Fumetti/Cartoni americani > I Simpson
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Autore: _aivy_demi_    06/02/2023    12 recensioni
Questa long partecipa all'iniziativa WRITOBER2022, lista mista.
#writober2022 #fanwriter.it
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Le età dei vari personaggi verranno equilibrate nel giusto contesto, creando uno spazio temporale coerente ai fini di trama.
Mi auguro la lettura sia di vostro gradimento in questo che è l'approdo a un nuovo fandom per me ^^
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Diritti alle fanart: @Spikermonster @Pink
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Bart Simpson, Lisa Simpson, Maggie Simpson, Marge Simpson
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Everything’s changing,
but…
nothing will really change
.

06.
scheggia

 


Il naso gocciolava vistosamente: una mattina gelida quella, senza preavviso. L’autunno se n’era andato via con una velocità spaventosa, si ritrovò a pensare Homer Simpson, affossato con il mento all’interno del giaccone verde: aveva lasciato a casa la solita cuffia con cui si riparava dal vento, e le orecchie ne stavano risentendo.
«Stupido freddo.»
Starnutì sbattendo la fronte contro la macchinetta del caffè.
«Stupido aggeggio…»
Prese a calci la macchinetta dimenticando di aver selezionato la bevanda preferita due minuti prima. Immancabilmente essa si rovesciò, ustionandogli la mano in un buffo quanto inutile tentativo di afferrare il bicchierino prima dell’irrecuperabile.
«Stupido pavimento.»
Così tanto per cui lamentarsi, così poco tempo per farlo: il settore 7G aveva bisogno di lui, non poteva certo continuare a imprecare contro il karma che pareva volesse fargli pagare ogni singolo minuto trascorso lì dentro negli ultimi venti e fischia anni. Selezionò nuovamente la cioccolata calda con panna extra zucchero, sperando di non dover ripulire.
«Stupida centrale.»
E buttò distrattamente nel cestino lì accanto tovaglioli, bicchierino e voglia di lavorare, così come tutte le mattine da quando il suo ruolo era stato congelato in un angolo marginale dell’azienda.


«Simpson e Leonard, attesi in direzione.»
L’altoparlante risuonò nel corridoio grigio, rimbalzando da una parete all’altra: la voce gracchiante dello strumento strideva in modo incomprensibile con il tono molto più morbido che Homer ricordava. Da quando Carlton Carlson aveva scalato l’ascesa al successo, ottenendo ciò per cui tanto aveva dato nello studio e nel lavoro, era inarrivabile. Per lui e per il migliore amico, Lenford Leonard, era stato un brutto colpo: due decenni di chiacchiere, divertimento, distacco dal dovere, leggerezza, chiusi poi al di là di una porta d’ufficio ai piani superiori. E non senza conseguenze per i rapporti costruiti in quel lungo lasso di tempo.
I due diretti interessati interruppero ciò che stavano facendo, lasciando cadere stancamente sul ripiano il fascicolo di controllo, e si guardarono sconsolati: essere entrambi interpellati significava soltanto una cosa. Guai.
Guai di cui non avevano assolutamente bisogno, soprattutto in un momento di tale difficoltà economica come quello in cui erano tutti caduti nell’ultimo periodo.
Homer cercò di risollevare il morale di Lenny in qualsiasi modo, facendo un po’ il buffone – cosa in cui non riusciva più poi così tanto bene – e un po’ attaccandolo con una raffica di parole, richieste, affermazioni nel solo tentativo di confonderlo. Il viaggio in ascensore non era mai stato così caotico e controproducente nello stesso momento.
Homer gli diede un buffetto sulla spalla incoraggiando il fidato amico, ed entrarono. Lo sguardo grave di Carlson non ammetteva alcuna replica: dalla sua figura impettita, tanto lontana dai ricordi nitidi che i due amici avevano di lui, arrivò il chiaro messaggio.
Il colloquio fu breve, qualche minuto di uno scambio di parole unilaterale dove veniva mostrata l’attuale situazione dell’azienda, della produzione, dell’export e così via: i grafici illustrati a muro parlavano chiaro, qualcuno sarebbe dovuto restare a casa per un lasso di tempo medio breve, giusto il tempo di veder risollevare mercato e quotazioni.
Giusto il tempo di rovinare la vita lavorativa di due – e molte più – persone.


