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Autore: Orso Scrive    18/12/2022    2 recensioni
Egitto, primi anni del Novecento.
Una squadra di egittologi porta a compimento una scoperta sensazionale ad Abu Simbel, l’antica porta del regno egiziano per chi risaliva il Nilo proveniendo dalla Nubia. Ma la scoperta potrebbe attirare su tutti loro una maledizione che la sabbia dei secoli non è ancora stata in grado di cancellare...
(Storia scritta nel 2017)
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO SECONDO

 

E, finalmente, il tanto atteso arrivo del professor Summerlee avvenne.

Il battello lo lasciò al porto e, da lì, venne condotto a dorso d’asino verso Abu Simbel; il grasso scienziato sudava copiosamente e sbuffava sotto il sole bollente, ma ancora più di lui sbuffava il povero animale che doveva sopportarne la mole non indifferente. Eppure, nonostante fosse visibilmente un pesce fuor d’acqua, in quei luoghi, essendo abituato a girovagare solo tra le stanze del suo museo, il professor Summerlee aveva un’aria euforica e sul viso paffuto era dipinta la medesima gioia che si sarebbe potuta scorgere sul volto di un bambino che avesse ricevuto in regalo un intero pacco di dolciumi.

Il dottor Thompson andò incontro allo studioso londinese, che indossava una sahariana verde i cui bottoni erano pericolosamente tesi sul ventre prominente ed aveva coperto il cranio lucido e completamente calvo con un fez di colore rosso. Osservò due egiziani faticare parecchio per aiutare l’immenso curatore a scendere di groppa dalla sua misera cavalcatura, quindi si fece avanti e strinse la mano al nuovo venuto.

«Professor Summerlee, sono molto felice d’incontrarla» salutò Thompson. «Attendevamo tutti quanti con ansia il suo arrivo per poter finalmente aprire la tomba.»

«Dottor Thompson, che piacere» replicò il curatore, ansando per la calura e per la fatica. «Ma, allora, è proprio tutto vero? La tomba esiste realmente?»

«Non le rimane che appurarlo con i suoi stessi occhi.»

«Incredibile. Quando ho ricevuto il suo primo telegramma… be’, se non avessi saputo che ad inviarmelo fosse stato lei, avrei pensato ad uno scherzo di cattivo gusto.»

Summerlee cominciò ad avanzare faticosamente verso il campo base, affondando ad ogni passo per parecchi centimetri nella sabbia morbida, con il dottor Thompson al suo fianco e, dietro, i due egiziani ed il somarello, che poté finalmente tirare un sospiro di sollievo.

«È stato piacevole, il viaggio?» domandò Thompson.

«Per nulla» si lamentò l’altro. «Ho attraversato la Manica in tempesta, il treno da Calais a Brindisi sembrava un macinino rotto, peraltro con i sedili più rigidi e scomodi su cui mi fosse mai capitato di sedere, ed il Mediterraneo era agitato come se tutti i dannati venti avessero deciso di spirare tutti insieme in quei giorni: per colpa del mal di mare, ho dovuto rinunciare all’alta cucina di bordo ed accontentarmi di brodini e riso in bianco. Ad Alessandria, poi, gli ispettori doganali non mi volevano far partire, all’inizio sospettavano che fossi un contrabbandiere! Io, il professor Summerlee, stimatissimo docente universitario, curatore del British Museum, insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico da re Giorgio V in persona, un contrabbandiere! Ho dovuto rivolgermi al consolato inglese per farmi riconoscere!»

«Ma perché credevano questo, professore?» domandò l’egittologo con sorpresa.

«Sarà stato per il mio bagaglio» bofonchiò Summerlee, indicando alle proprie spalle le grosse sacche che venivano trasportate dai due egiziani.

Thompson udì un leggero tintinnare di vetri provenire da almeno due borse e capì che il professore non doveva avere ancora rinunciato alla sua propensione a bere molto, un fatto che lo aveva reso parecchio famoso tra gli accademici di Londra, che amavano scherzare sulla sua abitudine.

«Per fortuna, il viaggio lungo il Nilo è stato piacevole e calmo, ma ho ancora le ossa a pezzi e, in più, questo caldo insopportabile e quest’aria secca non mi danno tregua» continuò a lagnarsi l’inglese.

