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Autore: Soul of Paper    06/02/2023    4 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 78 - Sentenze


"Cosa…?"

 

Un sussurro strozzato. Così erano state le parole di Calogiuri.

 

Un peso sul cuore al crollo di quei lineamenti che tanto amava.

 

E, dopo qualche secondo, la vibrazione inconfondibile del singhiozzo, voce muta di quelli che il suo papà doveva trattenere.

 

Accarezzando la pancia con una mano per cercare di tranquillizzarla e tranquillizzarsi, gli pose l'altra sulla spalla, contratta talmente forte da renderle quasi impossibile stringergliela.

 

"Tu non hai colpe, Calogiuri: è morto di setticemia. Lo ha ucciso chi non l'ha portato in ospedale e-"

 

La voce di Irene che provava ad essere rassicurante, ma allo stesso tempo sapeva, come lo sapeva lei, che, sebbene quella non fosse altro che la verità, a lui non sarebbe bastata per soffrirne di meno.

 

"Quanti… quanti anni aveva?"

 

"Ma a che serve saperlo?"

 

"QUANTI?" gridò quasi ed Irene deglutì visibilmente persino dall'altra parte dello schermo.

 

"Diciannove…"

 

Un suono strozzato e stavolta il singulto sfuggì al controllo, all'unisono con uno della piccoletta.

 

"Famiglia?"

 

Un'esitazione di troppo. Troppo anche per immaginare il dolore inaccettabile di una madre al perdere un figlio tanto giovane.

 

"Aveva figli, non è vero?"

 

Calogiuri ormai era più roco di lei.

 

"Uno di un anno e mezzo. Padre assente, la madre ha sempre tirato a campare. La… la compagna non ha ancora finito le superiori e non ha un lavoro. Forse per questo… avrà accettato un'offerta del prozio ma-"

 

"Ma lo zio è stato arrestato e quando è venuto il momento non ha potuto intercedere per il nipote. Sempre se comunque avrebbe potuto o voluto farlo."

 

Aveva parlato alla fine, al posto di Calogiuri che era paralizzato, accanto a lei, tanto da sembrare una statua di marmo sotto le sue dita.

 

Il peggio era quello sguardo pieno di lacrime ma spento, fisso nel vuoto.

 

Era da quando lo aveva ritrovato più morto che vivo in quello squallido hotel che non l'aveva più visto così.

 

E aveva paura, una paura fottuta, che qualcosa in lui si fosse rotto per sempre, dopo tutto quello che gli era piovuto addosso e che aveva sopportato negli ultimi mesi.

 

Che il punto di rottura fosse infine arrivato e di non essere nelle condizioni fisiche e mentali per riuscire a riportarlo indietro.

 

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"Ti spiace se…"

 

"Se rinviamo l'annuncio? Con tutto quello che è successo?"

 

"Irene…"

 

"Dobbiamo avere la massima concentrazione sul caso e sul processo. Non possiamo sbagliare più niente e non è il momento di dover anche affrontare le probabili ritorsioni della tua ex, o la quasi certa crisi dei tuoi figli."

 

Era la cosa giusta da fare e lo sapevano entrambi.

 

"Però ti prometto che…"

 

"Non promettiamoci più niente, anche solo per scaramanzia."

 

"Non ti ricordavo superstiziosa."

 

"Infatti non lo sono mai stata ma… questo processo sembra davvero maledetto, per non parlare di Calogiuri e di Imma che… è da quando li conosco - e forse anche da prima - che succedono tutte a loro."

 

“Sapere di aver causato la morte di qualcuno, anche se indirettamente e per legittima difesa, non è mai facile. Ma, proprio perché ne hanno passate tante, direi che Calogiuri è più forte di quanto sembri e anche Imma-”


“Ma anche la persona più forte ha un limite di carico dopo il quale si spezza. Lo sai anche tu.”

 

Lo vide annuire con sguardo colpevole e si chiese se anche lui stava pensando al crollo che aveva avuto lei dopo che lui se ne era andato da Milano. Anche se, tutto sommato, senza quel crollo, Bianca non sarebbe mai stata sua figlia. Ma quello era solo un pensiero egoista, oltre che un modo per cercare di alleviare quel senso di colpa, che non se ne sarebbe mai andato del tutto.

 

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“A chi stai scrivendo?”

 

“A nessuno, perché?”

 

Per tutta risposta, Penelope incrociò le braccia e sembrò un po’ infastidita.

 

“Ma che è, sei gelosa?”


“Torno dalla doccia e ti trovo a letto a mezzanotte, che scrivi con un sorriso e gli occhi che ti si illuminano in quel modo che… che forse hai solo con me… o neanche. Che devo pensare, Vale?”

 

Si sentì bollente, Penelope che sì, era decisamente gelosa - e la cosa, per quanto era stata zen su Carlo, le faceva molto piacere, ma…

 

Ma si vergognava anche tantissimo perché…

 

“Stavo… stavo facendo delle note sull’articolo sui Mazzocca e i Romaniello, che mi ha mandato Frazer e-”

 

“Ma quindi ti stavi scrivendo con lui?”

 

“No, no. Stavo… stavo scrivendo. E basta.”

 

Ecco, l’aveva detto, anche se le girava un po’ la testa da quanto era in imbarazzo.

 

Penelope spalancò la bocca, sorpresa, ma poi sorrise in un modo che… non sapeva come fosse il suo di sorriso, ma quello di Penelope di sicuro era la cosa più bella che avesse mai visto.

 

“E come sta andando?” le domandò, sedendosi accanto a lei sul letto.

 

“Mi sembra fatto bene ma… sto togliendo le cose che so che sono sbagliate. E sto precisando un paio di punti e segnalando dove so che c’è altro da dire. Solo che… non sono sicura a chi potrebbe chiedere… di sicuro non posso chiedere a mamma, figurati, che chi la sente! E poi… poi ho iniziato a scrivere l’articolo sulla mia esperienza personale.”

 

“Stavi scrivendo quello quando ti ho interrotto?”

 

Annuì, mostrandole le poche righe salvatesi alla cesura.

 

“Lo so che non è un granché come inizio e… prima di finire, in ogni caso, per scaramanzia, voglio aspettare a vedere come va il processo, ma-”

 

“Ma sei proprio appassionata! Non ti ho mai vista così appassionata per qualcosa. Sempre a parte me, ovviamente.”

 

Le venne da ridere, mentre le assestava un colpetto sulla spalla e le faceva la linguaccia, sfottendola con un, “ma come sei modesta!”

 

La verità però era… che era la verità.

 

Penelope aveva ragione, in pieno: la conosceva benissimo e sapeva quanto fosse raro per lei sentirsi così. Era dai tempi dei video di cucina che un hobby non la prendeva così tanto. A tal punto che, quando scriveva, il tempo volava senza rendersene conto.

 

Penelope la fissava in quel modo, quel modo che le leggeva dentro, peggio di sua madre, e cercò di sostenerne lo sguardo ma, alla fine, si trovò a cedere e ad abbassarlo per prima.

 

“Forse ci dovresti pensare, Vale… in fondo un contatto ce l’hai: Frazer è un giornalista conosciuto a livello nazionale e-”

 

“E non voglio raccomandazioni!” esclamò, in un modo che le ricordò, di nuovo, tremendamente, sua madre in una delle sue invettive contro nonna.

 

Dal sorrisetto di Penelope, non era stata l’unica a notarlo. Si sforzò quindi di abbassare il tono di voce e aggiunse, più calma, “non ho studiato per questo: non ne so niente di scrittura. E… e mi devo laureare e… e poi a mamma le prenderebbe un colpo: lei i giornalisti li odia.”

 

“Mi sembra che Frazer tua madre non lo odi: si è fatta intervistare da lui. E per lo studio… hai fatto solo una triennale, Vale, sei giovane, siamo giovani. Potresti fare una magistrale o un master. Conosco diverse persone a Milano che studiano giornalismo e hanno fatto così.”

 

“Sì, ma… ma un conto è scrivere due righe ogni tanto, qui tranquilla in una stanza. Un conto è fare interviste, inchieste, pezzi sul campo. Non so se ne sarei capace e-”

 

“Se hai preso da tua madre anche in questo... a parte che mica tutti i giornalisti devono fare inchieste da Pulitzer. E poi, se facessi un master o altro… ci sono gli stage e da lì puoi renderti conto se ti può interessare, no?”

 

Sospirò, perché la voce di Penelope era più tentatrice del canto delle sirene - anche più del solito.

 

“Vuoi proprio che finiamo sotto un ponte tutte e due? Io a scrivere e tu a disegnare?” ironizzò e sì, le toccava ammettere che pure in quello aveva preso da qualcuna.

 

Le avrebbe dovuto chiedere i danni morali, un giorno.

 

“Non è che a fare l’assistente sociale si diventa ricchi, Vale. E poi… e poi al peggio vorrà dire che faremo anche altro, in qualche modo ce la caveremo. Ma, come mi hai detto tu una volta, se hai un sogno ci devi almeno provare, per non avere rimpianti. E, se pensi a cosa ti renderebbe felice fare nella vita, davvero felice, sarebbe scrivere o l’assistente sociale?”

 

Una domanda retorica, talmente era chiara ad entrambe la risposta.

 

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“Grazie Maria!”

 

Il loro angelo salvatore in quei giorni - dovunque l’avesse trovata Irene, pregava ne avessero fatte altre uguali - richiuse la porta, lasciandoli da soli a letto con un vassoio in mezzo.

 

La parmigiana - non fritta, viste le sue condizioni - sembrava comunque ottima.


Vedendo che Calogiuri non reagiva, gli occhi fissi in grembo, ne mise una porzione su un piatto e glielo porse.

 

“No, non… non ho fame.”

 

“Calogiuri,” sospirò, tenendo il piatto alzato, “già non hai toccato il pranzo, non puoi digiunare. Te lo ricordi, sì, cosa hai promesso al medico e a me?”

 

Lo vide deglutire ed annuire, gli occhi che gli si riempirono di nuovo di lacrime.

 

“Lo so, ma… ma ho la nausea, non… non penso di farcela.”

 

Quelle quattro parole furono una pugnalata, perché, se una volta il non pensare di farcela era praticamente la costante della vita di Calogiuri, negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi era diventato non solo più sicuro delle sue possibilità ma anche più combattivo, assertivo.

 

Fin troppo, tipo quando si era messo in testa di metterla in una campana di vetro.

 

E invece mo…

 

“Ti faccio fare qualcosa di più semplice? Una pasta in bianco? O un poco di riso, magari? Anche solo due cracker? Qualcosa la devi mangiare, è un ordine!”

 

“Mi… mi dispiace… non… non devi pensare a me adesso, ma a te, a voi,” pronunciò lui, triste ma deciso, guardandola per un attimo negli occhi, “mangia che si fredda. A me… poi dopo vediamo.”

 

“E no, Calogiuri. Se non mangi tu non mangio neanche io. A te la scelta.”

 

Lo sapeva che era un ricatto emotivo non da poco, che erano le maniere forti, ma Calogiuri non poteva permettersi di perdere di nuovo peso e di ricadere in quel circolo vizioso.

 

“Im-ma…” singhiozzò, in un modo che le strinse il cuore in una morsa, come a pregarla di non fargli quello.

 

Fu uno sforzo quasi sovraumano tagliare con la forchetta un pezzetto di parmigiana e porgerglielo, vicino alle labbra.

 

Ma lui tirò indietro la testa, scuotendola.

 

“No, non così. Dammi il piatto e… qualcosa la mangio, promesso.”

 

Le scappò un sorriso: il guizzo di sdegno ed orgoglio era un buon segno, oltre a ricordarle il periodo quando stava ancora male ma un poco si era ripreso e si era stufato di essere trattato da bimbo.

 

Gli poggiò il piatto sulle ginocchia, ne prese uno anche lei e, in una specie di silenziosa sfida, ad ogni suo boccone ne corrispose uno di Calogiuri, almeno fino a che, con un conato, lui fece ricadere la forchetta sul piatto.

 

“Non…” si strozzò quasi, bevendo un sorso d’acqua col limone, che per lei e le sue nausee era un toccasana, e mo pure per lui.

 

“Va bene così,” lo rassicurò, stringendogli l’avambraccio e sentendosi decisamente in colpa quando lui la implorò, “però tu continui a mangiare, vero?”

