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Autore: sacrogral    10/11/2022    12 recensioni
Scusate tutti, questa storia necessita di introduzione. Arrivo fresco fresco dalla sezione LADY OSCAR, e credo di aver detto tutto quel che potevo su madamigella; ma la scrittura è una padrona esigente, si dice: “Smetto” come per l’ultima sigaretta, e poi non è mai l’ultima. Qualcuno mi ha detto che personaggi buttati nel Settecento francese, “nati liberi”, avrebbero funzionato anche in autonomia. Io ci provo. Li faccio muovere nella Francia post ma soprattutto prerivoluzionaria, ma lo sfondo è più complesso. Non azzardo “storico” perché è una parola grossa. Se mi è rimasto qualcosa addosso del comandante Oscar, madame Ikeda perdonerà, perché tanto scrivo senza scopo di lucro e quel che c’è di suo è tutto suo. Chi mi conosce troverà ripetizioni, ma buona norma è pensare a qualunque lettore che capiti per caso. Uno di quei 25 lettori, intendo.
Il titolo è da cambiare, si accettano suggerimenti.
I capitoli sono singole storie, le do per finite. Ma sono capitoli, fanno parte di una vicenda unica.
La dedico a una persona – lei capirà. Perché l’ultima volta che mi ha letto le è andato di traverso il caffè. Perché ha grazia con tutti, non solo con me, e questo è importante. E perché ho sempre desiderato dire: “A Silvia”.
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Antefatto
 
che, essendo tale, lascerà più dubbi che certezze, ma accenderà la curiosità senza incendiarla. Si scoprirà pian piano chi è Michel Gobemouche,  chi è l’oste della Disperazione e cos’è la Disperazione, si rivivrà mal ricostruito un pezzo di storia francese e verrà fuori il nome di una persona che sarà importante in seguito, ma soprattutto il nome di un Oggetto, che chiamare “oggetto” fa però tremare le vene e i polsi.
 
La porta si spalancò e, nel buio del luogo, dovuto un po’ al chiuso e un po’ alla tirchieria immutabile e proverbiale dell’oste, entrò un uomo alto, magro e con una faccia strana, una faccia mobile che sembrava fatta con pezzi di altre facce, tanto era asimmetrica, e il buon risultato complessivo pareva sfidare le comuni leggi del bello. Il posto era ancora vuoto e, incredibilmente, vi aleggiava qualcosa di solenne.

Bonsoir, Joss” disse, gettando il mantello su una botte, e mostrando di non aver perduto un filo della sua grazia.

L’oste fece uno sforzo per non far cadere il bicchiere che stava sciacquando – Jacques Rennard, cacciatore di frodo, uno che aveva ammazzato cervi nel posto sbagliato e della persona sbagliata, ed era finito sulla forca a vent’anni, in anni in cui tanto per il sottile non si andava – e cercò di mantenere la voce ferma.

“Cinque anni, Gobemouche, cinque anni che non vedo la tua brutta faccia. E tu entri una sera qualunque e mi dici bonsoir? Come se ci fossimo salutati ieri?”

 A guardar bene, forse era una lacrima quella che gli scendeva sul viso, viso di una bruttezza di lineamenti quasi indescrivibile e con le cicatrici del vaiolo che il tempo non aveva attenuato, che la barba ispida nascondeva solo in parte. O forse era solo una secrezione involontaria dell’occhio, provato da una vita senza quasi luce naturale.

“Ma ci siamo salutati ieri, vecchio bastardo!” esplose il poeta fallito, il poeta dei cenci, che si affrettò ad andargli incontro, abbracciandolo senza che Joss  ricambiasse la mossa, ma il cuore gli aveva accelerato i battiti.

“Vecchio orso maledetto!” gli gridò contro, ma felice “Non sei cambiato di una virgola!”

“Mentirei se dicessi lo stesso” grugnì l’oste, ma quasi sorridendo “Cosa hai fatto in questo tempo?”

“Tutto!” sbottò allegro Gobemouche, e poi, con uno di quei rapidi cambi d’umore e di espressione “Ho lasciato Parigi a cui avevo dato abbastanza. Ho girato per le campagne, sono stato a lungo in Provenza. Ho cercato di passare inosservato, lì si organizzavano i controrivoluzionari e io li ho lasciati organizzarsi, e ho capito che il male non è nelle idee, ma negli uomini. Ho fatto il contadino e mi sono inventato cento mestieri. Non ho più scritto una riga. Ho capito che Voltaire e anche Diderot e D’Alambert erano nemici dei preti, ma non dei tiranni. Ho fatto amicizia con un italiano, mi ha fatto leggere l’opera di un certo Cesare Beccaria, contro la tortura e la pena di morte. Quell’italiano parlava contro la pena di morte più di trent’anni prima che in Francia ci divertissimo a far saltare le teste con la ghigliottina, e già è qualcosa, Joss, perché se pensi a come si faceva prima che monsieur Guillotin mettesse a punto la Louisette c’è da far ribollire il sangue. E non un nobile era salito sulla forca o caduto sotto la scure di monsieur Sanson, non uno! E poi si son meravigliati, se è andata com’è andata. A proposito…”

