aspetto la tua spiegazione.» Si alzò anche lui e mi accompagnò alla porta.
Feci un cenno d’assenso e sorrisi. «La avrai. Grazie per i Dial.»
«Grazie a te per il siero, qualunque cosa sia.» Agitò le boccette tra le dita e ghignò. Anche se non aveva ben chiaro di cosa si trattasse, aveva capito che potevano essere preziose.
Stavolta fui io a fargli l’occhiolino, poi lo salutai con la mano e uscii dalla “Usop Factory”.
 
«Ehi, Cami!» mi richiamò una voce quando poggiai i piedi sul prato della Thousand Sunny. Poiché avevo il mal di testa, ero rimasta sulla nave per farmi un bagno caldo nella loro enorme vasca – niente a che vedere con la misera doccia della mia cabina – nella speranza che mi passasse. Tanto avrei comunque dovuto lavarmi dopo l’allenamento con Zoro.
Sollevai la testa e mi resi conto che Nami mi aveva raggiunta. Qualsiasi cosa volesse dirmi, sperai che fosse breve: avevo un urgente bisogno di un’aspirina, l’ennesima di quel giorno.
«Stai bene?» mi chiese poi, l’espressione appena preoccupata.
«Sì, sì. Ho solo un po’ di mal di testa.»
«Ci credo, con tutto quello che hai bevuto la notte scorsa...»
Cercai di contenere il mio fastidio. Perché si stupivano tutti del fatto che avessi bevuto molto? Eravamo pirati, i pirati bevono, Nami per prima. E poi eravamo ad un matrimonio, l’evento ideale per festeggiare e ubriacarsi.
«Sono stata in pensiero per te per tutto il giorno,» mi disse, facendomi corrugare le sopracciglia.
«Cosa è successo?» volli sapere, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Pregai di nuovo di non aver fatto nulla di imbarazzante o di compromettente. Mi ero già lasciata sfuggire troppo con ciò che avevo detto di Kenji.
«Ad un certo punto eri così ubriaca che non ti reggevi in piedi. Io e Robin abbiamo cercato di riportarti sul sottomarino, a letto, ma tu non hai voluto sentire ragioni: sei salita sulla Sunny, ti sei stesa sul prato e non ti sei più mossa.» Fece una piccola risata nel ricordarsi dell’episodio. «Abbiamo provato a farti ragionare, però hai detto che ti piaceva la sensazione dell’erba a contatto con la pelle e che saresti voluta rimanere lì per sempre, poi ti sei addormentata. Perciò alla fine ci siamo arrese, ti abbiamo portato una coperta e ti abbiamo lasciata qui.»
Annuii più volte con la testa, sorvolando sul fatto che quando mi ero svegliata non avevo nessuna coperta addosso, forse perché il vento l’aveva fatta volare via. Mi sembrava plausibile, era una cosa che sarei stata capace di fare. Tirai un sospiro di sollievo immaginario: stando a quanto raccontava, non avevo fatto nulla di equivoco.
«Quando stamattina mi sono alzata e non ti ho trovata, mi sono spaventata, pensavo ti fosse successo qualcosa. Ma per fortuna sei viva e vegeta.» Rise di nuovo e mi diede una lieve pacca sulla spalla.
Sul “viva e vegeta” avrei avuto qualcosa da ridire, ma non era il caso di mettersi a sindacare.
«Sì, sto bene. Grazie, Nami.» Le rivolsi un sorriso grato. La Gatta Ladra a tratti era scostante, ma sapeva essere molto premurosa.
«Quando vuoi.» Mi fece l’occhiolino, per poi darmi le spalle e incamminarsi verso la cabina delle ragazze. «Ma sappi che la prossima volta dovrai pagarmi per i miei servigi!»
Non stava scherzando. Alzò una mano in segno di saluto mentre io mi portavo le dita alla tempia e me la massaggiavo. Mi sembrava di avere un concerto metal nella testa. All’improvviso ero tornata a sentirmi infastidita. Una delle poche cose positive di quella giornata era che il cielo era tornato terso, solo qualche nuvola bianca sparsa qua e là lo occupava.
Mi girai verso la prua. Rufy si trovava appollaiato sulla polena, il suo posto preferito. Per qualche motivo a me sconosciuto, vederlo lì mi calmò un po’. Anche se non era il pirata più forte – o il più sveglio – in circolazione, sapere che a combattere al mio fianco c’era lui era una garanzia. Sapevo che avrebbe fatto di tutto affinché vincessimo la guerra, affinché sopravvivessimo tutti. Ma non potevo sperare che lui venisse a salvarmi o che impedisse la mia morte. Non potevo fare affidamento sugli altri. Ero responsabile per me stessa. Tutti lo eravamo. In guerra era “ognuno per sé”.