 

“E certo. Non guardarmi, se ti dà la nausea, va bene?”

 

“Tu… tu non mi potrai mai dare la nausea, dottoressa. Invece io…”

 

Le lacrime, alla fine gli erano scese sul viso, anche se erano ancora poche, non aveva realmente pianto.

 

Incurante dei piatti, lo strinse in un mezzo abbraccio, asciugandogli le guance con la mano libera.

 

Il suo viso sulla spalla, in cui si stava rifugiando in un modo che le ricordava Ottavia che però mo, insieme al principino, stava con la santa, per lasciarli mangiare in pace.

 

Magari fosse!

 

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“Andate via! Con voi non ci voglio parlare! Me lo avete ammazzato! Maledetti!”

 

Il pianto disperato del bimbo - che le ricordava fin troppo quello di Francesco - non ebbe comunque l’impatto di quegli occhioni cerchiati da occhiaie così aliene su un viso di quell’età, ancora da bambina, come il corpo, nonostante la gravidanza.

 

Le mani che stringevano al petto il piccolino, quasi a fargli e farsi scudo, avrebbero dovuto al massimo stare sui banchi di scuola o a stringersi in discoteca con quelle di un altro ragazzo per la festa dei diciotto anni. Non a firmare le carte per il funerale del compagno, senza aver nemmeno mai fatto in tempo a votare.

 

“Scianel, hai tutte le ragioni per essere incazzata, ma non con noi: se ci fai spiegare-”

 

La felliniana poliziotta barese ci aveva provato, con quel suo tono dolce e tranquillo, quasi materno - sebbene non avesse figli, lo suonava decisamente più di lei - ma Scianel, che già scritto giusto era da denuncia, come lo aveva lei all’anagrafe non ne parliamo, aveva ripreso a urlare invettive contro tutti loro.

 

“Non l’hanno portato in ospedale.”

 

Era stato Ranieri a intervenire, col suo tono più solenne, la voce che rimbombò nel misero monolocale che Scianel divideva col defunto.

 

Sarà stata la voce autorevole e non autoritaria, sarà stato il maledetto e benedetto ascendente che Ranieri aveva sulle donne, sarà stato che agli adolescenti ci era abituato, ma Scianel si bloccò per un attimo e lo fissò, stupita e poi confusa.


“In che senso? Ma se era morto e-”

 

“Non è morto per la sparatoria. La ferita non era grave, si poteva salvare. Ma ha fatto infezione, non l’hanno curata in tempo e… ed è peggiorata fino a ucciderlo. Avrebbero dovuto portarlo in ospedale e…”

 

La poliziotta si era fermata, probabilmente perché parlare di amputazione d’arti… non era il discorso migliore da fare in quel momento.

 

“E cosa? E cosa??!!”

 

Gli occhi scurissimi di Scianel rotearono, pieni di sfida, prima sulla pin-up, poi su Ranieri e infine su di lei.

 

Era una bambina sì, ma era anche una donna, cresciuta troppo in fretta.

 

“L’infezione era ormai così estesa che… avrebbero dovuto amputare.”

 

Era stata lei a parlare, alla fine. Forse non era la cosa giusta da fare e neanche quella diplomatica ma, al posto di Scianel, avrebbe voluto saperla la verità.

 

Un suono strozzato e la ragazza scoppiò in lacrime, il bambino che piangeva sempre di più, i genitori di Scianel più sconvolti di lei, tanto che, alla fine, in qualche modo il povero bimbo si trovò in braccio alla cara collega di Bari e smise pure di piangere - uomini, fin da piccoli!

 

Scianel invece, dopo essersi un attimo ricomposta ed aver riempito di qualsiasi cosa il fazzoletto che Ranieri le aveva offerto, piantò quegli occhi nerissimi nei suoi e, con labbro tremante ma voce decisa, pronunciò, “con te ci parlo. Ma solo con te. Almeno te non racconti stronzate.”

 

Deglutì, perché tra tutti i presenti era quella meno titolata per poterle parlare.

 

“Va bene, ma per legge e per tua tutela ci vuole un testimone. Può rimanere anche… il capitano? Registrerà e basta-”

 

Il lampo nelle iridi e il modo in cui Scianel si ritrasse la portarono ad aggiungere, in fretta, “se te la sentirai di rilasciare dichiarazioni, ovviamente. Per ora possiamo evitare la registrazione e fare due chiacchiere tra noi. Però lui deve restare. Tanto se ne sta in silenzio in un angolo, ci è abituato.”

 

A Scianel sfuggì un mezzo sorriso, anche tra le lacrime - era tosta la ragazzina!

 

Maledisse mentalmente tutti quelli che avrebbero dovuto insegnarle la contraccezione, a lei e al suo fidanzato, e invece al massimo gli avevano insegnato come prendere una pistola e sparare.

 

Fece appena in tempo a dubitare se quel pensiero fosse più da Imma che da lei - e forse pure l’aver abbandonato i guanti di velluto per fare il mastino e basta - ma il cenno d’assenso di Scianel le diede cose più importanti a cui pensare.

 

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“Ga! Ga!”

 

Stava tornando dal bagno e da una meritatissima doccia, quando gli inconfondibili urletti la portarono ad accelerare il passo verso la stanza da letto, ancora in accappatoio e con le ciabatte di spugna leopardate.

 

Faceva talmente caldo che se ne sarebbe rimasta volentieri nuda, non fosse stato per la povera Maria, per il piccoletto e per il fatto che la sua pancia ormai cominciava a farsi un poco pesantiella, oltre che sempre più pronunciata.

 

Arrivò alla porta e si bloccò, incantata.

 

I suoi due uomini del cuore non si erano accorti di lei - per una volta, era stata involontariamente silenziosa - ed il cuore le scoppiò nel petto.

 

C’era Calogiuri che singhiozzava sommessamente, ripiegato su se stesso, la testa appoggiata sulle ginocchia. Quasi in posizione fetale.

 

Con lei probabilmente non riusciva a sfogarsi, per paura di stressare lei e la bambina e quindi… piangeva da solo.

 

Mannaggia a te, Calogiù, mannaggia!

 

I “GA! GA! GA!” sempre più forti invece venivano da Francesco, che però non sembrava intenzionato a piangere o a strillare, come aveva temuto.

 

Anzi, stava gattonando sempre più vicino a Calogiuri, tra i cuscini che gli facevano da barriera. Con la manina gli tirava la t-shirt bianca, continuando a ripetere “GA! GA! GA!” come a scuoterlo.

 

Forse voleva solo un po’ di attenzioni su di sé, come aveva imparato da Ottavia, ma, quando Calogiuri se ne rese conto, sollevò il viso bagnato e gli fece una carezza tremante sulla guancia. Francesco, tra un “GA!” e l’altro gli afferrò le dita e poi gli piantò un bacino sulla mano, come facevano sempre lei e Calogiuri per farsi forza a vicenda.

 

La vista più appannata dello specchio del bagno, sentì un altro singhiozzo, ma di Calogiuri stavolta. Fece appena in tempo a chiudere ed aprire gli occhi per schiarire la visuale e si trovò davanti a una scena ancora più straziante.

 

Calogiuri con Francesco stretto al petto, che si abbracciavano forte forte. Calogiuri lo riempiva di bacini mentre il bimbo, oltre a ricambiare, continuava a ripetere “GA!”, “GA!” e poi un più delicato “Gaooo! Gaooogu!”

 

Le venne da ridere e da piangere insieme quando si rese conto che significavano quelle sillabe.

 

Mannaggia a loro!

 

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“Sai chi è stato a coinvolgerlo nel giro, a parte lo zio?

 

“Io non so niente. Neanche dello zio.”

 

Il panico nella voce di Scianel era evidentissimo.

 

“Scianel… lo so che probabilmente c’era dentro da poco ma… tu sei una ragazza intelligente, sveglia, non ti sfugge niente. Sicuramente qualcosa l’avrai colta… magari anche qualche visita insolita, qualche amicizia nuova. Magari è venuto pure qualcuno qua, dopo che lo zio è stato preso, no? O dopo… dopo che l’hanno ritrovato, per darti la loro versione dei fatti e-”

 

“Non so niente. Io penso a mio figlio e basta.”

 

Sì, era proprio tosta la ragazza, anzi la donna davanti a lei. Nonostante la chiacchierata, dopo essersi un po’ ricomposta dallo shock, non si smuoveva di un millimetro.

 

“Ma proprio perché ci pensi, davvero vuoi coprire chi ha lasciato suo padre a morire, ad agonizzare per ore, forse per giorni, che neanche un cane si tratta così e-”

 

Un singhiozzo, una lacrima spazzata via di fretta, con la mano libera dal bimbo che si lamentava.

 

Scianel lo guardò e poi rialzò il viso, decisa.

 

“Io devo pensare a mio figlio. E basta.”

 

“Lo so. Ma non devi essere sola a farlo. Ci penseremo noi a te e a lui, alla tua famiglia. Possiamo proteggerti,” ribadì, incrociando per un secondo lo sguardo di Ranieri, chiedendosi se entrambi stessero pensando alla madre di Bianca.

 

Ma ce l’avrebbero fatta stavolta.

 

“Sì… a nascondermi, peggio che in prigione, che poi se mi trovano… lo so come finisce.”

 

“E come finisce invece così? Pensi che ti proteggeranno loro, come hanno protetto il tuo compagno? Al minimo sgarro, anche solo percepito, sai che fanno quelli? Davvero vuoi crescerlo così tuo figlio? Altro che la prigione. Invece potresti finire di studiare, avere un aiuto per il bambino. Poi, quando avrai finito con gli studi, ti possiamo trovare un lavoro vero, una vita vera, lontano da qui.”

 

Un altro singhiozzo e poi lacrime, lacrime di quella bimba che non era più.

 

E un cenno del capo, su e giù, che, insieme alle parole pronunciate dopo, a fatica, furono la quadratura del cerchio.

 

Lo sguardo di Ranieri, ammirato ed orgoglioso: ce l’aveva fatta.

 

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“Calogiuri…”

 

Era tornata per un attimo in bagno, per dargli il tempo di godersi il momento con Francesco e di ricomporsi, poi era passata dalla cucina, aveva preso un pacchetto di biscotti tipici torinesi assai buoni e la caraffa di tè deteinato freddo con limone, preparato dalla Mary Poppins militaresca, ed era tornata in stanza.

 

“Im-ma… IMMA?”

 

Il suo tono da basso e triste, si era trasformato in un mezzo urlo di protesta quando aveva alzato il capo e l’aveva vista.


“Non devi portare pesi, lo sai!”

 

Le scappò un sorriso, anche se normalmente ce l’avrebbe mandato: l’apprensione per lei e la bambina poteva anche più della tristezza e per un attimo rivide il vero Calogiuri.

 

“Calogiù, mi definisci pesi due biscotti e una brocca in plastica? E dai su!” rispose quindi, con tono il più normale possibile, non perdendo un colpo.

 

“Quella brocca è almeno un chilo e mezzo. Non la devi portare!”

 

Deciso, netto, si alzò e la prese con la mano buona, appoggiandola sul comodino.

 

Almeno i biscotti li potè portare da sola fino al letto. Li aprì e ne mangiò uno, porgendone un altro a Calogiuri, col solito sguardo di sfida.

 

Lui sospirò e se lo portò alle labbra, tenendolo in equilibrio mentre riempiva il suo bicchiere e quello di Imma.

 

“Si può dire di tutto su Torino, ma i dolci li sanno fare bene,” proclamò, con apparente nonchalance, per testare le acque.

 

Calogiuri si limitò ad annuire, rosicchiando piano il biscotto: sembrava uno scoiattolo triste, di quelli dei cartoni animati.

 

“Im-ma! Im-ma!”

 

Il piccoletto, ingordo quasi come Noemi, stava puntando ai biscotti.

 

Sapeva che una sfilza di educatrici, pediatre e mammine perfette glielo avrebbero rimproverato, che lo zucchero per alcune era peggio della cocaina, ma gliene porse uno, permettendogli di ciucciarlo avidamente.

 

Alla fine Valentina era venuta su sana comunque e non era dipendente neanche dalle mentine.

 

Si concentrò di nuovo su Calogiuri, che continuava a rosicchiare quel biscotto, che probabilmente avrebbe fatto prima Francesco a finire il suo, se continuava così.

 

“Calogiuri…”

 

Niente.


