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Autore: pansygun    09/02/2023    0 recensioni
Raccolta di one-shot su vari personaggi (di vari fandom se mi riesce).
Cosa troverete?
• Possibili spoiler
• Personaggi singoli
• Ship varie
• Turpiloquio q.b.
• Fuffosità a tratti
• Disagio talvolta
• Sesso? Sì, grazie

mi trovate anche su Wattpad come veciadespade
Tutti i diritti riservati ©️ | 2023
Genere: Erotico, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Dabi, Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou, Shigaraki Tomura
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Violenza
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 Disturbed soul | Tenko's voice

 
Stai bene?
Quella vocina fastidiosa forse gli sembrava di conoscerla, ma era troppo intorpidito anche solo per riuscire a capire a chi appartenesse o da che angolo provenisse.
Lì attorno era tutto così assurdamente buio e freddo che la pelle, anche solo a sfiorarla, sembrava fosse cosparsa di minuscoli spilli.
Tremava.
Grande e grosso com'era, lui tremava.
Ti fa male?
Di nuovo.
Si prese la testa tra le mani, affondando le unghie nella carne, trovando un po' di sollievo a quel mal di testa lancinante che lo lasciava rincoglionito. La sensazione era strana, il malessere diffuso che comprendeva, oltre al dolore sordo alle tempie che migrava poi verso la nuca come un'onda, anche uno strano mal di stomaco che gli provocava una forte nausea e gli sembrava di sentire un odore familiare, che si avvicinava alla fragranza fresca ed evanescente del detersivo per pavimenti.
Quella vocina lo stava chiamando per nome con estrema insistenza. Ed era un nome che voleva dimenticare a tutti i costi.
Mi rispondi?
Mille brividi gli percorsero il corpo stremato, ma la testa sembrava essersi alleggerita all'improvviso.
«Chi sei?».
Aprì gli occhi e cercò invano di scrutare l'oscurità. Solo una brezza lieve gli accarezzava il viso e gli scompigliava i capelli.
Era quasi piacevole quel refolo di vento tiepido e dolce, che donava sollievo alla pelle martoriata del volto e del collo.
Richiudere gli occhi e lasciarsi sfiorare la pelle nuda: quella era l'unica cosa che il suo cervello gli stava dicendo di fare, ignorando il tremendo dolore al torace che, da un momento all'altro avrebbe potuto strapparsi in due, e non solo in senso figurato.
Galleggiava nell'oscurità, ci fluttuava come mosso da una corrente inconsistente, pur sentendo il ruvido terreno sotto i propri piedi.
Le mani si disincagliarono dai modi dei capelli, scendendo in basso, sfiorando il volto affilato e tumefatto, percependo il vischioso del sangue imbrattargli i polpastrelli.
Era ancora intero, ma sapeva in realtà di non esserlo, mentre staccava pian piano le mani dallo squarcio sul petto e tentava di osservarsi i palmi.
Riusciva a vederlo, il sangue. Riusciva a percepirlo, appiccicaticcio e fresco ad ogni alito di vento.
Chi ti ha ridotto così?
Quella voce infantile così accondiscendente gli diede sui nervi.
«Smettila di prenderti gioco di me e fatti vedere!», sbraitò spazientito, mentre il digrignare i denti acuiva il dolore alla testa e la rabbia gli rivoltava le viscere.
Sapeva bene che quel luogo non era reale, come non era reale quella voce fastidiosa e petulante.
Sapeva anche che no, non stava né delirando né morendo.
Non aveva il permesso di morire. Non così e non in quel momento.
Mamma dice sempre che è brutto prendersi gioco degli altri, soprattutto se stanno male. Non è leale.
Non è leale? «Ah!», gli uscì mezza risata.
Leale…verso chi? Verso che cosa?
«Guardami, moccioso! Guarda dove mi ha portato la lealtà. – poi abbassò il tono – Ad annullarmi…».
Ma non voleva annullarsi. Non dopo tutto quello che aveva passato.
Non dopo le incomprensioni con suo padre, la disperazione dell’inevitabile, l’indifferenza delle persone, il dolore del corpo, lo scoramento, la fatica…
Non certo dopo aver sputato letteralmente sangue per lui, che gli aveva dato un corpo nuovo e che ora voleva anche riprenderselo.
Ti vedo. Perché non mi rispondi?
