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Autore: pansygun    01/02/2023    0 recensioni
Raccolta di one-shot su vari personaggi (di vari fandom se mi riesce).
Cosa troverete?
• Possibili spoiler
• Personaggi singoli
• Ship varie
• Turpiloquio q.b.
• Fuffosità a tratti
• Disagio talvolta
• Sesso? Sì, grazie

mi trovate anche su Wattpad come veciadespade
Tutti i diritti riservati ©️ | 2023
Genere: Erotico, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Dabi, Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou, Shigaraki Tomura
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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Wake up, Mr. Sleepyhead! | Dabi’s rising

18/01/2023

 



Ci abbiamo messo così tanto lavoro per rimetterti in sesto, ma tu resti un fallimento.
Oh! Ho toccato un nervo scoperto? Che patetica dev’essere stata la tua vita, ragazzo.
No.
Lui non era un fallimento.
Non voleva credere di esserlo davvero.
Era per questo che si era arrabbiato, tanto da perdere il controllo.
L’asfalto grattava sotto i piedi e ne feriva la pelle già martoriata ad ogni passo.
La sua vita non era patetica, solo…strana? Difficile? Non la sapeva definire.
Ogni passo era una scossa lungo le gambe e il cuore sembrava appesantirsi, affaticarsi.
Si stava sforzando di sentirle tutte, quelle piccole sensazioni.
Il suo corpo era diventato ancora più debole, quel dottore aveva ragione, ma quei dolori lui li voleva sentire tutti, uno per uno. Concentrarsi su di essi singolarmente e poi tutti assieme.
Lo facevano sentire sveglio, connesso con la realtà. Vivo.
Perché era vivo. Tenuto assieme da chissà quale strano sortilegio, ma era vivo!
Era incerto sulle gambe, ancora malfermo e barcollante dopo quel lungo tempo passato a letto, eppure era vivo e correva. O, almeno, ci provava.
Il tuo sistema somatico si è danneggiato.
Si rendeva conto di essere scoordinato, con le caviglie che cedevano ogni tre falcate e le ginocchia…oh Kami! Le ginocchia sembravano arrugginite! La rotula grattava contro l’alloggiamento e scrocchiavano come legnetti sotto le scarpe.
Ti sei provocato gravi danni in molti organi.
Quali erano questi danni? In cosa consistevano? Perché vedeva dove stava correndo e respirava il freddo pungente della sera ed era vivo.
L’aria grattava in gola ad ogni respiro, come se al posto di molecole impalpabili stesse ingerendo manciate di sabbia. E faceva male, dannatamente male. Ma era vivo.
A ogni fiato la bocca si seccava di più, le labbra tiravano, secche tanto da spaccarsi e da fargli sentire il sapore dolciastro del sangue sulla lingua ogni volta che se la passava sul vermiglio per umettarle.
Non sarai più com’eri prima. Non potrai più tornare dov’eri.
Si dava dello stupido mentre correva, perché aveva ritenuto una buona idea scappare via da quel fuoco che lui stesso aveva appiccato.
Ma più si allontanava dall’istituto e dal calore di quelle fiamme tanto familiari, più si rendeva conto che, in realtà, non aveva la minima idea di dove andare.
“La fine della strada! E poi a casa!”, si disse.
Un piccolo obiettivo poi avrebbe preso fiato. Si sarebbe fermato a respirare, a guardarsi attorno nel buio della sera per capire dove si trovasse.
E così, con la schiena appoggiata al metallo freddo del lampione, affamato d’aria e con una mano a stringersi il petto, s’era voltato verso lo scoppio dei vetri, mentre il fuoco ruggiva e consumava quella costruzione a due piani che lo aveva ospitato per tre anni mentre lui era addormentato.
Il Signor Dormiglione s’è svegliato!
Quella ragazzina dagli occhi grandi l’aveva chiamato così appena s’era svegliato, ma era giusto così: non conoscevano il suo nome e lui non aveva avuto neppure l’occasione di dirglielo perché s’era arrabbiato troppo in fretta per colpa di quella parte del suo carattere tanto irascibile ed impulsivo, finendo per non controllarsi nemmeno più.