Prima che me ne accorgessi, mi ritrovai dietro di lui. I miei piedi si erano mossi da soli.
«Ciao,» lo salutai, evitando di mettere piede sul muso del leone. Sapevo che era molto geloso del suo posto.
«Ciao,» mi salutò a sua volta, allegro.
«Come stai?»
Si voltò verso di me, sorridendo. «Io bene, e tu?»
«Anche io,» mentii. Non avevo né tempo né voglia di mettermi a spiegare tutti i motivi per cui non mi sentivo bene. «So che questo è il tuo posto, ma posso sedermi accanto a te? Non starò molto, ho solo bisogno di chiederti una cosa.»
Mi fece spazio senza dire una parola. Aveva capito che la questione era seria. Scavalcai la criniera e mi sedetti. Per un po’ rimasi in silenzio, persa ad osservare l’orizzonte. Adesso comprendevo perché gli piacesse tanto stare appollaiato lì. Il mare ceruleo scintillava sotto i raggi del sole, le onde cullavano dolcemente la nave, una lieve brezza soffiava e avvolgeva i nostri corpi. Si percepiva tutto meglio dalla polena, ogni sfumatura dell’oceano, ogni rumore, ogni alito di vento. Era rilassante, e mai come quel giorno avevo bisogno di rilassarmi.
«Tu credi che possiamo vincere la guerra contro Kaido?»
Si voltò verso di me, osservandomi immobile per qualche secondo. Poi fece uno dei suoi tipici sorrisi a trentadue denti. La spensieratezza che emanava quel ragazzo faceva quasi paura. «Certo!»
Annuii, distogliendo lo sguardo. Non sapevo perché glielo avessi chiesto, era ovvio che avrebbe risposto così, e la sua risposta non mi rassicurava affatto, anche se era difficile non credergli quando faceva quel sorriso.
«Cami,» mi richiamò, un tono appena più solenne. «So che a volte fa paura. Basta non pensarci.»
Sbuffai una risata. Mi ricordai di ciò che aveva detto parecchio tempo prima: sapeva di poter morire, e lo accettava, perché sarebbe morto combattendo per i suoi ideali. Se fosse successo a me, era in questo modo che volevo pensare alla mia morte. Era così che volevo che gli altri mi ricordassero. Non sarei morta invano.
«Hai ragione. Grazie.» Gli appoggiai una mano sul ginocchio e sorrisi. Mi alzai e feci per andarmene, poi però ci ripensai. «Mi raccomando, riguardati.»
Non mi guardò, ma fece un cenno d’assenso. Sapeva a cosa mi stessi riferendo. Lo lasciai a contemplare il mare di fronte a sé.
 
***
 
Feci un volo di qualche metro, andai a sbattere contro la parete e ricaddi con un tonfo sul pavimento della palestra.
«Ahi,» mi lamentai. Rimasi a terra per qualche secondo, poi mi rialzai.
«Mi sono fatto prendere la mano.» Zoro si grattò la nuca. Non sembrava dispiaciuto, stava solo esponendo la realtà dei fatti.
«Va bene così, devo aumentare forza e resistenza. Non posso farlo se ci vai giù leggero.»
Sollevò un angolo della bocca. «Questo è lo spirito giusto.»
«Sì, però cerca di farmi arrivare tutta intera alla battaglia. L’obiettivo è aiutarmi a diventare più forte, non menomarmi.» Mi lasciai andare ad una risata. All’inizio avevo soggezione dello spadaccino, ma stava pian piano svanendo. Non c’era nulla da temere, era sempre lo stesso Zoro che faceva le flessioni sul balcone di casa mia e che aveva tentato di usarmi come bilanciere. Non si sarebbe beffato di me perché ero debole. Avevo imparato a non vederlo come un guru della spada che aveva in sé tutta la conoscenza del mondo, ma come uno che stava dando una mano a una sua vecchia amica. Non mi sentivo neanche più un peso per lui. Forse combattere contro di me non era efficace tanto quanto allenarsi con i pesi che usava, ma almeno poteva confrontarsi con un altro essere umano e affinare le sue capacità di captare le reazioni altrui e di elaborare strategie.