E fu con quella frase delusa che lo riuscì a vedere, a qualche metro di distanza: se in quel luogo fatto di nulla e oscurità si avessero potuto usare le misure canoniche di tempo e spazio, di sicuro sarebbe stato ad una decina di passi, indietreggiando dalla sua presa qualche secondo prima di riuscire a renderlo polvere nella brezza leggera.
La pelle chiara, tra le escoriazioni e il sangue rappreso, emanava un lieve bagliore grigiastro diffuso che gli permise, nella vicina penombra, di ravvisare del denso fumo nero dai contorni definiti, alto poco meno del suo fianco, immobile nel movimento e tremulo nella forma.
Perché non mi rispondi?
Voleva rispondergli che non gli andava di parlare con una voce nella propria testa, ma l’unica cosa che uscì dalle sue labbra secche fu un semplicissimo: «Taci.».
Ma quella voce di bambino petulante continuava ad insistere.
«Che strazio che sei!».
Vide quella presenza evanescente avvicinarsi. Ciò che poteva essere facilmente ricondotto come forma ad un braccio si sollevò nella sua direzione e la piccola mano si muoveva, come a chiedergli di abbassarsi o di raggiungerlo.
Lo vedo, sai. Che tu non stai bene. Vero?
Si ritrovò a scuotere la testa senza davvero volerlo, il corpo che quasi non obbediva ai suoi stessi comandi. I capelli, lunghi ed indisciplinati, gli tiravano la faccia dalla pelle così secca da tirare. Perché cazzo doveva prudere così terribilmente?
Quando fu di fronte a quella figura infantile, una fitta al torace lo fece piegare su se stesso, finendo in ginocchio di fronte alla piccola nube scura che vorticava e s’addensava, i cui contorni cominciavano a definirsi sempre di più.
Quella specie di bagliore evanescente che la sua pelle emetteva veniva a poco a poco risucchiato da quella specie di moccioso fato di pura ombra.
La sua luminosità si mescolò al nero in un flusso traslucido all’interno della sua figura, permettendo di scorgerne la forma degli occhi, troppo grandi per un viso così minuto, il profilo rotondo del nasino, la curva dolce della bocca, sollevata in un piccolo sorriso cordiale, ma che per il ragazzo risultava fin troppo compassionevole.
«Sapevo che ti stavi prendendo gioco di me.», gli uscì con sospiro esasperato.
Quel bambino oscuro tornò serio e l’osservò, inclinando di poco la testa, sbattendo più volte le palpebre d’ombra, osservandolo con quei suoi occhi neri fin troppo grandi ed inquietanti.
Perché non ti riposi un po’?
La bocca non si muoveva, ma lui udiva lo stesso quelle parole; la curva delle labbra del bambino s’era raddrizzata e sembrava dare una parvenza di rimprovero a quel visino buio.
«Perché stai rompendo le palle, ragazzino.».
Udì una risatina.
Sarebbe risultata oltremodo inquietante in un’altra occasione, con lo stesso buio a circondare quella loro bolla luminescente.
L’ombra gli si mosse attorno, lentamente, una specie di scia di fumo la seguiva nel suo percorso, avvolgendo il ragazzo, scompigliandogli di tanto in tanto i capelli bianchi con un piccolo sbuffo, mentre lui se ne stava in ginocchio come un povero idiota, troppo esausto per rialzarsi, stanco a tal punto da aver dichiarato tregua perfino a se stesso.
Chiuse gli occhi e una risata gli vibrò in gola prima di uscire, quasi isterica.
Perché ridi?
«Perché sono stanco e non dovrei esserlo.»
Non fa ridere, sai? Io, se sono stanco, sbadiglio. E rido se sono felice. Tu sei felice?
«Non lo so.».
Ed era vero. Era talmente stanco da non capire più nulla.
Continuava a percepire una leggera brezza che gli sferzava il viso e gli s’infilava nei capelli già così disordinatamente disastrati.
Uhm…
Quell’ombra gli volteggiò attorno come un fantasma, osservandolo, prosciugando pian piano gli ultimi residui della luminescenza che la sua pelle nuda emanava, come se quel piccolo essere fatto d’ombra se ne cibasse con avidità.
Solo quando quel bambino fu di nuovo di fronte a lui, ne scorse le fattezze in maniera più nitida: guance tonde, collo e spalle minute e piccole dita paffute che si muovevano frenetiche nel grattarsi quella massa informe di capelli scuri. Gli occhi erano luminosi e grandi e continuavano a guardarlo in maniera inquietante.
