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Autore: A_Typing_Heart    18/02/2023    1 recensioni
Due morti accidentali identiche. Dubbi, sospetti e insabbiamenti. Una chiesa che cela gelosamente i suoi segreti e i suoi tesori. E una richiesta silenziosa che Mikaela, sopravvissuto a una pericolosa setta, non può lasciare inascoltata.
* segue Il Vampiro di West End *
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Crowley Eusford, Ferid Bathory, Krul Tepes, Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La spada di Dio'
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La mancanza di riposo che affliggeva Ferid dalla notte della sua esperienza astrale iniziava a farsi sentire: si trovò per la seconda volta in una giornata a barcollare vistosamente mentre camminava per poi rendersi conto di non sapere dove si trovasse. La stanchezza delle lunghe giornate dense di impegni e studio, i resoconti con Mika fino a notte fonda e talvolta pensieri che non consentivano un riposo tranquillo stavano iniziando a logorare le sue energie.

Confuso dopo quella sbandata nel corridoio ci mise qualche secondo a rendersi conto di dove si trovava e ancora un altro po’ per ricordarsi che cosa era venuto a fare lassù. Sospirò e si massaggiò gli occhi che bruciavano come se stesse pelando chili di cipolle.

Se Crowley sapesse che cosa sto facendo si arrabbierebbe tantissimo… come la volta che sono quasi svenuto a casa perché non mangiavo e non dormivo.

Ferid si trovò a sorridere incerto a quel ricordo: gli aveva dimostrato una dolcissima preoccupazione, ma gli aveva anche rifilato delle tremende uova strapazzate che ancora pensava fossero le peggiori che avesse mai mangiato.

Decise che sarebbe andato a discutere brevemente della lista che i suoi nuovi collaboratori Lucky e Welch avevano stilato sulle attrezzature con l’ufficio contabile e poi, prima della lezione del pomeriggio, sarebbe andato in camera a dormire un po’: non sarebbe stato di aiuto a nessuno se non fosse stato in grado di reggersi in piedi, ragionare lucidamente o se, ancora peggio, fosse stato costretto a essere ricoverato fuori da Bluefields.

Non fu difficile trovare l’ufficio contabile grazie alla targhetta accanto alla porta, e visto che quella era aperta Ferid entrò senza bussare. Scoprì che dentro c’era un vecchio modello di stampante con due cassetti sul lato destro e due scrivanie angolari appoggiate a T che delineavano due spazi di lavoro separati, ognuno con la sua sedia, il suo schedario, una calcolatrice da tavolo e dei computer che avevano l’aria di venire dal secolo passato.

Le postazioni erano vuote e Ferid stava chiedendosi dove potessero essere finiti i responsabili quando una zaffata di caffè lo fece voltare verso sinistra. Una porta a soffietto collegava la camera a uno spazio adiacente che ricordava il cubicolo dietro la cassa del Magick.

D’improvviso si svegliò completamente e il cuore gli salì fino alla gola: lì in piedi, con un abito azzurro dalla gonna lunga, una tazza di caffè in mano e un sorriso da ammaliatrice in volto, stava la donna che un tempo era Estelle Young.

«Ciao» lo salutò lei con un tono amichevole. «Ti sei perso?»

«Io…»

Ferid si morse il labbro. Era ancora la ragazza che non riusciva a guardare in faccia, dopo così tanti anni e tanto lavoro psicologico sull’imprevedibile, il passato e la paura.

«È l’ufficio contabile… no?» riuscì a dire dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio.

«Proprio quello.»

«Allora non mi sono perso.»

«Molto bene» replicò lei, apparentemente ignara del suo disagio. «Non mi capita mai di vedere dei novizi qui negli uffici, sai…»

Per la prima volta Ferid guardò l’abito di Estelle rendendosi davvero conto di cosa significasse: l’azzurro voleva indicare che era una Rinata, una donna ribattezzata, e in quanto tale lui non avrebbe neanche dovuto rivolgerle la parola. Lei, tuttavia, non si faceva un problema che un novizio le parlasse.

«Che cosa posso fare per te?»

«Ah… beh, è una questione un po’ complessa, ma volevo sapere se e come Bluefields potesse far fronte a una spesa a quattro zeri.»

Estelle parve intrigata e preoccupata al tempo stesso.

«E la prima cifra quale sarebbe? Perché fa tutta la differenza…»

Ferid aprì il foglio della lista delle attrezzature con i relativi costi – rigorosamente relativi a un attrezzo usato – e glielo porse. La donna nascose non troppo bene il suo stupore e scosse la testa, facendo ondeggiare i suoi capelli scuri e fini.

«No, mi dispiace. Non c’è modo che Bluefields possa spendere quella cifra, a meno che la sede centrale non ci dia una buona parte come sovvenzione.»

La scelta di parole tradì un passato come impiegata nella contabilità o simile, il che chiarì a Ferid come mai potesse essere finita a fare i conti per la parrocchia. Dal lato più negativo, la sua risposta non spianava alcuno dei dossi sulla strada tortuosa che avevano davanti per attuare il suo piano.

«Quanto potrebbe spendere?»

«Eh?»

«La comunità. Quanti soldi ha? Quanto può investire?»

«Guarda che questo è un monastero, non un’impresa commerciale… non facciamo investimenti.»

«Sì, è proprio questo che non riuscite a capire da queste parti» obiettò Ferid, un po’ più brusco di quanto intendesse essere. «Lo è. Come ogni monastero cristiano dall’anno zero in avanti Bluefields è un’impresa, e il primo obiettivo dev’essere l’azzeramento delle spese. Guadagnare abbastanza da coprire le spese che ha per il terreno, la manutenzione, i membri… riesce almeno a fare questo?»