“Calogiuri, guardami, è un ordine. O devo mettermi a sollevare altri tremendi pesi, che ne so, tipo il cuscino per dartelo in testa?”

 

“Imma…”

 

Gli era scappato un sorriso, anche se solo per pochi secondi, e la fissava con quello sguardo esasperato e dolce. Ma c’era ancora tanta tristezza, troppa.

 

“Calogiuri… non puoi ridurti così. Fa parte del mestiere, lo sai anche tu. E… lo so che ti senti in colpa ma… ma non è colpa tua. Sono stati loro a lasciarlo morire e-”

 

“Lo so! LO SO!” sbottò lui, così forte che uno schizzo di tè gli sporco la maglietta bianca e Francesco smise di fare i suoi versetti bavosi.

 

“Scusami…”

 

Poco più di un sussurro, mentre appoggiava il bicchiere sul comodino.

 

“Scusami, non dovrei farti agitare e-”

 

“E l’unica cosa che mi fa agitare, Calogiuri, non è se urli, ma se non dici niente.”

 

Calogiuri annuì con un singhiozzo.

 

“Lo so cosa provi… ti ricordi quando… quando quel ragazzo si era tolto la vita a Matera, dopo l’interrogatorio? Sei stato proprio tu a farmi forza, ad aiutarmi ad andare avanti, a farmi capire che non era colpa mia se si era ucciso e-”

 

“E non lo era, ma… ma non è solo quello il problema.”


“In che senso?”

 

“Non… non mi sento in colpa solo perché è morto, ma perché… perché so che lo rifarei. Per salvare te e i piccoletti, lo rifarei, anche se avessi saputo che… come sarebbe andata a finire.”

 

“Calo-giuri.”

 

La voce le si spezzò, la gola e gli occhi che bruciavano. La mano andò in automatico sulla spalla incurvata di lui, la strinse per un attimo ma lui si scostò.

 

“La verità è che… se fosse servito per salvarti, per salvarvi, avrei anche potuto ucciderlo… avrei potuto ucciderli tutti.”

 

“Calogiù…”

 

Gli prese il mento e lo costrinse quasi ad alzare la testa e oltre alle lacrime c’era una consapevolezza in quegli occhi che andava oltre non solo gli anni di Calogiuri, ma gli anni di entrambi.

 

Colpa o merito di quel maledetto e benedetto lavoro che si erano scelti.

 

“Lo so che… che una vita in teoria non vale più di un’altra ma… per me le vostre vita valgono più di tutte e… mi sento in colpa perché non me ne pento e… una volta non sarebbe stato così.”

 

Gli portò anche l’altra mano al viso, accarezzandogli le guance, senza perdere il contatto visivo.

 

“Quando… quando abbiamo trovato Francesco e tu sei entrato in azione da solo e… mi sono trovata con quel mitra in mano… se fosse stato necessario lo avrei usato, Calogiuri. Avrei premuto il grilletto e non solo per sparare in aria. E forse questo mi rende un’egoista o… più simile a… al mio padre biologico di quello che avrei voluto ma… ma non mi sento in colpa per questo, neanche io.”


“Ma quelli erano dei boss, degli assassini, questo… questo era un ragazzino e-”

 

“E che cambia? Cioè, per carità, indubbiamente se metti tutto su una bilancia, sarebbe stato meglio fosse morto uno come loro, come i Romaniello e i boss dei Mazzocca. Ma pure i boss hanno famiglie, figli pure piccoli, mogli, gente che magari, nonostante tutto, li ama e che magari, nonostante tutto, loro amano, a modo loro.”

 

“Chiara…”

 

Calogiuri aveva avuto il suo stesso pensiero, come sempre.

 

“Sì, ma non solo. La verità è che… quando prendi in mano una pistola e decidi di usarla contro qualcuno, questo rischio te lo prendi. Quando decidi di fare quel mestiere, se così lo vogliamo chiamare, o anche il nostro mestiere, sai che potrebbe succedere prima o poi. Ma tu lo hai fatto per difesa ed è questo che cambia tutto. Lo dice pure la legge, che vuoi contraddirmi la legge?”

 

Si trovò stritolata tra le braccia di Calogiuri, e piangevano e ridevano, ridevano e piangevano, insieme, perché entrambi sentivano esattamente la stessa cosa, lo stesso dolore, lo stesso rimpianto, la stessa determinazione.

 

E, in fondo a tutto, lo stesso sollievo.

 

Perché anche il peso più grande diventa più sopportabile se sai che c’è qualcuno che ti capisce, fino in fondo.

 

“Ti amo…”

 

Due parole roche all’orecchio, gli occhi di Calogiuri, che si era scostato leggermente, che tornavano a fuoco, nei suoi.

 

“Ti amo… sai… sai sempre come dire la parola giusta al momento giusto. Non lo so come fai, dottoressa.”

 

Un’altra botta di commozione ed autoconsapevolezza.

 

“In realtà… in realtà, almeno sui sentimenti, credo di aver imparato da qualcuno che su questo è sempre stato molto più capace di me.”

 

Calogiuri fece l’espressione da ma chi io? - quanto le era mancata anche quella! - e, prima di potergli ribadire l’ovvio, fu travolta da un bacio in cui c’era tutto quello che, pur essendo migliorata negli anni, grazie a lui, non avrebbe mai saputo esprimere a parole.

 

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“Lo capisco che ha paura, che è nel clan da tanto, che c’è la questione dell’onore, ma che onore c’è in questo?”

 

Stava assistendo all’interrogatorio in carcere dello zio del ragazzo defunto. La cara poliziotta - che, le toccava ammetterlo, era più che abile nel suo lavoro - gli aveva appena sbattuto sotto al naso la foto del cadavere del nipote, più quelle dell’infezione.

 

Una roba da rivoltare lo stomaco quasi persino a lei, che con quelle foto in giro per casa ci era cresciuta, figuriamoci a un parente.

 

Lo zio infatti,  nonostante l’esperienza sul campo, se così la si poteva definire, ebbe un conato e gli occhi gli si fecero lucidi, poi rabbiosi, poi sconfitti.

 

“Mi spiace… non… non doveva andare così. Ma io… non posso parlare, onore o non onore. Se parlo sono morto e tutta la mia famiglia appresso a me.”

 

“Senti, Nicò, parliamoci chiaramente: ti sei già fatto dieci anni per non parlare. Esci e alla prima operazione vera tua e di tuo nipote, non solo ti lasciano indietro, a fartene come minimo altri dieci, ma di tuo nipote se ne sono fregati. Fosse stato uno della cerchia stretta, pensi che non glielo avrebbero trovato un medico, o pure una clinica? Pensi che siete al sicuro così? E suo figlio come cresce? E la tua famiglia come campa per i prossimi dieci anni? Con quel poco di elemosina che vi concedono quelli?”

 

Stavolta c’era andata giù dritta anche lei - del resto non si trattava di una ragazzina con un bimbo, ma di un vecchio con zero prospettive.

 

Il vecchio sospirò, un attimo di incertezza e fu in quel momento che le fu chiaro che aveva abboccato.

 

“Se parlo voglio andare in un bel posto e la protezione non solo per me, ma anche per mia moglie e per mio figlio, che tiene bisogno di finire di studiare, di un lavoro. Anche per mia nipote, la ragazzina - come cavolo si chiama che tiene un nome strano? - e per il bambino. Non sono riuscito ad aiutare mio nipote, ma almeno a lui non ce lo voglio sulla coscienza.”

 

“Tranquillo, penseremo a tutto noi. Ma ci devi dire chi c’era nel commando, a parte quelli che abbiamo preso. E da chi arrivavano gli ordini, soprattutto. Tu eri uno dei più esperti lì in mezzo, di sicuro lo sai.”

 

Che la ragazzina dal nome strano ed il bambino fossero già più che protetti, ovviamente non gli era dato saperlo.

 

E Nicola di Bari cantò, eccome se cantò, fino all’ultima strofa. La poliziotta guardò verso Ranieri che le regalò un sorriso ed uno sguardo di approvazione che le diedero un po’ fastidio, anche se non erano paragonabili a quelli che erano solo suoi. Per fortuna.

 

Il fastidio le passò del tutto quando notò che l’altro poliziotto che li aveva accompagnati, un ometto di mezz’età dall’aria da ragioniere, l’assistente della pin-up, la guardava che in confronto Conti con lei era niente. Persino quasi Calogiuri con Imma. Anche se, come per lei con Conti, era palese quanto il sentimento fosse a senso unico.

 

Provò un moto di imbarazzo e di solidarietà femminile: non era facile gestire situazioni del genere, per niente.

 

Certo, se avesse guardato un po’ meno Ranieri e un po’ più l’assistente, non le sarebbe poi dispiaciuto, anzi.

 

Ma, come avrebbe detto Imma, mica scema!

 

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“E quindi sono tornato a Firenze, deciso a mollarla e… e l’ho trovata con un mio amico. O ex amico. Anzi, forse alla fine mi ha fatto un favore.”

 

Stava andando in cucina per prendere un altro po’ di tè, una mano santa per i residui di nausea, e aveva beccato Calogiuri - che piano piano stava sempre più risorgendo dalle ceneri, per l’ennesima volta - a ritirare la spesa insieme al suo giovane protetto.

 

“E che hai fatto poi?”

 

“Niente. Le ho detto che ero lì per lasciarla, perché l’Arma almeno è fedele nei secoli. Lei no.”

 

Non riuscì a trattenersi dal ridere, insieme a Calogiuri, e così entrambi si voltarono e la videro: beccata!

 

“Scusate, volevo solo prendere un po’ di tè. Me ne vado, proseguite pure con le confidenze tra uomini e-”

 

“Il tè lo porto io però, è un ordine, dottoressa!” intimò Calogiuri, sempre più protettivo, pure nello sfottimento.

 

Una volta non si sarebbe mai permesso di farlo davanti a qualcuno, anche a un sottoposto, ma ormai si era abituato che, non essendo più lei il suo capo, come lo faceva lei, poteva farlo pure lui.

 

E menomale, se no che gusto c’era?

 

“Sìgnorsì! Comunque hai fatto bene: vedrai che qua a Torino trovi la fila. Non seguire proprio del tutto l’esempio del capitano però: anche se non ha passato gli anta va bene uguale.”

 

Si godette il rossore del ragazzotto ed il solito “Imma!” imbarazzatissimo di Calogiuri, prima di sparire in corridoio.

 

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“Siete pronti? Al mio tre: uno, due, tre!”

 

Un boato a lei familiare, anche se distorto da microfoni e altoparlanti.

 

Erano entrati.

 

Non sapeva se guardare con più apprensione la telecamera che mostrava i movimenti di Ranieri e di una brunetta che si era offerta di fare squadra con lui con fin troppo entusiasmo - anche se oggettivamente, tra le alternative, in azione era la migliore - o quella con la pin-up ed un agente il cui forte accento sardo rendeva un poco inutile il passamontagna, visto che non stavano a New York ed in procura erano in quattro gatti. Infine, la squadra con l’amico di Calogiuri, che tutto sommato era meno peggio del previsto in azione, ed un’agente molto sveglia - emiliana o romagnola, si confondeva sempre - ma più abile nelle indagini che con la pistola.

 

“Forza, forza!”

 

Per un attimo guardò Vitali, stupita da tanto vigore, lui che era sempre così mite e posapiano, non solo dalle descrizioni di Calogiuri e di Imma.

 

Però, le toccava ammettere che sull’opportunità di quell’azione, vitale prima del maxiprocesso, era stato decisissimo. Anche in quel momento, aveva una luce negli occhi ed una concentrazione che quasi lo trasformavano.

 

“Libero!”


“Libero!”

 

“Libero!”

 

Mentre le tre squadre bonificavano gli ambienti, all’apprensione di cosa poteva accadere, andava pian piano sostituendosi quella che non sarebbe accaduto nulla. Dopo la testimonianza di Nicola di Bari, erano andati dai capiclan baresi, con un semplice patto: ci confermate chi è il mandante originario e non vi riterremo i responsabili diretti dell’agguato. Nicola si sarebbe preso la responsabilità unica della soffiata, oltre alla protezione, per evitare guerre tra i clan, che ci mancavano solo quelle.

 

Non avevano abbastanza prove per incastrarli tutti, ma abbastanza per dar loro fastidio, lo sapevano, e quindi i capiclan, come sempre molto onorevoli solo a parole, avevano accettato di fare quel nome.

