Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: Puffardella    09/02/2023    0 recensioni
Roma, una delle città più belle del mondo. Roma Caput Mundi, città artistica e storica, che si affaccia sul mare e dove splende quasi sempre il sole. Ma Roma non è solo questo. Roma è anche la città delle borgate, nelle quali povertà e delinquenza hanno sempre camminato a braccetto. È in questo contesto che si muove il protagonista di questa storia: Fabio. Costretto fin da adolescente a prendersi cura di se stesso e di sua madre, Fabio non vede altre soluzioni che quella di delinquere. Diventerà ospite abitudinario delle carceri romane, ma è proprio qui che la sua vita avrà un’incredibile svolta grazie all’incontro con una persona eccezionale, che si dedicherà a lui come il padre che non ha mai avuto...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Col tempo imparai ad apprezzare quel vecchio scontroso. Moltissime erano le cose che avevamo in comune. L’amore per il mare in inverno, ad esempio, o l’attrazione per la notte, con il suo profumo inconfondibile, quando tutto tace e tu sei finalmente libero di dare voce al tuo malessere interiore e ascoltare te stesso. Il silenzio, la privacy, lo stormire delle foglie nei giorni di vento, il freddo…
Inoltre, entrambi eravamo stati dimenticati dalle rispettive famiglie, ed entrambi ce ne facevamo una colpa. Questo pesava sulle nostre coscienze come un macigno, anche se non lo avremmo mai confessato apertamente. Del resto, non ce n’era bisogno. Lo sconforto lo leggevamo nei nostri occhi nei giorni in cui tutti gli altri ricevevano visite. Allora succedeva che, mentre vedevamo sfilare dinanzi a noi i detenuti fortunati, raggianti e ciarlieri come mai, ci chiudevamo in un silenzio carico di parole.
C’erano però anche delle sostanziali differenze, tra di noi. Cose sulle quali eravamo in disaccordo. I libri, tanto per dirne una. Geppetto passava la maggior parte del tempo a leggere, e la cosa mi faceva arricciare il naso.
Un giorno, mentre era assorto in una delle sue letture, sbuffai disgustato. Lui chiuse il libro tenendo il segno con un dito, abbassò gli occhialetti sul naso e disse, in tono sarcastico: «I somari ragliano con più dignità…»
«Alla faccia di quello che non ama gli insulti…» brontolai.
«Non era un insulto, ma una constatazione. E, secondo un diverso punto di vista, perfino un complimento…»
«Che complimento sarebbe essere paragonato a un somaro?»
«Era un complimento per il somaro...» precisò incolore, tornando ad interessarsi al suo libro.
«Grazie mille, Geppetto» gli restituii l’apprezzamento, enfatizzando particolarmente sul nomignolo, sapendo di fargli cosa poco gradita. Lui, infatti, chiuse il libro con un colpo secco, restò un istante a fissarmi con aria contrariata e poi, contro ogni previsione, proruppe in una sonora risata. Che mi rinfrancò non poco. Avevo infatti temuto di ricevere una randellata sulle gengive. Geppetto scoppiò quindi in una fragorosa, lunga risata, scosse il capo asciugandosi le lacrime e si alzò dalla branda per mettersi di fronte a me.
«Lo hai mai letto almeno, il libro? Quello di Pinocchio, intendo…» mi chiese.
«Perché, c’hanno fatto pure un libro?»
«Come immaginavo… Cosa sei, il classico ribelle incompreso con una famiglia disfunzionale e la licenza delle medie concessa per grazia ricevuta?»
Gli scoccai un’occhiataccia e risposi, glaciale: «E tu chi sei, uno di quegli psicanalisti falliti che per la frustrazione fanno fuori le famiglie?»
«Famiglie? Naaa, solo i compagni di cella…»
Mi sollevai sui gomiti. «Sei uno strizzacervelli?» cercai conferma, incuriosito. Erano due anni che condividevamo tutto, e ancora ignoravo la sua vera identità.