Joss si accorse di aver ancora in mano Jacques Rennard. A lungo Sanson aveva portato alla Disperazione i condannati, per una sosta e per un ultimo bicchiere, e Joss che glielo aveva servito non aveva mai detto una parola, ma si ricordava gli occhi di tutti; poi prendeva il bicchiere, lo dava a Sanson e Sanson ci scriveva sopra il nome del tizio a un passo dalla morte. I morituri guardavano tutto, e annuivano sempre.
I clienti della Disperazione provavano un brivido forte, un piacere particolare a bere dallo stesso bicchiere che era stato toccato da un uomo a un filo dall’ultimo respiro. E tutto di guadagnato per Joss, i cui bicchieri erano rispettati anche durante le risse.

“La fai semplice, tu. Il ’93 sarà ricordato come un bagno di sangue. E il sangue ha lo stesso colore per tutti. E sì, Sanson sta bene. Ma con quell’uomo non si capisce mai”.

“Perché” chiese Gobemouche, indifferente “con qualcuno si capisce, forse?” e lasciò vagare lo sguardo in quel luogo familiare, quel posto che a lungo aveva considerato casa.

“L’affresco” disse infine, come se lo vedesse per la prima volta.

“L’affresco è sempre lì e lì resta” asserì Joss, perentorio, come se il poeta avesse suggerito di coprirlo, come molti in effetti gli suggerivano e l’oste faceva orecchi da mercante, scuoteva la testa e finiva lì  “Mi protegge. Protegge tutti”.

Gobemouche osservò la parete, e il Trionfo con la Morte ridente, che si portava dietro alla sua musica bambini e vecchi, uomini e donne, innocenti e peccatori, dipinto da mano salda e dal tratto fine; “Caravaggio” aveva detto una sera, un avventore italiano certo molto ubriaco, certo molto esaltato, che si era inginocchiato di fronte al dipinto, offrendo tutto il suo patrimonio per quel pittore di cui nessuno aveva mai sentito parlare, e che Joss, alle sue insistenze, aveva buttato fuori di persona, tenendolo sotto un braccio e sordo alle reiterate offerte di denaro e terre; quel nome, “Caravaggio”, un po’ storpiato, era stato ripetuto a lungo dai disperati, fra risate immotivate e motivatissime bestemmie, insieme all’altra leggenda, quella più diffusa – che il Diavolo stesso avesse perso una scommessa con chissà quale antenato di Joss, e avesse dipinto l’affresco di suo pugno, incatenando la Morte in quel posto, ma rendendolo anche a suo modo inviolabile, sacro e impuro.

Leggende – si riscosse Gobemouche – buone come erano buone tutte le leggende.

Marie Antoinette è toccata a Sanson, vero?” domandò Gobemouche, che lo immaginava benissimo e che se lo voleva sentir dire per poi arrivare a quello di cui voleva parlare, che era quello che negli ultimi mesi – meglio anni, più sincero anni – non gli era mai uscito dalla testa.
L’oste annuì grave. Lui non aveva partecipato a nessuna esecuzione, né prima né dopo – forse era l’unico parigino a poterlo dire. A Joss la morte non piaceva, nemmeno quella degli altri.

“Sanson dice che sembrava una vecchia. Forse i capelli bianchi… sembrava una massaia del popolo. Credo che questo lo abbia colpito. Gli pestò un piede, prima che la mettesse sotto la Louisette. Lei disse: “Pardon, monsiuer” e furono le uniche parole che si scambiarono, dice Sanson. Dice, perché chi era vicino racconta che le abbia detto qualcosa all’orecchio, e la Regina abbia annuito. Ma il boia non entra in argomento. Non era molto in sé, Sua Maestà, qualche anima buona doveva averle dato da bere qualcosa di forte, per affrontare il momento. Per una donna è più difficile”.

“Sì, è più difficile” confermò Gobemouche “ La du Barry…”

“La du Barry è stata accarezzata dalla lama nel dicembre dello stesso anno, Gobemouche; chi c’era dice che è stato straziante. Nessuno le aveva detto che era stata condannata a morte e lei, figlia del popolo, non ci credeva. Urlava e chiedeva pietà, ricordava a tutti che era sempre stata dalla parte dei francesi, urlava che stata una mecenate, qualsiasi cosa voglia dire. Ricordava che, tramite il vecchio Richelieu, aveva fatto graziare molti condannati a morte. Sanson dice che a cinquant’anni era bellissima, sembrava una ragazza”.