Anche tu hai dei poteri?
«Che domanda del cazzo.» e abbassò la testa, un sorriso abbozzato che sembrava più un ghigno su quelle labbra screpolate.
Non hai risposto. Non rispondi mai.
«Mi stai antipatico.».
Tu no, invece. Allora? Hai i poteri anche tu?
Quel moccioso di fumo gli stava dando sui nervi. «Certo che li ho.»
Percepì improvvisamente fresco sulle guance e si ritrovò quel piccolo viso oscuro davanti al proprio: la bocca dischiusa, le iridi sproporzionate a fissarlo, respirandogli contro come a voler risucchiare l’aria direttamente dai suoi polmoni.
Di nuovo una fitta al torace lo fece accartocciare su se stesso con un rantolo. E cazzo se faceva male!
Non avrebbe dovuto far tanto male se quello era un sogno e una proiezione del suo subconscio. Invece si ritrovò a chiudere e strizzare gli occhi per il fastidio.
Poi, qualcosa di freddo gli si posò sul viso, sollevandolo. Non provava più fastidio, tutt’altro: si sentiva tremendamente bene, come se quelle piccole mani nebulose che gli stropicciavano le guance donassero sollievo non solo alla pelle ma anche al cuore.
Che poi, lui, un cuore ce l’aveva ancora?
Pensare a Hana e a Mon-chan e disperarsi per loro anche dopo tutti quegli anni? Era quello avere un cuore?
Anche io ho i poteri.
«Stiamo parlando di me o di te?».
Vide lo spettro alzare le spalle per un momento, mentre le sue manine lasciavano la pelle che non tirava più, non prudeva più, non bruciava più.
Un sospiro gli lasciò le labbra, incurvate in un sorriso che di doloroso non aveva finalmente neppure il ricordo.
E lo vide osservarsi le manine fumose prima di spostare lo sguardo ancora una volta sul suo viso.
Ti fa mai paura il tuo potere?
«Paura? Chi cazzo può avere paura di un potere con cui è nato?».
Poi si ricordò di quella notte.
Era triste, aveva fame e continuava a piangere tanto da non avere più lacrime. Gli occhi che bruciavano, la pelle delle palpebre che tirava e non la smetteva di grattarsi.
Poteva sentirlo anche il quel momento quel maledetto prurito.
Ricordava bene la disperazione, e quel pelo soffice, il naso umido e la lingua calda di Mon-chan che cercavano di dargli un conforto che mai più avrebbe trovato
«Sì. A volte sì.».
L’aveva detto. Lo pensava davvero? Non lo sapeva nemmeno lui.
I tuoi quirk sono potenti come i miei?
Osservò quel bambino d’ombra con estrema attenzione: nel suo profilo gli sembrava di riconoscere qualcuno, in quei suoi occhi così grandi e luminosi e carichi di gioia ci si poteva specchiare. Eppure, continuava ad odiarli con tutto se stesso senza apparente motivo.
Ma sapeva di essere fatto così: odiava tutti, indistintamente. Forse Spinner e gli altri un po’ di meno, ma anche loro erano una bella spina nel culo a volte…
«Non ho idea di che poteri tu abbia, ma i miei sono davvero potenti!»
Stava sul serio rispondendo ad un moccioso fatto di fumo e frutto della sua stessa testa?
A quanto pareva sì e sembrava sconsolato, tanto da scuotere la sua testolina.
Come sei fortunato! Io… a volte non mi controllo e mi faccio male. O faccio del male a qualcuno.
Capita.
Avrebbe voluto dirglielo, ma lo tenne per sé.
Uccidere e mutilare può essere il fine ultimo di un’azione oppure un suo effetto collaterale.
Ferire qualcuno, ucciderlo, non perché necessario ma per una malaugurata coincidenza è…normale.
Sì, normale. Per uno come lui era normalità, giusto?
«Capita.», esalò alla fine.
E tu? Tu hai mai paura di ferire qualcuno…qualcuno a cui vuoi bene? Io sì e-e sono triste…
Già. Era successo pure a lui, più o meno involontariamente, come la prima volta, quando tra le braccia teneva...
«Mon-chan…», e gli parve di udire l’eco di una voce bambina che ripeteva quel nome.
Ha-hai ucciso qua-alcuno anche tu?