«Ho l’aria di uno psicologo?» chiese strafottente.
Feci spallucce. «Hai l’aria di uno che potrebbe essere un sacco di cose…»
«Questo è perché leggo molto. Leggere significa conoscere le cose, e conoscere le cose arricchisce, rende persone migliori, persone di spessore… Tu che persona speravi di diventare, prima di darti al crimine?»
«Non credo di avere mai avuto molte scelte al riguardo, perciò che importanza ha chi avrei voluto essere…»
«Balle. Tutti noi possiamo scegliere di essere migliori, se lo vogliamo davvero. Dubito altamente che tu sognassi di diventare un rapinatore e di passare gli anni migliori della tua vita in un carcere insieme ad un vecchio noioso con l’aria da Geppetto.»
«Già, peccato che ormai sia andata.»
«Andata?» fece lui. La sua voce si era riempita di biasimo. «Quanti anni hai, moccioso?»
«Ventitré» risposi perplesso, sorpreso dalla sua reazione.
«Quando uscirai da questa fogna ne avrai ventotto, e a ventotto anni la vita è appena iniziata. Hai cinque anni per darti da fare, e sperare di poter condurre il resto della tua esistenza in maniera dignitosa, lontano dai guai.»
Balzai a sedere, punto sul vivo. «Cos’è, ti va di sfottere? Come cazzo potrei darmi da fare, qui dentro?»
«Modera il linguaggio, ragazzino. Ho chiuso un occhio quando mi hai chiamato Geppetto, non sfidare la buona sorte…» mi rimproverò tutt’altro che amichevolmente. Poi distese i lineamenti del volto e, dopo aver sospirato, continuò con la predica.
«Vuoi sapere cosa facevo prima di essere arrestato?» Quella domanda mi colse alla sprovvista. Annuii, trattenendo il fiato. Geppetto intensificò lo sguardo. Posò il libro sul tavolo, si tolse gli occhiali, li poggiò con delicatezza sopra il libro e tornò a guardarmi, con fare solenne.
«Ero un poliziotto» confessò, con la voce incrinata. Quella affermazione mi investì come un tir impazzito coi freni andati. Tra tutte le possibili identità che gli erano state affibbiate, quella era in assoluto la più insospettabile. La mia espressione incredula non passò inosservata, perché annuì gravemente, fece una smorfia e disse: «Già. Incredibile, non trovi?»
Ero troppo scioccato per rispondergli, perciò rimasi in silenzio.
«Un maledetto poliziotto con uno stipendio da fame, una moglie malata, una bambina da crescere… Eppure non era quello che avevo sognato di fare da ragazzo. Io volevo diventare un giornalista. Un giornalista con la G maiuscola, uno di quelli tosti, scomodi, capaci di far tremare i cattivi con fastidiose inchieste… Ci penso spesso, sai, alla piega che avrebbe potuto prendere la mia vita se avessi avuto l’opportunità di diventare un reporter. Sai perché sono stato costretto a mettere da parte le mie aspirazioni e mi sono arruolato?»
Scossi il capo debolmente, anche se la risposta mi sembrava ovvia.
«Gli studi... Non mi fu possibile proseguire oltre la terza media. Mio padre era un operaio, mia madre una bidella, cinque bocche da sfamare, l’affitto da pagare, poche entrate, bla bla bla bla…»
«Questo dimostra solo che ho ragione» lo interruppi con disappunto.
«Questo dimostra solo che continui a ragliare senza dignità. Credi che io abbia passato questi ultimi dodici anni a rigirarmi i pollici e a piangermi addosso? No, che non l’ho fatto. Mi sono preso la mia rivincita. E quel maledetto diploma l’ho preso proprio qui dentro, chiuso in questa gabbia! Mi sono diplomato in lettere, e non è detto che io non mi iscriva all’università, prima o poi.»
Avevo sentito parlare dei corsi per i detenuti che venivano organizzati con lo scopo di prepararli agli esami di stato, che venivano dati nel carcere di Rebibbia, ma non ne vedevo l’utilità. Risi con amarezza. «E cosa diavolo te ne fai di un diploma, qui dentro?» contestai.