 

Solo che il rischio che lo avessero avvertito c’era, anche attivandosi subito, o che gli informatori materani non avessero detto la verità su dove trovarlo.

 

Anche se quell’alloggio nascosto in mezzo alla città vecchia, tra pozzi, tunnel, viuzze e grotte, era un bunker naturale perfetto.

 

Secondo le carte, e le soffiate, avevano coperto tutte le vie di fuga, ma… ma c’era sempre la possibilità che ce ne fosse un’altra a loro sconosciuta. C’erano agenti baresi appostati tutto intorno - troppo rischioso che fossero materani - ma… ad ogni porta aperta e richiusa, l’adrenalina lasciava spazio alla delusione.

 

Ranieri stava per uscire da un’altra porta, quando lo vide bloccarsi e le venne un colpo.

 

Ma non c’erano spari, no: stava indicando alla brunetta un punto nel pavimento su cui era passato poco prima.

 

Li vide picchiarci sopra e capì che sotto era vuoto. 

 

Avrebbe dato qualsiasi cifra per essere lì con lui, in azione insieme, ma non si poteva. E non solo per il bene di Bianca.

 

Una parte del pavimento si sollevò, rivelando una botola stretta tra il pavimento e il muro, nascosta sotto alle piastrelle.

 

Il rumore dei proiettili fu assordante, le orecchie le rimbombarono quasi quanto il cuore.

 

Vide Ranieri cadere indietro ed avrebbe voluto urlare ma la brunetta, non appena i colpi cessarono, ne sparò a sua volta un paio nella botola ed urlò, “arrenditi, sei circondato!”

 

E, mentre Vitali gridava alle altre squadre di correre lì, ci fu il miracolo. Ranieri tornò seduto, a pistola spianata e non le parve ferito: doveva essere riuscito a schivare tutto, buttandosi a terra.

 

“Butta la pistola ed esci! Sei sotto tiro di più di due persone,” bluffò Ranieri, anche se in effetti vedeva gli altri correre verso quella stanza, “getta la pistola! Non costringerci a spararti. Hai una vita davanti, non la buttare via così.”

 

Erano sopraggiunti anche gli altri ed avevano circondato la botola, che doveva essere senza altra uscita, o Ranieri non avrebbe dato quell’ordine.

 

“Butta la pistola ed esci, non costringerci a sparare, non possiamo entrare finché non la butti, lo sai.”

 

Sentiva urla di risposta ma il rimbombo era troppo forte e non capiva cosa dicessero, artigliò la console con le mani gelate, perché Ranieri era comunque il primo sotto tiro e lo sapeva.

 

“Daniel, ascolta. Vuoi davvero morire così, da solo, come un topo in trappola? Tua nonna è agli arresti. Tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli, stanno tutti in galera. Sei rimasto solo tu. Tra pochi giorni saranno processati e condannati. E chi ti sta aiutando o proteggendo? Nessuno. Il clan è finito, almeno la vostra parte del clan. Arrenditi, prima che invece che noi, ti fa fuori un altro clan o qualche altro amico o parente alla lontana. Lo sai che succede quando c’è un ricambio al potere, no? Cos’è successo ai cugini di tua nonna, ad esempio, ai tempi suoi, o ai suoi fratelli putativi, come li chiama lei.”

 

Se l’era proprio studiata bene la storia del clan Mazzocca. Bravo Lorenzo!

 

C’era un che nella sua voce, che gli riportava alla mente il tono che aveva avuto nel parlare con Scianel o quando lo sentiva telefonare ai suoi figli.

 

“Esci. Questa non è la tua guerra, non deve essere la tua guerra. Esci, sei ancora in tempo.”

 

Un altro urlo, un rumore metallico fortissimo, che le prese un altro accidenti, e Ranieri quasi si tuffò nella botola, sparendo alla vista. La pin-up barese subito dietro, senza esitazioni.

 

Finalmente, le loro teste riemersero, prima quella di lei, poi quella di lui, in fila indiana. In mezzo a loro… un ragazzino.

 

Daniel Mazzocca, l’ultimo nipote della matrona dei Mazzocca ancora in libertà. Minorenne quando era iniziato il maxiprocesso e per quello incensurato. Aveva poco più di diciott’anni anche lui, la stessa età di Scianel.

 

Era stato lui il mandante, anche se sicuramente dietro di lui c’erano i parenti in galera, o quelli del clan di Roma, che navigava in acque migliori. O la stessa nonna che, tra un pizzino e l’altro, si dava da fare pure ai domiciliari, anche se non ne avevano le prove.

 

Quante vite finite ancora prima di iniziare. Quanto spreco.

 

Sarebbe mai finita un giorno? O, tra qualche decina di anni, un altro ragazzino, con un altro cognome, o magari pure con lo stesso, anche se parente alla lontana, si sarebbe trovato nella stessa situazione?

 

Di sicuro, Imma aveva tracciato una strada diversa, nella giusta direzione, insieme a Calogiuri, e la stavano pagando carissima.

 

Come l’avevano pagata carissima la madre di Bianca, Bianca stessa e, in parte, lei.

 

E non potevano fare altro che continuare a combattere sperando che un giorno si sperava non troppo lontano, da lì a qualche generazione, l’avversario non sarebbe più stato un gigante dai mille tentacoli ma un polipetto da estirpare, quando si ripresentava.

 

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Un urlo che ancora un po’ tremavano le pareti dell’appartamento.

 

Imma!

 

E poi qualcosa che sbatteva, fortissimo, a terra.

 

Si precipitò verso il bagno, il sangue che gli si gelava in corpo, notando a malapena l’appuntato toscano che lo seguiva, pistola in pugno.

 

Gli fece giusto un cenno distratto di metterla via, prima che si facesse male qualcuno. Il bagno non aveva neanche le finestre e, purtroppo, lo scenario che gli si prospettava davanti era qualcosa che non poteva essere risolto con nessun’arma.

 

Quante volte le aveva detto di fare attenzione, che rischiava di sentirsi male e cadere, ma niente!

 

Imma era di coccio proprio e si era fatta comprare una tinta perché “c’ho una ricrescita che sembro un panda rosso! Mica mi posso presentare così al processo!” ed era da mo che era sparita in bagno.

 

Maledicendo quella testardaggine, che solitamente tanto amava, e la sua incapacità di rassicurarla su quanto fosse stupenda anche così, col cuore ormai a mille e le mani gelide, aprì la porta e-

 

Un altro urlo, un “che ci fa lui qui?” ed un asciugamano che gli si schiantò in faccia, seguito da un, “chiudi! Chiudi!”

 

Un altro urlo spaventato, stavolta alle sue spalle e, neanche il tempo di levarsi l’asciugamano di dosso - che puzzava pure in modo terribile - e si rese conto che l’altro agente era sparito. Imma, in compenso, era in piedi davanti a lui, in canotta, mutande, un asciugamano sulle spalle ed uno sguardo da omicidio più che volontario.

 

“Pensavo… pensavo fossi caduta… ti ho sentito urlare e-”

 

Non finì nemmeno la frase, non solo perché Imma lo fulminò con un’occhiataccia, ma perché per terra notò un pentolino in metallo, pieno di una specie di poltiglia che si stava allargando sul pavimento.

 

“Ti è caduto? Lo raccolgo io e magari la tinta si può ancora salvare e-”

 

“E no! Magari fosse! Ma che sei, cieco?”

 

“In… in che senso?” balbettò, confuso, e ad Imma uscì un ruggito che rimbombò per tutto il bagno, mentre urlava, indicandosi i capelli, “guardami!”

 

Sentendo che, qualsiasi cosa avesse detto o fatto, sarebbe stata quella sbagliata, la osservò meglio e notò che i capelli erano quasi asciutti - il phon col diffusore stava ancora soffiando accanto al lavandino - e non c’era più la famosa ricrescita castano/grigia che, a dire il vero, un poco gli mancava: era un segno tangibile di quei mesi di gravidanza, un simbolo quasi e poi… e poi Imma era sempre bellissima.

 

“Ah, allora la tinta già l’hai fatta!” enunciò, sforzandosi di accantonare lo spavento ed esserle di supporto con un, “bene! Allora ti aiuto a pulire e-”

 

“Bene! Bene?! Ma che sei daltonico, Calogiù? O mi prendi per il culo?”

 

Una doccia gelata. Che aveva fatto mo?

 

“Questo ti sembra bene?!” gridò Imma, sollevando alcune ciocche di capelli e, mo che le guardava meglio, effettivamente qualcosa di strano, di diverso ci stava.

 

Erano rossi sì, anche se di un rosso diverso, come tutta la testa del resto, ma… ma c’erano anche altri colori, come… del verde e del… rosa?

 

“Sì, è rosa, Calogiù! ROSA!”

 

Imma, a parte avergli letto nel pensiero, non solo continuava a urlare, ma sembrava sull’orlo del pianto.

 

“Imma, non-”

 

“Non dirmi che sono bellissima lo stesso, che te lo tiro dietro sto maledetto henné! Anzi vedi di lavartelo via dalla faccia, prima che ti colori pure a te!”

 

Solo in quel momento si voltò verso lo specchio e notò di avere un po’ di poltiglia sulla faccia, probabilmente trasferita dall’asciugamano: ecco che cosa puzzava così tanto.

 

“Se non devo dirtelo non te lo dico, ma non si nota nemmeno, stai benissimo e-”

 

“E io mi devo presentare ad un’udienza, davanti agli occhi di tutti quegli stronzi e di tutto il mondo, con i capelli rosa e verdi e-”

 

“E vorrà dire che saranno abbinati ai tuoi vestiti,” gli uscì, di getto, ed Imma lo guardò come se fosse indecisa tra l’impulso di strozzarlo e quello di abbracciarlo.

 

Alla fine, per fortuna, la stretta fu dietro al collo e non intorno, il pancione che premeva leggermente nel suo e due baci sul collo.

 

“Mannaggia a te, mannaggia!”

 

“Ti amo anch’io, dottoressa!”

 

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“Dottoressa, una dichiarazione per la stampa?”

 

Sollevò lo sguardo verso il giovane giornalista dal sorriso smagliante e gli occhi gentili, ma non abbastanza per giustificare l’agguato fin dentro in procura, a differenza dei colleghi rimasti fuori a cuocersi sotto il sole di Matera a fine estate.

 

Stava per intimargli di uscire, quando un’ombra da dietro le spalle la superò e vide la pin-up avvicinarsi al giovane con un “che ci fai qui?!” divertito ma anche un po’... imbarazzato? Proprio lei, che al massimo metteva gli altri in imbarazzo, specialmente gli uomini.

 

“Stai bene?” fu l’unica cosa che riuscì a cogliere del mezzo sussurro del ragazzo che, a guardarlo meglio, era proprio bello.

E infatti, nel giro di un secondo, la poliziotta se lo abbracciò.

 

Mica scema! - ribadì la voce di Imma nella sua testa.

 

“Il suo fidanzato,” sottolineò la voce di Lorenzo, all’orecchio, fin troppo sornione.

 

“Io mi preoccuperei più della sua fidanzata, capitano, e che resti tale. Anche perché ti ricordo che Bianca ha passato molto ma molto tempo non solo con Calogiuri, ma anche con Imma, quindi… uomo avvisato…”

 

Tra Lorenzo che si stava strozzando e la coppia che si sfotteva mentre tubava di fronte ai suoi occhi, non avrebbe saputo dire cosa le desse più soddisfazione.

 

Missione compiuta!

 

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“Dai che abbiamo solo due giorni! Se ti chiedo del conflitto di interesse, tu che rispondi?”

 

“La dottoressa Tataranni e il capitano Calogiuri si sono allontanati spontaneamente dalle indagini, anche dopo che è stata, come abbiamo già visto, provata la loro estraneità a qualsiasi illecito o tentativo di corruzione e-”

 

“E prima che si allontanassero? Quando hanno collaborato alle indagini, in pieno conflitto di interessi, viste le parentele della dottoressa Tataranni e l’amicizia del capitano con una delle testimoni chiave, del cui figlio tuttora si occupano?”

 

Irene, dall’altro capo dello schermo, deglutì e sembrò per un attimo in difficoltà. Le faceva un poco strano autoaccusarsi così, ma era anche divertente tartassare la ex gattamorta in quel modo.

