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Autore: Knight_7    14/10/2022    1 recensioni
Nella mia mente ho sempre paragonato il movimento del respiro a quello delle onde.
Forse perché il mare è il primo ricordo che ho, oltre a una delle pochissime immagini nitide che conservo dei miei primi anni di vita.
L’oceano riempiva ogni mio pensiero all’epoca, perciò non mi sorprende che abbia finito per spazzare via tutto il resto nella mia memoria.
Ora che sono cresciuta è tutto diverso, certo…
Anche se ultimamente ho scoperto che l’immagine delle onde mi aiuta a inspirare ed espirare lentamente quando nel cuore della notte vengo svegliata dagli attacchi di panico.
Ma questo è successo dopo.
Molto dopo.
E forse per evitare che anche l’ultimo briciolo di sanità mentale che mi resta venga sommerso dalla marea, meglio ricordare tutto dall’inizio.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clarisse La Rue, Luke Castellan, Nuovo personaggio, Percy Jackson
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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Fui bruscamente svegliata da uno schizzo d’acqua che mi colpì in pieno viso.
 
Mi sollevai di scatto, rischiando di picchiare la fronte contro il timone, sotto il quale avevo improvvisato un letto, e dalla poppa della vela mi sorpresi a intravedere la terraferma all’orizzonte.
 
La giovane orca di 6 metri che aveva spinto la barca mentre dormivo agitò nuovamente il testone per schizzarmi una seconda volta.
 
“Sono sveglia, sono sveglia!” esclamai, scostando la pila di coperte e tirandomi in piedi.
 
“Grazie amica mia. Da qui proseguo da me”
 
Mi sporsi per poggiarle una mano sul muso scivoloso e lei emise un verso di contentezza.
Lentamente, aprì l’immensa bocca, mostrando una luminosa perla luminescente al centro della lingua.
 
“E questa cos’è?” domandai, prendendola e rigirandola tra le dita.
 
Non avevo idea di cosa fosse ma certo non aveva l’aria di una qualunque perla che si potesse trovare racchiusa in un’ostrica sul fondale oceanico.
Mi infilai la piccola sfera nella tasca dei jeans.
 
“Auguro una lunga vita e pesce a volontà a te e al tuo pod”
 
Una strana vibrazione sembrò smuovere la superficie dell’acqua e il verso dell’orca si fece tanto stridulo da sembrare una risata.
 
“E se non dovessi farcela… Chiedi a mio padre di farmi tornare come una di voi” dissi ironicamente, emettendo un sospiro.
 
L’enorme animale si allontanò muovendo le pinne in quello che mi sembrò un gesto di saluto e si esibì in uno spettacolare salto prima di scomparire nelle profondità dell’oceano.
 
Scrutai per alcuni secondi la spiaggia di Santa Monica che si faceva via via più vicina, rischiarata dalla tenue luce del cielo che preannunciava l’alba.
Dopo aver controllato le funi della vela e aver indirizzato le correnti verso la riva, iniziai a preparare lo zaino per lo sbarco.
 
Sotto coperta, Luke aveva riposto, insieme alla mia spada, un grosso zaino da viaggio, dove avevo trovato alcune bottigliette d’acqua, qualche provvista, i soldi che avevo usato per pagare il pedaggio del Canale di Suez e una mappa del Nord America, sulla quale era stato tracciato con un pennarello rosso il percorso da Long Island alla spiaggia di Santa Monica, segnata da una grossa X.
 
Quando l’anno precedente eravamo passati dalla California per raggiungere San Francisco, diretti al Giardino delle Esperidi per portare a termine la nostra Impresa, entrambi avevamo intuito che l’entrata per gli Inferi fosse nei pressi di Hollywood,.
Lì i mostri erano aumentati a dismisura, l’aria si era fatta pensate e puzzava di carne putrefatta. La terra tremava di continuo, anche se quasi impercettibilmente, come attraversata da profondi boati che scuotevano il sottosuolo.
Non avevamo avuto dubbi: si trovava là sotto.
Sperai che Percy, Annebeth e Grover fossero riusciti a scoprire qualcosa di più sull’effettivo ingresso.
 
Mentre infilavo l’occorrente nello zaino, mi stupii di ritrovarmi tra le mani un pezzo di carta stropicciato. Avevo aperto lo zaino tutti i giorni durante la mia navigazione di quasi una settimana, e non capivo come fossi riuscita a non accorgermi di quel bigliettino.
 