Come tre anni prima.
Come sulla collina.
Ma aveva capito che le emozioni erano il combustibile delle sue stesse fiamme.
«Ho fatto qualcosa di terribile…», ripeté a mezza voce, una mano nella massa informe di capelli candidi, ripensando alle grida, ai pianti disperati di quei bambini e ragazzini che aveva visto consumarsi tra le fiamme che danzavano davanti ai suoi occhi.
Ne aveva distrutto la casa e la vita, era stato immeritatamente crudele con qualcuno che l’aveva solo trovato e rimesso in sesto, raccolto i suoi cocci e attaccato lembi di carne per dargli una seconda occasione.
Provò a fare un paio di passi verso l’istituto, colto da un improvviso senso di nausea e da un profondo rimorso che gli attanagliava le viscere, ma strinse i pugni, raddrizzando la schiena e ricacciando indietro le lacrime che gli bruciavano gli occhi, fino a voltarsi, riprendendo a correre.
Non doveva perdere di vista il proprio obiettivo, quello che era successo era stato solo un effetto collaterale della sua rabbia.
Doveva tornare a casa- doveva fare ammenda per ciò che aveva fatto e detto, per le cattiverie gratuite che aveva riversato su tutti.
Doveva chiedere scusa.
Le braccia ora si muovevano ai lati del corpo con più coordinazione, sciogliendo i muscoli rattrappiti delle spalle che sembravano fatti di tessuto vecchio e logoro, pronto a strapparsi ad ogni movimento. Le punte dei piedi gli davano lo slancio a fare più strada e gli provocavano meno dolore.
I danni che aveva subito a causa della sua stessa unicità non avrebbero neppure dovuto farlo muovere, ma lui non lo sapeva. O forse lo percepiva in cuor suo, m non ci voleva credere o non ci dava peso.
E mentre correva e la milza sembrava esplodergli nell’addome per la fatica, mentre sembrava che i polmoni collassassero ad ogni respiro per lo sforzo di tenerlo in vita e l’aria gli cancellava dal viso le lacrime, ripensò a sua madre.
Ad ogni sobbalzo della sua corsa formulò una parola, qualcosa da dire, per essere stato via così tanto da lei, per scusarsi di averla fatta preoccupare.
Svoltando un angolo si ritrovò in mezzo alla folla di persone che popolavano le strade principali, finendo addosso a qualcuno, sbilanciandosi, cadendo a terra.
Quel contatto col suolo lo fece sibilare di dolore, un timore lontano di non riuscire più a rialzarsi.
Quando alzò il volto per scusarsi, vide l’espressione di quell’uomo che aveva travolto, mentre si puliva il bavero del cappotto dopo quel contatto, in un misto di disgusto e spavento che gli fece strabuzzare gli occhi: «Attento a dove vai!».
La voce grattava per uscire, bassa e rauca: «Mi-mi scusi.». Doveva ancora abituarsi a quel timbro, che di fanciullesco non aveva più nulla. Ogni parola detta a voce normale sembrava pronunciata da qualcun altro.
Non sarai più com’eri prima. Non potrai più tornare dov’eri.
Ma non importava: sarebbe tornato ad essere forte. Sarebbe tornato a casa e avrebbe convinto suo padre a riprendere gli allenamenti.
Dopotutto, era di nuovo vivo, no?
Si rialzò a fatica da terra, un lamento ad ogni movimento, le ginocchia che non lo sorreggevano e i polpacci che sembravano di gelatina, mentre i suoi piedi sembravano smettevano di bruciare per un attimo, portandogli un sollievo effimero che ben presto avrebbe cancellato, muovendosi il più velocemente possibile tra la folla, stringendosi le braccia attorno al corpo per trovare una specie di conforto.
Colpito, sballottato, preso a male parole dalla gente che camminava nella direzione opposta, che lo urtava o lo scansava all’ultimo.