«Se vuole riposarsi, le mostrerò subito il suo alloggio…» propose Thompson.

«Riposarmi! Giammai! Mi fermerò nella tenda giusto il tempo di sistemare le mie cose e per darmi una rinfrescatina, poi voglio essere condotto immediatamente all’ingresso della tomba. Credo che chiunque stia dormendo lì dentro abbia atteso abbastanza. È ora di risvegliare i morti!»

Thompson rise a quella battuta, poi si fermò dinnanzi ad un’ampia tenda bianca, nei pressi della quale se ne trovava una seconda, più piccola, per i due servitori di Summerlee.

«La lascio, signore» disse l’anziano egittologo. «Non appena sarà pronto, mi troverà nella tenda principale del campo, quella laggiù in fondo, riunito con gli altri membri della spedizione.»

«Molto bene» borbottò Summerlee, piegando a fatica la sua mole ed entrando con qualche difficoltà nella tenda, subito seguito da uno dei suoi uomini con i bagagli, mentre l’altro provvedeva a portare il somarello nella piccola stalla che era stata eretta poco distante dal campo.

 

«Quello che non capisco» tuonò il dottor Smith, «è perché noi si debba rimanere qui fermi ad aspettare i comodi di quel grassone d’un inglese, quando potremmo esserci già messi all’opera da un pezzo senza bisogno che venga a farci da balia!»

«Esattamente!» precisò Fournier. «Credo di poter affermare che le nostre conoscenze e le nostre abilità siano più che sufficienti a poter procedere nello scavo senza per forza doverci attardare ad ossequiare quell’uomo come se fosse il padreterno in persona.»

I membri della spedizione erano tutti riuniti - ad eccezione dell’oggetto della conversazione, ancora alle prese con la sistemazione dei propri bagagli - nella grande tenda che serviva sia da sala riunioni che da stanza per il pranzo. L’egittologo americano passeggiava avanti ed indietro, misurando a grandi passi il pavimento, mentre gli altri sedevano attorno ad un tavolo, in attesa; John, che aveva portato con sé una macchina fotografica, si preparava a scattare le prime foto dell’apertura della tomba pulendo le lenti del suo obbiettivo con un panno morbido.

«Signori, per favore» li ammonì il dottor Thompson. «Voi tutti siete i rappresentanti dei maggiori musei egizi del mondo - quelli del Cairo, di Torino, di New York e di Parigi. Mancava, tuttavia, un rappresentante del British Museum, per cui potete ben vedere che l’attesa del professor Summerlee è stata necessaria.»

«Per il museo britannico poteva benissimo bastare lei, Thompson!» brontolò Libone. «Non vedo il motivo per cui gli inglesi debbano avere più delegati degli altri.»

«Le ho già spiegato, caro professore, che io, i miei nipoti e mio cognato non siamo qui in rappresentanza di nessun museo. Noi siamo semplicemente gli organizzatori della spedizione. Ho ritenuto opportuno, prima di partire, di coinvolgere tutti voi, sebbene nulla mi costringesse a farlo. Comprenderete, quindi, di come io mi sentissi in obbligo di avvisare anche il professor Summerlee, per conto del quale mi trovavo in Egitto.»

«E va bene, e va bene» borbottò l’italiano, ficcandosi in bocca una pipa e cominciando a sbuffare nuvolette di fumo.

«Resta il fatto che da giorni non facciamo altro che perdere tempo prezioso!» tornò all’attacco Smith. «Ce ne stiamo qui in panciolle, a rigirarci i pollici, mentre potremmo essere già da un bel po’ dentro quella vecchia tomba!»

Thompson stava per replicargli nuovamente ma, questa volta, ad intervenire fu il professor al-Farooq, il quale, solitamente, se ne rimaneva in silenzio.

«Attento, dottor Smith, e pure voi tutti, signori miei. Questi litigi, qui ed ora, sono completamente fuori luogo. Non dobbiamo in nessun modo mancare di rispetto alla sepoltura di questo antico sovrano. Dobbiamo tenere, alla sua presenza, un atteggiamento di umiltà, l’unico degno di un grande re.»