Quella sera Homer si presentò a casa con un sorriso sghembo, cerchi scuri a contornare gli occhi stanchi: richiamò l’attenzione di Marge con un cenno, facendo entrare Lenny prima di lui.
Marge comprese stesse accadendo qualcosa di grave nel momento stesso in cui i due si fecero trovare sobri, rincasando presto il venerdì. Deglutì aspettandosi qualsiasi notizia. Tremò quando il marito le chiese di preparare del caffè per tre, premurandosi che nessuno dei figli fosse presente in quel preciso istante. Si sedette con calma, il petto si muoveva rapido a causa del respiro che stava accelerando il ritmo: cercò di tranquillizzarsi da sola come le stavano insegnando altre donne stressate come lei, in uno dei gruppi di auto aiuto in cui s’era iscritta nell’ultimo periodo. Non aveva toccato il caffè, rischiando di far aumentare le palpitazioni agitandosi maggiormente. Doveva sapere, ma dall’altra parte era terrorizzata all’idea di cosa le avrebbero detto.
Homer stava in silenzio, il capo chino a osservare la decorazione semplice del telo cerato steso sulla tavola. La tazzina vuota aveva tutta la sua attenzione e non aveva ancora avuto il coraggio aprirsi a sua moglie, non dopo gli ultimi avvenimenti legati alla sua salute e al suo equilibrio psicologico. Lei lo stava pregando con gli occhi, stava pregando di sentirsi dire che fosse tutto a posto, che non era accaduto assolutamente niente… ma sapeva, lui era abitudinario, non avrebbe saltato un venerdì sera con Lenford neppure per una influenza.
Quest’ultimo prese parola, stropicciando il lembo della giacca che ancora non aveva tolto nonostante il calore presente nella stanza. Giochicchiava con l’imbottitura sgualcendo il tessuto marrone, e sapeva di stare per rovinare l’equilibrio già precario di quella coppia, di quella casa. La cosa però non andava taciuta, non poteva.
«Marge, perdonami se mi sono unito a Homer, ma lui ha tanto insistito, e io gliene sono grato. Oggi non avrei voluto tornare a casa, non da lui.» Ammettere di non volersi presentare alla porta del suo compagno la diceva lunga, un rapporto logoro da anni, una separazione sotto lo stesso tetto non avrebbero retto di fronte alla notizia ricevuta il giorno stesso. Il modo con cui Carl era riuscito a separare lavoro e privato era incredibilmente glaciale, tanto da gelare la loro relazione non molto tempo dopo la promozione alla centrale nucleare. Da lì all’essere il diretto esecutore dell’ordine di riduzione del personale, mandando a casa il suo stesso convivente… non aveva saputo direzionare il proprio pensiero. «Vedi, io e tuo marito, come altri in centrale, resteremo a casa per un po’.»