Sentì le guance umide e gli occhi bruciare di nuovo, mentre tentava di scacciare le lacrime col dorso ruvido della mano e col polso.
Dov’era? Dov’era casa? Non s’era mai spinto in città da solo, non così, non in quel quartiere affollato, in cui la gente rientrava in fretta dal lavoro, indossando abiti eleganti sgualciti dopo una giornata e dove turisti si fermavano a bordo strada a scattare foto o ad assalire negozi e chioschi.
Si fermò accanto ad una vetrina, la cui luce giallastra illuminava il marciapiede e le vite che vi camminavano sopra. Dentro il locale c’erano persone sedute a tavolini, che mangiavano, chiacchieravano, ridevano.
Chiuse la bocca e deglutì, rendendosi conto in quel momento che non era nausea quella che provava, ma fame.
Aveva lo stomaco vuoto, completamente asciutto come un torrente in secca. Appoggiò la mano sul vetro fresco, avvicinando il viso, lasciando un tenue alone di vapore ogni volta che respirava sulla superficie trasparente.
Tamagoyaki. Avrebbe chiesto alla mamma di farli. Dopo un abbraccio infinito, dopo un bagno caldo e delle coccole avrebbe mangiato i tamagoyaki.
Gli occhi continuarono a pizzicare e le lacrime a cadere lungo le guance pallide, bruciando la pelle della mascella, ancora arrossata e sensibile.
«Ehi!».
La voce grossa di un uomo lo riportò alla realtà e voltò la testa in direzione del cuoco panciuto che lo stava minacciando con un grosso mestolo di legno: «Via da qui! Mi spaventi i clienti, sgorbio!».
Mise le mani davanti a sé in segno di resa, indietreggiando di qualche passo con un balbettio di scuse prima di voltarsi e correre di nuovo via.
I muscoli delle cosce sembravano fatti di fuoco puro tanto gli facevano male.
Sgorbio.
Così l’aveva chiamato quell’uomo.
Rallentò fino a fermarsi e si osservò il dorso delle mani, dove la pelle arrossata del dorso spiccava contro il candore della pelle sana del resto della mano. Le mosse entrambe, chiuse le dita più volte prima di portarle al viso a tastarsi la faccia per la seconda volta in quella giornata, chiudendo gli occhi, mentre i polpastrelli esploravano ogni lembo di pelle di quel viso meno paffuto, meno bambino di come ricordava.
Gli anulari sfiorarono la carne ruvida della palpebra inferiore e gli indici percorsero quella specie di solco che gli tagliava in due la faccia, segnando le sue guance. Premette di più le dita, schiudendo la bocca, seguendo la linea dei denti. Le falangi penetrarono nella carne, ne sentiva lacerare il tessuto se ci metteva più pressione, mentre un dolore sordo gl’intorpidiva la faccia e gli faceva stringere gli occhi.
Qualcuno accanto a lui emise un verso schifato.
Le dita erano lucide di sangue, che pulì prontamente portandosi le mani sotto le ascelle, stringendo la presa per fare in modo che il tessuto già umido di sudore assorbisse quello sporco vermiglio.
Il sapore del sangue si adagiò sulla lingua, quando la passò all’interno delle guance, sentendo la ruvidezza di una cicatrice nella mucosa.
Riaprì gli occhi e si guardò attorno, mentre la gente lo evitava nel suo muoversi.
Si passò con fastidio i palmi sulle guance cavando con rabbia sangue e lacrime come meglio poteva, raggiungendo in fretta la scala mobile che portava alla metropolitana.
Di fronte ad uno dei tabelloni delle linee si sentì perso mentre osservava i colori e la miriade di nomi delle fermate, cercando quella più vicina a casa.
Lui una metropolitana non l’aveva mai presa, non sapeva in che direzione dover leggere la mappa, non sapeva se quello su cui si trovava era il binario giusto. Perché suo padre non gli aveva mai spiegato una cosa tanto semplice e l’aveva abituato a servirsi solo di un autista?