«E perché mai?» borbottò Smith, mettendosi finalmente a sedere. «Ormai, sarà ridotto ad un mucchietto di ossa e stracci polverosi.»

«Il dottor Thompson m’ha riferito di aver rinvenuto una maledizione, iscritta sull’architrave all’ingresso della camera sepolcrale» spiegò l’egiziano. «E posso assicurarle che, da questi luoghi, gli antichi dèi non se ne sono mai andati veramente. Non possiamo permetterci di sottovalutare la potenza dei tempi antichi, neppure dopo oltre tremila anni.»

«Una maledizione?» ripeté Rachel, con un brivido di spavento.

«Sì, una maledizione contro chiunque profanerà la tomba del faraone» spiegò al-Farooq.

«Solo chiacchiere per gli sciocchi!» sbuffò Smith, versandosi un bicchiere di vino da una bottiglia. «Mi sorprendo che uno studioso della sua fama, professore, possa prestare ascolto a queste ciance da vecchie bisbetiche.»

«I nostri lavoranti sono alquanto spaventati» intervenne Abdul che, come al solito, stava tirando leggere boccate dal suo narghilè. «Hanno saputo pure loro di questa storia e temono che, aprendo l’ingresso alla tomba, potrebbero risvegliare le ire del faraone defunto sepolto a pochi metri da noi.»

Rachel si volse rapidamente verso Thompson.

«È vero quello che dicono, nonno?» domandò, con un tremito nella voce.

Anche John alzò gli occhi su di lui, in attesa di una risposta.

«Signori, grazie» disse allora l’anziano studioso, facendo girare il suo sguardo tranquillo e conciliante su tutti i presenti. «Vi pregherei di smetterla, con queste storie. State spaventando mia nipote. Il dottor Smith ha ragione: la maledizione non è altro che un’antica iscrizione per tenere alla larga eventuali ladri, tutto qui. Allo stesso tempo, tuttavia, sono pienamente concorde anche col professor al-Farooq: non possiamo mancare di rispetto alla tomba, ma dobbiamo approcciarci ad essa con la medesima sacralità e la stessa pietà che mossero gli antichi sacerdoti che la sigillarono millenni or sono. Pertanto, signori miei, v’invito a rimanere tutti quanti calmi. So bene anch’io che il caldo si fa di giorno in giorno più insopportabile, ma ormai il professor Summerlee è arrivato e posso assicurarvi che, a breve, potremo riprendere con entusiasmo i nostri lavori: non sarà una manciata di minuti in più o in meno a fare la differenza.»

Fournier scattò in piedi.

«Lo spero bene!» ululò «È ora di muoversi! Sono stufo di aspettare i comodi di quella sottospecie di ippopotamo inglese che…!»

«Ben trovati a tutti, signori» disse una voce calma e pacata alle sua spalle.

Il francese, interdetto da quelle parole inaspettate, si volse rapidamente e vide l’enorme massa di Summerlee stagliarsi nettamente nel sole, oltre l’apertura della tenda. Sul suo faccione tondo e rubizzo s’era allargato un sorriso gioviale.

«Io…» borbottò Fournier, ma il professor Summerlee l’interruppe con un bonario gesto della mano: «Spero di non aver interrotto un’interessante dissertazione riguardante la comparazione della fauna nilotica a quella del Tamigi, con il mio sopraggiungere. In ogni caso, se lor signori fossero d’accordo, direi che sarebbe il caso di lasciare la zoologia per tornare ad occuparci di archeologia e quindi, con il consenso di voi tutti, passerei subito a visionare l’ingresso della sepoltura ed allo studio del modo meno impattante ed invasivo per poterlo aprire.»

Sul gruppo scese un silenzio imbarazzato, rotto quasi immediatamente dal dottor Thompson.

«Ma certo, professore!» esclamò. «Se vuole seguirmi, le farò strada.»

L’anziano dottore si alzò da tavola e, copertosi il capo con il suo inseparabile elmetto, raggiunse il curatore fuori dalla tenda, guidandolo poi verso lo scavo; Abdul e i due nipoti si unirono prontamente a loro e, infine, anche gli altri egittologi lasciarono la tenda e li seguirono.