Estelle lo guardava come fosse stato uno sconosciuto che le si era avvicinato per strada per iniziare a farle strane domande e darle oscuri ammonimenti. Dato che lei continuava a fissarlo stralunata Ferid si spazientì e sollevò le mani esasperato.

«Allora? Riesce a fare almeno questo o no?»

«Ah… uhm, ecco… io… non direi, no» ammise lei, improvvisamente più seria e reattiva. «Non abbiamo introiti regolari, il fondo stanziato dalla chiesa di Nostro Signore delle Acque di Ashby è ormai esaurito e le donazioni, beh…»

Ferid sospirò e si passò le mani sugli occhi.

«Peggio di quanto pensassi.»

«Tu sei… una specie di consulente finanziario, o qualcosa del genere? Perché padre Nereus non mi ha detto nulla e credevo che le revisioni le dovessimo consegnare la settimana prossima.»

Di colpo Ferid aprì gli occhi e guardò la stanza in cui era. Scorse la donna con cui stava parlando e si rese conto di quanto avventatamente si stesse muovendo, nella fretta di conquistare la sua roccaforte. Abbassò lentamente le mani.

«Pensavo mi conoscessero tutti, qui. Sai, il satanista? Quello lì. Ma forse per questo riesco a vedere un po’ meno il lato spirituale del luogo e un po’ di più quello pratico.»

Con suo stupore Estelle tese un sorriso che – a meno di non aver preso un clamoroso abbaglio per la stanchezza – avrebbe definito eccitato a quella notizia.

«Quello che intendo dire è che se questa comunità non si mantiene da sola verrà abbandonata presto» si affrettò ad aggiungere Ferid, per deviare da quel territorio pericoloso. «La Chiesa dell’Acqua ha pochi accoliti e solo quattro diocesi negli Stati Uniti… ma se tutte si mantengono e la nostra no, è questione di pochi anni o forse di mesi prima che chiudano i battenti.»

«Come una filiale che non fa incasso.»

«È esattamente questo che siamo adesso» confermò lui, infiammato dal fatto che qualcuno finalmente capisse il suo punto di vista. «Siamo un posto isolato in una zona rurale, una ex piantagione… vedi, in questa lista…»

Riacchiappò il foglio con la lista degli attrezzi e si lanciò in una spiegazione diretta e sintetica – per quanto gli riuscisse – come se avesse davanti un intero comitato di investitori facoltosi, snocciolando le prime fasi della sua strategia economica a una Estelle che ascoltava interessata e annuiva di tanto in tanto.

«È davvero un’idea eccellente» convenne lei alla fine. «La soluzione l’abbiamo avuta sotto gli occhi tutto il tempo e non l’abbiamo mai notata… ma temo che tu sia arrivato troppo tardi.»

Estelle sospirò afflitta, sfogliando le pagine di appunti.

«Non abbiamo più i capitali per sostenere l’investimento iniziale… e a meno che padre Maim non sia più che lungimirante non sborserà così tanto per Bluefields. In realtà dal Michigan chiamano spesso, non sono contenti della gestione della situazione qui» gli svelò lei, abbassando la voce. «Credo che abbiano mandato qui padre Vann da Nashville per fargli dare un’occhiata e decidere se valga la pena mantenere la proprietà, o forse per fargli prendere il comando…»

Padre Vann… quello che per poco non aveva preso Mika con le mani nella marmellata? Non l’ho ancora visto da quando sono qui… chissà se è andato a riferire personalmente ai piani alti che cosa ha visto?

Non poteva darsi per vinto. Aveva il piano giusto, aveva l’uomo giusto: non poteva ritirarsi dalla partita con le carte buone in mano. Avrebbe combattuto per Bluefields, a costo di incatenarsi al cancello come forma di protesta… o di comprarsela a moneta sonante dietro prestanome.

«Quanto possiamo spendere, al momento attuale? Ora, come se dovessimo andare a una fiera agricola domani mattina. Quanti soldi ha la comunità, stringendo le altre spese al massimo?»

«Non è una domanda facile…»

«Il fatto che non sia facile rispondere neanche con una stima approssimativa dà l’idea di quanto sia stato gestito male questo posto.»

Estelle parve per la prima volta piccata dal suo commento.

«Per curiosità, che lavoro facevi prima di arrivare qui?»

Ferid non rispose subito. Per la sua copertura avrebbe fatto meglio a dire di non aver combinato granché e stare sul vago, ma se voleva sperare che qualcuno gli lasciasse le redini di quella che sperava essere una ripresa economica doveva ottenere quanto più appoggio possibile. Decise di essere sincero ma intorbidire le acque quanto bastava a proteggere la sua identità.

«Negli anni ho… gestito il reparto amministrativo di un’officina… ho avuto un negozio di antiquariato per tanti anni, sono abituato ai numeri.»

L’irritazione sul bel viso di lei era sparita.

«Oh, quindi hai esperienza nel commercio. Ecco perché mi stai strapazzando così tanto…»

Emise una risatina nervosa e in quel momento Ferid vide in lei qualcuno che non era la Estelle Young che lui ricordava: vanitosa, altezzosa, irriverente, carina da vedere ma in definitiva insopportabile. Quella non avrebbe mai avuto una ragione al mondo di sentirsi a disagio o di addossarsi la responsabilità – anche parziale – di una gestione fallimentare dei conti di un’impresa.

«Non è colpa tua, Estelle… non si può tenere sotto controllo i costi di una comunità così estesa da soli, neanche per chi è un professionista del settore. Come si suol dire, il pesce puzza dalla testa.»

La donna lo guardò negli occhi con una strana espressione, con una forza improvvisa e sbalorditiva, come se gli occhi brillanti di un gattino nell’ombra si fossero improvvisamente rivelati essere quelli di una pantera. Ferid ebbe una sensazione sgradevole, come il principio della paura.