La carta era spiegazzata e i bordi irregolari, segno che era stato strappato con foga.
 
“FAI VELOCE”
 
Le due semplicissime parole erano riportate a caratteri cubitali, come per trasmettere un tono urgente e perentorio. La penna era stata calcata con forza sulla carta, fin quasi a bucarla, e la mano che l’aveva impugnata aveva tremato parecchio mentre scriveva.
 
Scossi la testa per allontanare gli interrogativi che suscitarono in me quelle parole prive di contesto.
Cercare di interpretare gli indovinelli di Luke era come tentare di decifrare geroglifici e io ci avevo già esaurito fin troppe energie.
 
 
 
Erano già lì ad aspettarmi quando attraccai al molo di Santa Monica.
 
Senza dire una parola, ignorando l’espressione turbata di Grover e quella seccata di Annabeth, saltai giù dalla barca per lanciarmi tra le braccia di Percy.
 
“Come accidenti…” lasciò cadere la frase, stringendomi fino a farmi mancare il fiato.
 
“Scendo con te. Per la mamma. E non uscirò senza di lei” affermai, sciogliendo l’abbraccio e prendendogli il viso tra le mani.
 
Erano passata appena una settimana dall’ultima volta che ci eravamo visti, eppure mi sembrò che fosse cresciuto più in quel lasso di tempo piuttosto che negli 11 anni che avevamo passato a vederci solamente a Natale.
Aveva cicatrici e lividi sul volto e sul collo, l’espressione provata e stanca, ma i suoi occhi erano vigili e attenti, pronti a intercettare eventuali pericoli all’orizzonte.
Ripensai all’Impresa di Luke e a tutti guai in cui ci eravamo cacciati mentre attraversavamo il Paese e, a giudicare dalle facce di quei tre, intuii che a loro non doveva essere andata tanto meglio.
 
“Non saresti dovuta venire” sentenziò acidamente Annabeth “L’Impresa è di Percy e lui ha scelto me e Grover come compagni. Ora siamo in quattro e tu meglio di chiunque dovresti sapere quanta sfortuna portino i numeri pari”
 
Incassai la frecciatina; al tempo Annabeth aveva supplicato Luke di sceglierla come seconda compagna per l’Impresa, ma lui era stato irremovibile, a causa della sua giovanissima età.
Ma il fatto che non avesse proposto a nessun’altro di partecipare all’Impresa, aveva ulteriormente infastidito Annabeth; aveva provato che Luke non voleva altri compagni all’infuori di me.
 
“Non sono qui né per recuperare artefatti divini né per sventare guerre. Mi interessa solo tirare mia madre fuori dagli Inferi, al resto pensateci pure voi” dichiarai con fermezza, sfidando con gli occhi Annabeth a controbattere.
Lei esalò un sospiro di frustrazione.
“Peccato che idiozia e cocciutaggine siano fattori genetici”
Si voltò di scatto, afferrò Grover per la manica della maglietta e lo trascinanò via dal molo.
 
“Per la maggior parte del tempo è una vera rompiscatole, te ne do’ atto” disse Percy, mentre li seguivamo a distanza “Ma non è così tremenda come pensavo. Anzi, è in gamba, ha salvato le chiappe a me e Grover più di una volta da quando abbiamo lasciato il campo. E sa essere anche abbastanza spiritosa quando vuole e…”
 
“Oh, ti prego, Percy… non lo potrei sopportare” lo interruppi con tono sofferente.
 
“Che intendi dire?!”
 
“Nulla” replicai con un sorriso, alzando gli occhi al cielo “ Lascia perdere”
 
Ci facemmo strada tra gli affollati e caotici dislivelli di Los Angeles, arrampicandoci sulle salite più ripide, diretti verso il centro città, e mantenendo sempre una certa distanza da Annabeth e Grover, che sembravano discutere animatamente a una decina di metri davanti a noi.
 
“Melody, io ti… mi spiace per ciò che ti ho detto al…” cercò di dire Percy, con palese imbarazzo.
 
“Non preoccuparti, davvero. Non avevi tutti i torti. Sono stata una sorella pessima per te, per non parlare delle mie prestazioni in quanto figlia… Quando saremo a casa con la mamma metteremo a posto ogni cosa. Te lo prometto”
 
Annuì con lo sguardo fisso a terra. Quando si trattava di sentimenti, mio fratello non era la persona più sciolta del mondo.
 
“Piuttosto raccontami… com’è andata?” domandai, appoggiandogli una mano sulla spalla.
 