Il caldo, quel giorno, si era fatto se possibile ancora più intenso; il sole, giallo e abbagliante, sfavillava alto nel cielo completamente terso, tinto di un intenso blu egiziano, ma nessuno, in quel gruppetto di persone, adesso sembrava soffrire per la calura insopportabile: le loro menti, infatti, erano tutte quante tese verso l’impresa che si apprestavano a compiere. Un’agitazione palpabile regnava in loro, una frenesia di mettersi al lavoro, un eccitamento senza pari, poiché nessuno, tra di loro, sebbene per la maggioranza avessero già lavorato a diversi scavi in tutto l’Egitto, si era mai trovato tanto vicino a compiere un’opera tanto eccezionale, a realizzare una così grande scoperta. Se tale era lo stato d’animo degli egittologi e di Abdul, già avvezzi ad avere a che fare con mirabolanti antichità, era quasi impossibile immaginare quale tipo di pensieri dovessero attraversare in quel frangente la mente dei due giovani John e Rachel i quali, da poco giunti in Egitto con l’intenzione di divenirne, in futuro, degli studiosi colti e preparati come loro nonno, si erano trovati inaspettatamente proiettati nel mezzo di quell’evento sbalorditivo.

Il drappello di studiosi, con Thompson in testa, Summerlee che gli arrancava sbuffando alle spalle e tutti gli altri appena un po’ indietro, attraversò rapidamente il campo base e sfilò dinnanzi al grande e solenne tempio come se stessero omaggiando per un’ultima volta il grande Ramses lì raffigurato dai quattro sontuosi e silenti colossi, muti e magnifici guardiani di quell’antichissimo luogo di devozione, per poi fermarsi innanzi alla scalinata di accesso alla tomba, che alcuni spalatori stavano terminando di ripulire dalla sabbia che una folata di vento caldo vi aveva nuovamente gettato.

Thompson discese un gradino alla volta, tallonato da vicino da Summerlee, per poi arrestarsi di fronte alla porta murata, ancora chiusa con i sigilli lì posti dai sacerdoti migliaia di anni addietro.

«Professor Summerlee» annunciò Thompson con aria ufficiale, «le presento il luogo dell’eterna sepoltura di un antico faraone ancora sconosciuto.»

Il curatore abbassò un poco la testa, con aria riverente, poi alzò lo sguardo alla scritta in geroglifici sull’architrave, notando l’assenza dei cartigli regali solitamente utilizzati per indicare il nome dei faraoni. Non conosceva l’antica lingua del popolo egizio, però dai suoi studi sapeva bene che la titolatura reale era facilmente riconoscibile, sui monumenti, per essere inscritta all’interno di un cartiglio.

«Che cosa significa, quell’iscrizione?» domandò, indicandola.

Thompson passò con estrema delicatezza il pollice sulle parole incise, facendone cadere un po’ di sabbia sfuggita alla sua precedente pulizia, giorni addietro.

«Si tratta di un avvertimento» spiegò l’egittologo, con aria assorta. «Vi è scritto che nessuno, che abbia mai osato varcare questa porta, sia poi tornato indietro per raccontarlo. In fede mia, è la prima volta che mi capiti d’imbattermi in qualche cosa di simile.»

«Interessante…» borbottò Summerlee, facendosi più vicino per osservare meglio i geroglifici.

In quel momento, dall’alto della scala, si udì la voce di John dire: «Signori, ora che ci siamo tutti, credo sia venuto il momento di scattare una foto del nostro gruppo al completo dinnanzi all’ingresso della tomba.»

«Ottima idea» approvò Summerlee, lasciando perdere l’antica scritta e cominciando a risalire con evidenti difficoltà i gradini; Thompson fu costretto a sorreggerlo per evitargli una caduta.

«D’accordo, facciamo anche questo» brontolò Libone, «ma poi muoviamoci, ad aprire quella porta.»

«L’apriremo con tutti i crismi e le attenzioni necessari, professore» gli rispose al-Farooq. «Non ci faremo cogliere dalla smania di compiere una scoperta dimenticandoci di essere studiosi e non cercatori di tesori.»