 

E poi, per l’appunto, mancavano solo due giorni e non potevano permettersi di sbagliare niente.

 

“Allora…”

 

“Allora, io, fossi in te, piuttosto che rischiare di andarmi ad incartare in questi discorsi, citerei Santoro e lo chiamerei a testimoniare. Quella è la vera corruzione ed il vero conflitto di interessi, di cui abbiamo le prove.”

 

Irene sorrise ed annuì, prendendo appunti sul suo tablet. Decisamente più tecnologica di Calogiuri.

 

In tal proposito, sentì la porta aprirsi e lo vide con un vassoio, bilanciato un po’ a fatica sulla mano sinistra.

 

Gli sorrise ed Irene colse la palla al balzo per chiederle, “che dici? Finiamo qui per stasera? Avremo ancora domani sera, se te la senti dopo il lungo viaggio. E comunque abbiamo coperto credo quasi tutte le obiezioni possibili.”

 

“Quel credo è il problema. Ma va bene, si è fatto tardi e domani per l’appunto ci tocca fare settecento chilometri.”

 

Irene le parve sollevata, l’aveva proprio torchiata per bene - che soddisfazione!

 

Solo che, nel tempo che le ci volle a chiudere la chiamata - la stanza in perfetto silenzio, a parte il respiro di Calogiuri - lo stomaco le si contrasse in una morsa d’ansia.

 

Per il viaggio ed i rischi che comportava, sia per la piccoletta che per il tornare a Roma, per la possibilità di agguati, per l’udienza, per tutto.

 

“Imma…”

 

Si voltò verso Calogiuri, che si era seduto accanto a lei e che aveva capito tutto, come sempre. Il suo sguardo e la mano sulla spalla le diedero un po’ di forza. Ricambiò il gesto, sperando di fare lo stesso per lui.

 

“Un po’ di camomilla?”

 

Quelle quattro parole ed il sorriso mentre le offriva la tazza azzerarono l’ansia, ma la sostituirono con un carico di commozione che altro che morsa!

 

“Calogiù…” riuscì solo a sussurrare, prendendo la ceramica calda e stringendocisi forte.

 

“Se… se penso alla prima volta che… che te ne ho potuta offrire una… quella notte non me la scorderò mai.”

 

Gli sorrise e poi se ne bevve un sorsone, per ridurre il nodo in gola, ma inutilmente.

 

Stavano pensando entrambi alla stessa cosa: l’udienza per il processo a Romaniello, in primo grado, la loro prima notte insieme, anche se senza fare l’amore. A ripassare come i disperati che erano. Lui che, di fronte alla sua ansia, le aveva offerto quella camomilla, la prima di tante, ed era riuscito a tranquillizzarla, come sapeva fare solo lui. Per non parlare poi del miracolo che aveva fatto il giorno dopo, portandole la prova che le serviva.

 

“Doveva essere l’udienza finale e invece… è stato solo l’inizio. E mo, dopo tutti questi anni, grazie ai tempi della giustizia italiana, speriamo lo sia veramente, che ancora un po’ vado in pensione,” le riuscì infine di ironizzare, tra una sorsata e l’altra.

 

“Ma è stato l’inizio anche per noi due…. E… e questo per noi è solo un altro inizio, no?”

 

Eccallà! Altro che ironia! Le si era piantato un altro macigno in gola, nuovo nuovo.

 

D’istinto, mollò la tazza sul comodino, gli prese il viso tra le mani e se lo baciò come si meritava, ignorando il calore della camomilla che doveva essersi sparsa ovunque e il rumore della della tazza di lui che sbatteva da qualche parte.

 

Continuò a baciarlo, ancora e ancora, senza dargli e darsi il tempo di riprendere fiato, fino a trovarsi a cavalcioni su di lui, che l’accarezzava e la stringeva e le baciava il collo, mentre lei gli levava l’ennesima t-shirt macchiata e-

 

“Aspetta!”

 

La voce di Calogiuri era poco più di un rantolo, ma quella parola l’aveva capita benissimo lo stesso ed alzò gli occhi al soffitto, soffiando di frustrazione.

 

Gli riprese il viso tra le mani, rifiutandosi di schiodarsi da lì e trovò quegli occhi quasi neri, tanto erano dilatate le pupille.

 

“Non possiamo e…”

 

“E per una volta che Francesco se lo tiene Maria…. Le analisi sono tutte a posto, il pericolo è rientrato e… non vuoi aiutarmi a rilassarmi, Calogiù? A levare la tensione? A dormire bene bene bene?”

 

Il pomo d’adamo di Calogiuri si sollevò e si riabbassò, una, due, tre volte.

 

“Sei… sei…” esclamò lui, scuotendo il capo, ma con quel sorrisetto che prometteva più che bene e che le era mancato tantissimo

 

Non solo per quello che significava per lei, ma perché voleva dire che Calogiuri stava bene, davvero.

 

“Lo sai che mi piace quando sei di poche parole, Calogiù, ma in questo ambito specifico, solo se alle parole seguono i fatti, tanti fatti, altrimenti… altro che promozione, dovremo rivedere i termini di ingaggio e l’idoneità al servi-”

 

Il -zio si soffocò nella bocca di Calogiuri che, con la mano buona, anzi, buonissima, le sollevava sempre di più la camicia da notte, che le levò la vista per un attimo, prima di trovarsi distesa su un fianco, un “te lo faccio vedere io il servizio!” grugnito sullo sterno che la ricoprì di pelle d’oca, nonostante il caldo asfissiante.

 

“Che si dice così mo?” le riuscì ancora di provocarlo, prima che l’impunito, con un altro dei suoi sorrisetti, sparì dalla sua vista e si trovò con la schiena addosso a muscoli che le erano mancati troppo e che stavano tornando sempre più forti, nonostante l’infortunio.

 

Un braccio la avvolse, intrappolandola, un morsetto tra le scapole e le toccò azzannare pure lei il cuscino, per non svegliare chi doveva assolutamente dormire, almeno fino alla fine del servizio completo e con tutti gli optional immaginabili e possibili, altrimenti non avrebbe risposto di sé.

 

E che cavolo!

 

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“Valentina!”

 

I due della scorta subito le si pararono davanti e le toccò separarli con un “tranquilli, lo conosco!”

 

Frazer.

 

“Mi… mi dispiace… me lo sarei dovuto immaginare della scorta.”

 

“Non si preoccupi. Ma è arrivato presto per il posto migliore?”

 

Frazer fece un mezzo colpo di tosse imbarazzato e si chiese se fosse stata troppo diretta. Ma era abituata così.

 

“Volevo evitare la folla e… in realtà… volevo chiederti se ti andava di sederti vicino a me durante l’udienza, così prendiamo nota insieme, anche per l’articolo.”

 

“Non so se sia una buona idea.”

 

“Ho letto le tue correzioni e controllerò tutto quello che mi hai fatto notare. E il tuo articolo sta venendo proprio bene, soprattutto considerato che non sei una professionista.”

 

Sospirò: una parte di lei, quella cresciuta a pane e paranoia da sua madre, non poteva evitare di chiedersi se non fosse così gentile per un secondo fine lavorativo.

 

Ma, finito quel processo, si sperava che della figlia di Imma Tataranni al mondo giornalistico sarebbe importato ben poco, quindi lo avrebbe scoperto presto, in un modo o nell’altro.

 

“Va bene. Ma non stiamo davanti. Non voglio attirare troppo l’attenzione. E poi ci sono anche loro,” ribadì, indicando la scorta.

 

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“Ma porca miseria!”

 

“Aspetta!”

 

Irene si bloccò, tra un improperio e l’altro - sebbene tutto sommato pacati, come si confaceva alla regina della procura - e si lasciò sistemare la toga, che si era mezza arruffata dietro, tra il caldo e l’agitazione.

 

Si guardarono e ad Irene scappò un sorriso.

 

“Che c’è?”

 

“Chi lo avrebbe mai detto che un giorno proprio tu mi avresti aiutata a rendermi presentabile?”

 

Si morse il labbro per non ricambiare il sorriso. Il punzecchiarsi era parte imprescindibile del loro rapporto, ma già che tra lei e l’ex gattamorta esistesse un rapporto e non solo un perenne conflitto era, effettivamente, una delle cose più inattese non solo del periodo romano ma di tutta la sua vita.

 

“Imma…”

 

Il tono e lo sguardo di Irene erano improvvisamente seri, solenni quasi, e temette che fosse in arrivo un pippone di quelli che avrebbero fatto impallidire Vitali.

 

“Senza retorica, che oggi ne avremo già abbastanza, lo so che ho tra le mani anni e anni del lavoro tuo e di Calogiuri e… anche le vostre vite, o almeno, come saranno nei prossimi anni. E non è un carico leggero, poi ora, soprattutto…” pronunciò, abbassando lo sguardo verso la sua pancia, ben visibile nel vestito verde, indossato sotto la sua amatissima giacca rosa.

 

Aveva seguito il consiglio scherzoso di Calogiuri, fino in fondo, trasformando, per l’ennesima volta, un motivo di potenziale vergogna, in un simbolo di orgoglio.

 

“Intanto il carico pesantiello ce l’ho io qua. Tu stai serena, anzi no, che quella frase porta sfiga.”

 

Risero insieme, stemperando un poco l’atmosfera. Almeno fino a che Irene si mise una mano sul cuore e, in un modo che le ricordò assurdamente Bianca, proclamò un solennissimo:

 

“Non ti deluderò, te lo prometto, Imma.”

 

“Non lo hai mai fatto. Anche perché avevo aspettative talmente basse su di te, che sarebbe stato quasi impossibile.”

 

Irene scosse la testa, con un’altra risata, apprezzando palesemente il suo tentativo di sdrammatizzare, anche se, in fondo, era la pura e semplice verità.

 

Ma la verità era anche che Irene non solo non l’aveva delusa, ma aveva fatto un ottimo lavoro, prendendosi responsabilità che, con la sua situazione familiare, pochi altri si sarebbero sobbarcati, prestigio o non prestigio: c’erano tanti altri processi altrettanto famosi ma molto meno rischiosi.

 

E, come le aveva insegnato un certo ufficiale dell’Arma, riconoscere i meriti degli altri è importante, per loro e per se stessi.

 

Avrebbe dovuto cercare di ricordarsene ogni tanto, anche con la piccola calciatrice, senza replicare in toto il severissimo modello materno, come aveva fatto con Valentì.

 

“Senti, ascoltami bene, perché col cavolo che te lo dico un’altra volta. A parte i problemi di fiducia che abbiamo avuto all’inizio, credo assolutamente ricambiati, e tutti i casini… non ci sono molti colleghi, anzi, molti esseri umani che stimo, lo sai.”

 

“Facciamo prima a dire chi stimi, Imma.”

 

“Ecco, appunto. Ma, anche se non me lo sarei mai aspettata e se qualcuno mi avesse detto che sarebbe finita così, lo avrei spedito a farsi un TSO… la verità è che… ti stimo, Irene. Pure se sei l’opposto mio, o forse proprio perché, anche se non c’azzecchiamo niente io te, il tuo lavoro lo sai e soprattutto lo vuoi fare, e pure molto bene. E per colpa tua, mi è toccato persino, per la prima volta in vita mia, ricredermi in meglio su una persona - che in peggio, quello succede tutti i giorni! - e… non mi fare pentire. E non ti ci abituare troppo!”

 

Irene aveva gli occhi spalancati e lucidi in un modo che sembrava uscita da una fiaba, mannaggia a lei, altro che la principessa Disney!

 

“E insomma, tutto questo papiello per dirti che mi fido che farai bene. Ma, se hai bisogno, sto giusto tre file dietro a te, e con sta pancia, dove vuoi che vado? Che mi ci dovranno estrarre dalla poltroncina e-”

 

Due braccia intorno al collo la zittirono e si trovò abbracciata a Irene, anche se sulla pancia il tocco era leggerissimo, quasi più di quello di Calogiuri, cosa che, considerate le curve e le misure di Irene, voleva dire che doveva essersi quasi ripiegata in una parentesi, per non farle male.

 

Un poco commossa le diede un paio di pacche sulle spalle, finché l’abbraccio si sciolse. Irene si asciugò un paio di lacrime e pure lei.

 

La sentì schiarirsi la voce un paio di volte.

 

“Anche… anche io non sono mai stata così felice di dovermi ricredere su una persona. E adesso… andiamo a far ricredere pure tutto il resto del mondo. Su tante cose.”

