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Autore: time_wings    08/01/2023    2 recensioni
[SakuAtsu]
I motivi del litigio tra i gemelli sono ignoti a tutti, nel giro delle corse di auto clandestine, a metà tra folklore e informazioni provenienti da fonti inaffidabili.
Con le sue modifiche, Atsumu è una leggenda, nel giro. Non c'è gara che lui e il suo gruppo non vincano.
Questo, almeno, finché un meccanico misterioso non inizia a tessere le vittorie del gruppo di Osamu dalla sua officina segreta.
Ad Atsumu non resterà che mettere l'orgoglio da parte (impossibile) e infiltrarsi nel garage del meccanico strano, spacciarsi per un incompetente, lasciarsi insegnare e, una volta conquistata la sua fiducia, scoprire tutti i suoi segreti, per impedire che Osamu lo batta ancora.
C'è solo un problema, però. Anzi due, se si tiene conto del fatto che questo meccanico sia semplicemente insopportabile.
La regola è che nessuno può entrare nell'officina di Sakusa.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Koutaro Bokuto, Osamu Miya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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La regola dei cinque minuti

 


 

Atto primo_

Un soffio si disegnò curvando nel cielo punteggiato di stelle. Forse veniva dall’ovest, il risultato sfortunato di un desiderio di compleanno che non si sarebbe mai avverato. Avrebbe voluto seguirlo fin sulle coste del Vietnam, dove l’acqua aveva un colore inspiegabile e il cielo era profondo come se avesse dovuto fare spazio a qualcosa: un dio, oppure un fulmine.
I lampioni gettavano luci gialle con tinte vicine a volte al salmone. Lasciavano zone buie tra un pezzo e l’altro della strada. Sentiva le molle del divano sfondato riarrangiarsi a ogni movimento infinitesimo del suo culo. La luce del lampione alla sua destra arrivava solo a bagnargli la punta del gomito e un lato dei capelli.
Sarebbe stato uno sballo alzarsi e mettersi a cantare come nei musical americani, nel silenzio sospeso della notte e nel gioco di luci e ombre di quella strada. Invece si mise più comodo e le molle scricchiolarono, soffiò via del fumo dalle labbra e guardò la nuvola bianco sporco che ne seguì fondersi nell’oscurità.
La notte gli piaceva perché era più silenziosa. Non c’era il frinire acuto e martellante delle cicale o il gracchiare dei corvi, solo il frusciare del vento tra le risaie non lontano da lì. Quel divano era un trono insensato nel bel mezzo di una strada persa da qualche parte a metà tra città e campagna e le sue nuvole di fumo si allargavano contro il cielo nero come scie di navi sul pelo dell’acqua.
Voltò la testa di scatto quando un rumore cadenzato si unì a quel paesaggio quasi per nulla visivo. Bokuto si avvicinava un po’ correndo, un po’ camminando a passo svelto verso il suo divano. I lampioni lo illuminavano a intervalli, come istantanee scattate di seguito, peccato che potesse vederlo più o meno bene anche quando passava nell’ombra. Così era di gran lunga meno epico.
“Che ti prende?” gli chiese Atsumu, sollevando la mano che reggeva la sigaretta.
Bokuto scoppiò a ridere e si lasciò cadere accanto a lui. La campagna accolse quel suono e lo amplificò fino a regalargli un retrogusto metallico. “Ha vinto.”
Atsumu strinse le labbra e lanciò la cicca ai piedi del lampione più vicino, poi si portò una mano alla bocca. “Non è possibile,” valutò, mangiucchiando un’unghia. Bokuto stava scherzando, sicuro. In fondo aveva riso.
“In realtà era ovvio,” Bokuto allargò le braccia sullo schienale del divano. La risata di poco prima gli scivolò via dal volto, lasciando il posto a una tenue stanchezza. Un allarme prese a suonare nella testa di Atsumu. Quando diceva che era impossibile che avessero perso, lo diceva per un motivo, ma Bokuto non sembrò curarsi del suo sconcerto. “Dovevi vedere la macchina, era… sdum.”
Era sdum.
Atsumu si era messo in moto e se n’era andato prima che la gara iniziasse. ‘Spero che ti arrestino,’ aveva detto a suo fratello, quando l’aveva incrociato sulla strada sterrata che portava alla pista clandestina. Lui non gli aveva detto di andare a farsi fottere, non aveva sorriso, non gli aveva neanche sputato addosso. In verità, Osamu non aveva fatto proprio niente. Aveva continuato a camminare allo stesso ritmo con cui era arrivato, se non per un passo appena più esitante, più simile a un ricordo che gli fosse appena soffiato accanto che una persona in carne e ossa che gli parlava. Atsumu era rimasto qualche secondo imbambolato a guardare suo fratello dargli le spalle, poi si era riscosso, si era infilato il casco e se n’era andato.