“Il nostro boia ha un cuore di ferro. Al suo posto, io sarei scappato con Jeanne du Barry facendomi strada fra la folla, brandendo una penna e mandando al diavolo famiglia e lavoro. E sarei entrato nella storia di Francia!” scherzò, ma quasi controvoglia, Gobemouche: sentir parlare di morte di donne non piaceva a lui, lui che alle donne rubava solo i baci; e poi, con un cambio di espressione molto suo: “Si saranno ricordati dei suoi intrighi, avranno pensato che il pessimo regno di Luigi XV sia stato dovuto anche al suo vizio e alla sua carriera orizzontale”.

“Mai rimproverata nessuna per una carriera orizzontale” puntualizzò Joss, dato che alla Disperazione non si erano mai fatte distinzioni, e le prostitute erano accolte come chiunque altro.

“E Luigi Capeto?” chiese il poeta, cercando di non mettere inclinazione alcuna nella voce. Ma con Joss non funzionava, non aveva mai funzionato.

“Luigi XVI, a pensarci oggi, era già morto quando tradì la Francia, quando fuggì come un ladro dalla sua terra e dal suo popolo. Fino allora, la Francia non lo odiava. Un re che fugge perde ogni credibilità, Gobemouche: il re di una dinastia che a lungo vantò poteri tau.. taut…

“Taumaturgici, Joss”

“Ecco, quelli. Venne fuori che l’erede di Carlo Magno si era travestito da cameriere della governante dei suoi figli, come un pezzente! Ma forse, oltre a non saper far il re, non sapeva fare nemmeno il servitore. Perse credibilità e rispetto. Un giovane rivoluzionario lo riconobbe a Sainte Menehoold, dai ritratti sulle monete, e si scapicollò a cavallo fino a Varennes, precedendo la carrozza con la famiglia reale; la notizia si diffuse, furono suonate le campane, scattò l’allerta generale e tutti furono arrestati e riportati a Parigi. Un padre che abbandona il popolo francese  è un re indegno del suo nome! Il resto fu un susseguirsi di eventi e decisioni sbagliate dei monarchici. Ci fu la Strage di Campo di Marte, la guardia nazionale fece strage il 14 luglio, perché alla festa qualcuno aveva fatto passare una petizione per chiedere il processo del Re. Poi Luigi, a settembre del ‘91, giurò sulla Costituzione, L’Assemblea lavorava e le acque sembravano calmarsi, e la Francia era sempre una monarchia. Nel ’92, il 10 agosto, ci fu la memoranda battaglia fratricida fra realisti e repubblicani. Dicono che alle Tuileries la regina e la principessa Elisabetta videro le stelle filanti di San Lorenzo in enormi quantità, e piansero, prendendolo per un malaugurio. Alle tre di notte a Saint Antoine si cominciò a battere la generale. Dicono che alle sei di mattina il re scese a passare in rassegna le truppe, e solo gli Svizzeri e i nobili gridarono Viva il re, cannonieri e guardia nazionale gridarono Viva la nazione. I marsigliesi furono i primi a tirare qualche schioppettata, di fronte al Palazzo. Quando le cose si misero male, il re si rifugiò nel Palazzo dell’Assemblea, andandoci a piedi, mentre il Delfino giocava con le foglie. Persino lì, persino quei borghesi lo guardarono con disprezzo. Un vile, avranno pensato! Gli svizzeri, forse incerti visto che il re se n’era andato, persero mordente e furono massacrati. Nessuna donna fu toccata.

E poi, a settembre, quel maniaco di Marat incitò una invasione delle carceri parigine e i prigionieri politici, perlopiù preti e nobili, furono massacrati. La violenza s’allargò, e stavolta colpì cieca, e non furono risparmiate le donne. La bella principessa di Lamballe fu uccisa e la sua testa messa su una picca e portata sotto le finestre del Tempio, per atterrire Marie Antoinette, perché era stata sua amica.

E il 22 settembre fu proclamata la Repubblica. Lui disse – Gobemouche sussultò – che era il doppio anniversario delle due battaglie di Platea e di Micale – lo sai tu, poeta, che intendeva? E l’anno del centenario della scoperta dell’America. La sua dannata passione per le date, per i numeri.
E Luigi fu condannato a morte dalla Convenzione  il 17 gennaio del 1793. La maggioranza fu risicata, dicono, 366 “sì” e 355 “no”. L’incorruttibile si era sempre detto contrario alla pena di morte, ma stavolta votò a favore, forse aveva cambiato idea”.