Alzò gli occhi cremisi verso l’ombra e si specchiò in quelle iridi così luminose da sembrare liquide. Quello spirito bambino tremolò e gli parve di sentire un singhiozzo.
«E tu? Tu hai ucciso qualcuno? – esitò – Qualcuno che non volevi morisse?» e vide quell’ombra annuire, mentre una manina fumosa si spostava sul viso, nello stesso gesto che fa un bambino in carne ed ossa per cavarsi il moccio dal naso o le lacrime dagli occhi.
Perché sentiva adesso una fitta al cuore, come se venisse compresso e stritolato? Non bastava tutto il dolore di prima? Non poteva dargli ancora un po’ di tregua? Solo un po’…
Hana e Mon-chan erano stati collateralità. Ma la mamma?
Per un lungo periodo aveva dimenticato la notte in cui scoprì il suo quirk, troppo sconvolto e disgustato dalle proprie azioni per voler anche solo rivivere quel momento.
Forse mamma si meritava di morire in quel modo? Di lei non gli dispiaceva più, in fondo.
Una mamma deve difenderti, proteggerti…no? Lei cosa aveva fatto alla fine? L’aveva lasciato lì, al freddo, mentre continuava a preparare la cena per tutti!
L’unico volto che apparve nitidamente nei suoi ricordi era quello arrabbiato del padre: «Sì. – la sua voce era uscita strana, più acuta del previsto – Ho ucciso anche io qualcuno …».
Il bambino portò il viso a un palmo dal suo naso, immobile, mentre il fumo si muoveva da solo, si diradava e si addensava con calma gli occhi fissi nei suoi, a tentare di leggergli l’anima.
Ma forse l’anima era già stata messa a nudo, come lui, leggibile come un libro aperto.
O, meglio, l’anima non c’era, non esisteva più nel suo corpo.
Si meritavano di morire quelli che hai ucciso?
Annuì, perché sapeva che suo padre meritava la morte più di tutti coloro che sono venuti dopo.
Tutti, in realtà, meritavano la morte: quella società corrotta in cui si ritrovava a vivere doveva essere rifondata dal basso, un granello di polvere sull’altro!
Sapeva cosa stava cercando di fare il suo Maestro, relegandolo lì, in quell’oscurità desolante per diventare il nuovo Signore del mondo.
Ma quello non sarebbe mai stato il suo piano, perché con quell’infinito potere che lo aspettava voleva annientare tutto ciò che aveva dato vita alle sue sofferenze, spazzando dalla faccia della terra tutti coloro che possedevano una qualche unicità.
Tomura…
Avrebbe ucciso tutti, dal primo all’ultimo. Non sarebbe rimasto nulla: niente quirk, niente soprusi, isolamenti, indifferenza. Nessuna regola o argomento proibito. Nessun compromesso.
Tomura?
Sarebbe stato un re senza sudditi.
Tenko!
Ancora quel nome. «Basta chiamarmi così!», provò a sbraitare, ma la voce era ancora più acuta, più dolce, e il formicolio che sentiva diffusamente nel corpo era addirittura piacevole, se paragonato al dolore al petto (che era tornato) o al prurito (di cui non si liberava mai).
Un sollievo che si propagava dal torace fino alle membra gli stava risollevando lo spirito e provò ad alzarsi dalla scomoda posizione in cui s’era praticamente rannicchiato. Ma le forze gli vennero meno e tornò a terra, ancora una volta.
Quella forma nebulosa che si era allontanata appena l’aveva visto muoversi ora si era fatta più vicina, curiosa nell’atteggiamento, la boccuccia appena dischiusa in un’espressione stupita: forse non s’aspettava che quel ragazzo così malandato riuscisse a fare dei movimenti.
Allungò una manina fumosa.
Vieni! Non startene lì così!
Eccolo: si prendeva ancora gioco di lui con il tono, lo scherniva con quella sua vocetta accondiscendente.
La stessa di sua madre.
«Vattene!» e la sua mano mutilata colpì per un attimo quel fumo, ma le dimensioni…da quando aveva mani così piccole e morbide?
Il bagliore che i suoi palmi sprigionavano era sempre più lieve, ma le vedeva: le sue erano diventate mani di bambino, poco più grandi di quelle del fantasma d’ombra che si sporgeva a destra e a sinistra di fronte a lui, ad osservarlo con insistenza.
Lo vide tirarsi i ciuffi scuri, passarli tra i polpastrelli con cipiglio pensieroso.
