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Autore: Violet Sparks    12/02/2023    8 recensioni
Ushijima Wakatoshi pensa di sapere tutto.
Pensa che la sua vita sia una strada dritta, precisa, incontrovertibile. Un percorso duro, forse, ma perfettamente definito, un segmento geometrico con un punto di partenza e un'unica meta, da tenere sempre a mente.
Ma Ushijima Wakatoshi ha dimenticato che, sopra alla strada, esiste il cielo, con un sole bollente che brucia e illumina e non vuole essere ignorato.
La domanda è: lui sarà pronto ad alzare lo sguardo?
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Una notte come tante, dopo la sorprendente sconfitta della Shiratorizawa, Wakatoshi incontra Hinata Shoyo in circostante bizzarre ed è costretto a trascorrere con lui la notte più assurda della sua vita.
Wakatoshi prova una ostilità viscerale nei confronti del piccolo corvo e non vede l'ora di dividere nuovamente le loro strade.
Peccato però, che il mocciosetto non sia del suo stesso avviso.
E stia per stravolgere completamente la sua vita.
[USHIHINA - Ushijima Wakatoshi x Hinata Shoyo]
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tendo Satori, Wakatoshi Ushijima
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO XXI
Forse l’ho perso nel vento
 
Alla fine di una giornata, quando tiriamo le somme,
l'unica cosa che vogliamo davvero è stare vicino a qualcuno.
Se è così, allora perché manteniamo le distanze
e fingiamo di non aver cura dell'altra persona?
È soltanto un alibi.
Scegliamo le persone a cui vogliamo stare vicino.
E una volta fatta la nostra scelta,
quelle persone non le lasciamo più.
 
Il freddo delle chiavi gli pizzicava la pelle, i denti di metallo penetravano attraverso il palmo delle sue mani strette a pugno, mentre l’acqua rimasta incastrata tra i suoi capelli scivolava, lenta, lungo il suo viso, colando sulla superficie del mobile dell’ingresso, formando una piccola pozzanghera.
Plic, plic, plic...
Wakatoshi la osservò inerme per un tempo vicino all’infinito, poi finalmente sollevò lo sguardo verso lo specchio di fronte a sé.
L’immagine che trovò riflessa era quella di un ragazzo zuppo di pioggia, il tessuto della camicia incollato addosso, la breve porzione scoperta delle clavicole cosparsa di rivoli trasparenti, le ciocche della frangia madide, nere. Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo irregolare, forzando un respiro che sembrava non avere alcuna intenzione di circolare correttamente e i suoi occhi erano pozzi vuoti, stagni torbidi in cui era impossibile trovare il fondo.
Non riusciva ad inseguire alcun pensiero coerente.
La sua testa era un vortice di immagini, suoni, sensazioni violente – le urla di Hinata, le risposte taglienti di sua nonna, le lacrime sul viso di sua madre, la rabbia, la confusione, la voglia di esplodere… quel maledetto, inspiegabile istinto di protezione che gli ghermiva le viscere, sbucando fuori a tradimento...
Eppure, questa volta non era stato lui a proteggere Hinata Shoyo.
Era stato il contrario.
Era stato il contrario perché Hinata aveva preso le sue difese, aveva combattuto a spada tratta, lanciandosi senza paura contro Midori Ushijima, l’imperatrice invincibile che, nei suoi sogni di bambino, graffiava il mondo con il suo sguardo di ghiaccio. Piccolo e fragile com’era, si era levato in piedi e aveva lasciato divampare il fuoco che gli albergava dentro - quello che Wakatoshi aveva scorto nei suoi occhi di ambra fusa fin dal loro primissimo incontro- scuotendo le stalattiti che ricoprivano le mura del santuario degli Ushijima, gridando a pieni polmoni tutto ciò che pensava, tutto ciò che sentiva, forte di quel coraggio indomito, che un po' sapeva di incoscienza, stampato sulle molecole del suo DNA.
Nessuno aveva mai fatto niente di simile per lui.
Nessuno, mai.
E perché avrebbe dovuto, d’altronde?
Lui poteva farcela da solo.
Lui era in grado di fare qualsiasi cosa da solo.
Era sempre stato così.
Aveva sempre dato ascolto a sua nonna, perché lei aveva sempre ragione.
Anche se i suoi modi, a volte, erano troppo duri, le sue pretese troppo eccessive, le sue parole troppo affilate.
Doveva fidarsi di Midori, perché Midori sapeva cosa era meglio per il suo percorso, sapeva come renderlo grande, come renderlo forte, sapeva come non commettere mai errori.
Era vero, i sacrifici erano tanti, gli sforzi spesso disumani, sfibranti, brutali, ma questo era il prezzo da pagare per il potere, giusto?