«Oh, come sono maleducata! Ti ho lasciato parlare qui per una mezz’ora senza neanche offrirti qualcosa… il caffè dev’essere ancora caldo, ne vorresti una tazza?»

«Ah… io… perché no» balbettò lui, preso di sorpresa. «Grazie…»

Estelle abbandonò la sedia così in fretta che quella fece un paio di giri su se stessa prima di bloccarsi e Ferid la guardò sparire nella stanza accanto. Si mise a riordinare i suoi fogli di appunti e le liste, poi realizzò che cosa aveva appena fatto. Si coprì la bocca con la mano.

L’ho chiamata per nome! Sono un idiota, come mi è venuto di farlo?! L’ho chiamata Estelle!

Terrorizzato per quel clamoroso piede in fallo decise di battere immediatamente in ritirata e prendersi il tempo per elaborare una scusante che reggesse abbastanza, ma aveva fatto un paio di passi prima che lei gli si piazzasse di fronte con una tazza di caffè fumante e il sorriso di un vampiro che sente già l’odore del sangue.

«Il tuo caffè» gli disse con un tono mielato che la rendeva ancora più inquietante. «Anche se sei di fretta dovresti godertelo… è davvero buono.»

«S-sì… grazie.»

Ferid prese il bicchiere, deciso a trangugiare il caffè alla maggiore velocità possibile e poi tagliare la corda. Soffiò sul liquido fin troppo caldo per il pieno agosto e guardò Estelle sedersi sulla sua sedia, accavallando le gambe con troppa lentezza per essere naturale: lo sapeva, perché lui tendeva a fare la stessa cosa quando voleva che un uomo guardasse quelle.

«Sai, ti ho intravisto qualche volta. Alla mensa, soprattutto.»

«Beh… è… ovvio, no? Alla mensa ci siamo tutti.»

«Mh mh… e tu non passi inosservato, con quei capelli argentati.»

Il sorso di caffè restò come bloccato nella gola di Ferid; non andava giù e non tornava su.

Lo sa. Ha capito chi sono.

«Conoscevo un ragazzino, tempo fa… ai tempi della scuola superiore» esordì lei, con gli occhi turchesi piantati nei suoi. «Un ragazzino timido… impacciato… di quelli che non guardano negli occhi nessuno quando camminano.»

Fece una pausa così lunga che Ferid ne dedusse che volesse un commento.

«Ce n’è almeno uno in ogni scuola, penso.»

«Nella mia c’era lui. Avevamo soltanto un corso insieme, quello di letteratura… era l’unica occasione in cui lo sentivo parlare, e parlava tantissimo. Era un secchione in quella materia… sembrava che passasse i giorni sui libri e le notti a parlare con gli spettri degli autori. Ascoltare i suoi temi di critica letteraria era la parte migliore di quel corso…»

Non sapeva neanche lui come riuscisse a non sputare fuori il cuore con un colpo di tosse, dato che se lo sentiva dentro la gola a battere come una furia. Si accorse di stringere il bicchiere un po’ troppo forte e lo prese tra le mani come volesse scaldarsi.

La ragazza che era stata il suo amore platonico per due anni si ricordava di lui – il che avrebbe dovuto essere una tragedia in quella situazione, ma il suo cervello si era distratto – e stava elogiando i suoi compiti di letteratura, che in realtà gli erano sempre valsi un sacco di prese in giro, come se essere quasi albino e venire da una retata di prostitute minorenni non avesse fornito materiale sufficiente. Ma a lei, alla bella, insofferente e vanesia Estelle Young piaceva ascoltarlo. Era così inverosimile e che si accigliò appena e aspettò la coltellata sotto forma di commento sprezzante.

«Aveva un accento inglese davvero marcato. Era così carino da sentire.»

Estelle fece un sospiro e finalmente distolse lo sguardo dal suo, solo per puntarlo fuori dalla finestra con un sorriso più ampio.

«Ricordo ancora alcuni passaggi del suo tema su Paradiso perduto di Milton… ho ancora il suo libro, sai?»

Ferid la fissò, troppo sbigottito per dire alcunché. Per fortuna lei non sembrava aver bisogno di essere incalzata.

«Se ne andò il giorno stesso dei risultati degli esami, e lasciò nella sua camera alcune delle sue cose… come tutti, anche io andai a curiosarci prima che la sgomberassero le suore. C’era una copia di Paradiso perduto tra i suoi libri sulla scrivania… non aveva l’etichetta della biblioteca, quindi l’ho preso. L’ho conservato per tutto questo tempo.»

Ferid non ricordava neanche che cosa avesse lasciato a scuola: aveva ficcato in valigia le cose più essenziali come i vestiti, certi libri e altri effetti personali, ma se avesse dovuto dire che cosa avesse preso o lasciato non l’avrebbe ricordato. Però ricordò con certezza che a casa sua Paradiso perduto non c’era, non era tra i libri che aveva portato con sé quando era andato a vivere con Claude.

«Quanto riguardo per un ragazzino sfigato che non ti interessava» commentò, con il tono più neutro che avesse.

«Non era uno sfigato… anche se tanti credevano che lo fosse. Era solo diverso, e in una scuola cattolica il diverso è più additato che in qualsiasi altro posto. Ho preso quel libro per ricordare quelle lezioni… quel suo accento carino… anche se…»

Emise una risata nervosa, come aveva fatto prima.

«Anche se per lo più mi fa rimpiangere di non avergli mai detto quello che pensavo di lui. Per questo l’ho messo in fondo a un baule, ma non l’ho buttato!»

I loro occhi si incontrarono ancora e Ferid tornò a sentire lo stomaco trafitto da un paletto, come una farfalla da collezione.

«C’è qualche possibilità che tu abbia frequentato la Saint Matthew di New Oakheart?»