Ricominciammo a batterci. Era sempre uno scontro blando, ma ogni tanto, a sorpresa, Zoro aumentava l’intensità e mi costringeva a spingere di più. In pratica riproponeva una simulazione delle battaglie. Ci sapeva fare, sapeva esattamente quanta forza usare, quando accrescerla e come distribuirla. Magari anche l’imparare a dosare la potenza era un modo per allenarsi, per lui. E se all’inizio avevo avuto la sensazione che stesse giocando con me quando combattevamo, dopo che la sua spada mi aveva quasi tagliato in due quell’impressione era svanita. Del resto, non prendeva mai in mano le sue spade per non fare sul serio.
Continuai a sferrare colpi d’ascia e a parare gli attacchi del verde per una decina di minuti. Se lui stava imparando a dosare la potenza, io stavo imparando a dosare le energie: attivavo l’Haki per qualche secondo, la disattivavo e la riattivavo quando mi serviva di nuovo. Potevo farlo, adesso riuscivo ad azionarla più rapidamente, e il dispendio di energia quando la tenevo in funzione era minore rispetto a prima, non sapevo se fosse perché era migliorata la mia resistenza fisica o se invece era perché il mio corpo si stava abituando a quel tipo di sforzo. In ogni caso era una cosa positiva, anche se non ero riuscita a imparare come scagliare un fendente volante. Ed era stato un miracolo che fossi migliorata tanto in così poco tempo. Mi ero perfino abituata ad utilizzare la Mr. Smee con l’Heat Dial che Franky e Usop avevano installato per me. Era un potenziamento interessante. Non era in grado di scalfire uno come Zoro, ma con nemici meno forti avrebbe fatto il suo dovere.
«Sei stanca?» mi chiese, notando che avevo il fiatone e le mani poggiate sulle ginocchia.
Annuii. Almeno ero onesta.
«Non mi stupisce. È quasi ora di cena.»
Spalancai gli occhi. «Davvero?»
Fece un cenno d’assenso. Non pensavo che fosse già passato così tanto tempo. Era positivo, perché voleva dire che ero in grado di reggere i ritmi dell’allenamento di Zoro, e questo aumentava le mie possibilità di sopravvivenza a Wa.
«Sono in ritardo. Ci vediamo domani. Ciao.» Mi girai e corsi verso la porta senza dargli il tempo di replicare.
 
Presi un respiro profondo e mi beai del vento tiepido di quella sera. Avevo bisogno di pace e solitudine. Quando ero tornata sul Polar Tang il sole stava tramontando; la luce aranciata del cielo si fondeva con il blu del mare. Era un bello spettacolo, che non ci capitava di vedere spesso. Nell’ultimo periodo, poiché navigavamo solo in superficie, avevo avuto modo di guardare parecchi tramonti, e durante la cena avevo continuato a chiedermi se avrei potuto vederne altri o se la guerra me lo avrebbe impedito. Era sfiancante. Più passava il tempo, più ci avvicinavamo a Wa. Lo sentivo. Era come se quell’isola fosse in grado di emettere un richiamo animalesco che io riuscivo a percepire. In effetti, vi abitava una bestia che ci aspettava. Forse anche più di una. Ero stufa di ossessionarmi in quel modo. Stava diventando un incubo.
Il tempo era perfetto e l’aria era serena. Alla mia sinistra si sentivano le voci ovattate dei Mugiwara, che al contrario nostro non avevano ancora finito di cenare. Sanji era arrabbiato con Rufy perché stava rubando il cibo a tutti, Usop stava raccontando una delle sue panzane a qualcuno – se avessi dovuto indovinare avrei detto a Chopper e Carrot – e Nami ce l’aveva con Zoro per qualche motivo. Brook invece stava suonando e cantando e presto fu seguito da tutti gli altri. Mi lasciai sfuggire una risata. Con loro finiva sempre per essere una festa. Forse mi sarei dovuta trasferire sulla Thousand Sunny, almeno avrei attutito la crisi esistenziale che stavo vivendo.