“E poi sarebbe toccato anche a lui. Chissà se lo avrebbe mai immaginato” disse Gobemouche, a bassa voce.

“La Rivoluzione divora i suoi figli. A Robespierre toccò nel ’94, il 28 luglio. Arrivò da Sanson già moribondo, con la mandibola spaccata e legata con un panno. Si strappò il panno e la mandibola cadde. Poi fu detto che fu il boia a levargli la medicatura, per farlo soffrire fino all’ultimo. Ma io so per certo che invece Sanson lo aiutò. Prima di fare il suo lavoro, come sempre”  ribadì l’oste, cupo.

“E il re?” riprese il poeta.

“Quattro giorni dopo la condanna si aprirono le porte della prigione del Tempio – la prigione dell’ordine del Tempio, Gobemouche.  Non sai quante volte lui ce l’ha fatto notare – e Luigi Capeto fu portato a morte. E  abbiamo ancora Charles Henry che non ne vuol parlare, ma quando, dopo, venne qui e io chiusi la baracca e mandai via Foret perché non sta bene che i piccoli sentano, ecco, nel silenzio e con un fiasco di vino davanti, il boia parlò, e disse che non capiva come fosse potuto succedere, perché lui è scrupoloso e controlla sempre tutto, tutto due volte, ma, chissà come,  la lama fu posizionata male, e non tranciò il collo, ma la testa del re. Fu uno scempio orribile, il sangue scorse a fiume e le vecchie streghe ma anche cittadini intinsero fazzoletti e dita nel sangue reale, forse credevano ancora nei poteri tauturghici, chissà.
Charles Henry ricevette offerte in denaro da chi voleva un pezzo del corpo del sovrano, che lui rifiutò col disprezzo che sa mettere nella voce e che fa paura.”.

“Ho presente” annuì Gobemouche, e con una certa discrezione toccò legno e fece le corna “Ricordi in maniera formidabile per essere un ramo vecchio” chiuse, sorridendo.

Ma Joss non ricambiò.

“Campassi cent’anni, di quei giorni non me ne scordo uno.
 
E poi accadde una cosa strana, che è quella che vuoi sapere davvero”.
 
Il poeta, che aveva finto disinvoltura, ma aveva già sussultato un paio di volte e gli teneva gli occhi addosso,  a momenti cadde dalla botte dove era seduto.

“Una cosa strana? Perché, quello che mi hai detto finora, per te, è tutto lineare?”

Joss continuò come se non lo avesse sentito.

“Pare che un uomo sia salito sul patibolo e abbia gridato, una sola volta e ad alta voce: Jacques de Molay, sei stato vendicato! e poi sia sparito, veloce come era arrivato”.

“Non dirmelo, amico mio, non dirmelo. Credi che fosse lui?”

“Non lo so. Non lo sa nemmeno Charles Henry. Erano momenti di concitazione, di orrore e di tripudio”.

“Senti, visto che ne hai parlato tu,” si schiarì la gola, Gobemouche, e l’oste lo guadò obliquo, come dire Ah, ne ho parlato io “visto che ne hai parlato tu:  il boia, per caso, non ha sussurrato all’orecchio di Luigi quello, quello che lui aveva detto di sussurrare?”

Joss, nel silenzio totale e nella solitudine perfetta, si guardò intorno e abbassò la voce:

Io sono un templare e sono qui per portare a compimento la vendetta di Jacques de Molay? Perché questo aveva detto, lui. E io non lo so, Michel. Nemmeno quella sera stessa Sanson ne parlò. Anzi, si era detto di non parlarne mai più. Lo avevamo giurato!” scattò l’oste, come se gli venisse in mente soltanto in quel momento “Lo avevamo giurato e ora tu torni e io ne parlo, come se fosse argomento di conversazione al mercato!” e agitò in aria il cencio che aveva continuato a stringere e strizzare con le mani enormi, rosso in viso. Ma raccontare gli aveva fatto bene, malgrado tutto.
Michel Gobemouche si prese il suo tempo. Lasciò vagare lo sguardo sui bicchieri col nome dei condannati, sulle botti che alla Disperazione erano le sedie, sul niente che erano ricordi, e sull’affresco con la Morte che ride e si fa beffe degli esseri umani, trascinandosi dietro chi vuole e chi deve, senza distinguo.
Pensò, senza soluzione di continuità, alla Costituzione del ’93, quando Robespierre aveva proclamato il culto della dea Ragione come religione di Stato; e a lui prima, quando aveva abolito quelli che chiamava “reati di fantasia”, la sodomia e l’eresia, e aveva proclamato tutti i cittadini uguali di fronte alla Legge; e poi si era riscoperto favorevole alla pena di morte in tempi rivoluzionari. Gobemouche ricordava e sapeva tutto questo quanto Joss. E l’oste maledetto aveva ragione, quello che voleva conoscere era altro, quello che si cela fra le righe della Storia, che solo poche persone silenziose avevano avuto il discutibile privilegio di conoscere.
Non riusciva a immaginare un uomo che fosse più variegato, più ombroso e più difficile da giudicare  dell’avvocato del popolo, dell’incorruttibile di Arras. No, si disse, uno riusciva a immaginarlo – lui. Ma in un altro campo da gioco.
Non c’era stata Legge più democratica di quella scaturita dal bagno di sangue, e chissà, forse guardando ogni cosa da un’altra prospettiva, fra un paio di secoli, in maniera meno passionale… il progresso è inarrestabile e l’uomo è morituro, cambia davvero tanto come e quando la morte lo raggiunga, nella prospettiva del Tempo? Il cammino verso la Repubblica era voluto da Dio o gli eventi accadono così, guidati da un fato arcano, e l’unica nostra conoscenza è il nostro dolore?