«Temo proprio di no» replicò Ferid, con più fermezza di quanta pensasse di racimolarne. «Vivevo a Squall’s End, ma sono scappato di casa. Ho passato gli anni del liceo a girovagare tra il Tennessee e la Louisiana.»

Lei assunse un’espressione bellicosa, ma fu solo un istante prima che sorridesse. Ferid sbatté più volte gli occhi, incapace di dire se l’avesse visto davvero o se era un parto del suo cervello mezzo addormentato e sotto stress.

«Capisco… è curioso, però. Vi assomigliate un po’.»

«Beh, credo che sia facile… è passato parecchio tempo, e se ricordi dei capelli argentati dev’essere una sovrapposizione di immagini quasi immediata.»

Per la prima volta da quando l’aveva chiamata per nome lei sembrò vacillare. Forse era riuscito a stordirla a forza di chiacchiere, almeno abbastanza da metterle un dubbio in testa.

«Può essere… sì.»

Ferid sorrise e decise che era il momento buono per battere in ritirata, prima che le venisse in mente qualche altro argomento con cui attaccare. Posò il bicchiere quasi vuoto sulla scrivania.

«Ti ringrazio del caffè. Era proprio buono.»

Allungò le mani per prendere i suoi fogli, ma lei li trattenne con uno scatto.

«Non potresti lasciarmeli fino a domattina? Potrei fare una botta di conti e vedere se riesco a tirare fuori una cifra attendibile… per la fiera agricola a cui non andremo domani.»

Interdetto, Ferid la guardò sorridergli come a volersi scusare di qualcosa e lasciò la presa.

«Sì, okay… in realtà mi faresti un favore enorme. Vorrei un piano dettagliato, quindi più sono precisi i numeri, meglio è.»

«Mi ci metterò d’impegno, lo prometto… passa domani dopo la messa, saranno pronti.»

«Sarebbe perfetto. Ti ringrazio molto.»

Tornare in quell’ufficio non era qualcosa che desiderava, ma decise all’istante che avrebbe mandato Mikaela con una scusa a prendere quei conti al posto suo.

«Ah, dimenticavo… chi ti ha detto come mi chiamavo prima?»

Ferid si inchiodò a un passo dalla porta, come se qualcuno gli avesse sparato un colpo di avvertimento.

«Ah… c’è… un novizio con cui ho lavorato qualche giorno… credo che sia infatuato, parla continuamente di te… non so come lo abbia saputo, ma ti chiama Estelle, e involontariamente mi è uscito di dirlo… com’è che ti chiami qui? Levina… no, era…»

«Lebanah» replicò lei, in tono più dolce. «Puoi chiamarmi Leba. Lo fanno tutti… e tu sei…?»

«Puoi chiamarmi Pepper. Lo fanno tutti.»

Quando lui alzò le spalle arrendevole lei rise, si scambiarono un amichevole “ciao”, e Ferid lasciò l’ufficio contabile a passo di marcia. Solo quando fu fuori dalla canonica sospirò come fosse sfuggito a una retata della DEA per un soffio e, privo dell’adrenalina che lo aveva sostenuto durante il confronto con l’incarnazione del suo passato remoto fallimentare, trascinò letteralmente le gambe fino alla celletta. Con suo sommo sollievo Mika non era lì e poteva rimandare il momento delle spiegazioni.

Senza togliere neanche le scarpe fece qualche passo e si lasciò cadere di faccia sul letto con un cigolio minaccioso della vecchia rete. Chiuse gli occhi, i suoi muscoli si rilassarono in tutto il corpo e la stanchezza sembrò avvolgerlo completamente come un bozzolo che non gli avrebbe fatto sentire nulla del mondo al di fuori.

Ma non poté fermare il flusso dei pensieri, i ricordi di un tempo che aveva desiderato cancellare non meno degli anni che l’avevano preceduto e che lo avevano seguito. Nel suo ultimo barlume di coscienza rivide il suo banco, i fogli pieni di quella sua scrittura così sofisticata, Estelle seduta nel secondo banco vicino alla finestra che guardava fuori, ma senza farsi accorgere ascoltava lui leggere il suo tema.

Dal profondo di lui si agita l’inferno, perché ha l’inferno dentro di sé, attorno a sé, e non può fare un passo per allontanarsi dall’inferno o da se stesso…

 

***

 

Mika sobbalzò violentemente appena varcata la porta del bagno.

«Per la miseria, Pepper!»

«Qualsiasi commento tu abbia in mente ne ho sentiti di peggio» replicò con una voce troppo stanca per suonare stizzita o qualsiasi altra cosa.

«Non è nel mio stile commentare le nudità di qualcuno…»

Era la prima volta che vedeva Ferid nudo, ma il modo in cui arrancò fuori dalla doccia e sospirò come avesse fatto uno sforzo mortale lo preoccupò abbastanza da impedirgli di notare qualsiasi altra cosa.

«Stai bene? Sembri un morto.»

«Mi sento come se lo fossi, infatti…»

«Che hai? Sembri Yuu dopo un doppio turno…»

«Lui è molto più vivace di me.»

Non poté evitare di avvicinarglisi e aiutarlo a infilare l’accappatoio di spugna; sembrava troppo stanco per sollevarlo o troppo confuso per coordinarsi. Non riusciva a capacitarsi di cosa gli potesse essere accaduto così all’improvviso.

«Pepper, che è successo? Rispondimi, sono preoccupato.»

«Sono solo stanco… terribilmente stanco» fece lui con un sospiro. «Ho cercato di dormire prima della lezione, ma… ho fatto strani sogni e mi sono alzato messo peggio di prima.»

«Hai esagerato, lo sapevo» lo rimproverò con un tono più duro. «Niente strategie e niente piani. Dopo la cena fili a letto immediatamente.»