«Te lo dico io, cosa me ne faccio di un diploma qui dentro. Averlo preso mi ha fatto guadagnare la stima di me stesso. La mia e quella degli altri. Molti dei carcerati non sanno scrivere una lettera di senso compiuto, e ancora meno comprendere il contenuto di documenti che li riguarda. Gli avvocati, come tutti i vari dottori dei miei stivali, amano fare sfoggio della loro cultura, conquistata dopo anni di studi universitari. Poco conta che i destinatari di tali impeccabili gioiellini letterari siano persone che sanno a malapena far di conto. L’arroganza, si sa, risiede nel seno degli stupidi... Hai visto l’andirivieni che c’è in questa cella, no? Le persone che vengono qui non vengono a fare due chiacchiere sul tempo. Vengono a chiedermi di decifrargli quegli stramaledetti documenti. Questo fatto, da solo, mi riempie di onore. Tuttavia hai ragione: il valore del mio diploma è prettamente simbolico, non mi frutta certo guadagni in moneta. Ma vorrei che tu riflettessi su questo, caro il mio somaro ragliante: quanta gente istruita finisce in carcere? Poca. Oh, ce n’è, non dico di no, ed è anche vero che dovrebbe essercene molta di più, ma questo non cambia una realtà assoluta: in carcere ci finiscono soprattutto i disperati, quelli che si sono arresi alla tirannia della vita in partenza, che non hanno avuto nessuna opportunità o che, semplicemente, non hanno voluto raccoglierla. In genere, la disperazione va a braccetto con la povertà, e la povertà con l’ignoranza. Perciò, Fabio Costantini, ora ti rifarò la stessa domanda: chi avresti voluto essere? Perché hai cinque anni per trarre qualcosa di buono da questa fogna, darti da fare, diplomarti, uscire da qui e dare qualità alla tua finora mediocre esistenza.»
Ripenso sempre con infinita riconoscenza a quel giorno, il giorno in cui uno “scarto di società” mi incoraggiò a dare valore a me stesso. Sono molti i motivi per cui mi sento in debito con Geppetto. Il fatto che io sia riuscito a diplomarmi in carcere è indubbiamente il primo.


Sette anni sono lunghi, soprattutto se sei costretto a passarli chiuso in uno spazio ristretto. Sono fermamente convinto che l’affermazione secondo la quale non basti una vita a conoscere del tutto il proprio partner enunci il vero. Eppure, un sistema per conoscersi a fondo e in molto meno tempo esiste.
Vuoi  sapere tutto, ma proprio tutto di una persona? Chiuditi con lei in una cella di tre metri per due, e poi butta via la chiave.
È la verità. Quando sei obbligato a stare a stretto contatto con qualcuno, finisce che impari a conoscerlo intimamente. Per quanto uno possa essere una persona riservata, il tempo a disposizione e la noia contribuiscono a far riemergere i ricordi e, spesso, a condividerli col tuo compagno.
Di me non è che avessi molto da raccontare. La mia breve vita era andata avanti più o meno sempre nello stesso modo, in maniera piuttosto lineare, tra le grida di un padre sempre ubriaco e quelle della strada, poche ragazze, tanta birra, pochi soldi, tante umiliazioni… E poi l’avvio alla criminalità, il primo arresto, le carceri… Ecco, la mia vita era tutta qui, si riassumeva con poche parole.
Geppetto non amava parlare del motivo per cui si era ritrovato all’improvviso dall’altra parte della barricata. Faceva trapelare qualcosa da brevi affermazioni, che però restavano alquanto brevi. La moglie malata di cancro, l’opportunità di portarla da specialisti in America e di farla operare con buone possibilità di riuscita, e il conto in banca che, invece, non concedeva nessuna speranza. E lui, l’opportunità, se l’era creata lo stesso. O almeno ci aveva provato. In quale modo, però, era un argomento impossibile da affrontare.