“è stato… terrificante” rispose, dopo aver pensato qualche istante a quale parole fosse più indicata.
“Non abbiamo praticamente avuto un attimo di pace. Ad ogni angolo spuntavano continuamente…
Ma non tornerei indietro. Preferisco combattere i mostri piuttosto che venire espulso, bocciato e trattato come un deficiente”
 
Sorrisi, sperando di sembrare incoraggiante.
 
“La penso come te… Sono contenta che possiamo finalmente essere noi stessi”
 
Percy alzò finalmente lo sguardo su di me, con uno scintillio caldo e rassicurante negli occhi,  e abbozzò un sorriso.
La conchiglia che tenevo in tasca tremò delicatamente e prese a cantare la sua melodia.
 
 
 
Okay, ora… Cerchiamo di proseguire velocemente.
 
So che morite dalla curiosità di sapere cosa ci sia dopo la morte, ma non ho intenzione di raccontarvi ogni dettaglio della nostra discesa.
Se proprio ci tenete a farvi un’idea più precisa di come siano gli Inferi, leggete la controparte che ha scritto mio fratello (ne troverete almeno una copia in qualsiasi libreria del pianeta Terra), lui si che è un bravo narratore.
 
Ma non chiedetemi di rievocare quelle immagini. Le vedo già abbastanza spesso nei miei incubi.
Fidatevi, non è bello sapere cosa mi aspetta là sotto…
 
 
 
Avevamo da poco superato Cerbero - l’infernale cagnolone a tre teste che forse necessitava solamente di qualche attenzione in più - e in lontananza riuscivamo a intravedere il terrificante palazzo del dio della morte, che spiccava in mezzo all’infinita massa di anime straziate dal dolore.
 
Grover camminava – o meglio, arrancava a stento, come tutti - al mio fianco, respirando a fatica.
La stessa aria, infatti, sembrava scottasse come fuoco e bruciava a ogni respiro.
Pensai, inoltre, che per un satiro, spirito dei boschi e della natura, fosse addirittura più faticoso starsene là sotto che per chiunque altro.
 
“Mel…” mi chiamò con un filo di voce.
 
“Stai male?” domandai con preoccupazione, prendendogli il gomito sotto al mio.
 
“N-no… cioè si, ma posso resistere” ammise, appoggiandosi leggermente alla mia spalla.
“Secondo te… lei è qua sotto?”
 
Mi irrigidii, capendo immediatamente a chi si stava riferendo: Thalia.
 
“Non lo so, Grover… Non saprei cosa comporta la metamorfosi, ma sono sicura che se è finita qui, deve essere in un bel posto”
 
Lui annuì, per nulla confortato e i suoi occhi si inumidirono.
 
Mi sforzai per farmi venire in mente qualcosa di più rincuorante, ma improvvisamente Grover cadde a terra.
 
“Oh, Grover…” Esclamai con compassione, pensando che fosse inciampato per la tristezza e la troppa fatica.
 
Ma non ebbi il tempo di chinarmi per aiutarlo a rimettersi in piedi che venne trascinato via urlando da una specie di forza invisibile.
 
“GROVER” Urlai, gettandomi all’inseguimento.
 
“MAIA! MAIAAAA!” gridava lui, comandando alle scarpe volanti che indossava di fermarsi, ma queste non ubbidirono.
 
Corsi a perdifiato giù per la collina, seguita a ruota da Percy e Annabeth, che urlavano il nome del nostro amico.
 
Sono sempre stata una brava velocista, perché essendo cresciuta tra i figli di Ermes, il dio della velocità, ho avuto occasione di allenarmi nella corsa fin da piccola.
Ma quelle minuscole alucce indemoniate stavano ormai trascinando Grover all’interno di una grotta che finiva in uno strapiombo.
 
Quando capii che era la mia ultima occasione, saltai in avanti con tutto il corpo, spiaccicandomi rovinosamente a terra, ma riuscendo ad afferrare le dita di Grover.
 
Fummo trascinati insieme per qualche metro, prima che riuscissi ad afferrare una piccola roccia acuminata che spiccava dal terreno.
 
Urlai per lo sforzo e per il dolore, conscia che non avrei retto lungo, e pregando che Annabeth e Percy riuscissero ad arrivare prima che perdessi la presa sull’appiglio o su Grover.
 
Ma proprio nell’istante in cui ci raggiunsero, la terribile forza che ci tirava verso il baratro scomparve.
 