 

“Eccallà la retorica! Stai già in modalità arringa, stai!”

 

“Naturalmente.”

 

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“Pronta?”

 

Voltò il capo verso Calogiuri, che le aveva appena sussurrato quella frase, e la guardava preoccupato, dall’alto dei centimetri di differenza. Se a casa ormai ci era abituata, l’assenza dei tacchi, soprattutto calcando i pavimenti del tribunale, le faceva ancora strano.

 

Che non si fa per te, piccolé?

 

Sentì la mano di Calogiuri sulla sua e notò solo in quel momento di essersi istintivamente toccata la pancia. Gli sorrise ed annuì, decisa.

 

Continuando a tenergli la mano, si avviò verso la porta, ne uscirono, fianco a fianco, percorsero il corridoio, circondati dagli agenti del tribunale, ed entrarono in aula.

 

Un’esplosione di voci e di flash, la vista piena di macchie colorate, riuscì a fatica a distinguere le facce familiari nel pubblico.

 

Mariani, vicino a Mancini - le scappò un sorriso, anche se, in teoria, era una cosa normale.

 

Un tuffo al cuore quando incrociò gli occhioni azzurri di Diana, orgogliosa e già commossa - mannaggia a lei! - seduta tra Vitali, in gran spolvero, ed un Capozza leggermente meno impolverato del solito.

 

Un secondo tuffo al vedere altri occhi azzurri, quelli di Pietro e Rosa, lui che faticava a nascondere la preoccupazione, come al suo solito, lei con l’aria di chi sembrava pronta a menare chiunque osasse fare qualcosa di male.

 

Infine, proprio in fondo, con uno sguardo ancora più da omicidio, Valentì con la scorta appresso e… Frazer?

 

Tuttavia, tra i giornalisti presenti, era decisamente il meno peggio. Ci stava pure Zazza, sulla stessa fila ma all’estremo opposto, che le fece un mezzo inchino col capo, un chiaro sfottimento a cui rispose con la sua occhiataccia peggiore.

 

Si posizionarono ai loro posti - per fortuna la pancia fu meno di intralcio del previsto - e videro entrare sia Irene, sia l’ennesimo avvocato che la difesa aveva dovuto cambiare per incompatibilità, sia gli imputati - i pochi liberi e i molti nella gabbia, separati tra chi aveva collaborato e chi no.

 

Incrociò lo sguardo tronfio di Saverio Romaniello ed il sorrisetto di lui le diede un brivido. Uno di quei casi in cui il collaboratore di giustizia era tutto tranne che pentito.

 

Sentì la mano di Calogiuri stringersi di più nella sua - come sempre aveva notato tutto - ma scosse il capo e gli sussurrò un, “non diamogli importanza, Calogiù. Quello che ci serviva da lui lo abbiamo avuto e, dopo oggi, si spera che non avremo più il dispiacere di rivederlo.”

 

Il sorrisetto di Calogiuri invece le diede tutt’altro genere di brivido - specie dopo la performance di due sere prima, che contava di ripetere molto presto, per i festeggiamenti che ci dovevano essere.

 

Non avrebbe accettato un esito diverso, punto e basta.

 

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“E quindi conferma quanto già affermato durante il processo a Milano che, ricordiamo, si è concluso con la condanna di tutti gli imputati?”

 

Erano in collegamento con Melita, che piano piano per fortuna stava migliorando, ma prima avevano mostrato la registrazione della testimonianza di Milano.

 

“Sì, confermo tutto. E non solo mi hanno tolto mio figlio una volta ma… ora, con gli attentati alla dottoressa e al capitano, si sono dovuti nascondere e sono settimane che non lo posso vedere.”

 

“Signorina, non pensa che questa sia soltanto colpa della dottoressa Tataranni e del capitano Calogiuri? Se realmente sono in pericolo - e che con questo pericolo c’entrino i miei assistiti è tutto da dimostrare - non sarebbe stato più responsabile da parte loro affidare suo figlio ad un’altra coppia?”

 

Eccallà, l’unica carta giocabile dalla difesa in quella fase. Cercare di mettere in cattiva luce loro e di creare un contrasto con Melita. E Melita che testimoniava a Roma dopo aver testimoniato a Milano… le riportava alla mente ricordi terribili.

 

Vide Irene pronta e intervenire con un “signor giudice!” ma Melita la precedette, proclamando, decisa, “un’altra coppia? Così stanno in pericolo pure loro? Mio figlio non sarà mai al sicuro finché i clienti suoi non se ne staranno tutti al gabbio!”

 

Il pubblico rumoreggiò, fischiando verso l’avvocato e i suoi tentativi di ribattere che “questa è solo la sua opinione, non supportata da prove!” e le venne da tirare un sospiro di sollievo: brava Melì!

 

Al sollievo, si unì un’inevitabile fitta di senso di colpa, al pensiero di quanto sarebbe stato difficile per loro rinunciare al piccoletto e quanto sarebbe stato complicato per Melita ricostruire un rapporto con lui.

 

Ma Melita se lo meritava, se lo meritava tutto e si ripromise di fare il massimo per aiutarla, anche se le avrebbe fatto malissimo.

 

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“Questo processo è stato inficiato fin da subito da notevolissimi conflitti di interesse. Le indagini sono state condotte prevalentemente dalla dottoressa Tataranni e dal capitano Calogiuri che, nonostante siano stati, a livello ufficiale, estromessi dal caso, di fatto hanno continuato ad interferire. Come dimostrato dal recupero, se così lo possiamo chiamare, del figlio della Russo, dove sono entrati in azione senza averne la competenza e, nel caso della dottoressa, nemmeno le competenze necessarie. Rischiando di mettere in pericolo anche i proprietari dell’abitazione, lo stesso figlio della Russo e-”

 

“Avvocato, i proprietari dell’abitazione erano sotto tiro. Il proprietario era già stato colpito e sanguinava, era sotto minaccia di morte. Erano già in pericolo di vita, grave ed urgente, cosa che ha spinto il capitano e la dottoressa ad intervenire eroicamente, a rischio delle loro vite, visto che chi era di competenza sarebbe arrivato troppo tardi. Cosa dovevano fare? Commettere omissione di soccorso? Soprattutto il capitano che aveva le competenze, come le chiama lei, necessarie per intervenire?”

 

“Che non ci fossero alternative era tutto da verificare e questo conferma solo che il capitano e la dottoressa erano a conoscenza dello sviluppo delle indagini, cosa che non sarebbe dovuta avvenire e-”

 

“E se ne erano a conoscenza era semplicemente perché il dottor Mancini ed io, incaricati del caso, avevamo già compreso che c’era una talpa in procura, che aveva contribuito ad incastrare il capitano. Cosa comprovata, viste le fughe di notizie avvenute anche dopo la loro totale estromissione dalle indagini, prima che riprendessimo i contatti in segreto con la dottoressa e il capitano. Questa talpa oltretutto è stata individuata ed ha anche fatto la soffiata che ha messo in pericolo la vita del figlio della Russo e di coloro che lo avevano comprato da alcuni dei suoi assistiti. Chiedo per questo di far testimoniare il dottor Santoro.”

 

Ebbrava Irene!

 

Aveva sudato freddo per un attimo, ma l'ex gattamorta aveva ascoltato il suo consiglio.

 

Ritrovarsi davanti Santoro, con quell’aria fredda, quello sguardo vuoto, impassibile, fu l’ennesimo brivido di quel giorno. La piccoletta, puntuale come un orologio svizzero, le assestò un calcetto, come quelli che lei avrebbe voluto tirare a quel bastardo, dopo tutto quello che aveva fatto passare a lei e a Calogiuri.

 

Si voltò, d’istinto, verso Mariani, che però aveva un’espressione neutra e guardava a testa alta verso il banco dei testimoni, dove Santoro stava elencando, con il tono di chi ripete la lista della spesa, tutte le informazioni che aveva passato agli imputati e cosa ne aveva ottenuto in cambio.

 

Ebbrava anche Mariani!

 

Alla fine, il modo migliore per ferire i soggetti narcisisti come Santoro, era l’indifferenza più totale.

 

Forse Mariani avrebbe dovuto spiegarlo anche a Mancini che, a dispetto degli anni di esperienza, decisamente non faceva nulla per nascondere che a Santoro, altro che calci gli avrebbe dato. Roba che, in confronto, la rissa con Calogiuri era stata un giochetto amichevole.

 

Uomini!

 

Un altro calcetto di protesta, una stretta di mano preoccupata - Calogiuri ormai percepiva la piccola quasi di più di quanto la percepisse lei - e dovette rimangiarsi l’ultimo pensiero.

 

Perché, al di là della preoccupazione per lei e la calciatrice, nello sguardo di lui c’era solo disgusto misto a compatimento per quello che era diventato Santoro. Niente rabbia, niente rancore.

 

Calogiuri era andato avanti, erano andati avanti, insieme.

 

E le priorità su cui concentrare le loro energie erano ben altre di un uomo che, di fatto, si era condannato da solo ad un’esistenza che di umano non aveva più niente.

 

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“Nome e cognome?”

 

“Scianel Loiacono.”

 

Prevedibilmente, molti dei presenti scoppiarono a ridere.

 

Quando però Irene cominciò a fare le domande a Scianel - che balzava al primo posto nei nomi da non dare mai alla piccola calciatrice, per quanto scassambrella fosse - le risate lasciarono posto ad un silenzio carico di tensione.

 

Scianel era tosta, dignitosa, teneva la testa alta mentre guardava Irene con un’ammirazione che le parve pienamente ricambiata.

 

E giustamente, col rischio che si stava prendendo.

 

“Me l’hanno lasciato morire, peggio di un cane. E mio figlio non avrà nemmeno un ricordo con suo padre! Lo hanno preso per disperazione, lo sapevano che soldi non ne tenevamo, e poi lo hanno lasciato lì a soffrire per giorni. Perché lui santi in paradiso non ne teneva e l’unico che ci stava, stava di nuovo in galera.”

 

A un cenno di Irene, una richiesta di permesso, alla quale Scianel annuì, apparve in aula l’immagine delle condizioni dell’infezione e di quel corpo smagrito.

 

Era un colpo basso, lo sapeva, ad effetto, ma con le giurie funzionava, motivo per il quale era stato scelto di far testimoniare anche Scianel oltre allo zio del ragazzo, che aveva indicato senza esitazione Daniel Mazzocca come il mandante.

 

Raramente aveva sentito un’aula così muta, più di una tomba.

 

Tanto che, come prevedibile, l’avvocato della difesa, sempre più in difficoltà, rinunciò a farle qualsiasi domanda.

 

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“E, infine, chiamo a testimoniare la dottoressa Tataranni.”

 

Per poco non le prese un colpo, a lei, alla piccoletta e pure a Calogiuri, che le stringeva compulsivamente la mano mentre entrambi guardavano con stupore verso Irene, che si era girata verso di loro.

 

Non le aveva detto niente a riguardo. Si chiese a che gioco stesse giocando e se si sarebbe dovuta pentire amaramente di quanto le aveva detto solo qualche ora prima.

 

Ma Irene sorrideva e, a quanto la conosceva, era un sorriso vero, non uno di quelli fintissimi che spesso elargiva a destra e a manca.

 

Con un attenta a te! non verbale, cercando di rassicurare con lo sguardo Calogiuri, gli lasciò la mano, si alzò dalla maledetta poltroncina ed aspettò che quelli seduti dopo Calogiuri liberassero i posti - che lei col cavolo che ci poteva passare altrimenti!

 

Fiera, decisa, camminò fino al banco dei testimoni, col suo pancione sporgente, a sottolineare ogni suo passo al posto dei suoi amati e rimpianti tacchi.

 

Si sedette e, dopo il giuramento di rito, incrociò tra loro le mani, le appoggiò sulla balaustra in legno ed attese, fissando Irene come a ricordarle che faceva ancora in tempo a tornare ad essere la gattamorta, e non figurativamente parlando.

 

“Partiamo da Matera. Ci ricorda com’è iniziato questo caso, dottoressa?”

 

La domanda la prese in contropiede, anche perché sembrava passata un’eternità da allora, almeno due o tre vite, mentre ricordava quel cretino di Nunzio Festa, i rifiuti tossici, i collegamenti con Romaniello e la morte della buonanima di Don Mariano.