A quanto pareva non l’avevano arrestato.
Atsumu sorrise, il retrogusto di sigaretta gli invase amaro la bocca. “Quanto sdum? Osamu ci sa fare ma non può averti battuto.”
“Vuoi proprio farmelo dire, eh?” Bokuto sbuffò via un suono alto, in una risata strozzata, poi sollevò un braccio dallo schienale e lo portò in grembo.
“In che senso?” Atsumu lo guardò.
Bokuto sospirò e alzò gli occhi al cielo. “Mi ha stracciato, Tsum Tsum!” disse piagnucolando e aggrappandosi al braccio di Atsumu.
“Non ha senso. Ma tu hai spinto?”
“Certo che ho spinto, ho fatto tutto quello che mi hai detto. Io te l’ho detto che era sdum, non c’era proprio niente da fare.” Bokuto lo lasciò andare e si sedette sull’orlo del divano, gesticolando animatamente. “Anche Akaashi era furioso. Cioè, non l’ho visto furioso, ma io lo conosco. Ha detto che di questo passo le perdiamo tutte e penso che ce l’abbia con te perché non eri lì a valutare la macchina di Osamu.”
“Io sono più bravo di Osamu, non mi serve valutarlo per sapere cosa sa fare.”
“Lo so, ma Shouyou ha detto che Kenma gli ha detto che ha parlato con Kuroo e… lo sai come fa lui, io gli voglio bene, ma non è proprio fedele quando si tratta di puntare… però il punto è che ha parlato con Kuroo e lui gli ha detto che il gruppo di Osamu ha un nuovo meccanico.”
Nessuna cicala frinì, nessun corvo gracchiò e nessun vento osò infilare le dita nelle risaie. Poi Atsumu ruppe il silenzio facendo schioccare la lingua. “Che cosa?” domandò, il tono basso, alla stregua di una minaccia.
“Non è stato Osamu a modificare questa macchina.”
Bokuto e Atsumu si guardarono, la lampadina di un lampione ronzò. “Io sono il migliore in quello che faccio.”
“Ora non più. Kenma ha suggerito che visto che ci capisci qualcosa dovresti sacrificare l’arroganza e infiltrarti nel loro garage, Shouyou ha detto che visto che sei scappato un po’ te lo meriti, Akaashi ha detto che devi farlo per forza e io ho raccolto un’ape che non doveva essere riuscita a tornare in tempo all’alveare e l’ho messa al sicuro, così domani volerà e tornerà a casa.”
Atsumu batté le palpebre e aprì e chiuse la bocca confuso un paio di volte. “Aspetta, che c’entra l’ape?”
“Eravamo in quattro a parlare, non volevo che pensassi che io intanto non stessi facendo nulla.”
Atsumu sollevò una gamba sul divano e si grattò il polpaccio. Era una cosa molto frustrante, perché era impossibile grattarsi da sopra i vestiti e uscirne soddisfatti. “Ma tu non hai fatto nulla.”
Sembrò offeso. “Io ho almeno ascoltato.”
“Va bene, dici ad Akaashi che non lo faccio.” Atsumu si alzò e recuperò il casco accanto alla sua moto.
“Akaashi aveva previsto questa tua resistenza e ha detto che se non lo fai sei fuori.”
Il rombo della moto di Atsumu prese il posto che di giorno avrebbero occupato i corvi e le cicale. I fari ruppero la rigidità geometrica delle regole dei lampioni. “Senza di me siete fottuti.”
Bokuto si spaparanzò meglio sul divano, visto che a quel punto era tutto suo. “Io non sarò brillante, ma a quanto pare adesso anche con te siamo fottuti.”
Atsumu fermò quello che stava facendo e si concesse un solo sospiro alla luna. “Non posso infiltrarmi nel garage di mio fratello. Io non mi spaccio per lui e questo non è ‘genitori in trappola’.”
“No, non è un problema. Non si sono mai visti, questo meccanico è uno strano e non appartiene strettamente al gruppo di Osamu, ha un posto tutto suo. Pare che non faccia entrare nessuno nella sua officina.”
“E come ci entro io?”
Bokuto sollevò le mani in segno di resa, chiuse gli occhi come se avesse anche intenzione di dormirci, su quel divano nel bel mezzo del nulla. “Questo Akaashi non me l’ha detto, però ti ha mandato l’indirizzo.”
A ben pensarci, Bokuto avrebbe potuto tranquillamente avere intenzione di dormire lì. Atsumu suppose che non fosse più un suo problema. Salì in sella al motorino e partì. Insieme al vento, gli arrivò distinto un ‘Ciaooooooo’ in allontanamento di Bokuto.
 