“Michel?” lo risvegliò l’oste, lui perso nelle sue fantasie come gli accadeva sempre più spesso, come accadeva da sempre quando la realtà non gli bastava, e non gli bastava mai.

“Joss, io appartengo a Parigi. Posso andare via, posso offenderla, posso sbatterle la porta in faccia, ma io appartengo a questa città. È la mia donna, la sogno, l’accarezzo, aspetto che si lasci toccare e prendere da me. Tutto passa, e Parigi resta, e ride di me.  Io torno qui. E quello che abbiamo fatto noi, quello che forse – Joss, dico forse – è stata la vera origine di tutto, noi lo dobbiamo ricordare, ricordare e rivivere. E io lo devo scrivere”.

“Scrivere?” quasi urlò, quella montagna d’uomo, e la sua voce somigliò a quella di un eunuco con la metà del suo peso e dei suoi anni “Sei pazzo, Gobemouche. Lo sei sempre stato. Tutto quello che abbiamo fatto è sepolto nell’ombra, dimenticato, ci danniamo l’anima anche solo accennando – accennando, Gobemouche – “

“Dopo brucerò tutto. Non sono lui. Nessuno verrà a conoscenza di niente. È solo per me. E per te, per Foret, per Sanson, per fra Etienne e per il dottore… per noi a cui è toccato di abbattere la Monarchia senza che nessuno sappia niente”.

“Gobemuoche” gli disse Joss, ma piano, stringendogli un braccio quasi a fargli male “Noi non abbiamo fatto nulla, non abbiamo abbattuto niente. Quello che è stato non ricade sulle nostre teste più di quanto non ricada sulla testa di ogni francese. Abbiamo seguito un folle, quel folle si è rivelato per quel che era. Tutto qui”.

“Menti, oste. Tutto è precipitato dopo. Luigi XIV e Lugi XV se la sono cavata nonostante le loro follie, forse peggiori delle altre monarchie europee. Sono ingrassati a spese del popolo, loro e il loro contorno di nobili e clero, ma lo sapevano, lo sapevano che erano protetti!”

“Michel, tu vaneggi. Abbassa la voce” si preoccupò Joss, nella solitudine assoluta, forse turbato al pensiero  che la Morte lo ascoltasse, la morte che porta con sé buoni e cattivi, santi e dannati; ma la Morte non c’era, e non ci sarebbe stata finché non fosse arrivato anche Sanson.

“E perché?” scoppiò il poeta, la faccia che somigliava a una maschera da teatro “Perché? Ci siamo già dannati l’anima, abbiamo aperto porte che dovevano restare chiuse, e adesso ti preoccupi se qualcuno mi sente? Non un giorno, non un solo giorno è trascorso che… e poi, perché di lui non facciamo il nome? Abbiamo paura di un pazzo, chiuso in manicomio, o in qualche prigione?” gridò ancora, e fece le corna un’altra volta, ma non per il boia “E diciamolo, no! Che lo sentano queste mura già maledette” e prese fiato “Donatien-Alphonse- Francois- marchese de Sade, eccolo, il suo nome, che possa bruciare nell’inferno degli scomunicati!”

Gobemouche tacque, Joss non disse nulla e l’aria di attesa si stemperò pian piano. Forse il poeta attendeva la prima tromba dell’Apocalisse.
“Contento, ora?” chiese infine l’oste “Sembri fra Etienne”.

Gobemouche rise, ma piano, e poi:

“Parliamone Joss. Chiudi questa topaia e parliamone. Restituiscimi la serenità, oste della malora, prima che diventi pazzo davvero come lui o anche in un altro modo. Parliamo, e parliamo anche del Graal”.