Guardai esterrefatta Grover, che gemette di sollievo.
 
“Che siano benedetti tutti gli zoccoli di questo mondo”
 
Agitando gli zoccoli, infatti, era riuscito a sfilarsi le scarpe, che nel frattempo si erano buttate nel baratro che si apriva a un metro da noi.
 
Mentre ci alzavamo in piedi, aiutati da Annabeth e Percy, una folata di vento rischiò di risucchiarci nell’abisso.
 
L’oscurità si fece quasi tangibile e mi entrò fin nelle ossa.
Un suono stridulo risuonò tra le pareti della caverna in un eco continuo… una risata.
 
Venni attraversata da terrore antico quanto la morte.
 Ma la cosa peggiore fu che, per un folle istante, una voce dentro la mia testa cercò di convincermi che saltare nell’oscurità fosse una buona idea.
 
“Fuori, ora!” ordinò Annabeth alle mie spalle.
 
“Andiamo, svelta!” esclamò Percy direttamente nel mio orecchio, afferrandomi per le spalle e trascinandomi fuori dalla grotta.
 
Riuscii a formulare un solo pensiero mentre scappavamo a rotta di collo fuori dalla caverna:
in realtà non avevo idea di come lo sapessi, ma ero convinta che quella risata fosse per me.
 
 
 
Bene, arriviamo ad Ade.
 
L’avevo già visto sull’Olimpo, appena sei mesi prima, durante il Concilio Invernale, ma non mi aveva fatto chissà quale impressione.
Mi era parso parecchio a disagio, addirittura imbarazzato, circondato dai suoi parenti, probabilmente perché era l’unico giorno dell’anno in cui aveva occasione di vederli.
 
Ma nel suo regno, dentro il suo palazzo e sul suo trono di ossa… beh, faceva tutt’altro effetto.
 
Successivamente, scoprii che tutti e quattro avevamo subito la stessa influenza da parte del Dio della morte: Ade era potere puro.
 
Era lui ad avere il comando. Dovevo offrirgli me stessa e la mia anima. Doveva essere il mio padrone…
 
Okay, basta, ho messo il rating arancione a questa storia.
 
Le cose non andarono proprio come previsto.
A dirla tutta trovai il piano di quei tre un po’ fallace, visto che contavano di convincere il Signore dei morti a restituire all’odiato fratello minore l’arma più potente dell’universo, appellandosi semplicemente a quanto brutta e ingiusta fosse la guerra.
 
Non avrei mai più permesso ad Annabeth di fare anche solo un commento costruttivo sui miei piani.
 
Guarda caso, Ade non fu dell’idea.
 
Accusò me e mio fratello di essere complici di Poseidone e, in particolare, incolpò me del furto della folgore. Si era sparsa la voce che, durante la gita del solstizio d’inverno, mi fossi infiltrata di nascosto sull’Olimpo per rubare il fulmine di Zeus
 
Rimasi pressoché in silenzio per tutto il tempo, realizzando lentamente che avevamo preso un granchio su tutto. Non era Ade il ladro di fulmini. Anzi, anche lui era stato derubato della sua arma più potente, l’elmo dell’oscurità.
 
Ad un certo punto, il dio alzò la mano e una sfera di luce apparve ai piedi del suo trono.
Emanava talmente tanto calore che era difficile guardarla in modo diretto, ma al suo interno riuscii a scorgere una figura rannicchiata su se stessa.
La mia mamma.
 
Mi gettai in avanti con le braccia tese, incurante dell’insensatezza del mio gesto, ma quando il calore infernale mi bruciò i polpastrelli, mi bloccai, emettendo un gemito.
 
Ade rise della mia disperazione ma non bastò a soddisfarlo.
Chiese a Percy di scegliere chi abbandonare negli Inferi al posto di nostra madre.
 
Guardai mia mamma, avvolta nel fuoco, poi Ade, che sogghignava entusiasta e infine quell’improbabile trio che discuteva animatamente su chi sarebbe stato lasciato indietro, ognuno di loro pronto a offrire la propria vita in nome dell’Impresa.
 
Capii che non avevamo altra scelta.
 