Faceva freddo quella sera. Le ultime settimane dell’anno erano sempre un terno al lotto per il clima di Springfield, ma quella sera la città era stata fortunata: un cielo limpido, chiaro, una luna gradevole nonostante la temperatura rasentasse lo zero. I puntini incastonati nella volta bluastra sopra i tetti brillavano di più. O forse erano soltanto le lacrime di Marge a farle così splendenti. La donna aveva lasciato un Homer avvilito in camera, in compagnia delle sue amate serie TV, sperando potessero aiutarlo a smaltire lo stress iniziale di una notizia tanto orribile: certo, non sarebbe rimasto a casa da un giorno all’altro, e senza alcun introito. Avrebbe potuto comunque continuare a incassare i soldi sufficienti per continuare la vita in tre, ce l’avrebbero fatta lo stesso anche se con qualche difficoltà in più. Ciò che lei non riusciva a tollerare era il sentirsi completamente soggiogata da ciò che sarebbe accaduto, era impreparata. Non era la prima volta in cui c’erano stati dei disguidi lavorativi, stavolta però si sentiva inadatta a gestirli e sentirseli addosso. Si strinse addosso la maglia in ciniglia, accarezzandosi debolmente gli avambracci. La luce della cucina era spenta, i piedi nudi camminavano incessantemente sulle piastrelle fredde, senza darci il dovuto peso. Sentiva d’aver bisogno di un calmante, ma aveva preso già le sue medicine quel giorno. Avrebbe dovuto resistere, tranquillizzarsi fino a prendere sonno e dimenticarsi per qualche ora di ciò che era accaduto. Il gelo che avvertiva nel petto non era causato dalla finestra schiusa, dalla notte di dicembre o dal pavimento su cui stava continuando a muoversi senza calze a proteggerla.
Era una scheggia, acuminata e sottile, che le era finita sottopelle. Spingeva in profondità, entrandole dalle vene verso il centro del suo corpo, poco più su, all’altezza del cuore. Si era insinuata qualche tempo prima, silenziosa, anonima ma ora correva, tentava di attraversare la barriera che le proteggeva emozioni e ricordi.
Stava cedendo.
Si sedette sulla sua sedia preferita, poggiando i gomiti sul tavolo; si accasciò su di esso, i capelli sciolti spettinati a ricoprire parte della superficie. La guancia pallida strusciò in modo fastidioso sulla tovaglia, ma poco le importava, anche perché il piano era reso scivoloso dalle lacrime che le stavano bagnando la pelle del viso. Avrebbe dovuto trovare una soluzione, e anche presto. Come l’avrebbe detto a Maggie? Cosa le avrebbe raccontato? Che suo padre sarebbe stato a casa di nuovo, senza sapere quando avrebbe ricominciato a lavorare alla centrale?
Non pareva così male, non lo sarebbe stato per la piccola di sicuro… ma per lei?
Cosa avrebbe significato ritrovarsi Homer in giro per casa tutto il giorno a bighellonare, a bere birra stravaccato sul divano del salotto, indossando canotte sgualcite dal far nulla e un accappatoio consumato dagli anni? Avrebbe significato litigare continuamente, rimbeccarsi per ogni cosa, ritrovarsi un peso addosso non indifferente, un ingombro notevole nella sua quotidianità che aveva beatamente costruito attorno al concetto di quieta solitudine casalinga. Davvero si era ridotta a considerare il marito un elemento nel suo disequilibrio? Era questo il problema che l’aveva portata a dover cedere ai consigli dei medici e a quelli dello psichiatra che continuava ad aggiustarle la terapia farmacologica?
E intanto la scheggia spingeva e spingeva. Se avesse bucato il velo protettivo, lei sarebbe esplosa definitivamente.
La donna cercò a tentoni il cellulare in tasca, era indecisa se contattare le sorelle o meno: chiamarle per potersi sfogare e spiegare la situazione avrebbe creato il solito trambusto in famiglia Bouvier, e sapeva l’avrebbero raggiunta entro l’indomani autoinvitandosi a casa sua. Avrebbero fumato, si sarebbero lamentate delle scelte di vita della sorellina troppo ottusa per capire come avrebbe dovuto ragionare una donna adulta e capace… capace di liberarsi di una zavorra come un matrimonio inconcludente. Avrebbero insultato suo marito, il suo modo di fare, il suo non saper concludere niente e non saper reagire alle difficoltà.
Lo avrebbero fatto sicuramente.
Marge desistette. Lasciò lo smartphone sul tavolo, sollevò stancamente la schiena e si ripromise di mettersi da parte ancora una volta per poter sostenere e dividere il peso di un altro fallimento economico familiare. Le medicine sarebbero bastate a gestire il suo esaurimento? Non ne era certa, ma avrebbe dovuto aver fede e dare credito ai medici che aveva sempre allontanato.


«Marge… Marge? Disturbo?» Lenny si affacciò alla cucina, abbandonato il divano e la coperta in pile che gli erano stati gentilmente offerti dai coniugi Simpson. Nonostante l’ospitalità sempre presente e deliziosa, non era riuscito a prendere sonno quella sera. Non poteva biasimarsi, aveva spento il cellulare dopo il terzo tentativo di contattare l’ex compagno: si sentiva un vigliacco a esser scappato dal loro appartamento ma non sarebbe riuscito ad affrontare Carl in un momento simile. Homer aveva così tanto insistito nel volerlo ospitare a casa sua che non aveva potuto rifiutare – sempre meglio di un motel, si disse sorridendo amaramente. Amaro come il sorriso forzato che aveva trovato dipinto sul volto di Marge quel pomeriggio, una macchia in una casa dove aveva trascorso parecchio tempo: ringraziava così spesso di avere una coppia di amici così generosa con lui che credette in più occasioni di essere snervante a ripeterlo. Ed eccolo lì, ancora una volta a tendere silenziosamente e passivamente una mano in direzione di qualcuno differente da colui che avrebbe dovuto aiutarlo.
Il primo che aveva invece voltatogli le spalle, non lasciandogli altra scelta che uscire dall’ufficio amministrativo della centrale nucleare di Springfield con il capo chino e la rabbia a divorargli le viscere.
Lenny sbuffò rassegnato, si avvicinò alla donna e cercò di svegliarla per permetterle di andare a letto, ottenendo soltanto uno o due mugolii contrariati. Non insistette, recuperò dal divano la seconda coperta che gli era stata offerta e gliela srotolò sulla schiena.
Pareva curvata dal peso degli anni.
Perché loro non avevano più venti anni, non erano i ragazzini spensierati che sorridevano al futuro immaginando grandi cose e percorrendo la strada dei propri sogni. Quanto era patetico, Lenny, a osservare Marge e rivedere in lei gli sbagli di tutti. Glielo aveva detto pure, in fondo, di non sposarsi.
Di continuare a studiare, trovarsi un buon lavoro o qualsiasi altra cosa avrebbe desiderato fare.
Di essere felice, insomma.
Ma chi era davvero felice, tra loro?

   
 
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