Chiuse le mani a pugno e strinse i denti, mentre un leggero tepore gli s’irradiava dal petto a quel pensiero così sciocco. Non serviva arrabbiarsi per una sciocchezza: ce l’avrebbe fatta e sarebbe tornato a casa.
Di nuovo lo stomaco brontolò quando collegò casa agli udon. Fece un paio di passi all’indietro, urtando qualcuno e scusandosi prontamente.
L’uomo puzzava di fumo anche solo da mezzo metro di distanza e lo osservava dall’alto in basso senza preoccuparsi di mascherare la smorfia che gli si era formata sotto i baffetti brizzolati.
Sgorbio. Forse stava pensando esattamente quello. 
L’uomo abbassò gli occhiali tondi sul naso e gli rivolse un mezzo sorriso, infilando le mani in tasca mentre il suo sguardo si soffermava sui suoi piedi nudi.
«Da dove sei scappato?», chiese, la voce ferma e calda, mentre la sua bocca continuava a masticare qualcosa che sembrava tutto tranne che uno stuzzicadenti, per quanto malconcio fosse.
Touya si mise sulla difensiva, come suo padre gli aveva insegnato: per quanto debole e dolorante si sentisse in quel momento, non aveva proprio voglia né di altri guai né di essere distratto dal suo obiettivo.
«Fatti gli affari tuoi, vecchio.», e l’uomo aumentò il sorriso a vedere le tenui fiamme sprigionare dai palmi del ragazzo, tanto che tolse lentamente le mani dalle tasche, porgendogliele aperte proprio di fronte: pochi spiccioli in una mano e un biglietto nell’altra.
Quando il ragazzo vide l’offerta si calmò un poco.
«Se hai intenzione di prendere la metro – indicò i tornelli d’entrata con un cenno del capo – dovresti quantomeno pagare, non credi?».
Deglutì. La gola era sempre arsa, aveva fame e voleva tornare a casa.
Non avrebbe dovuto accettare nulla da uno sconosciuto, ma si era già risvegliato circondato da gente che non conosceva, uno in più che differenza avrebbe fatto? Al massimo l’avrebbe reso un mucchietto di cenere se si fosse azzardato a fargli qualcosa di male!
«E il biglietto?».
L’uomo si chinò, lasciando a terra le monete e il biglietto, non staccando mai quegli occhi grigio-rosati dai suoi: «Il biglietto prendilo come…un regalo. Ovunque tu stia scappando ho come l’impressione che non andrà come speri. Per cui – fece un paio di passi indietro, improvvisando un piccolo passo di danza – se ti dovesse servire…» e se ne andò, lasciandolo interdetto per un lungo momento, prima di chinarsi il più velocemente possibile a raccogliere quelle quattro monete e il biglietto. Se lo rigirò tra le dita prima di arrivare alla biglietteria automatica, incerto se tenerlo o meno, salvo poi cacciarlo nella tasca del pantalone del pigiama azzurro prima di arrivare ai tornelli.
In quel momento si rese conto di odiare la metropolitana: l’odore di bruciato dei freni, la gente che la popolava, la prepotenza di chi saliva e scendeva, spintonandolo, pestandogli i piedi con indifferenza.
Trovò un vagone mezzo vuoto e si rannicchiò in un posto libero vicino al finestrino, le braccia strette attorno alle gambe, il naso affondato tra le ginocchia e gli occhi fissi sulla banchina per controllare la fermata corretta. Gli faceva schifo il pavimento della carrozza e grattava i piedi l’uno contro l’altro nel patetico tentativo di togliersi di dosso tutto lo schifo che aveva calpestato fino a quel momento.
Rabbrividì quando gli tornarono alla mente le urla di quei ragazzi e il fetore della carne che bruciava, ma quelle immagini non se ne volevano andare neppure chiudendo gli occhi. “Ho fatto qualcosa di terribile…”, si ripeté singhiozzando.