«Nessuno l’ha mai messo in dubbio» grugnì il dottor Smith con tono seccato.

John cominciò a montare il cavalletto della macchina fotografica, mentre gli altri si mettevano in posa. Furono fatte portare due sedie, su cui sedettero in primo piano il dottor Thompson ed il professor Summerlee, mentre gli altri si posizionarono in piedi alle loro spalle; John regolò la messa fuoco, quindi andò a piazzarsi a fianco della sorella, prendendone il braccio sotto il proprio.

«Sorridete e rimanete immobili!» ordinò, prima di premere il pulsante in cima al cavo di scatto.

Non appena il ritratto fu pronto, ognuno abbandonò la propria posizione e gli egittologi si accalcarono tutti quanti sulla scala della tomba, lasciando dietro di sé Abdul e Rachel ad osservarli, mentre John si dava da fare a scattare altre fotografie.

«Io suggerirei di rimuovere il sigillo con estrema attenzione, in maniera da non rischiare di danneggiarlo irreparabilmente» propose Thompson.

«Questo potrebbe farci perdere del tempo, però» rispose Smith. «Non sarebbe sufficiente fotografarlo e poi buttarlo giù con una martellata ben assestata, senza stare a pensarci troppo?»

«Per quanto io condivida la sua medesima ansia, illustre collega, trovo alquanto rudi e primitivi i suoi modi di procedere» replicò il dottor Fournier con tono brusco. «Possibile che, negli Stati Uniti, siate ancora fermi a tali livelli, negli studi archeologici?»

«Dovrei offendermi, signore?» disse con asprezza l’americano, gonfiando il petto con aria tronfia.

«Ovviamente no, dottore» intervenne Libone. «Tuttavia, ci tengo a ricordarle che, dai tempi di Belzoni, Caviglia, Burckhardt e degli altri illustri pionieri della nostra disciplina, sono ormai trascorsi un centinaio d’anni, durante i quali le tecniche egittologiche si sono enormemente affinate. Non possiamo assumerci a cuor leggero la decisione di agire d’impulso come avrebbero fatto i nostri pur sempre stimati predecessori.»

«Ovviamente» mugugnò Smith. «Ovviamente. Non ho mai messo in dubbio neppure questo. Prendiamoci pure tutto il tempo necessario a togliere il sigillo e perdiamo tutte le ore che ci vorranno a farlo, tanto di tempo ne abbiamo a bizzeffe.»

«Suvvia, dottor Smith, sa bene che non ci vorranno per nulla delle ore, ma solamente alcuni minuti scarsi di lavoro» s’intromise Thompson, cercando di calmare gli animi. «Me ne occuperò io stesso, se nessuno ha nulla da obiettare.»

«E cosa possono essere mai, pochi e miseri minuti, dinnanzi all’eternità del tempo?» aggiunse al-Farooq.

«Grazie, la filosofia orientale non m’interessa» ruggì Smith, andando a sedersi con aria scocciata in cima alle scale.

Il curatore del British Museum ed i quattro egittologi lo guardarono per qualche istante con aria contrita, dopodiché tornarono a volgersi verso l’ingresso della tomba.

Mentre passava una mano grassoccia sull’antico sigillo, Summerlee bisbigliò: «Ma dico, dottor Thompson, dove le è capitato di trovarlo, questo americano? Non è certo una buona anima, a mio parere.»

L’anziano egittologo scrollò le spalle, cominciando a disporre sul pavimento i minuti attrezzi di cui si sarebbe servito per il lavoro, che aveva portato con sé all’interno di un astuccio di pelle che teneva in tasca.

«Quando ho incontrato il dottor Fournier per chiedergli di unirsi a me, l’ho trovato già in compagnia del dottor Smith» spiegò a mezza voce, per non farsi udire dal diretto interessato. «Nel sentirci discutere della possibilità di una scoperta, ha insistito lui stesso per venire con noi e non ho potuto in alcuna maniera dirgli di no.»

«Un ciarlatano, a mio parere» aggiunse il francese, senza curarsi di tenere la voce troppo bassa. «Mi si è attaccato dietro al porto di Alessandria e non sono più riuscito a liberarmene. Ma le sue competenze sono davvero scadenti, per non dire nulle. Non mi stupirebbe scoprire che non sia veramente chi dice di essere.»