Ingollai un lungo sorso di vino dalla bottiglia che stringevo nella mano e osservai il panorama. C’era la luna nuova, perciò solo una striscia del mare era illuminata dalla sua pallida luce, eppure dal ponte del Polar Tang mi sentivo minuscola di fronte all’oceano, così vasto e pieno di possibilità. Anzi, insignificante. Una pedina sacrificabile nella grande guerra che stava per arrivare. Bevvi un altro sorso di liquido rosso e appoggiai i gomiti alla ringhiera. Quando sai che c’è la possibilità che tu muoia a breve, anche una serata tranquilla ti sembra bella, e una vista semplice come quella ti sembra speciale. Non volevo rinunciare a tutto quello. Non volevo rinunciare alla mia vita, ai miei sogni, ai miei compagni, al vino, alla sensazione del vento che mi accarezzava la pelle. C’erano tanti altri tramonti che dovevo vedere, e posti che dovevo esplorare, e avventure che dovevo vivere. Non dovevo morire. Non potevo morire. Non volevo morire.
Una piccola lacrima scivolò lungo la mia guancia. Non ero sicura se fosse per la paura, per l’amarezza o per il bisogno di sciogliere la tensione.
«Non ti è bastato tutto l’alcol che hai ingerito al matrimonio?» fece una voce dietro di me.
Mi asciugai in fretta lo zigomo. Non avevo bisogno di girarmi per sapere chi fosse, ma lo feci ugualmente. Sull’uscio del portone del sottomarino, illuminato dalla fioca luce della luna e dai lampadari del corridoio dietro di sé, c’era Law. Lo guardai con aria truce. Non avevo voglia di subire le sue prese in giro. Feci per andarmene, ma quello che mi disse dopo mi immobilizzò. Non me l’aspettavo.
«Non sei obbligata a combattere.»
Con un solo sguardo aveva capito che c’era qualcosa che non andava e con sole cinque parole aveva centrato il punto. Era incredibile. Era l’unico in grado di farlo, l’unico in grado di irritarmi, spiazzarmi e farmi venire voglia di sorridere nel giro di un paio di secondi. A modo suo, era sempre presente.
Iniziò a venire verso di me e in breve mi fu accanto. Mi ripresi dallo stato catatonico in cui versavo e lo guardai con eloquenza. Sapeva bene che tutti quelli con dei principi morali erano chiamati alle armi.
«Non sei obbligata a combattere,» ripeté, incastonando le sue iridi alle mie. Lo sapevo, in realtà. Era stato chiaro con tutti i Pirati Heart: tempo prima ci aveva detto che la sua priorità era salvaguardare i propri sottoposti e che coloro che non se la sentivano di prendere parte alla guerra non avrebbero dovuto farlo. Ovviamente all’inizio avevano tutti rifiutato quell’ipotesi disonorevole, dichiarando di voler combattere ad ogni costo, ma il Chirurgo della Morte conosceva i suoi subordinati, e aveva ordinato a chi non era in grado di sostenere la battaglia – che fosse per debolezza fisica o eccessiva paura – di rimanere sul sottomarino. Se era lui a comandarlo, nessuno poteva contestare le sue decisioni o essere accusato di codardia. Law aveva i suoi difetti, ma era un bravo Capitano. A me non aveva ordinato niente fino a quel momento, forse perché aveva visto quanto duramente stessi lavorando per farmi trovare pronta, o forse perché voleva che la decisione – quale che fosse – fosse mia. Se non avessi avuto uno spiccato senso dell’onore e un debito morale nei confronti di Rufy e compagni, avrei accolto il suo suggerimento e rinunciato alla battaglia. Ma che razza di amica e sottoposta sarei stata se non avessi aiutato i Mugiwara e supportato il mio Capitano? Tra una possibile morte onorevole e una vita segnata da vigliaccheria e sensi di colpa, la scelta era automatica. C’era perfino una piccola possibilità che il chirurgo mi ritenesse all’altezza di partecipare e sopravvivere alla battaglia. Se la pensava così, c’era solo da augurarsi che avesse ragione.
«Io combatterò, Law,» affermai convinta, portandomi le braccia sui fianchi. Poi assunsi un’espressione meno sicura. «Beh, ci proverò, perlomeno.»
Sollevò un angolo della bocca per fare un piccolo ghigno. Se non altro apprezzava il mio istinto suicida travestito da etica. O forse pregustava il momento in cui si sarebbe finalmente liberato di me.
«Tu invece non vedi l’ora di combattere,» constatai dopo che ebbi osservato attentamente la sua espressione. Anche con il buio vedevo i suoi occhi scintillare al pensiero di dare vita a una guerra epocale.
Sogghignò appena con aria sapiente. «Non di combattere. Di portare caos nel mondo.»
«Per portare caos nel mondo dovremmo sconfiggere Kaido.» Distolsi lo sguardo, pensierosa. «Tu sei certo della vittoria?»