“Del Sacro Graal, razza di impudente sanzadio!” chiosò, parafrasando lui fra Etienne “Dammi il tempo di sprangare la porta. Tanto qui, chi deve entrare entra lo stesso, e chi non deve entrare sta lo stesso fuori” sentenziò.

E muovendosi, con passi lenti e spalle curve, disse al poeta che aveva visto ragazzo e di cui conosceva ogni reazione e ogni dolore “Parliamone. Voglio che tu sia normale, Michel. Parliamo di noi, di lui e del Sacro Calice”.
 
Crediti: Giuseppe Barilli (alias Quirico Filopanti): Storia di un secolo, dal 1789 ai giorni nostri, FASC. I – La Rivoluzione francese; Wikipedia (sic); Paola Barbato/ Giampiero Casertano, IL BOIA DI PARIGI, Bonelli editore, 13/10/2012 (Paola, Giampiero, se passate di qua e questa cosa qualcosa vi muove, adattatela e illustratela, e a Natale mandatemi in cambio una cassa di buon vino); articoli di giornale, ricordi vari e aneddoti tirati fuori dai cassetti della memoria.


 
Intermezzo: presentazione dell’eroe

 
Prepotente, collerico, violento,
eccesivo in tutto, di una sregolatezza
senza uguali nell’immaginazione erotica,
ateo sino al fanatismo, eccomi in due parole:
ammazzatemi o prendetemi come sono,
perché io non cambierò.
D.A.F. de Sade
 
Per coloro che ignorassero ogni cosa eccetto il nome di uno degli eroi di questo racconto, è d’uopo dare una serie di coordinate che aiutino a meglio contestualizzare il suddetto. Quando si chiama lui qualcuno è perché la sua fama è tale da non lasciare adito a dubbi, o perché pronunciarne il nome è già di per sé fonte di terrore. Annibale era chiamato “il Cartaginese” pur di non nominarlo, Rommel, “la volpe del deserto”, non era mai evocato nemmeno per suggestione, se ne negava casomai la presenza in battaglia, ed “Ei fu” basta a se stesso, come l’Innominato è l’Innominato. Colui il cui nome non dev’essere pronunciato ormai è pane quotidiano per gli amanti della Rowling. Ma chi è l’uomo debitamente nascosto che come spettro si aggira per questo racconto e per la mia mente, adeguatamente modificato e riadattato alle circostanze della mente suddetta, necessitante di gesto apotropaico? Scopriamolo.
 