«Se le fosse mai importato di me direi che sembri mia madre.»

«Non voglio sentire storie. Ti trascino in camera e ti lego al letto se necessario.»

«Ah, sì. Divertente, Mika.»

Ferid aveva tutta l’aria di ascoltare una parola sì e una no. Aveva visto molti momenti di debolezza da quando l’aveva conosciuto, ma di sicuro non lo aveva mai visto così assente e non gli piaceva la sensazione che gli dava: era l’unico, e l’altra metà dell’intero. In quel contesto, aveva soltanto Ferid.

«Ho un rotolo di nastro adesivo forte nascosto sotto il letto. Provocami e ti lego al letto con la bocca e gli occhi chiusi.»

Ferid emise un fiacco sussulto, l’ombra pallida di una risata.

«Non farmi oggetto delle tue perversioni erotiche, te ne prego… una volta Crowley mi ha ammanettato e credimi, non mi è piaciuto.»

La sua voce sembrava aver ripreso un po’ di vigore e con meno sforzo attraversò la stanza per prendere un asciugamano dalle mensole. Mika si sentì un po’ sollevato, ma si ripromise di obbligarlo comunque a riposare subito dopo la cena. Era sicuro che se fosse stato costretto a lasciare Bluefields neanche lui sarebbe riuscito a restare.

«Ah, dimenticavo… ho parlato con Tu Sai Chi prima, ma ha detto che Ginger non sapeva rispondere a quello che gli hai chiesto. Ha dovuto aspettare di sentire sua cognata alla fattoria, ma ho una lista di valori proteici e di costi al chilo e al quintale da far invidia all’esame di trigonometria.»

«Ah… sì, certo. In effetti immaginavo che avrebbe girato la richiesta ai suoi parenti.»

Ferid fissava il proprio riflesso nello specchio mentre si strofinava i capelli bagnati, ma per qualche ragione Mika percepì nelle sue microespressioni un risentimento forte. Verso Crowley, verso la sua famiglia o verso se stesso?

«Con chi ce l’hai, Pepper?»

«Potresti smettere di…?»

Si interruppe quando un Rinato entrò nei bagni. Dopo aver scambiato un’occhiata con il nuovo arrivato aprì la porta.

«Potresti smettere di farmi domande? Ti spiegherò tutto quando avremo raccolto tutte le idee.»

Mika ignorò del tutto il Rinato che li guardava incuriosito e si lanciò fuori nella scia di Ferid, che camminava fin troppo veloce per essere l’uomo stravolto di qualche minuto prima. Lo raggiunse solo una volta arrivato alla loro celletta.

«Pepper…»

«Potresti smetterla di chiamarmi così?»

«Perché dovrei? Ti presenti a tutti con questo nome ormai… e sai, in realtà ti si addice.»

Ferid brontolò qualcosa di incomprensibile e tornò ai suoi capelli.

«Mi dici con chi sei così arrabbiato? Con Crowley?»

«Certo che no. Perché dovrei esserlo?»

«Per come la vedo io non dovresti esserlo affatto, eppure ogni riferimento alla famiglia di Crowley ti fa fare… esatto, proprio quella espressione.»

Ferid emise un verso stizzito e chiuse gli occhi come se fossero quelli a rivelare i suoi segreti al compagno di stanza e non tutto un insieme di muscoli del suo viso e tono di voce.

«Le tue capacità di lettura diventano sempre più fastidiose.»

«Lo prendo come un complimento, visto che sei ancora l’uomo più difficile da leggere che mi sia capitato» commentò Mika, sorridendo. «Avanti, siamo amici. Dimmi che cosa c’è che non va.»

Ferid lasciò cadere l’asciugamano sul letto e si spostò le ciocche umide dalla faccia.

«So che non sarebbe venuto nulla di buono se fossi andato in West Virginia con lui al Ringraziamento… la sua famiglia avrebbe visto un uomo che valeva poco o niente, un debole aggrappato al loro nipote, al loro cugino che amavano tanto… si sarebbero convinti che non ero abbastanza per lui. Non potevo andarci…» fece, prima che gli si incrinasse la voce. «Ma… ogni volta che penso che ha portato Ismael da loro… che hanno passato tre mesi lì, che lui ha… costruito un rapporto con la sua famiglia, io…»

Prese un respiro profondo dal naso. La mano stringeva l’asciugamano fino a sbiancarsi le nocche.

«Mi sento derubato di qualcosa di speciale che doveva essere mio… e non lo sopporto!»

Mika sospirò. Aveva una visione un po’ più chiara ora e si stupì che fosse stato così ostinato a nascondere questo malessere per anni persino a lui, a cui aveva confidato molti dei suoi problemi e delle sue paure. Si avvicinò e si sedette sul letto.

«Ferid» gli sussurrò, per evitare che qualcuno potesse sentirli da fuori. «Avrai il prossimo Ringraziamento, o il prossimo Natale, o qualsiasi altra festa per conoscere la sua famiglia e la casa dove è cresciuto… la cosa più speciale, quella che può avere una persona soltanto, è ancora tua e non te la può rubare nessuno. Tanto meno quell’idiota.»

«Non lo so» rispose con un filo di voce lui.

«Lo so io. Crowley è pazzo di te, farebbe qualsiasi cosa per te… se fosse inevitabile penso che lascerebbe morire anche me e Yuu per la tua pellaccia, pensa un po’. Alabastro, senza dubbio, ma costa caro.»

Ferid emise una delle risate più acquose mai sentite da Mika e si strofinò gli occhi cercando goffamente di dissimulare il gesto.