Sudore e sangue.
Era questo che doveva immolare per gli errori del passato, giusto?
Era questo che serviva per porre rimedio a ciò che era stato, per rimettere le cose al loro posto, per rendere orgogliose le persone che gli stavano intorno.
Era così, no?
No?
Si passò una mano tra i capelli umidi per portarli indietro, dopodiché si tolse la camicia, sfilandosela da sopra la testa in maniera disordinata, facendo persino saltare qualche bottone.
Non gli importava.
All’improvviso si sentiva accaldato, a corto di ossigeno come se stesse affogando, si sarebbe strappato di dosso perfino la pelle, se avesse potuto.
Fuori il temporale imperversava e le nuvole nere, che poco prima avevano invaso il cielo della sera, oscurandolo di colpo come una macchia di catrame, adesso rombavano con irruenza - la medesima che Wakatoshi avvertiva dentro le vene, nei canali interni delle ossa.
Avrebbe voluto spaccare qualcosa.
Fece dei respiri profondi, si aggrappò al mobiletto dell’ingresso e socchiuse le palpebre.
Non aveva senso lasciarsi andare a una reazione tanto emotiva.
Lui era più razionale di così, era più forte di così.
Doveva ritrovare immediatamente il controllo di sé, ma soprattutto doveva cercare Hinata: gli era parso talmente sconvolto a casa della sua famiglia che Wakatoshi aveva temuto di vederlo sgretolarsi lì, sul pavimento, davanti a tutti e quando sua nonna aveva lanciato quella bomba, riguardo al suo passato, il dolore che gli aveva letto in faccia, aveva schiacciato persino lui.
Si guardò intorno nel soggiorno semibuio, si affacciò nel corridoio che dava alle camere da letto, ma del ragazzino non vi era alcuna traccia; la casa appariva silenziosa e intatta, senza ulteriori forme di vita.
Poi vide che la portafinestra della cucina era leggermente aperta.
Recuperò in fretta e furia la prima maglietta che gli capitò a tiro e si precipitò all’esterno.
Hinata era seduto sulle gradinate di marmo, raggomitolato come un gatto, la testa aranciata affondata contro le ginocchia che teneva abbracciate al petto. Per fortuna, il tettuccio del patio lo proteggeva dalla pioggia implacabile che si stava abbattendo sul giardino, ma lo stesso il suo corpo era scosso da tremiti febbrili, piccoli spasmi che facevano vibrare la sua schiena ricurva, con quelle scapole sporgenti come le ali di un uccello.
Wakatoshi si avvicinò, sedendosi a un gradino di distanza da lui, dopodiché bussò con cautela sulla sua spalla, per evitare di spaventarlo.
Quando ruotò il capo, il viso di Hinata era completamente bagnato di lacrime. 
“Hinata…”
“Stai tranquillo!” proruppe quello, senza lasciarlo parlare, asciugandosi gli occhi con le maniche della camicia come meglio poteva “Raccolgo la mia roba e me ne vado! Entro domani mattina, non mi vedrai più!” gli disse, distrutto, tirando su forte con il naso.
Wakatoshi aggrottò la fronte, la stomaco colto da una fitta dolorosa, “Non vuoi più stare qui?” gli chiese allora, con una voce malferma che non aveva affatto calcolato. 
“Certo che sì! Ma tu stai per cacciarmi via, non è vero? Sono stato avventato, maleducato, irrispettoso! Mi sono comportato come un bambino… tutte cose che detesti, dico bene? E poi tua nonna è stata chiara! Non mi vuole vicino a te! Perciò lo so che adesso tu… che tu…” e ricominciò a piangere, più forte di prima.
A quel punto, Wakatoshi allungò una mano sul volto del ragazzino, poggiandola sulla sua guancia umida.
Non sapeva, davvero, perché lo avesse fatto.
Era stato un gesto puramente istintivo, il suo braccio si era mosso in completa autonomia rispetto al resto del corpo, tuttavia, quando il cervello parve finalmente registrare l’azione, si accorse che tutti i motivi che aveva per mantenere le distanze, tutte le ragioni per trovare quel gesto inopportuno, stupido o insensato, avevano perso qualunque significato. 
La pelle di Hinata era liscissima, morbida nonostante fosse tutta impiastricciata di lacrime. Come aveva immaginato svariate volte, a tenere le dita aperte finiva per raccogliergli il viso quasi per intero - dalle ciocche sudate dei suoi capelli sulle tempie, al punto in cui la sua giugulare pompava veloce- ma fu il calore che emanava a sconvolgerlo sul serio, quel tepore accogliente che gli penetrò attraverso il palmo per poi irradiarsi, lento, fino al centro esatto del suo petto.