Quando la sua fermata arrivò, si stupì della propria velocità nello schizzare fuori dal vagone: non sentiva più il dolore dell’inizio mentre correva, solo un bruciore diffuso e familiare.
Oltre l’uscita, la notte era già calata su Shizuoka e lui non poté fare a meno di affrettare il passo, il cuore ora gonfio di aspettative, le guance che tiravano per un sorriso che non si rendeva neppure di avere, gli occhi spalancati a scrutare tra i lampioni la fila di ville del quartiere.
Poi quel lungo, alto muro, che avrebbe riconosciuto anche dopo mille vite. I piedi calcarono di più l’asfalto e un risolino gli lasciò la gola secca appena svicolò nella rientranza del muro e si ritrovò di fronte il cancello di metallo su cui appoggiò palmi e fronte, respirando pesantemente, prendendo tutto il fiato che aveva lasciato lungo la strada, prima di allungare un dito verso il campanello.
Ovunque tu stia scappando ho come l’impressione che non andrà come speri.
La voce dell’uomo della metropolitana gli s’insinuò nella testa e ritrasse il dito, soffermandosi a riflettere che una strana, brutta sensazione, lo stava avvolgendo come una febbre. Scosse la testa: forse si stava solo lasciando impressionare da tutta quella situazione.
Tuttavia seguì il proprio istinto, ricordandosi del vecchio cancello di servizio, quello che dava sul retro degli alloggi della domestica, e quel pensiero bastò a schiodarlo dal citofono e a farlo muovere a passo incerto verso il retro della proprietà, da cui non sembrava provenire alcun rumore.
Quando arrivò sul retro, trovò il cancello chiuso e maledisse gli Dei guardandosi attorno per capire come fare ad entrare, prima di posare una mano in corrispondenza della chiusura e prendere un profondo respiro, mentre sentiva il sangue scaldarsi e bollirgli fastidiosamente nelle vene prima che il calore sciogliesse il blocco di chiusura e gli permettesse di sganciare il cancello ed entrare.
I sassi del vialetto gli ferivano i piedi ad ogni passo e si morse così forte il labbro da farsi male, prima di riuscire a raggiungere il porticato di legno con una smorfia di dolore.
Ricordava bene le assi scricchiolanti del portico, le aveva imparate a memoria e ora, col favore dell’oscurità, per quanto fosse cresciuto e risultasse ancora un po’ malfermo sulle proprie gambe, le evitò tutte, una ad una, un sorriso che gli curvava le labbra mentre scioccamente saltellava come quando aveva cinque anni, felice di essere di nuovo a casa.
Sgorbio.
Ma lui non era più un bambino e quel nomignolo tanto cattivo continuava a tormentarlo ad ogni passo, portandolo di nuovo a toccarsi il volto con la mano, mentre le lacrime pizzicavano ancora per uscire. Quando i polpastrelli sfiorarono la carne ruvida della metà inferiore del viso, fermò per un attimo i passi, prima di sgattaiolare in fretta verso la cucina.
“Mamma.”
A lei non sarebbe importato di quelle brutte cicatrici che gli tagliavano la faccia e, anzi, avrebbe fatto di tutto per farlo tornare normale. D’altronde era la prima a dirgli che era un bambino carino.
Per cui si sarebbe presentato alla mamma, l’avrebbe abbracciata e baciata come si era prefissato, cogliendola di sorpresa. Lei avrebbe pianto e l’avrebbe stretto ancor di più per non farlo andare via. Ecco, sì: uno dei suoi abbracci freschi, di quelli che ti ristoravano l’anima e poi un po’ di cibo, perché stava letteralmente morendo di fame!
Ma la cucina era buia e vuota, la casa silenziosa anche quando vi entrò di soppiatto con un «Ehilà!», appena sussurrato in ogni stanza, che risultava disabitata.
Dei fratelli nemmeno l’ombra: eppure era certo di trovarli e che loro l’avrebbero accolto a braccia aperte. Anche a loro non sarebbe importato del suo aspetto e si sarebbe scusato per aver perso tempo prezioso.