«Non glielo lascerei fare, però…»

«Molto confortante» commentò sbrigativo Mika dandogli una pacca incoraggiante sulla mano. «Vediamo di sbrigarcela in fretta, qui… prima del Ringraziamento, così quando avremo finito verrà a prenderti e andrete direttamente alla fattoria.»

Si alzò dal letto e finse di cercare qualcosa nel suo quadernone di appunti di catechismo per dare a Ferid il tempo di ricomporsi. Quando lo sentì di nuovo aveva una voce più simile alla sua consuetudine.

«Non so se quando avrò finito qui avrà ancora voglia di venire a prendermi e portarmi dai suoi.»

«Potrei ipotizzare questo scenario solo se avessi intenzione di mettere a ferro e fuoco la chiesa cattolica…»

«Ferro e fuoco… no, non direi… no, il ferro e il fuoco non servono per quello che ho in mente.»

Mika non aveva ancora sentito il Grande Piano nella mente di Ferid e, intrigato da quella premessa, si girò a guardarlo. Non incrociò i suoi occhi, che guardavano fuori dalla stretta finestrella della celletta, verso un cielo denso di nubi.

«E… che cosa hai in mente?»

«Acqua… e tuoni. Sì. Un tuono abbastanza forte da scuotere le fondamenta.»

Mika si accigliò e chiuse il suo quaderno.

«Che vuoi dire?»

«Non sono sicuro di riuscire a spiegarlo… è una cosa che sento, più che averla programmata. Ma ho la sensazione che quello che faremo qui avrà ripercussioni a lungo.»

Mika scosse la testa, con un sorrisetto nervoso.

«Sul serio, in te c’è qualcosa che mette paura.»

«Sì. In me c’è qualcosa che mi spaventa, ma non so ancora che cosa sia.»

Ferid si rimise ad asciugarsi i capelli e dopo qualche minuto gli disse che non sarebbe andato a cena e che si sarebbe messo a dormire. Dopo averlo visto così sfibrato Mika si convinse che saltare un pasto fosse meno deleterio di restare sveglio per giorni di fila e acconsentì a lasciarlo riposare.

Uscì nel corridoio silenzioso chiudendo la porta con uno scatto. Nel farlo, si rese conto che aveva la pelle d’oca sul braccio. Quel brivido che gli correva sotto la pelle si indeboliva a ogni passo che faceva per allontanarsi dalla cella e si chiese se non fosse stato il “fluido” di Ferid a provocarlo.

 

***

 

Ferid riusciva a consultare tre pagine diverse, fare calcoli, correggere quelli errati con la matita e al tempo stesso camminare senza inciampare: Mika fu impressionato dalla sua efficienza, sapendo quanto poco avesse dormito.

«Sai che straordinari livelli di efficienza fisica e mentale in condizioni di grave carenza di riposo sono solitamente associati alla psicopatia?»

«O all’uso di cocaina» buttò lì lui, scribacchiando una colonna di percentuali.

«Sì, ma tu non ti fai di coca…»

Forse per ironia o forse per un buffo tempismo, Ferid tirò su col naso mentre sfogliava le pagine.

«Non… tu me lo diresti se ti facessi di qualcosa, vero?»

«Una cosa che so per certo è che se fossi psicopatico la mia altra personalità mi vieterebbe di dirtelo.»

«Okay, non fa ridere, sul serio.»

«Sembri tu quello poco lucido, Mika. Dato che siamo qui per scoprire come quei due poveretti sono finiti ubriachi e strafatti ad annegare non pensi che te l’avrei detto, se fossi riuscito a trovare della cocaina qui?»

«Sì, però gradirei se qualche volta ti limitassi a dire sì o no senza giocherellare con la mente degli altri… almeno con la mia. A Rex puoi fare quello che ti pare. Anzi, è molto divertente vedere quanto fatica a trattenere i suoi pensieri impuri

Ferid emise una risatina a labbra chiuse che esprimeva un netto compiacimento. Mika fece per avvicinarsi all’arco per accedere al giardino interno, ma Ferid proseguì.

«Ehi, non dobbiamo andare in canonica?»

«No, ho dato appuntamento a Nereus nell’ufficio contabile di sopra.»

«Ma che…»

Mika si guardò intorno e lo raggiunse di corsa, prima di scoppiare.

«Ma sei pazzo? Sotto il naso di Leba!»

«Quel che è fatto è fatto, Mika» sospirò lui. «Ci siamo già visti… e credo che lei sappia chi sono, ma se il Padre non ha voluto vederci significa che non ha detto niente. Non so se vuole coprirmi o se non è certa di quello che pensa, ma non c’è più ragione di evitarla. Anzi, farlo potrebbe insospettirla di più.»

«Cosa… vi siete visti? Quando? Cos’è successo?»

«Ieri mattina… volevo sapere dall’ufficio contabilità quale fosse la liquidità di Bluefields, e…»

«Frena, frena» gli soffiò Mika, tirandogli un colpetto di gomito. «Padre Vann a ore undici.»

Le “ore undici” di Mikaela arrivarono così tardi che l’uomo dall’abito talare blu era già abbastanza vicino a poter far loro lo sgambetto se avesse voluto. Ferid sobbalzò a trovarselo accanto appena alzò gli occhi dai suoi fogli di numeri.

«Buongiorno. Come mai non siete a lezione?»

«Buongiorno, Padre Vann» lo salutò con sussiego Mikaela. «Abbiamo avuto un permesso da padre Nereus, stavamo andando su agli uffici per incontrarlo…»

«Ah, sì. Mi ha accennato qualcosa riguardo un business plan, con un entusiasmo non da lui.»

«Dov’è stato in questi giorni, Padre? Non l’ho vista da nessuna parte.»

«Ero da padre Maim ad Ashby, per certe questioni sulla mia ricollocazione…»

«Se ne va da Bluefields?» indagò il ragazzo, pronto a scansionare i suoi muscoli facciali. «Torna a Nashville?»

