Everything’s
changing,
but…
nothing will really change.
06.
scheggia
Il naso gocciolava vistosamente: una mattina gelida quella, senza preavviso.
L’autunno se n’era andato via con una velocità spaventosa, si ritrovò a pensare
Homer Simpson, affossato con il mento all’interno del giaccone verde: aveva
lasciato a casa la solita cuffia con cui si riparava dal vento, e le orecchie
ne stavano risentendo.
«Stupido freddo.»
Starnutì sbattendo la fronte contro la macchinetta del caffè.
«Stupido aggeggio…»
Prese a calci la macchinetta dimenticando di aver selezionato la bevanda preferita
due minuti prima. Immancabilmente essa si rovesciò, ustionandogli la mano in un
buffo quanto inutile tentativo di afferrare il bicchierino prima
dell’irrecuperabile.
«Stupido pavimento.»
Così tanto per cui lamentarsi, così poco tempo per farlo: il settore 7G aveva
bisogno di lui, non poteva certo continuare a imprecare contro il karma che
pareva volesse fargli pagare ogni singolo minuto trascorso lì dentro negli
ultimi venti e fischia anni. Selezionò nuovamente la cioccolata calda con panna
extra zucchero, sperando di non dover ripulire.
«Stupida centrale.»
E buttò distrattamente nel cestino lì accanto tovaglioli, bicchierino e voglia
di lavorare, così come tutte le mattine da quando il suo ruolo era stato
congelato in un angolo marginale dell’azienda.
«Simpson e Leonard, attesi in direzione.»
L’altoparlante risuonò nel corridoio grigio, rimbalzando da una parete
all’altra: la voce gracchiante dello strumento strideva in modo incomprensibile
con il tono molto più morbido che Homer ricordava. Da quando Carlton Carlson aveva
scalato l’ascesa al successo, ottenendo ciò per cui tanto aveva dato nello
studio e nel lavoro, era inarrivabile. Per lui e per il migliore amico, Lenford Leonard, era stato un brutto colpo: due decenni di
chiacchiere, divertimento, distacco dal dovere, leggerezza, chiusi poi al di là
di una porta d’ufficio ai piani superiori. E non senza conseguenze per i
rapporti costruiti in quel lungo lasso di tempo.
I due diretti interessati interruppero ciò che stavano facendo, lasciando
cadere stancamente sul ripiano il fascicolo di controllo, e si guardarono
sconsolati: essere entrambi interpellati significava soltanto una cosa. Guai.
Guai di cui non avevano assolutamente bisogno, soprattutto in un momento di
tale difficoltà economica come quello in cui erano tutti caduti nell’ultimo
periodo.
Homer cercò di risollevare il morale di Lenny in qualsiasi modo, facendo un po’
il buffone – cosa in cui non riusciva più poi così tanto bene – e un po’
attaccandolo con una raffica di parole, richieste, affermazioni nel solo
tentativo di confonderlo. Il viaggio in ascensore non era mai stato così
caotico e controproducente nello stesso momento.
Homer gli diede un buffetto sulla spalla incoraggiando il fidato amico, ed
entrarono. Lo sguardo grave di Carlson non ammetteva alcuna replica: dalla sua
figura impettita, tanto lontana dai ricordi nitidi che i due amici avevano di
lui, arrivò il chiaro messaggio.
Il colloquio fu breve, qualche minuto di uno scambio di parole unilaterale dove
veniva mostrata l’attuale situazione dell’azienda, della produzione,
dell’export e così via: i grafici illustrati a muro parlavano chiaro, qualcuno
sarebbe dovuto restare a casa per un lasso di tempo medio breve, giusto il
tempo di veder risollevare mercato e quotazioni.
Giusto il tempo di rovinare la vita lavorativa di due – e molte più – persone.
Quella sera Homer si presentò a casa con un sorriso sghembo, cerchi scuri a
contornare gli occhi stanchi: richiamò l’attenzione di Marge con un cenno,
facendo entrare Lenny prima di lui.
Marge comprese stesse accadendo qualcosa di grave nel momento stesso in cui i
due si fecero trovare sobri, rincasando presto il venerdì. Deglutì aspettandosi
qualsiasi notizia. Tremò quando il marito le chiese di preparare del caffè per
tre, premurandosi che nessuno dei figli fosse presente in quel preciso istante.
Si sedette con calma, il petto si muoveva rapido a causa del respiro che stava
accelerando il ritmo: cercò di tranquillizzarsi da sola come le stavano
insegnando altre donne stressate come lei, in uno dei gruppi di auto aiuto in
cui s’era iscritta nell’ultimo periodo. Non aveva toccato il caffè, rischiando
di far aumentare le palpitazioni agitandosi maggiormente. Doveva sapere, ma
dall’altra parte era terrorizzata all’idea di cosa le avrebbero detto.
