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Autore: rowhes    10/12/2022    0 recensioni
la potenza di un centro
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La libertà delle domande aperte, degli spazi sconfinati, demarcazioni che si fanno scavalcare: mettere da parte qualche osservazione e tenersela come un ricordo prezioso, infinito, un codice pieno di vite ammassate e fragili. Era una specie di abitudine consolidata, quel ritornare materia molle; un raggio d'azione circoscritto ad ogni speranza disattesa. Obbligo e sentenza.
Tra il cullarsi nell'incertezza e il farsi strozzare da una sola piccola idea, si stendeva ogni possibilità. Era chiaro quale fosse stata riposta ma nessuno avrebbe potuto stabilire con certezza il crocevia definitivo, latitudine e longitudine scelti per farsi guardare, di nuovo, intero e migliore. Il suo essere migliore, inoltre, era in cima alla lista di propositi da non rispettare: gli sembrava il modo perfetto per rinnegarsi, per tradirsi. A seguire c'era l'intenzione, purtroppo fin troppo consumata, di fare un po' di ordine. L'ordine invece gli sembrava l'ennesimo tentativo di fuggire, quindi di morire. Alla morte ci si abitua?
Aveva il vizio di cercare conclusioni ancor prima di addentrarsi, quando nemmeno l'eventualità di una costruzione era stata contemplata in tutta la sua complessa pienezza, e quindi prima di figurarsi uno scenario effettivo. Paura? Disillusione? Avrebbe detto stupidità.
Ostinarsi a cercare il punto in cui si converge fino a farsi materia è stupido, in effetti, lo è se si considera reale prima di ogni cosa il non ancora, il non esserci. Quando le cellule non ricoprono soltanto uno, due, tre mattoni sofisticati, qualche soffietto veloce e secretori obbedienti. Quando potrebbero celarsi storie, e donne, e lupi, all'interno di un quadro sgraziato e confuso. Quando le polveri sottili dell'aldilà sembrano colpire il vento e dargli un nome e dargli un tempo, e non girano bene i volti analizzati, consunti. Vogliono essere vivi in obitorio, gridare fermi. Sparire.
Ad ogni tentativo lui rimaneva identico. Non diventava più saggio, né più cattivo, neanche più bravo a distinguere le figure dei suoi cecchini. Rimaneva obiettivo passivo e deriso. Però aveva deciso che in fondo ci avrebbe fatto pace con il suo stare alla fine della fila, all'abbracciarsi di una stanza con il suo prolungamento infedele, seguire per l'uscita; forse era soltanto il suo modo di preservarsi, si era detto, e gli era sembrata una scusa plausibile quanto ridicola. Le cose plausibili sono sempre ridicole. Forse no, ma dichiarare era così rassicurante. Questa passione per le conclusioni era probabilmente l'unica cosa a non subire minaccia di crollo, nella sua piccola esistenza smisurata e sconnessa. Stava per dire sconclusionata, ma avrebbe fatto ridere oltre a disseminare insensatezza dove ce n'era già a sufficienza.
Che bello era nelle sere d'autunno finire di interpretare gli specchi più vecchi, quelli nascosti sotto cenere e polvere, rassettati sempre per ultimi però sopravvissuti ad ogni cernita tremula. Era bello non perché gli regalasse serenità, meno che mai gioia, neanche perché gli teneva compagnia come avrebbe fatto qualunque voce trascinata dal lato assolato. Però gli dava il diritto dell'imperfezione, e questo era un vero dono, il solo vero privilegio che non avrebbe lasciato andare.
Quando vide per la prima volta gli occhi di lei era ritratto e scontroso, se mai questi due aggettivi fossero stati sufficienti a designare un tumultuoso girovagare sulla stessa, sfiancante circonferenza. Sfiancante, ecco, tutte le dodici ore precedenti a quell'istante avevano prosciugato miserie e giochi, grandiosità e pellicine. Pensare che era tutto ricostruibile sul gonfio ingombro di una parola. L'aveva cercata a lungo, cioè, così a lungo da non poterne più essere immune per i mesi a venire, da questo processare costante di sillabe e fibre. Terminazioni nervose, in ogni caso, riportare ancora una volta il significato al significante. Lavoraccio d'una vita.