Hinata immerse gli occhi nei suoi di scatto, lucidi e curiosi, un po' spauriti.
Wakatoshi capì, allora, perché non avesse mai voluto nemmeno sfiorarlo, perché, al di là della repulsione istintiva che provava per il contatto fisico, il pensiero di toccare Hinata Shoyo, tra tutti, gli causasse quel desiderio impellente di fuggire dall’altro capo dell’universo: non c’era un solo organo del suo corpo, in quel momento, che fosse nel posto in cui sarebbe dovuto stare.
“Non voglio che tu vada via.” gli disse, attraverso la furia del temporale. La sua stessa voce gli suonò estranea, eppure quelle parole erano sgorgate dalle sue labbra simili all’acqua di un rubinetto lasciato aperto, strabordando direttamente da una parte molto recondita di sé.
Hinata sbatté le ciglia un paio di volte, i capelli scossi dal vento.
“Ma tua nonna… tua nonna ha detto…”
“Lo so cosa ha detto mia nonna. Ma io voglio che tu rimanga qui, come avevamo detto. Perciò, per favore, adesso smettila di piangere. Mi fa male vederti piangere.”
“Perché ti fa male?”
“Non lo so, mi fa male e basta.”
Fu un attimo.
Hinata sgusciò nello spazio aperto del suo gomito e all’improvviso il suo petto minuto fu contro il proprio, le sue braccia esili si posarono intorno al suo collo e il suo profumo buono lo avvolse completamente, invadendogli le narici e la gola.
Wakatoshi rimase immobile.
Il ragazzino tremava forte, le sue lacrime scendevano ancora, senza freno, come la pioggia battente intorno a loro, gocciolandogli di tanto in tanto sul lembo di pelle lasciato nudo dallo scollo; eppure, la sua stretta era energica, il vigore con cui si teneva al tessuto della sua maglietta, tangibile.
Pensò che fosse buffo: la prima volta che Hinata Shoyo lo aveva abbracciato, era stato all’inizio di quella loro bislacca convivenza, quando lui aveva accettato di tenerlo lì controvoglia, in nome di un senso di responsabilità e un’assennatezza che non gli erano mai apparsi così scomodi; e stava succedendo di nuovo adesso, sì, adesso che gli aveva chiesto esplicitamente di restare.
Pensò anche che, al tempo, il gesto lo aveva infastidito, scombussolato. Aveva desiderato con ogni fibra del suo essere che il ragazzino gli si scrollasse immediatamente di dosso, invece adesso non stava provando affatto quelle sensazioni, anzi, gli ruggiva nel sangue l’impellenza di cingerlo per fermargli il pianto, per rimettere insieme i pezzi, solo che...
Hinata Shoyo era l’unica persona che – ricordava- lo avesse abbracciato negli ultimi dieci anni della sua vita; Wakatoshi non aveva idea di come si abbracciassero le persone, non era allenato, non sapeva nemmeno da dove cominciare.
Impacciatamente, mosse le braccia e circondò il busto dell’altro con quanta più delicatezza fu capace di mettere, nel timore di fargli male in qualche maniera, quindi poggiò una mano sul suo fianco e l’altra sulla sua nuca, quasi trattenendo il fiato.
Hinata smise subito di piangere.
“Chi sei tu? Che ne hai fatto di Ushijima Wakatoshi?” disse, ridendo di una risata fragile, incrinata.
“Sono sempre io. Non capisco la domanda.” rispose, confuso.
“Due mesi fa non mi avresti abbracciato… mai e poi mai!”
“Già. Forse è vero che le cose cambiano.”
“Non detesti più il contatto fisico?”
“Sì, credo di detestarlo ancora, ma adesso, con te, mi sta bene. È quello che voglio.”
A quelle parole, la figura di Hinata ebbe un brusco scossone, al punto che Wakatoshi sospettò che avesse ricominciato a piangere. Per fortuna, non fu così. Al contrario, la tensione dei suoi muscoli prese a sciogliersi piano piano e il suo respiro – il quale finiva inevitabilmente per cadere accanto al suo padiglione auricolare- si fece sempre più regolare, fino a calmarsi.
Un tuono rombò attraverso il cielo, seguito da un lampo che illuminò, come il flash di una fotocamera, il profilo delle siepi, degli alberi e delle case del vicinato, tuttavia Wakatoshi non provò alcun turbamento di fronte a quello spettacolo della natura.
Non si era mai sentito così.