Homer stava in silenzio, il capo chino a osservare la decorazione semplice del
telo cerato steso sulla tavola. La tazzina vuota aveva tutta la sua attenzione
e non aveva ancora avuto il coraggio aprirsi a sua moglie, non dopo gli ultimi
avvenimenti legati alla sua salute e al suo equilibrio psicologico. Lei lo
stava pregando con gli occhi, stava pregando di sentirsi dire che fosse tutto a
posto, che non era accaduto assolutamente niente… ma sapeva, lui era
abitudinario, non avrebbe saltato un venerdì sera con Lenford
neppure per una influenza.
Quest’ultimo prese parola, stropicciando il lembo della giacca che ancora non
aveva tolto nonostante il calore presente nella stanza. Giochicchiava con
l’imbottitura sgualcendo il tessuto marrone, e sapeva di stare per rovinare
l’equilibrio già precario di quella coppia, di quella casa. La cosa però non
andava taciuta, non poteva.
«Marge, perdonami se mi sono unito a Homer, ma lui ha tanto insistito, e io
gliene sono grato. Oggi non avrei voluto tornare a casa, non da lui.» Ammettere
di non volersi presentare alla porta del suo compagno la diceva lunga, un
rapporto logoro da anni, una separazione sotto lo stesso tetto non avrebbero
retto di fronte alla notizia ricevuta il giorno stesso. Il modo con cui Carl
era riuscito a separare lavoro e privato era incredibilmente glaciale, tanto da
gelare la loro relazione non molto tempo dopo la promozione alla centrale
nucleare. Da lì all’essere il diretto esecutore dell’ordine di riduzione del
personale, mandando a casa il suo stesso convivente… non aveva saputo
direzionare il proprio pensiero. «Vedi, io e tuo marito, come altri in
centrale, resteremo a casa per un po’.»
Faceva freddo quella sera. Le ultime settimane dell’anno erano sempre un terno
al lotto per il clima di Springfield, ma quella sera la città era stata
fortunata: un cielo limpido, chiaro, una luna gradevole nonostante la
temperatura rasentasse lo zero. I puntini incastonati nella volta bluastra
sopra i tetti brillavano di più. O forse erano soltanto le lacrime di Marge a
farle così splendenti. La donna aveva lasciato un Homer avvilito in camera, in
compagnia delle sue amate serie TV, sperando potessero aiutarlo a smaltire lo
stress iniziale di una notizia tanto orribile: certo, non sarebbe rimasto a
casa da un giorno all’altro, e senza alcun introito. Avrebbe potuto comunque
continuare a incassare i soldi sufficienti per continuare la vita in tre, ce
l’avrebbero fatta lo stesso anche se con qualche difficoltà in più. Ciò che lei
non riusciva a tollerare era il sentirsi completamente soggiogata da ciò che
sarebbe accaduto, era impreparata. Non era la prima volta in cui c’erano stati
dei disguidi lavorativi, stavolta però si sentiva inadatta a gestirli e
sentirseli addosso. Si strinse addosso la maglia in ciniglia, accarezzandosi
debolmente gli avambracci. La luce della cucina era spenta, i piedi nudi
camminavano incessantemente sulle piastrelle fredde, senza darci il dovuto
peso. Sentiva d’aver bisogno di un calmante, ma aveva preso già le sue medicine
quel giorno. Avrebbe dovuto resistere, tranquillizzarsi fino a prendere sonno e
dimenticarsi per qualche ora di ciò che era accaduto. Il gelo che avvertiva nel
petto non era causato dalla finestra schiusa, dalla notte di dicembre o dal
pavimento su cui stava continuando a muoversi senza calze a proteggerla.
Era una scheggia, acuminata e sottile, che le era finita sottopelle. Spingeva
in profondità, entrandole dalle vene verso il centro del suo corpo, poco più
su, all’altezza del cuore. Si era insinuata qualche tempo prima, silenziosa,
anonima ma ora correva, tentava di attraversare la barriera che le proteggeva
emozioni e ricordi.
Stava cedendo.
Si sedette sulla sua sedia preferita, poggiando i gomiti sul tavolo; si
accasciò su di esso, i capelli sciolti spettinati a ricoprire parte della
superficie. La guancia pallida strusciò in modo fastidioso sulla tovaglia, ma
poco le importava, anche perché il piano era reso scivoloso dalle lacrime che
le stavano bagnando la pelle del viso. Avrebbe dovuto trovare una soluzione, e
anche presto. Come l’avrebbe detto a Maggie? Cosa le avrebbe raccontato? Che
suo padre sarebbe stato a casa di nuovo, senza sapere quando avrebbe
ricominciato a lavorare alla centrale?