Ma nulla.
Tre anni di assenza e nessuno ad accoglierlo, nessuno da sorprendere.
Dovera sua mamma? Dov’erano i suoi fratelli?
S’intrufolò nella sua vecchia camera, dove tutti gli arredi erano rimasti al loro esatto posto e, nell’angolo vicino alla porta, l’unica cosa che stonava col resto era solo un armadio di legno.
Ho come l’impressione che non andrà come speri.
E, più si avvicinava, più quella brutta sensazione si acuiva e gli stringeva lo stomaco, già provato dalla fame.
Quando aprì le ante, un forte odore d’incenso gli infastidì le narici e la vide, quella cornice nero pece, tirata a lucido che custodiva una delle sue foto migliori, quella in uniforme scolastica, quella che aveva scattato per l’annuario prima di…morire.
Lo realizzò in quel momento: lui era morto. Bruciato tra le sue stesse fiamme tre anni prima. Forse non voleva vederlo, forse si era solo illuso, perso nelle proprie convinzioni.
Non potrai tornare più dov’eri prima.
Ma lui c’era tornato, vivo. Malconcio, da risistemare, ma vivo. Non bastava questo? Non bastava la buona intenzione di tornare e scusarsi? Di ricominciare?
Gli parve di sentire dell’amaro in bocca, ma era solo la sua mente che gli giocava un brutto tiro e quell’amarezza l’aveva solo nel petto: la sensazione era quella di avere come una spina nel cuore che lo stava facendo sanguinare e non aveva più alcuna possibilità di sanare quella ferita.
Uscì da quella stanza col cuore appesantito, stanco e demoralizzato, come se non ci fosse più nulla nel petto e la sua cassa toracica fosse completamente vuota.
A nulla servivano tutti i piccoli e grandi dolori che percepiva nel proprio corpo, che gli rammentavano di essere vivo.
Ne era stato così felice, così entusiasta che ora…
Arrivato con passo trascinato accanto alla zona adibita a palestra udì chiaramente la voce arrabbiata di suo padre.
Hai più talento di me.
Se le ricordava le parole di suo padre, con l’esatto tono pacato e si ricordava perfino l’orgoglio che ne illuminava gli occhi. Quelle parole erano state benzina per il fuoco che gli ardeva dentro: lo facevano sentire amato, come se contasse qualcosa, nonostante fosse stato soppiantato e lasciato indietro dopo la nascita di Shoto.
Oh, come avrebbe voluto presentarsi a lui e gridare di essere vivo e di lanciarglisi addosso e abbracciarlo stretto, promettendogli di non andare più via, impegnandosi per superarlo come sapeva di poter fare!
Poi qualcosa provocò un tonfo sordo e udì il rumore delle assi di legno spaccarsi in maniera decisa, uno scricchiolio dirompente e un gemito soffocato.
«Il fuoco! Devi usare il fuoco! E tu continui a non ascoltarmi!».
Si accostò con incertezza alla porta della palestra, lasciata semi aperta per incuria, e finalmente li vide: suo padre teneva un pezzo di legno bruciacchiato con una mano e sembrava che non si fosse nemmeno allenato perché neppure una goccia di sudore gli colava sul viso. In un angolo, poco più in là, tra le assi rotte e fiammeggianti, stava riverso suo fratello più piccolo, che faticava a rialzarsi, madido di sudore, con la tuta di allenamento mezza lacerata e un brutto rossastro attorno all’occhio fino allo zigomo.
Le labbra di Touya si mossero da sole e pronunciarono il nome del fratello, senza che alcun suono si perdesse nell’aria, esalando solo un respiro di delusione.
Aveva sperato fino all’ultimo che suo padre fosse troppo impegnato a fare l’eroe e salvare vite per andarlo a riprendere, ma se ne stava lì ad allenare ancora una volta il piccolino di casa.