Forse era stato il miscuglio di emozioni provato durante il giorno, l’angoscia intossicante che lo aveva accompagnato dal momento in cui Nana si era presentata nel suo soggiorno fino a quando la cassa toracica di Hinata Shoyo aveva cozzata inaspettatamente contro la propria, ma si sentiva privo di forze, svuotato di ogni energia.
Non era una sensazione spiacevole, in realtà.
Era come tornare a galla dopo un lungo, lungo bagno, spogliarsi delle proprie armi, dopo una guerra durata secoli.
Era un sollievo.
Passarono altri minuti di perfetto silenzio, accompagnati soltanto dal frastuono del temporale, poi “Perché si comportano così con te?” sussurrò Hinata tra le ciocche dei suoi capelli, mettendogli i brividi “Perché ti trattano come se non fossi abbastanza?”
“Perché ti importa di come mi tratta la mia famiglia? Non sono problemi tuoi.”
Perché mi importa di te, Wakatoshi. Mi importa moltissimo…” rispose l’uccellino con un filo di voce, muovendo la testa quasi stesse cercando di farsi piccolo, di nascondersi nell’incavo del suo collo.
Wakatoshi scostò allora Hinata da sé gentilmente, lasciando che trovasse una posizione comoda sui gradini più in basso di fronte a lui, quindi scrutò il suo visetto da bambino senza dire nulla, per qualche istante, diviso dentro dalla decisione che stava per prendere. 
Scoprì che faceva dannatamente paura, mettersi a nudo, raccontare la propria verità ad un’altra persona.
Supponeva un grado di fiducia che non aveva mai provato nei confronti di nessuno, l’imprudenza di mostrare e ammettere le proprie debolezze e le proprie brutture, ma anche il desiderio irrazionale di farsi comprendere, di permettere a qualcuno di entrare nel proprio universo e abitarlo.
Con lo stomaco svuotato e le dita un po' tremanti, recuperò il suo portafogli dalla tasca dei pantaloni, ne estrasse una fotografia e la porse a Hinata.
Il ragazzino la osservò a lungo, con le sopracciglia aggrottate, “Chi sono queste persone?” chiese dopo un poco, girando e rigirando l’immagine che aveva tra le mani per studiarla da ogni angolazione possibile.
Wakatoshi strinse le labbra, “Sono mia madre e mio padre.”
Lo stupore di Hinata fu del tutto prevedibile.
L’identità dell’uomo nella foto destava certamente qualche perplessità, se non altro perché – ipotizzava- associare una persona dall’aspetto così solare e aperto, ad uno come lui, doveva apparire alquanto singolare, ma la verità era che chiunque avesse visto Akiko Ushijima negli ultimi anni, avrebbe fatto una enorme fatica a riconoscerla nella ragazza raggiante, fiera e sicura di sé immortalata lì.
“Adesso che lo guardo bene, tuo padre ti somiglia… anche se non credo tu abbia preso da lui il carattere! Ma lei… lei è Akiko? Com’è possibile? È così diversa dalla donna che ho conosciuto stasera…” esclamò Hinata, infatti, avvicinando l’istantanea fin sotto al naso; all’improvviso, tuttavia, il suo sguardo si intristì “Che cosa le è successo?”
Wakatoshi percepì distintamente una vertigine, prima di lasciarsi cadere nel vuoto. 
“Io non sarei dovuto nascere. Non a quel tempo, almeno. Non da quelle persone. Io sono frutto di un errore di percorso.” cominciò a raccontare, fissando le proprie dita congiunte in mezzo alle ginocchia “La famiglia Ushijima è sempre stata una famiglia di grande onore, i nostri avi erano politici, banchieri, governatori. Mio nonno era un diplomatico e mia madre, unica erede, è stata cresciuta fin da bambina per essere altrettanto grande, per aspirare alla vetta. Eccelleva in tutto ciò che faceva, ballava danza classica, suonava il piano, padroneggiava cinque lingue diverse, a scuola primeggiava ed era ammirata da alunni e professori. Era entrata senza problemi alla facoltà di giurisprudenza e sarebbe diventata sicuramente un giudice delle cariche più alte. Era tutto stabilito, una strada in discesa.”
Wakatoshi prese una pausa e si grattò la nuca, si massaggiò il collo: parlare a lungo non era un’attività che gli si confaceva, ma quella notte, a quanto pareva, niente sembrava marciare sui soliti binari. 
“L’ultimo anno di liceo, le mancavano due crediti. Avrebbe potuto diplomarsi ugualmente e a pieni voti anche senza, ma lei era una perfezionista, così si scelse un club: optò per la squadra di pallavolo soltanto perché era molto famosa, sarebbe stata benissimo sul suo curriculum e poi c’era molta gente, il suo aiuto non sarebbe stato indispensabile, la partecipazione non le avrebbe richiesto un grande dispendio di tempo. Fu lì che incontrò Takashi Utsui, mio padre, membro titolare della squadra Shiratorizawa.”