Venti anni si era beccato. Per cosa, rimaneva un mistero.
In compenso parlava molto del paese dove era nato e cresciuto, dove si era sposato, dove sua figlia era nata e continuava a vivere, insieme alla madre: Genzio, un piccolo abitato marchigiano di poche centinaia di anime, arroccato su un altopiano che si affaccia sull’Adriatico.
Geppetto aveva un’abilità descrittiva sorprendente per cui, ogni volta che parlava della sua terra, riusciva a trasportarmi nei luoghi dei suoi racconti, a farmi sentire il profumo di salsedine e delle piante fiorite, il vento che soffiava dal mare e che sferzava il viso con forza nei giorni di bufera, con gentilezza in quelli di tregua.
Aveva la capacità di farmi vivere le stesse emozioni provate da lui nella sua fanciullezza alle feste del paese, soprattutto quelle che si svolgevano di notte intorno ai fuochi durante le sagre del vino, dove i racconti dei vecchi riempivano di mostri e fantasmi le teste dei più piccoli, i quali, inevitabilmente, passavano dallo stato di eccitazione a quello di terrore quando arrivava per loro il momento di mettersi a letto.
Ridevo con lui quando parlava della stravaganza dei suoi concittadini, che imparai a conoscere per nome uno per uno, e mi commuovevo fino alle lacrime quando si faceva prendere dallo sconforto della nostalgia e troncava di netto il suo raccontare.
La sua famiglia, invece, era un argomento che preferiva non toccare. Li aveva delusi, e loro lo avevano abbandonato. Non c’era molto altro da dire. Poi, un giorno, inaspettatamente, tre anni prima della mia ritrovata libertà, ricevette la visita della figlia.
Ricordo che lo invidiai, per quello.
Tornò in cella dopo pochi minuti. Aveva un aspetto orribile. Era pallido, stravolto. Teneva tra le dita una foto, se la tenne stretta per tutto il giorno. Non disse nulla, né io gli chiesi nulla. Ci sono dei momenti in cui le parole servono solo a fare stare peggio.
Il giorno dopo appese la foto al muro sopra la sua brandina. Raffigurava una giovane ragazza sorridente. Una montagna di vaporosi capelli biondi incorniciavano un ovale perfetto, le labbra carnose piegate in un candido sorriso. Eccola lì, la figlia che custodiva gelosamente nel fondo del suo cuore. La trovai terribilmente bella. Troppo, per essere esposta agli occhi di uomini costretti ad una forzata astinenza.
I primi tempi evitavo di alzare lo sguardo su di lei, per paura che Geppetto riuscisse a leggere dentro i miei occhi il turbamento che quella splendida ragazza appesa al muro provocava nel mio intimo, procurandogli così altro dispiacere. La evitavo, così come lui evitava di spiegarmi il motivo del suo dolore. Per giorni si chiuse in un ostinato silenzio, ed io fui grato del fatto che, in quel periodo, passavo molto tempo sui libri a studiare. Vederlo soffrire faceva stare male anche me.
Se ne uscì fuori un giorno, all’improvviso, senza preamboli e senza guardarmi, gli occhi fissi sulla foto di Marina, sua figlia.
«Mia moglie è morta.» Questo disse, per poi richiudersi in un impenetrabile silenzio.
Soffriva, ma lo faceva con dignità, senza versare una lacrima. Tornò alla normalità un po’ per volta; ci mise molto tempo, e solo dopo essersi ristabilito del tutto mi raccontò i magri dettagli della visita della figlia. Lei lo aveva messo al corrente della morte della madre con una freddezza spietata. Gli aveva dato quella foto dicendogli che, da quel momento in poi, sarebbe stato l’unico modo che aveva di rivederla.
Provai una terribile pena per lui. E quando mi guardò con occhi pieni di dolore e rammarico, sentii una stretta al cuore.