E pure lui copiò il gesto, tuffando le dita tra le ciocche morbide che aveva in testa, un profumo tenue di limone a solleticargli il naso, lo stesso che gli ricordava tanto casa propria.
«Sono tornato piccolo?».
Le parole gli uscirono incontrollate assieme allo stupore. O alla paura di dover rivivere la propria vita daccapo, in un tremendo loop di sofferenza e solitudine.
Sei sempre stato piccolo qui dentro.
«Non è vero. Ero grande…io sono…adulto! Non posso essere di nuovo un moccioso!».
Pure la voce era cambiata, tanto da premersi i palmi a tastare la gola, sentendo il collo fin troppo esile, le guance troppo tonde, i muscoli di spalle e braccia completamente andati…
Hai solo creduto di essere grande. Qui sei ancora un bambino.
In quel regno di oscurità e desolazione lui era tornato ad essere il bambino piagnucolone da cui aveva sempre voluto staccarsi, che voleva tanto dimenticare…
«Che mi succede?», ma il sussurro si perse nella brezza tiepida, accarezzando il fumo che gli girava attorno, rideva e lo avvolgeva per poi tornare a formare quel bambino così simile a lui che, ora, copiava le sue mosse come se fosse il riflesso di uno specchio, mentre si grattava nervosamente la spalla nuda.
Un bambino che ha bisogno di aiuto…
Che strana quella voce. Non era la stessa che l’aveva tormentato finora. Era diversa, più cristallina, più dolce; quella punta di compiacimento e tristezza sembrava sparita dalle sillabe che quella bocca preoccupata pronunciava.
Alzò il capo e la guardò, pensando subito ad una specie di glitch: la figura evanescente aveva smesso di copiare le sue mosse e scuoteva la testolina e il corpo, come infastidita da qualcosa, arruffandosi i capelli fumosi con entrambe le manine, spalancando la bocca a mimare un urlo disperato, sparendo e ricomparendo più volte.
Stava combattendo con se stessa?
I-Io sono di-disposto ad aiutarti!
Quanta gioia e determinazione in quella vocina balbettante. Quella creaturina ora era tutta proiettata verso di lui, le braccia protese all’indietro e gli occhioni traslucidi spalancati sui suoi, sbilanciata a tal punto che nella realtà avrebbe potuto cadere di faccia sul terreno, ma lì…
Era familiare quel tono, gentile, di una gentilezza genuina che non aveva mai sentito prima d’ora.
«Tu vuoi aiutarmi? E come?».
Lo vide sussultare. Probabilmente non si aspettava una risposta di quel tipo.
Lo vide inspirare, quasi a prendere il coraggio che gli era venuto meno e fare due passi calcati verso di lui, ancora seduto per terra, le gambe incrociate in attesa finalmente di svegliarsi da quel sogno di merda.
Quel bimbo nebuloso gli si parò davanti e ne poteva scorgere bene il cipiglio serio e gli occhi farsi più luminosi mentre allungava una mano con decisione.
Per cominciare…ti aiuto ad alzarti!
Ma era perplesso e continuava a spostare lo sguardo da lui alla propria manina, quasi fosse a disagio.
Solo se vuoi, eh…
Lo voleva? Voleva alzarsi e andarsene da quel non-posto?
«Ha mai funzionato?» e il bambino rimase interdetto a quella domanda.
 Cosa?
«Qualcuno ha mai afferrato la tua mano?»
Lo vide esitante per un momento, prima che quella bocca si allargasse in un sorriso luminoso e tutta quella figurina tremolasse, quasi volesse che la gioia che la pervadeva potesse essere visibile.
Oh sì! Sai…
La manina si tese di più verso di lui, che iniziò a muoversi con riluttanza. L’avrebbe afferrata e si sarebbe svegliato, giusto?
…mi piace un sacco aiutare le persone!
Perché si sarebbe svegliato, vero? Fu assalito da un forte dubbio e cercò di ricordare tutto ciò che era successo prima di arrivare in quella dimensione oscura e di nuovo troppo fredda perché non si ritrovasse a rabbrividire.
Avanti, Tomura! Afferrala!
«Perché dovrei?».
Perché ho sentito che non stai bene qui. Sei ferito…
E lo sguardo tornò al piccolo petto che s’alzava ed abbassava ad ogni respiro: era integro. Nessuno squarcio, nessuna ferita sulle braccia. «Non sono ferito.»