• • •
 
Il freddo era pungente, si infilava negli spifferi dei vestiti come sanguisughe. Un’insegna pendeva notevolmente da un lato, i chiodi spessi e arrugginiti avevano macchiato l’area tutt’attorno alla loro testa. La scritta era sbiadita, la pittura rossa, bianca e nera crepata dal vento. Una lampadina arrivava a illuminarne metà, ma c’era ancora troppa luce per accertarsi della sua efficacia.
Come a volte succedeva con i bambini, per cui tre anni di differenza significavano amici, scuole e giocattoli diversi, il tramonto aveva questo suo modo urgente di ghigliottinare i minuti, differenziarli in gradazioni di blu: un minuto si poteva giocare a calcio al parco, quello dopo si accendevano i fanali.
Atsumu puntò i piedi e si fermò. Il motore sbuffò un’ultima volta, poi tacque. Spostò il peso in avanti e azionò il cavalletto. Nessuna cicala frinì, nessun corvo gracchiò. Solo, da qualche parte, una rondine volò in circolo fuori stagione.
Alzò gli occhi sull’insegna sbucciata e i chiodi arrugginiti, poi, con un sospiro, smontò dalla motocicletta e si rigirò il casco che si era tolto tra le mani. Pezzi insignificanti di auto rottamate e macchie iridescenti punteggiavano l’entrata del garage come rovine di un impero. Atsumu inspirò quell’odore pungente di gomme e motori e bussò con le nocche contro la porta spessa di latta.
Un uomo basso e baffuto spostò un’anta con un cigolio, quel tanto che bastava per permettergli di identificare il nuovo arrivato. “Stiamo chiudendo,” brontolò e Atsumu si passò una mano fra i capelli e sorrise affabile e per questo più pericoloso.
“La mia moto ha davvero bisogno che le venga data un’occhiata.”
Gli occhi dell’uomo scattarono in basso, sulle mani di Atsumu che reggevano il casco. Aprì la porta un po’ in più, a cercare pigramente con lo sguardo la motocicletta del ragazzo. Quando non la vide, si limitò a scrollare le spalle. “Stiamo chiudendo,” ripeté.
Atsumu poggiò distrattamente una mano sulla porta di latta. “È proprio urgente.”
“Ma…”
Aprì la porta e si invitò da solo a entrare. L’uomo lo seguì con lo sguardo mentre lui si guardava attorno, come in cerca di qualcosa.
“Forse ti conviene almeno portarla dentro, ragazzo” disse, torcendosi le mani. La pelle era ruvida, ogni anno di lavoro stampato nei residui permanenti di grasso.
L’officina era un’officina normalissima e uguale a tutte le altre. E infatti era un casino, soprattutto a fine giornata. Auto smontate, carrelli e attrezzi erano sparsi ovunque. Il tavolo da lavoro, addossato al muro in un angolo, aveva rotto la sua simmetria di chiavi disposte in ordine decrescente e alcuni oggetti erano semplicemente abbandonati sul tavolo o nel posto sbagliato. Atsumu, che comunque era un tipo abbastanza spensierato e disinvolto, secondo il suo affidabilissimo parere, provò un istinto irrefrenabile di rimettere tutto in ordine. Per quanto irrefrenabile, lo frenò comunque, perché coi freni era un professionista. “Sì, è che cercavo… ispirazione, sa. Vorrei rendere la mia moto unica.”
Un’ombra passò sugli occhi dell’uomo, le tracce di grasso e olio di colpo lo resero più saggio, un capitano su una nave che non voleva saperne di affondare. Atsumu pensò che se fossero stati in uno di quei musical americani, fulmini e tuoni si sarebbero aggiunti a quello scenario apocalittico e qualcuno avrebbe detto qualcosa di fuori luogo circa l’ira di Zeus. “Unica, dici?” alzò gli occhi al cielo, forse per incrociare quelli del grande Giove, protettore, questo lo sapevano tutti, di auto fenomenali. “Oh, no, sei uno di quelli?”
Atsumu sospettò che quelli fossero gli amici di suo fratello. Scosse la testa e gli sorrise innocente e per questo più disonesto. “Non proprio. Sono un apprendista. Ma questo…” si guardò attorno, poi notò che alla stanza, che per logica sarebbe dovuta essere rettangolare, mancava un angolo, a darle cinque lati invece che quattro. Uno spicchio di orgoglio gli sporcò per un attimo quel sorriso innocente. “Non è un garage che fa quel genere di cose o sbaglio?”
L’uomo seguì il suo sguardo e sospirò. “Lui non fa entrare nessuno nella sua officina, ma io non mi immischio in queste faccende. Resto sul mio lato.”
Atsumu annuì e indicò con un dito l’anomalia nella geometria dell’officina, poi scosse la testa in una domanda muta. Il meccanico annuì. “Grazie!”
“Vuoi davvero che dia anche un’occhiata alla tua moto?”
Si voltò, sembrava indeciso, ma non lo era affatto. “Non ci pensi neanche, grazie,” poi spostò uno sgabello e aprì il falso armadio di latta che faceva da porta segreta.
 