L'aveva incrociata, alla fine - ma forse era l'inizio - oppure inconsciamente desiderata assieme a tutti gli altri eleganti portatori di verità. Lei aveva le sembianze di un perfetto riposo. Era come stare in equilibrio senza
mantenersi con le mani, né con i piedi, né con gli sforzi mai ricompensati di un paio di neuroni, ma farsi bastare invece soltanto lo spazio. Cosa si intenda per spazio è per di più soggettivo, e questo è un altro grande privilegio che scoprì di non poter abbandonare. Equilibrio.
Quando nei suoi continui processi di costruzione e decostruzione si diceva abbandonato alla fiducia, era di solito un assonnato tentare il residuo, raccogliere i pochi passi impolverati lasciati come traccia e farne un indizio. Ovviamente sbagliato, tornava alle sue comparse maldestre. Questa volta invece parlare di cosmico era parlare di verme, neanche di formica, rotolare spoglio e sorridente, era pesarsi senza controllare i numeri e gli abbagli.
Abbandonarsi ai ricami, che grande spreco, lo aveva sospettato per tutta la vita. Però uno spreco che gli era tanto congeniale da non poterlo controllare, era il suo stesso essere vivo che lo obbligava a stare su quei cerchi concentrici, talvolta insensati, talvolta tanto precisi da risultare fastidiosi. Enigma ingannevole. Lo avrebbe volentieri regalato all'immenso dilatarsi dell'universo, ne sarebbe stato senz'altro depositario più consono, designare chi è all'altezza, al ripetersi grottesco di tutto ciò che non può dirsi esistito, eppure veglia. E sospira, pure. Tuffarsi nel groviglio speranzoso gli mancava, in fondo questa vocazione a ciò che è caotico era acuta soltanto quanto quella alla perfezione più pura. Pulito nel tormento. Pause silenziose in mezzo a note ricongiunte malamente.
I momenti di lucidità erano però i più spietati: non poteva nascondersi da una lente così rozza e precisa. Allora si spostava di qualche millimetro e si metteva a dormire, ferito. Ebbene, lei si era presentata come una lucidità onesta.
Il giorno del primo incontro era stato quindi, neanche tanto eccezionalmente, irritante e infruttuoso. Un potare e scavare a mani nude senza averne niente più che due graffi. Quando le ore macinavano in quel modo l'intero spettacolo gli sembrava un affronto, un teatrino messo su da un commediografo scadente e incline al dramma lercio. Ma forse era soltanto lui a subire una configurazione stupida, ingenua. Che le budella gli si torcessero al pensiero di un tale scenario poteva essere plausibile, ma che questo scoprirsi sottile, tanto sottile da garantire un posto appuntito nel concreto mondo delle reazioni accelerate e dei polmoni bucati, fosse imputabile ad un'altra biglia impazzita, gli pareva un insulto. La comunicazione tra i vari livelli di sé era piuttosto rognosa, comunque, quando non stretta al punto da parere per niente districabile. Tendeva a lasciarsi soccorrere da un singolo lato iperattivo, e anche se non gli stava comoda un'ambivalenza tanto marcata, era pur sempre familiare e rassicurante. Vigliaccheria, già, l'aveva repressa a lungo. L'aveva spostata verso gli oceani più arretrati, ritirata dagli schemi, non voleva vederne neanche la fisiologica rimanenza che era soltanto garanzia di potersi ricordare umano, gli sembrava una debolezza così grande da non meritare margine, circoscrizione, ammissione temporanea, colloquio preventivo. Si spingeva sempre dove nessuno lo avrebbe cercato, era adrenalinico ed era ammissione di colpa, sentirsi non adeguato. Forse soltanto, come ad ogni rimpianto, spinta alla propria celebrazione più umile e sincera.
Lui nelle profondità ci aveva sempre sostato, gigante e malandato, aspettando che la melma diventasse limpida acqua da cui bere; era abituato ad una specie totalizzante di presenza esterna, sentirsi contenuto e minacciato. Ma questa gli era sembrata la prima e unica occasione buona per non scomparire in una grandezza che paralizza, anzi farne patria sconosciuta ed entusiasmante, un fuoco a cui avvicinarsi senza prudenza. La prudenza lo ripugnava, aveva raccolto questa ennesima inquietudine come eredità, e gli sembrava incontestabile.