«Dovresti avere più fiducia in Cappello di Paglia.» Alzò un sopracciglio, quasi infastidito per la mia diffidenza. «E nel tuo Capitano.»
«Non ho mai dubitato di te o delle tue capacità, Law. Anzi, ti ho sempre elogiato, ho scelto di navigare sotto il tuo vessillo e così facendo ho messo la mia vita nelle tue mani. Mi fido di te, e lo sai bene, ma perdonami se non faccio i salti di gioia all’idea di combattere con un Imperatore.» Alzai un sopracciglio anche io, per ricordargli che al contrario suo ero un essere umano, un essere umano che aveva le sue debolezze e le sue paure e che ogni tanto vacillava.
«La Volontà della D. scatenerà un’altra tempesta,» affermò deciso, e senza darmi il tempo di replicare si avviò all’interno del sottomarino.
«Per me può scatenare anche un uragano, l’importante è che noi ne usciamo illesi...» sussurrai, ormai sola. Tutto quello che chiedevo era di sopravvivere e di non venire sopraffatta dalla guerra e dalle sue conseguenze.
Controllai quanto vino avessi a disposizione. Circa metà bottiglia. Ne mandai giù un generoso sorso e rimasi a contemplare l’orizzonte.
«Che situazione scabrosa.» Levai lo sguardo al cielo con un sorriso amaro. «Stella, se puoi, ho bisogno del tuo aiuto. Non ho mai pensato di scappare o di non combattere, anche se vorrei tanto farlo. Ma ho bisogno di un segno, di qualsiasi cosa che mi convinca che non sarà un disastro totale, che mi riprenderò se sopravvivrò e che non soffrirò troppo se invece morirò. Accetterò il mio destino, quale che esso sia. Solo...» Nonostante mi venisse da piangere, complice anche l’alcol, mi misi a ridere. Scrollai le spalle, incapace di proseguire con il mio monologo, e rimasi per un po’ a scrutare la volta celeste alla ricerca di un cenno della Stella. Niente. Perfino il vento aveva smesso di soffiare.
«Ah, sono ridotta proprio male...» Risi di nuovo e mi scolai una grande quantità di vino. Per quella notte avevo bisogno di smettere di pensare. Volevo una via d’uscita da tutta l’angoscia che mi causava la guerra.
«Sono d’accordo,» disse una voce distante. Mi guardai intorno, però non vidi nessuno. Forse era quello il mio segno: era arrivata l’ora di smettere di bere e di andare a letto. Con tutto quello che stavo vivendo non potevo permettermi di affrontare anche le allucinazioni.
«Voglio dire, ti lascio per qualche tempo e ti ritrovo a parlare da sola.» La voce era più vicina, e aveva un tono divertito. Ero sicura di conoscerne il proprietario. Non era nessuno dei Pirati Heart o dei Mugiwara. Continuai a osservare i dintorni, ma chiunque fosse era bravo a non farsi notare, a quanto pareva. Forse avrei fatto meglio ad attivare l’Haki.
E poi udii uno sfarfallio, e dietro di me ci fu un lieve spostamento d’aria che portò con sé un familiare profumo di talco. Mi girai di scatto. Il buio da cui ero circondata era stato rischiarato da fiamme azzurre e gialle, che svanirono subito dopo per lasciare posto a una figura esile ma maestosa. Di fronte a me, orgoglioso come sempre, si ergeva Marco la Fenice.
Sorrisi. Aveva un’aria più serena rispetto all’ultima volta che l’avevo visto, ma fisicamente era sempre uguale: stessa capigliatura ad ananas, stesso modo di vestire, stesso sorriso arrogante. L’unica cosa che aveva di diverso era un paio di occhiali dalla montatura rossa poggiati sul naso.
C’erano così tante cose che avrei voluto dirgli che non sapevo nemmeno da dove cominciare. Il mio cervello, già annebbiato a causa del vino, era andato in confusione. Ma il cuore scoppiava di gioia. Ero così contenta di rivederlo, era riapparso proprio quando avevo bisogno di lui. Magari era proprio Marco il segno che la Stella aveva voluto mandarmi. Gli andai incontro lentamente, pronta a riabbracciarlo. Sapevo che sarebbe venuto, non si sarebbe perso quella che si preannunciava essere la guerra del secolo. E poi la realizzazione mi colpì come un fulmine a ciel sereno.
Mi fermai a un paio di passi da lui, colta all’improvviso da un pensiero terrificante: se era lì, significava che l’inizio della battaglia era imminente.
   
 
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