La calda estate del 1772 fu per Donatien-Alphonse de Sade davvero indimenticabile. Non tanto per la sua testa rotolata sotto la ghigliottina. Quella fu solo messinscena. Giustiziato in effigie ad Aix-en-Provence e condannato a morte in contumacia, non ne trasse gran danno fisico, ma il resto  avrebbe pesato su di lui per tutta la vita. Fino alla morte nel manicomio di Charenton-le-Pont, alla confluenza fra la Senna e la Marna dove, invocando la fine dei supplizi, fu sottoposto alla più feroce punizione che potesse colpirlo. Il divieto assoluto di possedere una penna, un po’ di inchiostro, un foglio di carta. Una tortura spaventosa.
“Il mio corpo sia messo senza alcuna cerimonia in una fossa scavata nel primo bosco fitto che si incontra. Una volta ricoperta la fossa, il terreno venga seminato di ghiande in modo che le tracce della mia tomba scompaiano dalla superficie della terra come spero che la mia memoria scompaia dalla mente degli uomini», si legge nel testamento, ripreso da Gilbert Lely.
Nessun problema ci fu ad accontentarlo, né a praticare su di lui la cosiddetta damnatio memoriae.
Eppure tutto ciò non aveva avuto un brutto inizio. Il 2 giugno 1740, data della nascita del piccolo erede, il futuro marchese de Sade signore de La Coste, di Saumane e di Mazan, luogotenente generale alle province di Bresse, Bugey, Valromey e Gex, maestro di campo di cavalleria, il neonato, dicevo, nato nel palazzo del principe di Condé, lontano parente, a Parigi, pupo discendente di Laura di Noves di Sade, la donna amata da Petrarca, il neonato aveva un aspetto assolutamente normale e non dava adito a illazioni, e nessuno si sarebbe sognato di definirlo l’Anticristo.
Nel 1763, benché innamorato della signorina di Lauris, accetta il matrimonio di convenienza propostogli dal padre, e la moglie Reneé, figlia di un presidente di tribunale, darà prova di devozione coniugale  senza riserve, almeno sino al divorzio, nel 1790. Va detto che solo cinque mesi dopo il matrimonio il Marchese venne rinchiuso per quindici giorni nella prigione di Vincennes, per libertinaggio aggravato (ciascuno dia l’interpretazione che vuole), bestemmie e profanazione dell’immagine di Cristo.
Al 3 aprile 1768, giorno di Pasqua, risale “l’affare Keller”. Secondo la donna, vedova in un fornaio, era stata tratta in inganno dall’offerta di un lavoro onesto; secondo de Sade, l’offerta di prostituzione era stata chiara fin dall’inizio. Certo fu che la sequestrò e la fustigò: se sia riuscita a evadere o se scappò senza esser pagata, resta da chiarire.  Il chirurgo che la visitò, tal Le Comte, rileverà sul corpo della donna solo segni di frusta, non ferite tali da portare alla morte come lei dichiarò. In seguito, la Keller accetterà una forte somma per ritirare le accuse. Il fatto che lo scandalo avesse avuto luogo nel giorno di Pasqua sembrò, agli occhi dell’opinione pubblica, anche uno spregio alla Passione di Cristo.
Sade resta, fino a novembre, a quelli che oggi chiameremmo “arresti domiciliari”, amorevolmente accudito dalla consorte.
Una sera del giugno 1772, di passaggio a Marsiglia, dicevamo, si reca col fedele valletto Armand, detto “Latour” in una camera dove lo ricevono quattro ragazze.
L’ospite offre loro «pastiglie à la Richelieu», ovvero confetti afrodisiaci ricavati da una specie di coleottero, la cantaride. In Francia, illegalissimi. Ma senza dubbio atti a sciogliere le inibizioni. Droghe, in due parole – gli antenati della “droga dello stupro” o qualcosa di simile.
Due ragazze si sentono male e presentano sintomi tipici dell’avvelenamento.
Per sfuggire alle accuse, de Sade fugge in Italia insieme alla cognata diciassettenne (scappata dal convento per l’occasione), che presenta come moglie legittima, pensando che a Carlo Emanuele della sua sorte non importasse poi troppo. Viene tuttavia presto arrestato per ordine del re di Sardegna, che agisce su richiesta della potentissima suocera del mrchese, la presidentessa di Montreuil.
Rinchiuso nelle prigioni di Miolans, la moglie giunge travestita da uomo nella speranza di vedere il marito. Invano. Di lì a poco tuttavia riesce a evadere, e nel castello avito viene accolto dalla consorte.
Nel ’75 de Sade invece accoglie cinque ragazzine nel suo castello, col pretesto di prenderle al suo servizio. La notizia si diffonde: sotto l’accusa di rapimento e violenza, Sade scappa di nuovo in Italia, stavolta (pare) travestito dal prete e in compagnia del valletto, e soggiorna a Firenze, Roma, Milano. Si avvicina alle  scienze occulte, probabilmente da studioso più che da adepto. L’ateismo lo avrà portato a riderne, la curiosità lo avrà spinto a voler sapere.
 A Napoli così si esprime, disgustato, nelle sue lettere: “La sera le strade sono piene di sventurate vittime offerte alla brutalità del primo venuto. Non mento se dico che ho visto [...] bambinette di quattro o cinque anni offrirsi di soddisfare le più orribili brame. [...] Una madre vi offrirà indifferentemente quello dei suoi figli, il maschio o la femmina, che più stuzzicherà le vostre inclinazioni. Una sorella vi offrirà il fratello, un padre la figlia, un marito la moglie. Si tratta solo di pagare”.
Nel ‘77 si reca a Parigi, al capezzale della madre morente. La pietà filiale si rivela un’imprudenza, il 15 febbraio viene arrestato grazie a una lettre de cachet (lettera con sigillo reale) ottenuta contro di lui dall’implacabile suocera. Lo rinchiudono nella fortezza di Vincennes.
Ma tutto era cominciato nel 1772, a Aix en Provence dove si esultava per la sua morte in contumacia.