Captò soltanto un accenno di scontento.

«A quanto pare il nostro patriarca ritiene che io non sia pronto per una nuova comunità, ma che non sia saggio tornare da dove sono arrivato, quindi ancora per qualche tempo resterò qui… probabilmente, almeno fino al nuovo anno» commentò lui, tradendo un velo di delusione. «Anche se sembra che Bluefields sia meno noiosa di quanto appaia. È questo il tuo famoso fratello?»

Mika si voltò verso Ferid con l’intenzione di presentarlo – e con la massima preoccupazione nell’evitare di pronunciarne l’odiato finto nome – accorgendosi solo allora della sua espressione. Era più pallido che mai, teneva le labbra serrate e gli occhi fissi sulla faccia di Vann; sembrava terrorizzato. Allarmato Mikaela studiò il Padre, trovandovi solo una genuina curiosità, ma niente che potesse spiegare il tremore alle dita di Ferid.

«Dunque sei tu… non vi assomigliate molto, per essere fratelli» commentò, con le sopracciglia appena flesse. «Ma in effetti, io assomiglio a mio fratello anche meno di te. Come ti chiami?»

Purtroppo Ferid non sembrava capace di riscuotersi.

«Lui… lo scusi, Padre, è in soggezione davanti a lei. Lui è Pepper… uh, voglio dire, Connor, ma qui lo chiamiamo tutti Pepper.»

«Io sono padre Vann. Ero il vice di padre Wassen a Nashville, mi occupavo della guida dei novizi…»

Vann allungò la mano e Mika fu sollevato di vedere Ferid riprendersi abbastanza da stringergliela, ma durò poco. Vann assunse un’espressione acuta, come di falco che punta un topolino nell’erba, e si avvicinò studiando il volto di Ferid.

«Ci siamo già incontrati, noi due?»

«N-no, signore, no» pigolò Ferid, forse persino più bianco di prima.

A quel punto Mikaela capì la reazione di Ferid: anche se Vann non ricordava come e dove, si dovevano essere davvero già incontrati.

«In realtà è possibile, Padre!» intervenne allora, premurandosi di allontanarli mettendosi in mezzo. «Mio fratello è stato a Nashville per diversi anni dopo essere andato via di casa! Ha girato un sacco di città tra Tennessee e Louisiana, potrebbe anche essere successo!»

«Oh, quand’è così… sì, credo che ci siamo incontrati prima. Ha un viso familiare» confermò Vann, facendo un passo indietro. «State andando da Nereus per questo progetto di cui non sa spiegarmi neanche un punto, vero? Vi dispiace se partecipo anche io?»

«No… niente affatto, Padre… in ogni caso penso vorrebbe renderla partecipe, quindi è meglio se sente anche lei.»

«Benissimo. Devo chiamare l’ufficio di Maim per far sapere che sono rientrato; vi raggiungo subito.»

Si congedò con un cenno della testa e si mosse a lunghi passi che facevano ondeggiare la tonaca blu attorno alle sue gambe. Mikaela scoccò un’occhiata a Ferid.

«Chi diavolo è? Non sarà venuto a scuola con te anche lui!»

«Oh, quanto sarebbe meglio se fosse così» sussurrò angosciato Ferid.

«Che significa?»

Ferid si appoggiò al muro della Casa Grande, tormentandosi il labbro inferiore.

«Oh, Dio mio, questo posto sembra il purgatorio!»

«Pepper!» sbottò, acchiappandolo per il gomito. «Voglio sapere che relazione c’è tra voi due e voglio saperlo subito!»

Lui si passò la mano – tremava ancora – sugli occhi e tra i capelli, prima di risollevare la testa.

«È suo fratello. È il fratello di Morris Mackham.»

«Di Morris Ma— quello con cui andavi a letto anni fa?!»

Per un momento chiuse gli occhi e accostò la mano alla bocca, quasi sentisse un’improvvisa nausea.

«L’ho visto… era con la bambina. Era con la figlia di Morris mentre lui mi diceva che aveva una moglie e una figlia. L’avevo visto un altro paio di volte insieme a Morris al circolo. Sono sicuro.»

Mikaela espirò lentamente, per cercare di ragionare senza farsi prendere dalla paura. Fin troppe volte aveva fallito per colpa della sua incapacità di gestire lo stress.

«D’accordo, Ferid. Come si chiama?»

La domanda prese di sorpresa il suo partner, che balbettò qualcosa di indefinito e si massaggiò la fronte in cerca della risposta.

«Io… Cecil… no, forse Cyril… o forse… Basil?»

«Lo sai oppure no?»

«N-non me lo ricordo! Non è che Morris ci tenesse a presentarmi la sua famiglia, sai!»

«Quindi c’è la possibilità che non abbia detto a suo fratello come ti chiami tu.»

Mika cercò con lo sguardo Vann, ma era scomparso alla vista.

«Sono passati anni, potrebbe non ricordarselo, come te… o non saperlo. Non ricorda dove ti ha visto, se crede di averti incrociato a Nashville è tutto a posto.»

«S-se ne parla a suo fratello io sono bruciato, Mika.»

«Se non ricorda che ti ha visto con lui non chiederà niente a suo fratello» lo tranquillizzò lui, con un cenno. «E poi dopo tanto potrebbe non ricordarselo neanche Morris. Magari ne ha avuti dozzine come te, gente che lavora nei posti da soldi che frequenta… da come ne parli dubito che dia un valore ai suoi amanti occasionali, o non si divertirebbe a umiliarli.»

«Per Morris non sono una storia così vecchia» ammise con voce malferma. «De Stasio lo ha interrogato per la faccenda del Vampiro di West End… per… se voleva ammazzarmi o incastrarmi.»