I suoi piedi martoriati l’avevano portato in quel posto solo perché il cuore indebolito l’aveva guidato a casa, nella stupida speranza che, durante la sua assenza, qualcosa fosse cambiato.
In tre anni non era cambiato nulla, in realtà.
Lui per tutti era morto a Sekoto e gli avevano eretto un altare in memoria.
Nonostante questa dolorosa perdita, suo padre aveva continuato per tutto quel tempo ad allenare suo fratello, con la stessa severità di tre anni prima e che, a volte, sfociava quasi in cattiveria.
Assottigliò gli occhi e strinse i pugni: Shoto era un piccolo prodigio mentre lui era solo uno scarto, un prodotto difettoso della genetica, troppo debole perfino per il Number Two.
Con un po’ di lavoro in più, con un po’ di costanza, avrebbe potuto surclassare suo padre, come sperava, ed essere un degno avversario per suo fratello e si sarebbero potuti battere equamente.
Avrebbe potuto credere di più in lui, avrebbe potuto metterci più impegno ed era pronto a dirglielo, a urlarglielo contro se necessario!
Le lacrime non smettevano di annebbiargli la vista, rendendogli quasi impossibile mettere a fuoco ciò che stava succedendo nella palestra.
Come aveva potuto suo padre dimenticarsi così di lui? Come aveva potuto relegarlo in un armadio e continuare con i suoi propositi e le sue ambizioni?
Perché l’aveva definitivamente messo da parte?
Se lo riteneva morto, perché volere a tutti i costi perseguire un’assurda ossessione?
Fece un passo indietro, sentendo di nuovo tutto il sangue ribollirgli in ogni vena, in ogni capillare, scaldarsi tanto da far male e bruciare, come tre anni prima.
Un passo indietro e il legno scricchiolò sotto i suoi piedi maldestri; temette di essere scoperto, ma non accadde nulla perché le grida di suo padre avevano sovrastato qualunque rumore nei paraggi e gli fecero tirare uno strano respiro, grattato, sollevato di non essere stato colto in flagrante.
Le sue lacrime si dissolsero in piccole scie di vapore mentre scalpicciava lungo il porticato. Per raggiungere di nuovo la cucina e arraffare qualcosa da mangiare, appena in tempo prima di sentire la porta d’ingresso chiudersi e delle risate diffondersi all’interno.
Cercò di infilare in tasca i due miseri pacchetti di cracker che era riuscito a trafugare e si graffiò il dorso della mano con qualcosa.
Se ti dovesse servire…
Chinò il capo e osservò il bigliettino sgualcito che teneva tra le dita: sul retro era appuntato a mano un indirizzo con grafia incerta e frettolosa.
Se la sua famiglia era andata oltre alla sua dipartita, forse, avrebbe dovuto farlo anche lui.
E si mise in testa, caparbiamente come solo lui poteva fare, di voler raggiungere quel posto e quell’uomo che era stato così gentile da aprirgli gli occhi. Perché era questo che aveva fatto donandogli quegli spiccioli: la consapevolezza di essere stato solo un giocattolo nelle mani di quel padre così ambizioso, interessante fino a quando non ne aveva scoperto la debolezza, rimpiazzabile con chiunque fosse più forte e più sano…bruciava più del fuoco e doleva più di ogni ferita.
Ma non avrebbe più funzionato così.
Touya, così com’era arrivato, scappò silenziosamente da quella casa che desiderava tanto raggiungere, andandosene con i piedi feriti e il corpo dolorante che gli ricordavano che era ancora vivo, mentre il suo cuore, seppur arido e a pezzi, diventava terreno fertile per un sentimento tutto nuovo, che cresceva ad ogni passo che calcava verso l’ignoto.
Da quel giorno in avanti, quel suo corpo difettoso sin dalla nascita, ma che per uno strano destino aveva sconfitto perfino la morte, sarebbe stato tenuto assieme solo dalle fiamme della vendetta.
 
 
 
 
Tell me who you are, your father has forsaken you
Left you with those scars, my hope is that you'll make it through
~ Falling In Reverse ~
   
 
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