Fu prigione vera, da quella volta, per lo scrittore libertino. Vera e pesante. «Dall’età di 32 anni, data del suo primo internamento, fino a quella di 74, età della sua morte, Sade conobbe solo dodici anni di libertà», scrive lo storico Guy Chaussinand-Nogaret dell’École des Hautes études en sciences sociales, «Subì ogni forma arbitraria di repressione, le “lettres de cachet” dell’Ancien Regime, le prigioni quasi sempre fatali del Terrore, gli internamenti dispotici del Consolato e dell’Impero. (…) Nato per la gioia e il successo, la sua vita trascorse nell’inferno dei sotterranei e degli ospizi».
E dei manicomi. Tanti. Da quello di Charenton al castello di Bicêtre, dalla Prison de Sainte-Pélagie ad altri ancora su un totale di quattordici istituti penitenziari (e di cura) elencati tra i luoghi di detenzione.
Nel settembre 1774 viene trasferito da Vincennes alla Bastiglia. Qui scisse alcune delle sue opere più famose – val la pena di dirlo – Le 120 giornate di Sodoma e Justine, o le disgrazie della virtù fra le altre. Pochi giorni prima della presa della Bastiglia (14 luglio 1789) fu tradotto nel manicomio di Charenton. I motivi furono così sintetizzati da Apollinaire, primo a ricostruire: “Presentendo la Rivoluzione imminente, il Marchese cominciò ad agitarsi e a litigare con Launay governatore della Bastiglia. Il 2 luglio ebbe l’idea di usare come citofono un lungo tubo di latta terminante a imbuto, che aveva in dotazione per lo scarico dell’acqua sporca nel sottostante fossato […]: vi urlò dentro più volte che nella Bastiglia si scannavano i prigionieri e bisognava venirli a liberare. In realtà la Bastiglia ospitava in quei giorni ben pochi prigionieri, il che rende abbastanza difficile individuare le ragioni che esasperarono il popolo al punto da indurlo a prendere d’assalto una prigione quasi deserta. Non si può quindi escludere che gli appelli del Marchese, le lettere che gettava dalla finestra e che descrivevano nei particolari le torture di cui sarebbero state vittime i prigionieri, aggravando un’eccitazione già diffusa, abbiano contribuito a scatenare i tumulti culminati nella presa della vecchia fortezza”.
Nel 1793, abolite dal nuovo decreto le lettres de cachet, stabilitosi a Parigi e coinvolto dal nuovo clima politico, l’infame e sanguinario Sade si rifiuta, in qualità di presedente della sua sezione, di mettere ai voti una mozione disumana: viene accusato di moderatismo e arrestato. Forse la sua proclamata sfiducia nei rappresentanti del popolo e la sua proposta di un governo popolare diretto contribuirono a renderlo inviso a Robespierre. Il cittadino Sade viene condannato a morte e sfugge alla ghigliottina solo perché l’usciere del tribunale lo cerca invano in diverse prigioni.
Torna in libertà dopo la caduta di Robespierre, ma nel 1801 viene arrestato come pornografo a causa di Justine e Juliette. Fino alla morte, nel 1814, sarà fra il manicomio di Saint-Pelagie, Bicetre, e infine Charenton.
Vergognandosi di lui, la famiglia lascia la tomba senza il nome sulla lapide.
Colui che scrive adesso termina con una citazione di Sade a lui cara (a chi scrive, intendo, non al marchese):  “Sì, sono un libertino, lo ammetto, ho disegnato tutto quello che si può concepire in questo genere; ma di certo non ho fatto tutto quello che ho disegnato e sicuramente non lo farò mai», scrisse. Un libertino sì, «ma non sono un criminale o un assassino”.
Il che induce noi, amici lettori, a chiedersi quanto ci fosse di istrionico e volutamente esagerato nella sua opera omnia, quanto invece fosse il bisogno di costruirsi una vita piena di quelle soddisfazioni che non poteva aver appieno nella vita reale (chi scrive lo fa sempre)  – abituati dal Novecento a dividere autore e narratore, e ben sapendo che in letteratura si possono creare opere meravigliose senza condividere una virgola di ciò che i personaggi pensano, oppure ormai consapevoli che la scrittura può essere intesa come sfogo personale e medium consigliato da psicologi per dar voce alle proprie nevrosi, la domanda successiva è: meritava più di trent’anni di galera quest’amante della scrittura  del sesso violento?
E la sua opera meritava di essere maledetta con lui, non considerata neppure per negarne il valore?
 
Ma né Gobemouche né Joss né gli avventori della Disperazione, quella sera lontana, lontana già nel momento in cui  l’oste e il poeta parlavano di nuovo al buio delle candele, pensavano in questi termini. Né lo si può pretendere.
E mentre i due uomini iniziavano a raccontare riportandosi reciprocamente alla mente vicende di tempi già passati allora, noi non possiamo che seguirli, alla Disperazione, un’altra sera qualunque, quando tutto doveva ancora iniziare, la Francia era una monarchia assoluta e il mondo attendeva qualcosa, qualcosa che avrebbe superato ogni aspettativa – ed era un mondo ancora giovane, che non aveva idea che, dopo la parola “amore”, la parola “libertà” è quella per cui si è disposti a compiere anche quello che non si penserebbe mai, anche le azioni più nefande.
 
Crediti: D.A.F., OPERE, (Paolo Caruso e Alberto Moravia a cura di), I Meridiani, Mondadori, 1976.
Me stesso, le mie storie: Per l’uomo non c’è altro inferno che la stupidità o la malvagità dei suoi simili e Sarebbe un pazzo colui che adottasse un modo di pensare solo per piacere agli altri, presenti nella sezione LADY OSCAR, per le quali mi ringrazio molto.
 
  
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