«Temo sia proprio un egittologo, invece» disse Libone, traendo una boccata di fumo dalla sua pipa. «Sei mesi or sono, tenne una conferenza a Leida, alla quale ebbi il discutibile privilegio d’assistere. In un paio d’ore scarse, quell’uomo proferì tante e tali castronerie da mettersi le mani nei capelli. Fui talmente sconcertato dalle sue assurdità che, più tardi, desiderai informarmi se fosse realmente uno studioso e non, piuttosto, un fanfarone. Per quanto impreparato, le sue carte risultarono in regola. Bah! Se le università ed i musei statunitensi non possono permettersi di mettere in campo studiosi di più alto livello rispetto a questo Smith… preferisco non esprimermi.»

Thompson, nel frattempo, terminato di preparare tutti i propri precisi strumenti, iniziò, con estrema delicatezza, la rimozione del sigillo. Tutti gli occhi si concentrarono, quindi, sulle sue mani anziane ma ancora esperte e sicure. In pochi minuti, ma in realtà dopo interi millenni, il sigillo venne rimosso e fu cautamente riposto in una cesta di vimini, subito affidata ad uno degli operai locali perché la deponesse nella tenda che fungeva da quartier generale.

«Ed ora, signori, il momento solenne» annunciò il dottor Thompson, con voce tremante, visibilmente emozionato. «Stiamo per svelare l’enigma di questa antica sepoltura priva di nome.»

Le sue mani si strinsero sulle maniglie a forma di pomello. Gli altri si fecero tutti più vicini. Anche Abdul, Rachel e John si avvicinarono. Da ultimo, vinto dalla curiosità, pure il dottor Smith fece capolino tra le altre teste che osservavano la scena. Prima di cominciare a tirare verso di sé le porte per spalancarle, tuttavia, un pensiero attraversò la mente di Thompson, che si volse all’indietro, verso il dottor al-Farooq.

«Signore, tra di noi lei è l’unico rappresentante di questa terra» gli disse. «Aspirerebbe, quindi, ad avere lei stesso l’onore di essere il primo ad aprire le porte della tomba? Credo che, dopotutto, le spetterebbe di diritto.»

Ma l’egiziano scosse il capo.

«La ringrazio infinitamente per questa opportunità che vorrebbe gentilmente offrirmi, ma si deve a lei solo, dottor Thompson, questa straordinaria scoperta, ed è quindi giusto che sia proprio lei il primo a goderne i frutti.»

«In verità, il merito non è tutto mio. Se non fosse stato per mio cognato…»

L’egittologo alzò gli occhi su Abdul che, però, agitò le grosse mani, facendo sussultare la lunga barba.

«Non pensarci neppure, vecchio» rispose. «Sei tu l’esperto di queste cose, non io. Me ne resto qua dietro con i bambini, io.»

«Bambini! Per amor di Dio, zio Abdul, ma ci hai visti?» si lagnò John.

«Per me resterete sempre i bambini della mia nipotina Margaret» rispose l’arabo con aria paterna.

A quel punto, Smith si spazientì nuovamente.

«Sì, sì, tutto molto commovente» ringhiò. «Abbiamo capito che il momento è solenne, grandioso e quant’altro, ma vogliamo darci una mossa, morte e dannazione? Se aspettiamo ancora un po’, ad aprirla, questa stramaledettissima vecchia tomba, faremo in tempo a finirci noi, in un cimitero, senza avere avuto nemmeno l’occasione per sbirciarci dentro!»

Thompson lo ignorò completamente, volgendo su tutti gli altri uno sguardo carico d’aspettative.

«Signori» disse, «io apro.»

Il portale era pesantissimo, ma l’egittologo ignorò i dolori alle articolazioni e continuò a tirare; dapprima, le porte non sembrarono affatto essere intenzionate a smuoversi. Infine, però, millimetro dopo millimetro, con estrema resistenza, cominciarono a cedere, dischiudendosi lentamente e rivelando, dopo oltre trentuno secoli, i propri segreti alla calda luce del sole egiziano.

 

 
   
 
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