“Cominciarono a uscire per gioco, o meglio, mia madre insistette parecchio – lei otteneva sempre quello che voleva- mentre mio padre acconsentì quasi per sfinimento… ma col tempo finirono per affezionarsi moltissimo l’uno all’altra. Quando me lo raccontava, mia madre diceva sempre che Takashi sapeva fare una cosa che nessun’altro sapeva fare: farla ridere, farla sentire leggera. E credo che fosse davvero così. Mio padre era un po' come te, Hinata, almeno questo è il ricordo che ho di lui: un uomo indissolubilmente positivo, sempre col sorriso sulle labbra.”
A quelle parole, vide gli angoli della bocca del ragazzino curvarsi verso l’alto e la sua espressione concentrata ammorbidirsi dolcemente. Era comprensibile. L’inizio della storia di Akiko e Takashi, in effetti, somigliava a quello di una bella favola, del tipo che si raccontavano ai bambini prima di andare a dormire - facile, romantica, sicuramente a lieto fine.
Scosse piano la testa.
Il rombo arrabbiato di un tuono lo riportò alla dura verità.
“Mia madre rimase incinta tre mesi prima del diploma, aveva solo diciassette anni.” continuò, prendendo un lungo, profondo respiro “Non lo dissero a nessuno, né ai miei nonni né ai loro amici. Nessuno. La vergogna era troppa, soprattutto per quanto riguardava mia madre: una notizia del genere, per la famiglia Ushijima, era una macchia sul loro onere, avrebbe distrutto anni di dignità e di prestigio. Per questo, decisero di scappare a Tokyo. Attesero la cerimonia del diploma, ma la sera stessa salirono sul primo treno disponibile, fuggendo senza lasciare traccia.”
“Avevano dei risparmi da parte, li usarono per prendere un appartamento e trovarsi un lavoro. Pensavano di farcela. Mia madre avrebbe frequentato una facoltà di giurisprudenza più piccola, per rientrare nelle spese e mio padre avrebbe giocato in questa squadra della seconda divisione in cui era riuscito ad entrare, seguendo dei corsi serali. I primi ricordi che ho della mia infanzia sono fatti di corse e di orari a incastro, di aule di università affollatissime dove mia madre mi lasciava, mentre dava un esame o degli spalti della palestra dove mio padre seguiva i suoi allenamenti. Era difficile – molto difficile- ma loro tentavano di mantenersi a galla. Andava bene. Stavamo bene. O così mi sembrava. Comunque, non durò a lungo…”
“Non so esattamente cosa successe, ad un certo punto, ma le cose in casa presero a farsi tese, complicate. Forse, banalmente, l’entusiasmo dell’inizio era scemato e i miei genitori cominciarono a capire che la vita da adulti era molto più ardua di quanto si fossero aspettati.”
La fede non serve a niente, Hinata, ti illude soltanto, prima o poi dovrai sempre fare i conti con la verità.”
Wakatoshi si fermò un momento, qualcosa di simile a un ammasso di aculei bloccato a metà della gola.
Non si era mai reso conto di quanto dolore gli provocassero quei ricordi.
Certo, facevano parte della sua storia, eppure all’improvviso si accorse che, in maniera del tutto istintiva, la sua mente aveva cercato di offuscarli, di distaccarsene, arginandoli in un angolo buio della sua coscienza.
Riaprì e chiuse le dita, scoprendole alquanto instabili.
Riprese da dove aveva interrotto.
“I soldi scarseggiavano di continuo, stare dietro a tutto era complicato. Mia madre perdeva un sacco di lezioni, saltava gli esami, lavorava fino a tardi cinque giorni su sette; mio padre invece si infortunava spesso: il problema era che faceva tre lavori contemporaneamente, studiava, badava a me, per cui non riusciva a stare dietro agli allenamenti e le sue prestazioni atletiche, ben presto, cominciarono a risentirne. Erano sempre più stanchi, sempre più infelici. E così i loro litigi iniziarono a farsi sempre più frequenti.”
“È l’immagine più nitida che ho di loro due: le urla, la frustrazione, le porte sbattute, le lacrime, il rancore. Mio padre cambiò, si spense, si incupì, ma fu mia madre ad accusare maggiormente della situazione, prendendo a chiudersi in se stessa. Rimaneva a letto per giorni interi, guardando il soffitto; non parlava, non mangiava, non reagiva. A volte, di notte, veniva nel mio letto, mi abbracciava e piangeva per ore, fino al mattino. Mio padre cercò pure di portarla in una clinica, ma la terapia era troppo costosa, a stento riuscivano a pagare l’affitto, era impensabile comprare anche degli psicofarmaci.”