Questo piano su cui si sentiva approdato non era come un universo parallelo ma piuttosto come un mondo nel mondo, una botola sapientemente intrecciata all'insospettabile neutralità delle cose, che neutre non sono mai, che richiedono osservazione e, se si è fortunati, immersione. Terra vergine. Avrebbe dato a quella figura morbida e spigolosa la forma di una scoperta teatrale, immensa, impossibile da decifrare e ancor meno da definire. Ma condannarsi all'impossibile era proprio la sua scelta di vita, per cui provare brividi e rughe di un momento di separazione era terreno sicuro. Rivelazione, rivoluzione, di nuovo fine che coincide con l'inizio: il più bello e il più fecondo degli incontri. Non si può mai davvero esaurire la fertilità che scaturisce da questo preciso punto nevralgico, bellezza piantata. Si può invece farsene carico in ogni istante che si schiude
con un nuovo profumo, un nuovo girare senza mappe da ricostruire, e scegliere di non perdersi neanche un dettaglio tirato al lato del marciapiede, asfalto pigro, ricominciare a tenere le mani e i destini, ricominciare a benedire le radici come pure le punte più gialle. Ed è esattamente quello che lui fece. Un voto, una promessa, voltarsi col sacro e con l'ordinario, pulire i minuti per mettercisi comodi. E farlo con lei fu il modo più bello di darsi, finalmente, a ciò che è vivo.
________
Scendere all'esplosione, spingere fino ad uscire, poteva rivelarsi fortunata evidenza di potere. Decise di provarci. Il consumato giorno degli undici anni era come messo a seccare, dritto e consultabile ancora, e ancora. Ancora freddo, lo stacco di un momento tagliente. Provava ogni mattina a rientrare nelle scarpe dei suoi genitori e del loro unico figlio, ripercorreva cadendo all'indietro le strade dinanzi alla scuola, alla materna, poi il liceo tetro e mondano come le cose meno considerabili eppure cicatrici permanenti. E ogni mattina faceva un giro nel teatro ovattato del suo inconscio, si guardava ridere inquietante a prevedere le lacrime, i volti in ristampa di un'edizione cancellata, rinnegata persino. Una condanna alla quale tentava di far fronte chiudendo i pori e non ascoltando più gli echi, gli strascichi. Ma non funzionava mai. Destinato a tendere la mano a chi non aveva mai saputo toccarlo, rassegnato, gelido.
Anche quella mattina era gelida e bellissima, sapeva graffiare al punto di essere carezza dorata, tramonto alle prime luci dell'alba. Lui aveva deciso di cercare un nuovo portico a cui fare accesso, un'altitudine diversa da cui fare resoconti e fotografie, apprezzamenti e deduzioni, ma era una decisione sicuramente revocabile, dimenticata con facilità. Era sempre così il suo aprire il coperchio e calarsi sul palcoscenico, come seguendo un tunnel, uno scivolo dove l'inerzia è troppo potente, fa l'aria più materiale non riciclabile; era nuovi modi di illudersi, sviluppare tagli e chiamarsi col nome di altri per dirsi sicuro, presentarsi alle nuvole senza la loro inutile trasparenza. Più concreto? Più reale. Forse solo meno vero. Ma comunque, essere meno vero gli sembrava tra i compromessi richiesti per procedere discretamente, sottoscrivendo la rinuncia al continuo, agli insiemi densi. Come fare un patto con l'altra dimensione, essere più sereno per non essere più lui. Vigliaccheria, come dicevo.
Chiedere certezze gli sembrava pretenzioso e vano, ma lo faceva sentire al caldo di un alito, avi invocati. Aveva rivolto a lei un grossolano candore di intenti, leggero e pregno. Voleva soltanto girarsi nello spazio dei suoi metri quadri e trovarla immensa e raccolta, un sogno per la prima volta pulito, sottile. Non lo avrebbe definito spensierato ma lo avrebbe ricordato bello, e felice. Voleva sentirsi disteso, e felice. Da non crederci.
Lei era tremenda, affilata, non appena sfiorava il possibile. La felicità promessa, e non aspettava neanche il profilarsi di dettagli e risoluzioni fedeli ad un domani dichiarato, non ne voleva sapere di certezze disegnate a mano libera. Le sue erano perfettamente squadrate e rilegate perché già pronte da essere donate, in attesa da anni. Sorrideva. Brillava nella sua pelle bianca e allungava le braccia fredde, cercava l'approdo. Bacio assonnato, firma nera su filigrana.
I giorni del via vai furono come conoscersi di nuovo per la prima volta, strani e ingenui, goffi nel tentare una ricostruzione che li sapesse sostenere, guidare, mantenere interi e fieri. Era un donarsi reciprocamente intangibilità pesante, grammi d'oro, tensioni sciolte. I loro momenti di risate tenevano lo sguardo puntato su quel che non si vede mai, che raramente si può dire incontrato, scalzi sostavano all'aperto e le mani intrecciate, desideri rotti, poi aperti a leggerci ogni più grande tranello e a caderci dentro con deliberata piccolezza.