“Nessuno entra nella tua officina perché ti piace fare il misterioso?”
Un ragazzo che era tutto un’ombra alzò la testa dalla sua posizione accartocciata su un motore. Quando si voltò, l’unica parte della faccia non coperta erano gli occhi scuri. Doveva avere più o meno la sua età. “No,” parlò attraverso una mascherina nera. “È perché non mi piacciono le persone.”

 
• • •
 
Il lato nascosto dell’officina era un’officina normalissima e uguale a tutte le altre, ma solo per un occhio inesperto. In pochi secondi di ispezione, l’officina divenne un’officina bizzarra. Era più ordinata della sua controparte, dall’altro lato del muro, ma era più sommessamente pericolosa, qualcosa di simile all’Altra Casa di Coraline. Un paraurti blu elettrico era accasciato in un angolo. Atsumu era certo, sicuro, pronto a scommettere che se avessero spento tutte le luci avrebbe brillato di un bagliore azzurro chiaro.
“Per piacere, esci dalla mia officina.” Atsumu avrebbe trovato quel tizio particolarmente cordiale se, mentre esibiva quella cordialità, ogni cellula di ogni sua corda vocale non fosse stata intrisa di un fastidio tale da rasentare la sofferenza.
Qualunque persona dotata di un minimo di buonsenso o comunque di empatia avrebbe preso quella richiesta come un ordine, ma Atsumu non era dotato di buonsenso né di empatia e quindi iniziò a pensare che il compito di Akaashi non fosse poi così male. Questo finché non ricordò il motivo preciso per cui era lì: Atsumu non era più il migliore.
Una pillola difficile da mandare giù per tutti, anche se indorata, ma soprattutto per uno come Atsumu, il cui secondo nome – solo secondo lui – era ‘il migliore di tutti’. Questa arroganza avrebbe avuto vita breve se il mondo l’avesse smentito, ma, fino a quel momento, era stata completamente giustificata: era davvero il migliore.
“Mi chiamo Atsumu,” disse, come se il tizio che era un’ombra non avesse mai parlato.
“Atsumu e basta?”
Atsumu Miya, il tuner migliore dei suoi tempi, che faceva vincere gare su gare clandestine a un gruppo che grazie a lui e al suo pilota, Bokuto, era rimasto per anni imbattuto. Atsumu Miya, impegnato in una guerra leggendaria contro suo fratello e per metà avvolta nel mistero, uno scontro tra titani che accendeva le scommesse e infiammava gli animi.
I tuner non si conoscevano tra loro, ma si riconoscevano tramite le personalissime modifiche e le firme che queste portavano. Era già un miracolo che questo tizio fosse pazzo abbastanza da lavorare per suo fratello senza averci neanche mai avuto a che fare direttamente, non sarebbe stato furbo sfidare la fortuna rivelando il suo cognome.
“Atsumu e basta.”
Il ragazzo alzò gli occhi dal suo motore e li puntò su di lui. Era una cosa simile a una perquisizione a distanza.
“E tu sei…”
Quello scosse la testa. “Stanco di parlare con te” e tornò a prestare attenzione al banco da lavoro.
Atsumu si succhiò il labbro inferiore. “Ho assistito a una gara qualche giorno fa e ho fatto alcune ricerche. So che sei il tuner migliore del momento.”
Lui fece spallucce. “Lo sono in generale, non in questo momento.”
Un respiro profondo, magari due. Atsumu avrebbe potuto attraversare mentendo un campo di rovi, ma quella messinscena era un dannato insulto al suo orgoglio… oppure una ferita. “Be’, io voglio imparare…” una pausa, giusto per prepararsi mentalmente al dolore di quello che stava per dire, “dal migliore.”
“Ma io non voglio insegnarti.”
“Bella questa vernice,” disse Atsumu, ignorandolo ancora e avvicinandosi al paraurti blu elettrico. “Proprio un colore acceso. Me ne presti un po’?”
“No.”
Atsumu sospirò abbattuto e sfiorò il paraurti con un dito.