 

Eppure era anche per lui, oltre che per tutti i materani, che aveva preso a cuore quel caso, che ci aveva dedicato anima e corpo - lacrime e sangue, come avrebbe drammatizzato Diana - per quattro lunghi anni. Cinque, se li calcolava dal caso Festa e dal primo caso Romaniello.

 

Cinque anni in cui la sua vita si era completamente ribaltata, in modi che non si sarebbe mai neanche lontanamente aspettata. In meglio, grazie all’unica costante che le era sempre rimasta accanto, senza mai abbandonarla - almeno lui! - veramente fedele nei secoli, e che la guardava con occhi commossi ed orgogliosi.


Senza di lui, forse, quel processo non sarebbe mai esistito o si sarebbe chiuso ancor prima di cominciare. Lo avevano portato avanti insieme, nonostante tutti gli ostacoli, i colpi bassi, le minacce e persino gli attentati, facendosi forza a vicenda, suggerendosi le risposte che all’altro mancavano, fino ad arrivare alla verità ed al poterla dimostrare, soprattutto.

 

“Ci racconta delle minacce che ha ricevuto in questi anni? E degli ultimi attentati?”

 

“Tutto è cominciato con una scritta sotto la casa che condividevo con il mio ex marito Pietro e nostra figlia, durante il caso Festa.”


“E che diceva la scritta?”

 

“Se non ricordo male, e di solito non ricordo male, Tatarani Troia Sei Morta. Con una enne sola, eh, su Tataranni, che com’era? Più grande è la scritta, più grande sarà l’errore?”

 

Sentì i presenti ridere, persino Zazza le parve divertito. Pure lui sicuramente se la ricordava quella scritta.

 

Pietro invece aveva un’aria seria, serissima, e pure Valentina. Calogiuri aveva una faccia che, come minimo, stava rimpiangendo il non aver potuto fare di più per lei in quel periodo, visto che non erano niente l’uno per l’altra.

 

Assurdo anche solo a ripensarci.

 

“E poi?”

 

“E poi ricordo che il dottor Vitali, il procuratore capo di Matera, mi propose una scorta. Volendo preservare il più possibile la mia indipendenza e non volendo dare a nessuno la soddisfazione di portarmela via, cercai di convincerlo e di convincermi che la mia ex suocera fosse sufficiente come deterrente.”

 

Altre risate, Vitali che scuoteva il capo, stile, ma chi me l’ha fatto fare a me?

 

“E lo fu?”

 

“Non lo sapremo mai e non solo perché poi io e Pietro ci siamo lasciati - visto che alla fine, negli ultimi mesi si è dovuto rassegnare alla scorta pure lui - ma perché ovviamente non sono passati subito alle maniere forti. Hanno cominciato con la macchina del fango, a seguire ogni mia mossa, pubblica e privata, e cercare di usarle per screditarmi. Sono diventata lo sceriffo di Matera, poi la Pantera di Matera, per la mia relazione con il capitano Calogiuri. Ci hanno tenuti sotto controllo, hanno tentato di ridicolizzarci per anni. Sono arrivati persino a seguire mia figlia in vacanza, a cercare di vendere sue foto private. Poi hanno cercato di incastrare Calogiuri, per gettare fango su di lui e su di me, su quest’indagine, per farci desistere, per rovinarci. Sono arrivati quasi ad uccidere una madre ed una creatura di pochi mesi, pur di farlo. Negli ultimi mesi… hanno assaltato il nostro appartamento a Roma, fermandosi per fortuna alla porta. Ma costringendoci, alla fine, ad abbandonare casa nostra, a nasconderci e ad accettare di avere sempre una scorta appresso. E poi sono arrivati fino in Puglia: quella casa come avete visto sembrava un campo di guerra. Nonostante fosse blindata, sono riusciti a sfondare le finestre: erano un vero e proprio commando con un arsenale in mano. Ho creduto davvero che saremmo morti tutti lì dentro. Calogiuri, io, il piccoletto e… e la piccoletta.” 

 

Fece appena in tempo a toccarsi quasi inconsciamente la pancia che l’avvocato della difesa ebbe l’ardire di intervenire, dopo il lungo silenzio, con un, “signor presidente, tutte queste domande sono inutili, ridondanti, oltre ad essere solo le opinioni e le emozioni, personali e non oggettive, della dottoressa Tataranni. Si sta chiaramente cercando di speculare su una donna incinta, per intenerire la giuria e-”


Intenerire? Intenerire di che? Badi a come parli, avvocato, che sono incinta, mica moribonda, anche se questo non certo per merito dei suoi assistiti!”

 

Ci fu un altro boato, di risate ed esclamazioni di approvazione. Partì pure un applauso, tanto che il giudice dovette sbraitare per far tornare l’ordine in aula, con la minaccia di far sgomberare tutti.

 

Tra gli ultimi a smettere di ridere, ci fu Romaniello, che, quando i loro sguardi si incrociarono, le sorrise in un modo tremendamente inquietante, talmente era pieno di doppi sensi.

 

Lo ignorò e si concentrò su Irene, soddisfatta quasi quanto Calogiuri ed era tutto dire.


“Per l’appunto, ci può descrivere le conseguenze di quest’ultimo agguato, dottoressa?”

 

“A parte le ovvie conseguenze psicologiche, il nuovo trauma per il piccoletto e l’essere dovuti scappare di nuovo, Calogiuri è rimasto ferito per proteggerci. E… e gli è andata bene, ci è andata bene, che non gli abbiano preso un’arteria. Ha da pochissimo riacquistato l’uso del braccio destro. E ovviamente nel mio stato… non è stata una passeggiata di salute, anzi. Ma qua stiamo.”

 

“Esatto. E proprio per questo, dottoressa, in considerazione di tutto quello che ci ha raccontato finora, di tutto quello che ha passato in questi anni, rifarebbe tutto quello che ha fatto dal ritrovamento del cadavere di Nunzio Festa in poi?”


Il “E certo!” le uscì deciso, pieno, senza doverci nemmeno pensare, così come il, “anche se, senza Calogiuri, il capitano Calogiuri, non ce l’avrei mai fatta: lui c’è stato dall’inizio e questo lavoro è tanto suo quanto mio.”

 

Tra Calogiuri che la guardava come se fosse la Madonna ed Irene che annunciava che “non ho altre domande!”, partì un altro inizio di applauso che fece desistere l’avvocato da qualsiasi controinterrogatorio.

 

Da un lato le fece quasi pena, col suo colorito sempre più verdognolo e l’aria di chi invece stava rimpiangendo di non aver scelto un mestiere più tranquillo e sicuro. Tipo lo scalatore di grattacieli a mani nude e senza protezioni.

 

Alla fine era arrivato soltanto all’ultimo e, non per colpa sua, sarebbe stato coinvolto nella Caporetto che, sperava vivamente, sarebbe stata la sentenza, a giudicare le reazioni della giuria. Anche se, fino alla pronuncia della sentenza, non si poteva star tranquilli.

 

Stava, col suo passo marziale, avviandosi verso il suo posto a sedere, quando, inaspettatamente, Irene le fece cenno di aspettare e, prendendola per una mano, la trascinò accanto a sé, al banco dell’accusa.

 

La guardò interrogativa ma Irene si limitò a sorriderle e a chiedere al giudice di poter procedere all’arringa finale.

 

“Se la difesa non ha altre obiezioni…” rispose il presidente e, all’alzata di spalle dell’avvocato, assentì con un, “proceda pure, dottoressa.”

 

“So che vi starete tutti chiedendo, la dottoressa Tataranni in primis, perché io l’abbia trattenuta qui, al mio fianco.”

 

Sì, se lo stava decisamente chiedendo, ma Irene aveva quello sguardo insondabile che le aveva sempre dato sui nervi. Anche se, fino a quel momento, non sembrava averle voluto tirare brutti scherzi con quell’interrogatorio improvvisato, anzi.

 

Probabilmente non gliel’aveva detto prima affinché le sue reazioni fossero più spontanee e mannaggia a lei se ci era riuscita! Ma si era presa un enorme rischio.


D’altro canto, però, era stato anche un enorme attestato di fiducia.

 

“Se ho voluto che fosse qui, accanto a me, non è per speculare su una donna incinta, intenerire qualcuno o fare pietismo. Come avete visto e sentito, la dottoressa Tataranni sa benissimo parlare per se stessa. Avrebbe dovuto poterlo fare di più. Avrebbe dovuto esserci lei qui, al mio posto, non solo in quest’udienza, ma in questo processo. Lo avrebbe meritato, per tutti i sacrifici e per tutto il lavoro che ha fatto, per anni ed anni, per ripulire non solo Matera, la sua città, ma anche Roma e non solo. Ha cercato in ogni modo di sradicare e di fare luce su quei legami, su quella rete di collusioni silenziose che soffoca il nostro paese, da nord a sud. Ha osato scoperchiare il vaso di Pandora, prendendosene tutte le conseguenze. Ha resistito e ha continuato a combattere, nonostante tutti gli attacchi ricevuti, anche quando ha dovuto rinunciare a guidare questo processo, perché potesse proseguire ed arrivare a sentenza. La ringrazio per la fiducia che ha dato a me e a tutti i colleghi della procura di Roma, e per tutta la collaborazione ed il supporto che ci ha dato, insieme al capitano Calogiuri, in questi anni, resistendo alle ingiurie, alle minacce ricevute, alle intrusioni nella sua vita privata. Al trovarsi derisa, umiliata, coinvolta in una caccia alle streghe prima e in una caccia all’uomo, anzi all’uomo, alla donna e ai bambini poi. Adesso è qui, e sì, è incinta, perché, nonostante tutto, è andata avanti, a testa alta, a vivere come riteneva più giusto. E perché, evidentemente, continua ancora a credere che questo possa diventare un paese, un mondo migliore, dove far nascere dei figli. E questa fiducia che la dottoressa Tataranni ha riposto nella giustizia, nonostante tutto quello che subito, anche da persone che avrebbero dovuto incarnarla, è la stessa fiducia che io e la dottoressa diamo a questa corte di fare la cosa giusta. Di affermare chiaramente, con fermezza e senza remore che non permetteremo più a persone come Saverio ed Eugenio Romaniello, come il clan dei Mazzocca e tutti i loro affiliati, di tenere sotto scacco le nostre città, le nostre vite, la nostra salute e la nostra libertà. Che la legge è uguale per tutti e che chi sbaglia paga, indipendentemente dal reddito, dalle conoscenze, dalla carica che ricopre, dal cognome. Che non sempre vince chi è più potente, chi sa fare la voce grossa, chi intimidisce. Che per una volta Davide ha sconfitto Golia, anche se Davide è una donna sulla quarantina dai gusti molto discutibili in fatto di abbigliamento, ma con un coraggio da leone e una tenacia infinita.”

 

Alla mezza risata in aula, che interruppe il silenzio nel quale la collega aveva rapito tutti, che neanche il flautista di Hamelin, le risultò difficile capire se fosse più la voglia di abbracciare Irene o quella di ucciderla.

 

Di solito le succedeva solo con Calogiuri, quindi la ex gattamorta avrebbe dovuto sentirsi onorata di tale pensiero. Era brava, al di là dell’immancabile retorica, non c’era che dire, sapeva come raccontare una storia, in quel caso la sua storia, e farla suonare mille volte più epica di quanto fosse in realtà.

 

“Non solo: tutti noi possiamo e dobbiamo essere Davide, perché solo così avremo uno stato più giusto, una giustizia che sa ascoltare, che sa anche ammettere i propri errori e rimediarvi, invece di rendersene complice, anche solo tacitamente, per noncuranza, per sciatteria, per paura, per ignavia. Per tutti i cittadini, non solo per chi è nato con una camicia di lino ben stirata e per questo crede ancora di vivere in una monarchia, anzi, al tempo dei feudatari. Dimostriamo che la Res Pubblica è patrimonio di ognuno di noi, da tutelare e da difendere, con le unghie e con i denti, finché sarà necessario. E che lo faremo, per primi noi che abbiamo l’onore di rappresentarla in questa sede. Grazie.”

 

Il silenzio era tale che si sentivano pure gli scricchiolii nel legno e poi un altro boato, il giudice che ancora un po’ diventava afono per riportare la calma.