«Fabio, non odiare tua madre. Scrivile, cerca il suo perdono. Non aspettare a farlo. La vita è crudele, ti gioca brutti tiri… Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, non rimandare a domani questioni urgenti…» mi disse con affetto.
Avrei voluto rispondergli qualcosa, ma il rancore che nutrivo nei confronti di mia madre era più forte del mio amore per lei. Per tutta la vita mi ero sentito abbandonato a me stesso, tanto più in quel buco, dove non si era mai degnata di venire a trovarmi. L’ultima volta che avevo tentato un riavvicinamento con lei, fu quando la misi al corrente che mi ero iscritto al corso con l’intenzione di diplomarmi. Non ricevetti nessuna risposta, ed io smisi di sperarci. Come poteva Geppetto chiedermi di umiliarmi di nuovo?
Rimasi in silenzio, e quel silenzio mi pesa ancora oggi. Se avessi trovato il coraggio di ribattere, forse sarebbe riuscito a convincermi a cedere con una delle sue filosofiche argomentazioni. Io non lo so perché Geppetto mi fece quella macabra esortazione, quel giorno. Mia madre godeva di ottima salute… Fu per questo che non presi seriamente le sue parole, che le ignorai con ostinata determinazione. Già, mia madre godeva di ottima salute, eppure morì sette mesi prima del mio rilascio, investita da un auto pirata. Mi fu comunicato dal direttore del carcere il quale, insieme alle condoglianze, colse l’occasione di congratularsi per il mio esito positivo agli esami di maturità, superato con 80 su 100.
Lei ne sarebbe stata altrettanto orgogliosa?
Non lo saprò mai.


Il giorno del mio rilascio ero più terrorizzato che felice. Il carcere aveva compiuto il suo dovere: annientare la mia individualità. Avevo paura di affrontare la società, perché avevo dimenticato come ci si muoveva fuori delle sue mura.
Se solo avessi avuto persone amiche ad aspettarmi… L’unica persona amica me la stavo lasciando alle spalle. Quando lo dissi a Geppetto, sorrise comprensivo.
«Dai, ragazzino, che se non ci lascio le penne prima, tra due anni ti raggiungo. Anche io non ho più nessuno ad aspettarmi lì fuori, sai? A parte te…» mi disse. E poi mi mise in mano un libro liso. Pinocchio. Risi scuotendo la testa. «L’ultima deve essere sempre la tua, eh, Geppetto dei miei stivali?»
«Geppetto dei tuoi stivali? Hai una confusione in testa, te. Quello con gli stivali era un piccolo felino, non un ragazzino piagnucoloso… Ecco quello che succede quando si legge poco… Non mi stancherò mai di ripetertelo: leggi, leggi più che puoi, va’ avanti con la conoscenza, non trascurare mai il tuo cervello, tienilo costantemente in allenamento.»
Aprii il libro per dargli un’occhiata, mentre finiva di parlare. Nella prima pagina c’era una dedica. Diceva: “A Marina, la mia piccola principessa. Perché tu ricorda sempre che, finché sarò in vita, nessuna balena potrà mai inghiottirti”.
Sollevai immediatamente il mio sguardo su di lui, stravolto, e quello che vidi mi atterrì anche di più. Non avevo mai visto piangere Geppetto, e ora invece…
»Io non posso accettarlo…» farfugliai.
«Tu devi! Sei l’unico figlio che mi rimane…»
Non so quanto tempo rimanemmo abbracciati. So solo che, mentre sentivo le sue lacrime calde bagnarmi il collo, ripeteva senza sosta, singhiozzando: «L’ho abbandonata… l’ho abbandonata… ho permesso alla balena di inghiottirla, e lei ora è là, nel ventre della bestia, tutta sola…»
E all’improvviso capii cosa dovevo fare, lì fuori. Lui mi aveva fatto dono di un sentimento paterno che per tutta la vita mi era stato negato. Mi aveva aiutato a rendere la realtà del carcere meno brutta, a trarne profitto, ad uscirne fortificato, un individuo migliore. Ora toccava a me restituirgli il favore.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Puffardella