“La verità è che…” si interruppe ancora, gli aculei, questa volta, ficcati nella carne, a sangue “La verità è che li avevo incastrati in una vita che non volevano, che immaginavano diversa. Avevo spazzato via tutte le loro ambizioni, tutti i loro sogni. Entrambi erano destinati a grandi cose, invece la mia nascita aveva rovesciato completamente il loro futuro.”
Sussultò.
D’un tratto, le mani del ragazzino erano poggiate sulle sue, minuscole rispetto alle proprie, finissime e quasi bianche, eppure così calde a contatto con le sue dita ghiacciate che Wakatoshi non oppose resistenza, accettò quella vicinanza innaturale – spaventosa- perfino quando i suoi pollici presero a carezzargli la porzione interna dei polsi, facendogli venire la pelle d’oca.
Sollevò gli occhi nei suoi, in un moto di vero e proprio autolesionismo.
Gli si annodò la gola.
Nessuno lo aveva mai guardato come lo stava guardando Hinata in quel momento, come se avesse voluto prendersi il suo veleno, come se avesse voluto alleggerirlo di un peso.
Come se avesse voluto salvarlo.
Nessuna pretesa, nessun obbligo, nessun dovere.
Per la prima volta nella sua vita, qualcuno gli stava offrendo qualcosa, invece di esigerla da lui.
Gli stava facendo un dono – supporto, comprensione, empatia- invece di succhiare linfa dal suo sudore, dalla sua fama, dalla sua fatica.
Ed ovviamente era Hinata Shoyo a farlo, non sapeva nemmeno perché ne fosse tanto sorpreso, a quel punto.
Hinata Shoyo che si muoveva nel mondo in quel suo modo caotico e affamato, luminoso come la luce del sole a mezzogiorno e pronto a scaldarlo, con quella medesima luce, senza reclamare nulla in cambio.
Hinata Shoyo che lo aveva sempre trattato non come gli altri, che gli chiedevano di dare tutto se stesso, ma come qualcuno che voleva dargli tutto se stesso - tutto, senza sconti, senza paura – con quel suo coraggio e quella sua fiducia assolutamente folli, che però gli permettevano di mostrare il cuore sul palmo di una mano.
Hinata Shoyo che ormai gli si era infilato sottopelle e aveva tutta l’intenzione restarci.
“Cosa è successo, poi? Perché siete tornati a Miyagi?” gli domandò allora il ragazzino, facendolo uscire dalla trance dei suoi pensieri.
Wakatoshi deglutì, “All’improvviso, a mio padre venne offerto un posto sulla panchina di una squadra piuttosto importante, in America. Non so come o tramite chi. Si trattava di uno stage, per iniziare la carriera di allenatore. In realtà, non credo fosse molto interessato al ruolo, al principio, ma poi accettò ugualmente: era la sua via di fuga.”
“Partì due mesi dopo, non aspettò nemmeno di ultimare la separazione, quindi io e mia madre fummo costretti a tornare a Miyagi, a casa di mia nonna. Mia madre stava troppo male, la decisione di Takashi non aveva fatto altro che distruggere i suoi nervi ancora di più, ma almeno qui, mia nonna poteva provvedere alle sue cure. Non che questo abbia risolto qualcosa, come hai potuto constatare…”
“Non è stato facile, all’inizio. Mia madre era isolata in un’ala della casa, la vedevo pochissimo perché secondo i medici qualsiasi interazione col mondo esterno poteva farle perdere l’equilibrio, praticamente era Nana ad occuparsi di me, mentre mia nonna… il fatto è che a Tokyo, qualche tempo prima, ero stato notato da un talent scout durante un allenamento nella mia scuola elementare. Ho sempre giocato a pallavolo con mio padre, nel tempo libero, per questo ero già piuttosto bravo. Questo signore prese contatto con mia nonna o forse la conosceva già, non l’ho mai capito, comunque, una volta tornati a Miyagi, Midori diede adito a tutte le risorse della famiglia Ushijima per farmi intraprendere una carriera agonistica.”
“Lei è sempre stata molto severa, Hinata. E lo so che i suoi modi, spesso, possono risultare aspri, ma io le devo molto. Lei ci ha ripreso in casa nonostante ciò che era successo, si sta occupando della salute di mia madre e ha provveduto in tutto e per tutto a darmi il miglior sostegno possibile per quanto riguarda la pallavolo.”