 

Si voltò ed incrociò gli occhi di Calogiuri, sorridenti e fieri, ancor più di sempre, e poi cercò quelli di Irene, che però guardava dritto davanti a sé, come se non percepisse nulla.

 

E così fu finché, in un tempo che sembrò dilatarsi all’infinito, l’avvocato della difesa balbettò in qualche modo la sua di arringa finale, che suonava di fatto come una resa. I soliti appelli alla presunzione di innocenza e ad eventuali irregolarità nelle indagini e nelle procedure. Altro non gli era rimasto a cui aggrapparsi.

 

Solo allora, emessa l’ultima sillaba, al suo “concludo” un po’ scorato, Irene finalmente la guardò e le sorrise, sembrando improvvisamente ringiovanita di almeno dieci anni.

 

Tanto che non le parve neppure strano quando la abbracciò in un modo decisamente più adatto a Diana - persino alla Diana del liceo, forse - che all’algida regina della Città delle Nebbie, e che si trovò pure a ricambiare in un modo poco consono alla Giudice della Città dei Sassi.

 

Tutta colpa tua, piccolé, tua e degli ormoni, mannaggia a te!

 

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“Ci siamo!”

 

“La camera di consiglio pochissimo è durata…” sussurrò a Calogiuri che annuì, in apprensione come lei.

 

Ma poteva, anzi, doveva essere un buon segno.

 

Non capendo più chi stringesse a morsa la mano di chi - altro che l’aereo! - lasciarono l’aula privata assegnata a loro e alla scorta e tornarono ai loro posti, in mezzo al mormorio della gente e a tutte quelle facce familiari. La tensione era altissima, elettrica e, all’ingresso del giudice, il silenzio si fece tombale.

 

“In base agli articoli 416- bis, 575, 318, 317, 612, 605…”

 

Ad ogni articolo che si aggiungeva: associazione di stampo mafioso, omicidio, corruzione, concussione, minacce, sequestro di persona, in una specie di litania, il battito accelerava e quella pressione nel petto cresceva sempre di più.

 

“... e all’articolo 610 e 629 del codice penale, si condanna l’imputato Romaniello Eugenio alla pena dell’ergastolo-”

 

Bastò quella parola perché il boato scoppiasse, non solo in aula ma anche nel suo petto.

 

Ormai quasi non sentiva più la mano, né dove finissero le dita di Calogiuri ed iniziassero le sue, mentre il presidente continuava a leggere, confermando l’ergastolo anche per la matrona dei Mazzocca e tutto il clan principale. L’avvocato Villari, Mancuso e Giuliani si erano presi vent’anni. Coraini avrebbe avuto un processo a parte ma da quello si portava a casa dieci anni di galera, così come Santoro. Daniel Mazzocca, in virtù della giovane età e dell’assenza di precedenti, solo 15 anni, che presumibilmente si sarebbero ridotti. Chi aveva collaborato aveva avuto notevoli sconti di pena, tipo Saverio Romaniello che, partendo già da una condanna di trent’anni per l’omicidio di Vaccaro, si era visto infine ridurre la pena complessiva ad anni 20, in virtù della collaborazione e della buona condotta.

 

Che avrebbe passato in qualche località segreta e moderatamente lussuosa in giro per l’Italia, circondato da tutte le comodità.

 

“E infine, si condanna l’imputato Latronico Angelo alla pena di anni dieci.”

 

Un tuffo al cuore e allo stomaco a quel cognome che avrebbe potuto essere il suo.

 

Una testa si mosse in mezzo a tutte le altre, nella gabbia riservata a chi aveva collaborato.

 

E fu solo allora che lo vide, per la prima volta dopo anni. Era quasi sempre mancato alle udienze, adducendo motivi di salute e, avendo già confessato, non gli dovevano essere state mosse obiezioni.

 

Era sempre stata convinta che le motivazioni di salute fossero una scusa per non incontrare i suoi ex assistiti - e forse lei - ma era talmente invecchiato e smagrito che non lo aveva riconosciuto.

 

I loro occhi si incrociarono per un attimo, quegli occhi azzurri, tali quali a quelli di Cenzino che, nella foto sulla tomba, pareva quasi più giovane di lui.

 

Li vide abbassarsi, fino alla pancia che, d’impulso, coprì con una mano, mentre la piccoletta cominciò a scalciare.

 

La mano di Calogiuri sulla sua, e vide benissimo l’occhiataccia che lanciò ad Angelo. Che però si limitò a fare un cenno col capo, come un saluto.

 

Era rimasta talmente scossa da quella brevissima interazione che l’esplosione di urla, grida, pianti e risate la colse completamente di sorpresa.

 

Il giudice aveva finito e si era scatenato il finimondo, tra chi esultava, chi imprecava, chi si disperava, chi si abbracciava, i flash e le urla dei giornalisti che già cercavano di accaparrarsi una dichiarazione.

 

Si guardò con Calogiuri, le mani ancora unite per calmare la loro piccola calciatrice, che però si era fermata, come se avesse percepito anche lei la surrealtà di quel momento.

 

Anni ed anni ad aspettarlo, ad attendere quella sentenza, la parola fine e… e quasi non si era accorta di quando era stata pronunciata.

 

Ma Calogiuri sorrise e al suo “ce l’hai fatta, dottoressa!” fu come se tutto diventasse improvvisamente reale, tangibile, ed un’ondata di commozione la travolse ancora prima dell’abbraccio di Calogiuri. Di quell’abbraccio dove, come sempre, si sentiva in pace con se stessa, con il mondo. Capace di conquistarlo il mondo, insieme a lui.

 

E forse, almeno per quel giorno, c’erano riusciti davvero.

 

“Ce l’abbiamo fatta, Calogiù. Ce l’abbiamo fatta. Quante volte te lo dovrò ripetere, prima che ti entri in testa?” ribadì, proprio come dopo la prima condanna a Romaniello, ormai più di quattro anni prima, “senza di te… probabilmente non sarei neanche arrivata a far condannare Romaniello a Matera, quindi-”

 

“E io senza di te, probabilmente a quest’ora starei a Grottaminarda a raccogliere le olive, quindi non c’è paragone.”

 

“Ah no, effettivamente mo ti ritrovi senza ulivi, con una fidanzata un poco meno tossica ma con molti anni in più, ed una piccola calciatrice che forse ti farà rimpiangere il silenzio delle campagne avellinesi.”

 

Il calcetto di protesta, netto, deciso, tra le loro due pance, li prese di sorpresa e scoppiarono a ridere, stringendosi ancora più forte per un attimo, prima di cercare di calmarla.

 

Più permalosa di lei e di Valentina messe insieme! Andavano proprio bene!

 

In quel momento, sentì una mano sulla spalla ed era Irene, accompagnata dal suo Ranieri, da Mariani e da Mancini.

 

Gli abbracci con i primi tre furono assai facili, con il procuratore capo si limitarono ad un paio di pacche sulle spalle. Quantomeno tra lui e Calogiuri non sembrava esserci più tensione, solo l’imbarazzo residuo dato dai tragicomici eventi passati.

 

“La nostra procura perde due grandi elementi, dottoressa, capitano.”

 

Quelle parole erano sincere - tanto quelle rivolte a lei, quanto quelle verso Calogiuri - e quella era un’altra grandissima vittoria.

 

“Almeno non per morte in servizio, dottore, che c’è stato più di un rischio qua,” ironizzò, per sdrammatizzare, godendosi l’imbarazzo e lo stupore di Mancini e di Mariani.

 

Calogiuri invece, che la conosceva perfettamente, si limitò a quello sguardo da ma come devo fare con te?

 

La marea umana cominciò a muoversi, a spostarsi, come un fiume che scorreva verso l’uscita dall’aula.

 

Riuscì ad intercettare con lo sguardo sia Rosa e Pietro, che Diana - che stava in una valle di lacrime - con Capozza e Vitali. Il procuratore capo le sembrò ringiovanito di dieci anni, ma pure di venti, per quanto era ringalluzzito. Fece loro cenno che si sarebbero incontrati dopo.

 

L’incubo era finito, finalmente, e anche l’isolamento dalle persone care avrebbe potuto allentarsi per poi sparire. Così come la scorta - o almeno ci sperava di non dover crescere la piccoletta con tutti loro appresso.

 

E, in tal proposito, cercò pure Valentina, ma i giornalisti ormai erano tutti ammucchiati e non le riuscì di trovarla. Sperò che quelli della sua di scorta avessero fatto il loro lavoro.

 

Incanalati nel fiume di gente, vide che, per fortuna, i giornalisti si stavano accalcando di più su Irene e su Mancini. Qualcuno però puntava verso di lei. Prima che venissero loro strane idee, approfittando della confusione e della folla, riuscì a sgattaiolare via lateralmente, verso l’uscita secondaria riservata ai togati. I due agenti di guardia la riconobbero e la fecero passare.

 

Prese l’aria a pieni polmoni, dopo l’assalto, e in quel momento realizzò due cose: che la porta si era richiusa alle sue spalle, senza che Calogiuri o quelli della scorta apparissero dalla soglia. Forse erano rimasti bloccati tra la gente.

 

E che la piccola calciatrice aveva ripreso a muoversi, proprio sulla sua vescica, che ormai, tra uno schiacciamento e l’altro, stava per cedere.

 

Prese il cellulare e mandò un messaggio a Calogiuri con scritto:

 

Vado in bagno, ci troviamo nella nostra aula?

 

Guardandosi intorno nel corridoio deserto, cominciò a camminare verso il bagno più vicino.

 

Le parve incredibile essere sola, dopo tutti quei mesi sotto scorta. Mentre camminava e i suoi passi si disperdevano tra il suono di mille altri, il brusio della gente si allontanò sempre di più. Si godette quel momento, quei metri di libertà, neanche stesse percorrendo il corridoio di uno di quei meravigliosi templi del Giappone e non un edificio che aveva decisamente visto tempi migliori.

 

Raggiunse il bagno delle donne, aprì la porta e per fortuna non c’era nessuno. Non solo per il famoso soffitto di cristallo che affligge i tribunali così come molte altre occupazioni prestigiose, ma perché stavano probabilmente ancora tutti bloccati fuori dall’aula.

 

Si infilò in uno dei bugigattoli, riuscendo a compiere la missione pure mentre la piccoletta ancora un poco le capriole faceva da quanto si muoveva - se pure il non riuscire a stare mai ferma lo aveva preso da lei, li aspettavano anni molto interessanti!

 

Tirò lo sciacquone e, finalmente libera, in tutti i sensi, riaprì la porta di quel cubicolo, riuscì in qualche modo ad infilare il suo pancione nel poco spazio lasciato libero per uscire, tirando un sospiro di sollievo nel rivedere il lavabo e-

 

Il respiro le venne mozzato da una mano che le tappava la bocca, mentre un’altra le premeva sul collo, riducendo ancor di più quella poca aria che stava disperatamente prendendo dal naso.

 

Il gelo nel cuore e fin dentro le ossa, mentre l’istinto le diceva di provare a mordere quelle dita sottili, nervose, di scalciare, di cercare di liberarsi. Ma altri calci ed un singhiozzo che non era il suo, dentro alla pancia, la paralizzarono.

 

Giusto il tempo di riconoscere a chi appartenevano quelle mani, quell’odore nauseante.

 

“Buonasera, dottoressa. Che piacere rivederla così da vicino! Spero di esserle mancato quanto lei è mancata a me!”



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo capitolo e del maxiprocesso anche se… non siamo ancora alla fine, anzi. Imma è in pericolo come mai prima d’ora ed il prossimo capitolo sarà pieno di azione, momenti drammatici e tensione. Ovviamente, come sempre, rassicuro tutti che questa storia avrà il lieto fine, alla fine, ma… nel frattempo ci attendono ancora alcuni grossi ostacoli, insieme a diversi momenti belli.

Spero che il capitolo di oggi nella parte processuale non sia risultato noioso e sia valso l’attesa. In ogni caso, vi sarò davvero grata se vorrete farmi sapere che ne pensate. Le vostre recensioni, oltre a darmi un’enorme carica, sono preziosissime per sapere come sta andando la storia.

Un grazie enorme a chi ha messo questa storia nei preferiti e nelle seguite.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 18 febbraio. Purtroppo però questo è un periodo un po’ particolare per me, oltre che pieno di impegni e scadenze, quindi in caso di ritardo ve lo farò sapere sulla pagina autrice.

Grazie di cuore!

 
   
 
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