Sei ferito. Non lo vedi ma lo sei. Io ti posso aiutare…dai! Afferra la mia mano ed usciamo da qui. Sei ancora in tempo!
«In tempo per cosa?».
Per essere libero e vivere, Tomura.
Vivere. Ma lui era già vivo. Per quanto al momento non sentisse alcun dolore come all’inizio, sapeva di stare sognando, che tutta quella scena assurda era solo frutto della sua mente, del suo subconscio. Forse quello era un livello bonus da superare per accedere al successivo, non c’era altra spiegazione.
«Io sono già vivo. Sei tu che non lo sei, moccioso».
Ma non sei libero. Vieni con me…ti prego…
Perché lo stava supplicando adesso?
«Che vuoi da me?».
Liberarti…voglio solo liberarti…
Piagnucolava mentre quelle manine fumose gli strattonavano il braccio. La sensazione era strana, come di un leggero formicolio fresco che tentava di trascinarlo a sollevarsi.
Una lacrima traslucida s’infranse sulla sua pelle prima di svanire nello stesso modo in scoppia una bolla di sapone.
Il bagliore verde di quegli occhi grandi puntati sui suoi lo fece trasalire.
Li riconosceva, tra gli sbuffi scuri di quel fumo che continuava ad agitarsi, e sapeva esattamente a chi appartenevano.
Strattonò il braccio con forza e si spinse con le gambe per allontanarsi, non capendo se il sentimento che provava fosse paura o stupore.
Ti prego Tomura…no! Tenko!
La vocina era disperata e quella figura fluttuava con cautela verso di lui, che era di nuovo tornato l’adulto che era, nudo e ferito, acciaccato e ancora troppo incerto sulle gambe per reggersi in piedi come avrebbe dovuto.
Tenko vieni con me! Non aver paura!
Come poteva essere nel suo mondo? «NO!»
Ti ho sentito che piangevi! Ti prego…afferra la mia mano e vieni con me!
Fu un lampo, una specie di scarica che gli attraversò la testa e lo fece piegare su se stesso con una smorfia di dolore, portandosi le mani tra i capelli ad artigliarsi di nuovo la cute per cercare sollievo in un dolore diverso.
«Non è possibile! Non puoi essere qui! – ripeté quasi urlando – Non ti voglio qui!»
Quelle piccole mani s’azzardarono a toccare le sue, con quel freddo formicolio che aveva sentito poco prima, accompagnato da una voce dolce e carezzevole.
Tenko vieni con me. Accetta il mio aiuto, ti prego.
Il ragazzo alzò la testa e lasciò che le sue mani scattassero ad afferrare l’esile collo fumoso di quel bambino d’ombra dagli occhi di smeraldo. Il formicolio ai palmi era piacevole e, per quanto non lo credesse possibile, quella figura era fin troppo consistente sotto le sue dita.
Strinse, tanto da vedere la bocca di quel bambino aprirsi, annaspare in cerca d’aria, graffiargli il dorso delle mani con quelle piccole unghie di fumo che non lasciavano alcun segno.
Lo sovrastava e stringeva, mentre gli occhi di quel bambino si riempivano di lacrime luminose, che svanivano come bolle ogni volta che toccavano la pelle luminescente di Tomura.
«Non lo voglio il tuo aiuto! Voglio altro da te!»
Non ti salverai…
Strinse la presa a sentire quel sussurro rantolato. Non voleva essere salvato di nuovo, non ne aveva bisogno. Aveva tutto ciò che desiderava, a parte una cosa.
E quel bambino di fumo era l’ultimo ostacolo da superare per raggiungere il proprio obiettivo e finire quel gioco.
Il formicolio alle mani cessò improvvisamente quando quel piccolo bambino fatto d’oscurità chiuse gli occhi e si diradò velocemente.
Non avrebbe mai saputo dire se la sua unicità funzionasse anche in quella strana dimensione onirica, ma si ritrovò improvvisamente a mani vuote, osservando i calli e le escoriazioni sui palmi, prima di stringerle a pugno con forza e chiudere gli occhi.
«Nemmeno tu, Midoryia Izuku. Nemmeno tu ti salverai.»

 
We're damaged people
Drawn together
By subtleties that we are not aware of
Disturbed souls
Playing out forever
These games that we once thought we would be scared of
~ Depeche Mode ~
 
   
 
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