“A volte è dura, ma io amo questo sport. È l’unica cosa che conta per me. E vincendo, posso ripagare il mio debito. Ho tolto alla famiglia Ushijima il prestigio e adesso, seguendo le sue direttive, non solo ho l’opportunità di restituirglielo, ma posso portarlo perfino ad un livello più alto.”
“Japan, posso farti una domanda?” si intromise all’improvviso Hinata, stringendo un poco di più la presa sulle sue mani. La sua espressione era crucciata, seria, infatti una piccola ruga gli deturpava la fronte, di solito pallida e distesa come un foglio di carta.
“Va bene.” acconsentì Wakatoshi, frattanto che reprimeva l’istinto di liberare le dita per grattare via quel cruccio inconsueto dal viso dell’altro.
“Da quanto tempo è che non vedi tuo padre?”
“…  Nove anni.”
“Nove anni?!”
Lo shock del ragazzino gli rimbombò nella cassa toracica come il rinculo di una pistola.
Colto dal disagio, si strinse nelle proprie spalle, distolse lo sguardo verso le piastrelle lucide dei gradini.
Non gli piaceva parlare di Takashi.
Quando qualcuno metteva in mezzo l’argomento, il suo corpo si irrigidiva neanche fosse stato immerso nel cemento armato, e poi sul suo stomaco scendeva come un peso, una specie di gigantesco masso che lo tirava giù… ancora più giù… sempre più giù… gli mancava il fiato…
Deglutì a vuoto.
Non sapeva perché, ma la pelle di Hinata, a contatto con la sua, era diventata incandescente.
“Scusa, sono stato invadente! Se non vuoi rispondere, non sei obblig-“
“All’inizio lo sentivo spesso. Telefonava una volta alla settimana, veniva in Giappone almeno una volta al mese. Dopo il divorzio però, ha smesso di farlo.” spiegò Wakatoshi, nonostante ogni sillaba sembrasse la lama di un coltello incastrata nel palato “Ormai sono nove anni che non torna qui. Anche le telefonate sono molto rare. Non credo nemmeno che abbia il mio numero, chiama soltanto per le feste programmate – Natale, compleanni- e sempre a casa di mia nonna. L’unica cosa che fa è regalarmi un cellulare di ultima generazione ogni anno. Ho smesso anche di scartarli, li tengo ammassati di là.”
“Tu sei arrabbiato con lui.”
La constatazione di Hinata lo trapassò da parte a parte.
“Non sono arrabbiato con lui.” rispose a denti stretti “Sarebbe infantile esserlo. Se non chiama o non torna a casa, è perché ha impegni che non glielo consentono. Nulla di più.”
“Io non ti ho chiesto se è giusto o no, Wakatoshi. Ti ho chiesto se è quello che provi.”
A quel punto, successe una cosa davvero singolare – giusto un po' di più di quanto già non fossero stati gli eventi di quella giornata: Wakatoshi sentì distintamente qualcosa dentro di sé spezzarsi, producendo un rumore di vetro in frantumi.
“Sì, sono arrabbiato.” ammise, infine, rigurgitando quella confessione con una amarezza che gli avvelenò il sangue, come una metastasi impiantata nelle profondità delle sue viscere “Sono arrabbiato perché ha lasciato me e mia madre e non si è mai voltato indietro. Non gli importa della malattia di mia madre. Non gli importa nemmeno di me, anche se sono diventato il più bravo, anche se sono diventato uguale all’asso che diceva di stimare tanto. È come dice mia nonna, lui non ci ha mai voluti.
A quel punto, Hinata trascinò le loro mani unite contro il petto, di scatto, congiungendole tutte e quattro in un groviglio premuto sullo sterno.
Aveva ricominciato a piangere, ma non era un pianto sofferente come in precedenza, era un pianto quieto, malinconico.
“Sembri sempre così forte, così impassibile… invece ti porti dentro tutte queste cose…” mormorò, strizzando gli occhi per la commozione.
“Non hai motivo di essere triste. Quello che ti ho raccontato è il passato, non conta niente. Contano solo il presente e gli obiettivi che mi sono prefissato.”
“Dovresti giocare a pallavolo perché ti fa stare bene! Avere addosso un tale carico di aspettative, non è giusto, non è sano! Sarebbe troppo per chiunque!”
Wakatoshi si liberò dalla presa di Hinata con un piccolo strattone, poi - sebbene in modo alquanto impacciato e grossolano- fece scorrere tutte e quattro le dita sui suoi zigomi per asciugargli le lacrime. “Non è troppo per me, Hinata.” disse al ragazzino, le cui guance erano parecchio arrossate a causa dell’attrito poco delicato coi suoi polpastrelli. Non appena intuì che quello stava per protestare, “Smettila. Non ti devi preoccupare per me. Sono adulto. So gestire la mia vita da solo.” Aggiunse con tono pratico, guardandolo dritto negli occhi.