Ogni tanto lo trovava dedicato ad un frasario senza lettere, decifrando scommesse e ormoni spinti nel buio. Frustrato, ritirato dalla luce di ogni sorta. Avrebbe voluto carezzargli l'orecchio nel punto più morbido, quello delicato che conservava il dolce segreto del suo essere bambino, del suo fare domande irrisolto e affamato, ma sapeva che sarebbe stato come abbreviargli la vita, togliergli l'esplorazione. Doveva fare tutti
quei giri su per le montagne russe, decidersi a cadere e a crollare assieme alle impalcature quando necessario, e fare piazza pulita di ogni supposta legge dei grandi numeri. Alla fine lo avrebbe capito da solo, che non c'era niente da trovare, che cercare era tutto, era tutto contenuto e riposto nei cappi larghi del mistero, maglia di osservati e osservatori. Preciso. Lo avrebbe capito da solo che affannarsi era il solo modo giusto di non arrivare mai, e che volere risoluzione era come chiedere di morire.
Il momento di realizzazione avvenne un pomeriggio piovoso, come tanti altri prima di quello, nel consumare i pavimenti e i soffitti. Guardare dopo le ore piene del tempo venduto era liberatorio, un piccolo regalo, concessione speciale. Soltanto guardare. E poi tornare a fare i suoi fili d'argento sulle sparatorie d'alluminio. Si era fermato proprio nel più gentile dei risultati esatti, quello che normalmente gli avrebbe donato la gioia sufficiente a stare in piedi, sicuro, per qualche ora. Invece lo aveva raccolto come si fa con un frutto sconosciuto, meraviglioso, ne aveva catturato il sapore profondo senza vederne il centro, senza neanche immaginarlo. Ma il nucleo dev'essere più o meno lo stesso ovunque, doveva aver pensato. E questo pensiero lo aveva trascinato nei meandri di un'età perduta, ammirata da lontano perché intessuta con profondo trasporto ad ogni nuovo giorno, ad ogni scoperta, ad ogni conquista. L'avventura dell'ignoto, dissetante come poche altre cose al mondo. Questo nucleo gli aveva ricordato gli alveoli, e i noccioli, e le palline di Natale, e poi le arance ovviamente, e le palline da golf. Tutto talmente scontato da meritare un posto in prima fila nello stare tra la gente. Atomo e le sue probabilità. E se fino a quel momento gli era sembrato tutto tediosamente insopportabile, da quella gente a quella mediocrità, adesso gli pareva infinita e splendente come la volta celeste. Doveva essere più o meno la stessa cosa, e cercarne le implicazioni era stupendo, grattare via le differenze ancor di più, come ridurre il grado di incertezza e la probabilità di errore, però lo aveva fatto diventare un tormento. Adesso vedeva chiaramente le lettere pregne di scritture sacre già complete, già vendute, ogni centimetro di bianco gridare spazio, prendersi il merito di una cattura decisiva, storia senza attributi. Soggetto e oggetto. Adesso si rendeva conto, per la prima volta, che perdersi in quelle trame era davvero uno spreco di tempo, se non lasciate scorrere sui binari della corrispondenza biunivoca, e della gratitudine eterna. E che quindi non c'era spiegazione e che non ne avrebbe volute leggere, mai, per non rovinarsi il sapore delle grandi scoperte. Era finalmente tornato il bambino che tentava disperatamente di agganciare, in ogni sua enorme dissertazione.
Poteva essere un caso, che quel bendarsi di vuoto fosse coinciso con lo stringersi ad un amore effettivo, tangibile come nessuno fino ad allora. Però lui riteneva fosse esatta dichiarazione di pace, desiderata e raggiunta attraversando oasi e doppie guaine, spesse, impossibili da fratturare. E infatti alla fine ci aveva visto attraverso, tenendosi agganciato ad un tessuto in seta che era grazia e inquietudine liscia, ben lavorata.
Di tanto in tanto tornava alla sua abitudine speciale del perdere e non voler ritrovare, però era dolce come un concedersi all'acqua tiepida, accogliente. Era più controllo delle profondità che tentare la risalita, e andava bene così.
Perché quelle mani rimanevano tese, protese, nel loro candido affanno. Allora tornare a lei, e tornare così alla vita, gli sembrava ogni volta la sola vera scoperta possibile.
  
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