“Non toccare.” Il ragazzo non si era neanche voltato. Davvero, davvero, interessante.
“Guarda che ci guadagni più tu a insegnarmi.”
“No?”
Atsumu si mise all’altro capo del banco da lavoro. Da lì, più che un’ombra, il tuner era diventato una macchia. Una lampada gli disegnava il profilo chinato sul motore con un tratto spesso di luce gialla. I capelli si arrestavano a un passo da quell’intruglio di ferro e gas e sembravano arricciarsi unicamente nel tentativo di non toccarlo. Una bolla in una fiala di inchiostro.
“Ti assicuro di sì, sono simpatico. In cambio posso farti da spalla con le ragazze.”
“Non mi interessa.”
“Con i ragazzi? Guarda che sono progressista.”
Il ragazzo sbatté una chiave inglese contro il tavolo, alzando finalmente gli occhi su di lui, esasperato. Atsumu sostenne il suo sguardo per qualche attimo, poi si guardò attorno come se la sua reazione fosse stata una cosa inappropriata e un po’ imbarazzante, una battuta a un funerale.
Quando tornò a guardarlo, fece ondeggiare un dito sui componenti superficiali del motore. “Questo cos’è?”
“Non toccare.”
“Va bene, allora questo?” Afferrò una bottiglia lì vicino e se la rigirò fra le dita.
“Lubrificante.”
Atsumu sbuffò una risata dal naso. “Allora non è vero che nessuno entra nel tuo antro.”
“Dico sul serio, devi uscire.” Non vedeva molto della sua faccia, ma vedeva la vena sulla fronte. Per essere così scontroso, era davvero facile provocarlo. La sfida di Akaashi divenne all’improvviso più abbordabile, se non addirittura spassosa.
“Ma non mi hai detto come ti chiami.”
Il ragazzo abbandonò arnesi e motore e giunse le mani guantate davanti a sé, per prestare attenzione ad Atsumu. “Io te lo dico e tu te ne vai.”
Lui alzò le mani in segno di resa.
“Sakusa.”
“Sakusa e basta?”
Il meccanico batté le palpebre, una più in fretta dell’altra. Un tic? “Sakusa Kiyoomi. Ora te ne vai.”
“Va bene, come vuoi.” Atsumu si diresse a passo baldanzoso dall’altro lato dell’officina. All’improvviso inchiodò e fece marcia indietro, fino a trovarsi accanto a una parete tempestata di attrezzi. Afferrò una chiave 6 e se la rigirò fra le mani come un prestigiatore.
“Ehi!”
“Vado e vengo da Narnia,” disse poi, intascando la chiave e aprendo l’anta dell’armadio che faceva da porta. Sentì la sedia di Sakusa stridere a terra mentre si alzava, quindi accelerò l’operazione. “Ci vediamo domani, Omi.”
“Non chiamarmi co… Non ci pensare proprio, ridammela.”
L’ultima parola fu attutita dall’anta di latta che li separò.
Atsumu corse alla moto col bottino.
 
 






 

 


NotEl: quando arriva l'inverno scrivo Sakuatsu, apparentemente.
Buoooooongiorno (è sera) questa ff era nei miei buoni propositi di scrittura del 2022... che quindi ho stilato nel 2021. L'importante è arrivarci, i guess. Comunque finalmente vedo la luce in fondo al tunnel del blocco maledetto, speriamo che questa sia la volta buona. Mi sento di comunicare, anche se penso si capisca dal testo, che "tuner" è un modo per definire i meccanici che sanno fare le modifiche.
Spero che questo capitolo-prologo sia risultato un minimo intrigante, come tutte le cose a cui metto mano nell'ultimo periodo è un po' un esperimento per me sotto cinquantamila aspetti diversi, quindi CI SI PROVA.
Graaaazie per aver letto fin qui e boh, questa storia conterà qualcosa come 4/5/6 capitoli (secondo me 5), all'inizio doveva essere una one shot ma superate le 20k parole ho detto "vvvvvabé la spezzo" quindi l'ho anche quasi finita di scrivere, la propabilità di abbandono è del 10%, così, stima a caso.
Tutto questo per dire che ci vediamo presto!!
Grazie di nuovo <3 <3

El

 


 
   
 
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