“Tu non sei più solo, Wakatoshi.”
Di fronte a quella affermazione, il giovane capitano non trovò alcuna risposta decente.
Si limitò a restare immobile, mentre il calore delle sue sillabe scendeva lentamente lungo la sua spina dorsale, insieme ad un brivido che gli mise a soqquadro tutti gli organi.
Il battito del suo cuore intraprese un ritmo irregolare e singhiozzante, eppure non gli provocò alcun dolore.
D’un tratto – non avrebbe saputo dire né come né quando- seppe solo che Hinata si era trascinato seduto al suo fianco, spalla contro spalla, le loro gambe attaccate insieme.
 
Rimasero a osservare la pioggia, così vicini, in silenzio, per un tempo indefinibile.
 
 
Anche se facciamo loro del male,
le persone che sono ancora con te alla fine della giornata,
sono quelle che vale la pena tenersi strette.
Certo, a volte la vicinanza può diventare eccessiva,
eppure, quell’invasione dello spazio privato,
può essere proprio quello di cui abbiamo bisogno.
- Grey’s Anatomy
 
NOTE AUTORE
Questo è stato in assoluto uno dei capitoli più complessi da scrivere di tutta la long, pertanto, mi scuso con tutto il cuore per il ritardo con cui ha visto la luce.
Ma, capitevi… doveva essere perfetto!
Oddio, non che il risultato lo sia davvero, alla fine, poteva venire molto-molto meglio! Ma desideravo con tutta me stessa che fosse accurato e che questa mia visione della storia di Ushijima non vanificasse il percorso che il personaggio ha fatto fino a questo momento, finendo per cadere nell’OOC (rischio altissimo, visto che Ushiwaka nel canone non si trova ad affrontare chissà quale gamma di emozioni!).
Ai posteri – e a voi lettori!- l’ardua sentenza…
 
Come dicevo, siamo di fronte alla svolta definitiva che Ushijima Wakatoshi ha fatto nel corso di questa long, la sua liberazione dalle catene: parlando con Hinata, non solo l’asso ha modo di analizzare il suo passato, ma anche di comprendere come, in maniera del tutto inconscia, gli echi di quel dolore, di quella delusione, si riverberino ancora tanto su di lui. Se Wakatoshi fino ad adesso ha lasciato Hinata avvicinarsi a lui, questa volta lo lascia entrare dentro, permettendo così al corvetto (e a noi tutti) di scoprire una parte molto intima e molto fragile del suo cuore.
 
Ho amato scrivere e immaginare la storia di questi due ragazzi, Akiko e Takashi. Sono molto curiosa di sapere cosa ne pensate!
Di sicuro, adesso capite meglio le condizioni di Akiko e a cosa si riferiva Midori Ushijima, la nonna di Wakatoshi, quando nel capitolo precedente parlava di “debito da pagare”! Ma anche il motivo per cui Wakatoshi è sempre stato così avverso alla “fiducia illogica e cieca” di Hinata Shoyo nelle proprie capacità.
 
Per quanto riguarda Takashi Utsui il discorso è complicato. Vedete, io ho sempre percepito un po' di malinconia nel discorso che Wakatoshi fa con Tendou sulla sua famiglia, nella terza stagione: a parte che un divorzio dei genitori è sempre doloroso, ma poi Wakatoshi afferma di non vedere praticamente mai suo padre – addirittura non dà per scontato che quello veda le sue partite in televisione o sia fiero del fatto che sia diventato un campione del Giappone- nonostante, di fatto, egli sia la persona da cui è partita la sua passione per la pallavolo, lo sport che è il fulcro della sua esistenza.
Non so, l’ho sempre trovata una cosa molto triste, che mi ha colpito molto, per questo DOVEVA ESSERE PRESENTE nella mia storia.
 
Sappiate, però che la storia della famiglia Ushijima non si conclude affatto con questo capitolo.
I più attenti, probabilmente, avranno già colto delle avvisaglie… dei passaggi che non tornano…
Siamo proprio sicuri che tutto corrisponda alla verità e invece non sia frutto della manipolazione di qualcun’altro?
 
Avviso che, il prossimo capitolo, potrebbe ugualmente richiedermi un poco di tempo in più per la sua pubblicazione… perché, sì, amici, siamo arrivati proprio a quel momento lì e NULLA DEVE ESSERE LASCIATO AL CASO, NEMMENO UNA SILLABA!
 
A presto,
Violet Sparks
   
 
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