Non pareva così male, non lo sarebbe stato per la piccola di sicuro… ma per
lei?
Cosa avrebbe significato ritrovarsi Homer in giro per casa tutto il giorno a
bighellonare, a bere birra stravaccato sul divano del salotto, indossando
canotte sgualcite dal far nulla e un accappatoio consumato dagli anni? Avrebbe
significato litigare continuamente, rimbeccarsi per ogni cosa, ritrovarsi un
peso addosso non indifferente, un ingombro notevole nella sua quotidianità che
aveva beatamente costruito attorno al concetto di quieta solitudine casalinga.
Davvero si era ridotta a considerare il marito un elemento nel suo disequilibrio?
Era questo il problema che l’aveva portata a dover cedere ai consigli dei
medici e a quelli dello psichiatra che continuava ad aggiustarle la terapia
farmacologica?
E intanto la scheggia spingeva e spingeva. Se avesse bucato il velo protettivo,
lei sarebbe esplosa definitivamente.
La donna cercò a tentoni il cellulare in tasca, era indecisa se contattare le
sorelle o meno: chiamarle per potersi sfogare e spiegare la situazione avrebbe
creato il solito trambusto in famiglia Bouvier, e sapeva l’avrebbero raggiunta
entro l’indomani autoinvitandosi a casa sua. Avrebbero fumato, si sarebbero
lamentate delle scelte di vita della sorellina troppo ottusa per capire come
avrebbe dovuto ragionare una donna adulta e capace… capace di liberarsi di una
zavorra come un matrimonio inconcludente. Avrebbero insultato suo marito, il
suo modo di fare, il suo non saper concludere niente e non saper reagire alle
difficoltà.
Lo avrebbero fatto sicuramente.
Marge desistette. Lasciò lo smartphone sul tavolo, sollevò stancamente la
schiena e si ripromise di mettersi da parte ancora una volta per poter
sostenere e dividere il peso di un altro fallimento economico familiare. Le
medicine sarebbero bastate a gestire il suo esaurimento? Non ne era certa, ma
avrebbe dovuto aver fede e dare credito ai medici che aveva sempre allontanato.
«Marge… Marge?
Disturbo?» Lenny si affacciò alla cucina, abbandonato il divano e la coperta in
pile che gli erano stati gentilmente offerti dai coniugi Simpson. Nonostante l’ospitalità
sempre presente e deliziosa, non era riuscito a prendere sonno quella sera. Non
poteva biasimarsi, aveva spento il cellulare dopo il terzo tentativo di contattare
l’ex compagno: si sentiva un vigliacco a esser scappato dal loro appartamento
ma non sarebbe riuscito ad affrontare Carl in un momento simile. Homer aveva
così tanto insistito nel volerlo ospitare a casa sua che non aveva potuto rifiutare
– sempre meglio di un motel, si disse sorridendo amaramente. Amaro come il sorriso
forzato che aveva trovato dipinto sul volto di Marge quel pomeriggio, una
macchia in una casa dove aveva trascorso parecchio tempo: ringraziava così
spesso di avere una coppia di amici così generosa con lui che credette in più
occasioni di essere snervante a ripeterlo. Ed eccolo lì, ancora una volta a tendere
silenziosamente e passivamente una mano in direzione di qualcuno differente da
colui che avrebbe dovuto aiutarlo.
Il primo che aveva invece voltatogli le spalle, non lasciandogli altra scelta
che uscire dall’ufficio amministrativo della centrale nucleare di Springfield con
il capo chino e la rabbia a divorargli le viscere.
Lenny sbuffò rassegnato, si avvicinò alla donna e cercò di svegliarla per
permetterle di andare a letto, ottenendo soltanto uno o due mugolii
contrariati. Non insistette, recuperò dal divano la seconda coperta che gli era
stata offerta e gliela srotolò sulla schiena.
Pareva curvata dal peso degli anni.
Perché loro non avevano più venti anni, non erano i ragazzini spensierati che
sorridevano al futuro immaginando grandi cose e percorrendo la strada dei
propri sogni. Quanto era patetico, Lenny, a osservare Marge e rivedere in lei
gli sbagli di tutti. Glielo aveva detto pure, in fondo, di non sposarsi.
Di continuare a studiare, trovarsi un buon lavoro o qualsiasi altra cosa
avrebbe desiderato fare.
Di essere felice, insomma.
Ma chi era davvero felice, tra loro?