“Rimarrò io” dichiarai, avvicinandomi agli scalini ai piedi del trono di ossa “Lascia andare loro e  trattieni me come ostaggio nel tuo regno, in modo da assicurarti la giustizia o la vendetta. Se Percy sta dicendo il vero, se non è lui il ladro, affronterà il vero responsabile e ti riporterà il tuo elmo, in modo da scambiarlo con me e mia madre. Se invece dice il falso, se lui è il ladro e Poseidone è un traditore, avrai modo di vendicarti su Percy uccidendo nostra madre e su Poseidone uccidendo me”
 
Ignorai le accese proteste che esplosero alle mie spalle, fissando solamente il terribile volto di Ade deformarsi in un sorriso malvagio.
 
“Accetto la tua anima, Melody Jackson”
Nell’istante in cui pronunciò quelle parole, mi ritrovai in ginocchio davanti a lui.
 
Ero incatenata per i polsi al pavimento da una breve serie di anelli roventi e neri come la pece.
Guardai la pelle dei miei polsi arrossarsi per il calore e capii che non c’era forza, né in cielo, né in terra, né in mare, in grado di spezzare quelle catene.
Con estrema difficoltà, sfilai dalla tasca la piccola perla scintillante che mi aveva donato l’orca poche ore prima.
 
“MELODY” la voce disperata di mio fratello continuava a chiamarmi per nome.
 
Mi voltai lentamente verso di lui, affranta dal dolore, e con un filo di voce mormorai:
 
“Te l’ho detto… Non esco da qui senza la mamma”
 
Parlare mi costò l’ultima fatica che riuscii a compiere.
 
La perla si ruppe nella stretta della mia mano; un lampo di luce verde avvolse ogni cosa e il profumo della brezza marina mi inondò le narici.
 
 
 
Quando riaprii gli occhi ero a Montauk.
Sulla spiaggia dove ero cresciuta, affacciata sullo sconfinato oceano Atlantico.
 
In un attimo fui rigenerata dall’aria salmastra che scese nei miei polmoni, dal calore della sabbia in cui sprofondavano i miei piedi nudi e dal rasserenante rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia.
 
Il terribile viaggio negli inferi mi aveva quasi fatto dimenticare la dolce sensazione dell’oceano.
 
Mi resi conto di non essere sola sulla spiaggia.
Una giovane donna dai lunghi capelli scuri giocava sulla battigia, saltellando qui e là e ridendo da sola per gli schizzi d’acqua che la bagnavano fino alle cosce.
Indossava un lungo vestito bianco che le evidenziava il ventre, visibilmente gonfio e rotondo.
 
Un uomo dai capelli scuri, vestito con una camicia in stile hawaiano e bermuda color cachi, la osservava, incantato, seduto sulla riva.
 
Mi avvicinai lentamente, incerta e timorosa di interrompere una scena talmente tenera.
Ma anche quando arrivai accanto all’uomo, lui non sollevò minimamente lo sguardo su di me. Intuii che, per qualche strana ragione, non poteva vedermi.
 
Io, al contrario, fui folgorata dalla sua vista: era mio padre, Poseidone.
 
Ciò significava che quella donna…
 
“Il mare è meraviglioso oggi!” esclamò con gioia mia madre, sedendosi accanto a Poseidone.
 
“Non c’è di che” rispose lui, ridacchiando.
 
Mia madre si accarezzò dolcemente il pancione con fare protettivo.
Era più giovane, senza dubbio, ma constatai che avrebbe conservato quel sorriso gioioso e l’amorevole scintillio che le illuminava gli occhi anche a distanza di vent’anni.
 
“Adorerà vivere qui. Sarà la bambina più felice del mondo”
 La tenera certezza con cui lo affermò, mi scaldò il cuore.
 
L’espressione di Poseidone si incupì. Distolse lo sguardo dalla pancia di mia madre per rivolgerlo verso la linea dell’orizzonte.
 
“Percepisco già il suo spirito. Sarà una vera figlia del mare, questo posso garantirtelo. Ma il mare non conosce limiti, né confini. Le sue emozioni saranno il suo punto di forza come di debolezza.
Sarà in grado di amare con l’intensità di un maremoto e il suo odio sarà profondo quanto gli abissi. Del resto, il destino degli eroi è sempre duro e pericoloso”
 
Esalò un sospiro amaro e tornò a guardare il pancione di mia madre, per poi accarezzarlo delicatamente.
 
“E ho paura che il destino di questa piccolina lo sarà ancora di più”
 
Mia madre, per nulla spaventata dalle oscure parole di Poseidone, gli rivolse un sorriso caloroso e appoggiò il palmo della mano sul dorso della sua, che ancora accarezzava il pancione.
 
“Sarà Melody a decidere il suo destino”
  
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