Mika si mordicchiò l’unghia, poi abbassò la mano di scatto: non voleva riprendere quel vizio che aveva avuto da ragazzino.

«D’accordo… d’accordo. Non è così grave, senti: tutto quello che Morris sapeva è che lavoravi come manutentore in un golf club. Qui sanno già che sei un meccanico, che comunque siamo originari di New Oakheart… se non ricorda il tuo nome, è tutto perfettamente a posto. Se se lo ricorda possiamo sempre fingere che fosse un falso nome, dopotutto gli hai rifilato che scappavi da un mercato di droga e prostituzione. Abbiamo le spalle coperte, ce la caveremo.»

Il ragazzo aprì il portone e lo precedette dentro l’atrio. Fecero un cenno di saluto a sorella Tabitha, responsabile della lavanderia, e solo arrivati al primo piano Mika trovò opportuno chiarire un’ultima questione fondamentale.

«Certo, dipende da te, Pepper… devi essere tu a reggere il tuo gioco, qui. Te la senti, anche con Leba e padre Vann intorno?»

Ferid era ancora pallido, ma aveva l’espressione risoluta e annuì deciso. Lo superò per raggiungere la “sala ricreativa 1” accanto all’ufficio contabile, ma esitò con la mano sul pomello fin troppo a lungo, immerso in qualche riflessione.

«Che c’è?»

«Niente…» sospirò lui, a mezza voce. «Solo… questo mondo è davvero piccolo.»

«Il mondo non è piccolo, Pepper… è il tuo letto che è troppo grande.»

Ferid lo fulminò con un’occhiata che era un confortante ritorno alla sua normalità.

«Non osare farmi le pulci, sai, tu… tu… guarda che ti sento parlare, se non fosse per Penny avresti una lista che non ti basterebbe l’interstatale da qui fino a New Oakheart!»

Mika soffocò le risate solo perché vide già molte persone sedute al tavolo quando Ferid spalancò la porta. Nereus era il più distante da loro, servito per primo con una tazza di tè da sorella Miriam, e fece loro un gesto incoraggiante.

«Eccovi, vi stavamo aspettando… sedetevi.»

Ogni traccia della sua stizzita sbuffata di vapore svanì: Ferid rispose con molta cortesia a Nereus e andò a sedersi – caso o no che fosse – di fronte a Lebanah. Lei gli sorrise in un modo che non poteva essere frainteso, non da chi come Mika l’aveva vista interagire con tutti gli altri: era come luminosa, con un modo gentile di parlare che lasciava nessun dubbio sul fatto che stesse provando a blandire Ferid.

Non so se sa che è Ferid o se pensa solo che sia un bell’uomo che assomiglia a quel suo compagno di scuola, ma… non posso sbagliarmi, lo sta mangiando con gli occhi.

In effetti Lebanah guardava Ferid come se volesse morderlo mentre lui non guardava dalla sua parte. Gli salirono preoccupazione e divertimento mescolati al pensiero di cosa avrebbe potuto dire o pensare Crowley se avesse visto quella scena e cercò di ridimensionare quel sorriso nervoso mentre sedeva al posto libero più comodo da raggiungere.

«Tè?»

Il ragazzo accanto a lui era il più vicino al vassoio di tazze. Preso di sorpresa Mika annuì anche se non aveva voglia di bere. Passando tanto tempo con i suoi compagni di stanza e di studio e con la brigata di cucina si era quasi dimenticato di rischiare l’interazione anche con qualcuno che non conosceva.

Il ragazzo gli riempì la tazza e gliela mise davanti, prima di servirsene una per sé. Mentre era assorto a decidere tra zollette di zucchero bianco e zucchero di canna Mika poté guardarlo meglio e capì dove aveva visto quei capelli castano-rossicci e quelle lievi lentiggini: era uno dei due che avevano detto di saper guidare il trattore, quindi doveva essere uno dei due aiutanti di cui Ferid aveva parlato.

«Tu sei Welch o Lucky?»

Lui si voltò stupito, la pinzetta e la ciotola con lo zucchero di canna sospese in aria.

«Lucky… cioè… J-Jonathan. Dal Kentucky. Lucky è… uhm…»

«Non preoccuparti, dà strani soprannomi a tutti» lo rassicurò con un sorriso, indicando la zuccheriera. «Posso?»

«Anche a te?»

Nonostante avesse un fisico ben strutturato, bicipiti che tiravano sotto la camicia grigia e l’aria di un ragazzo di montagna che non lo avrebbe fatto sfigurare con un fucile a tracolla, aveva l’imbarazzo inciso in ogni tratto come un bambino che non conosce nessuno al doposcuola. Gli ispirò un’inedita tenerezza, dato che non si trattava davvero di un bambino.

«Sì, mi chiama Angel Face, ogni tanto.»

Fece per prendergli la zuccheriera, ma gli occhi azzurri di lui gli vagavano sulla faccia come se stesse giocando a “trova le differenze”, e la sua espressione diventava sempre più sognante.

«È proprio azzeccatissimo…»

A quel punto lasciò la zuccheriera tra le sue dita. Confuso da quell’adorazione inspiegabile che gli leggeva in faccia non riuscì a trovare qualcosa di divertente da dire, o qualcosa per proseguire la conversazione.

«Grazie» borbottò invece.

Non era sicuro che Lucky avesse capito che si riferiva allo zucchero, ma non osò precisare sotto quell’occhiata saccente che gli stava infliggendo Ferid due sedie più avanti dall’altro lato. Si zuccherò il tè all’arancia e lo bevve a microscopici sorsi per non conversare attivamente, ma non poteva far finta di non essersi accorto che Lucky sbirciava dalla sua parte quando credeva che non potesse vederlo.

Fu il tè più imbarazzante della sua vita.

   
 
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