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Autore: Carme93    18/02/2023    0 recensioni
Giuseppe ha quattordici anni ed è scontroso con tutti, ma qualcuno deciderà di guardare oltre l'apparenza e di aiutarlo.
[Questa storia partecipa al #gioco a catena indetto sul gruppo Facebook "Fondi di caffè - Il tuo scrittoio multifandom" e alla challenge "The Cleanup" indetta da charaken sul forum Writing games- Ferisce la penna]
Genere: Generale, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di un anno scolastico'
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L’eco di un colpo
 


«Il cielo è limpido, gli uccelli cinguettano e i fiori fioriscono» trillò una ragazzina con i capelli stretti in una coda, prima di lasciarsi cadere su una sedia e fissare un coetaneo che, fino a quel momento, aveva avuto la testa appoggiata sul banco.
«I fiori fioriscono?» le fece eco quest’ultimo con un tono infastidito e sarcastico allo stesso tempo.
Lei si strinse nelle spalle. «Germogliano?».
Il ragazzino scosse la testa. «Che cosa vuoi, Vittoria?».
«Perché fai sempre il musone?».
«Non si risponde a una domanda con un’altra domanda».
«Non vedo che cosa me lo impedisca».
«Non è buona educazione».
«Mmm… trascorrere cinque ore al giorno spiattellato sul banco e rispondere a mugugni, come lo chiami?».
Il ragazzino sbuffò. «Che vuoi?» chiese nuovamente.
«Perché fai il musone?».
«Sparisci?»
«Hai risposto con un’altra domanda. Hai detto che…».
«Quello è il mio posto, grazie».
I due alzarono gli occhi sul compagno sopraggiunto. Vittoria roteò gli occhi. «Ma perché i maschi di questa classe sprizzano allegria da tutti i pori?».
Il ragazzino le lanciò un’occhiataccia e tornò a fissare fuori dalla finestra, dopo aver appoggiato la testa sulle braccia.
Di uccellini cinguettanti fuori non ce n’era nemmeno l’ombra e men che meno il cielo era così limpido come aveva millantato la compagna. Era una fredda e cupa giornata d’inverno. Punto. Nulla di più.
«Nosmizzi, al volo».
Si riscosse appena in tempo per afferrare il foglio che Luca Defiano gli aveva lanciato. Impiegò qualche secondo a rendersi conto che era il suo compito di latino corretto. Lo fissò per un attimo e poi lo mise da parte.
«Quanto hai preso, Giuseppe?» gli chiese il suo compagno di banco allungando al contempo lo sguardo.
Giuseppe sbuffò e allontanò il foglio dallo sguardo indiscreto. «Non sai farti gli affari tuoi?» rispose acidamente.
L’altro replicò con un gestaccio della mano e tentò d’importunare qualcun altro.
Altre due ore e sarebbe stato fuori da lì. E poi? Quel senso d’insofferenza mista a rabbia che ormai lo attanagliava da tempo prese il sopravvento. Dopo sarebbe stato lo stesso.
Con astio spinse di lato i fumetti del compagno che, disordinato com’era, non si accontentava mai del proprio banco.  Ignorò il suo lamento smorzato e tornò a fissare fuori dalla finestra: pioveva.
All’una il tempo era peggiorato. Per un attimo Giuseppe quasi sperò di trovare la madre ad attenderlo all’ingresso con il suo ombrellino. Invece no. Si trattenne dal guardarsi intorno. Era stato lui a chiederle, durante i primi giorni di scuola, di non avvicinarlo nei pressi della scuola. Ogni mattina la costringeva a parcheggiare distante.
Si tirò il cappuccio sulla testa e si decise ad affrontare il temporale.
Per tenere lontana la madre aveva usato la scusa che non voleva essere subito etichettato come il figlio della prof. La verità, però, era ben diversa: non voleva vederla.
Percorse a passi svelti il marciapiede caotico. Lanciò un’occhiata ad alcuni ragazzi di quinta che riuscivano a mettersi in mostra con le loro macchine anche con quel tempaccio.
Per un attimo s’immaginò al loro posto: sarebbe stato fortissimo. In più avrebbe potuto mettere in mostra la macchina del padre. Oh sì, con quella tutte quelle macchinine sarebbero scomparse. Si passò una mano tra i capelli e si rese conto che erano zuppi.
«E levati» sbuffò qualcuno spingendolo.
Ottimo, si era messo a fantasticare e si era bagnato più del dovuto. Si mise a correre per raggiungere la macchina al più presto. Sua madre lo attendeva già accomodata sul sedile del guidatore. Aveva una macchina del cavolo, nulla in confronto a quella di suo padre, eppure non gliela faceva nemmeno sfiorare. Sei troppo piccolo rispondeva ogni volta. Suo padre lo lasciava guidare. Si lasciò cadere sul sedile del passeggero. Non la guardò nemmeno. Un lungo momento di silenzio si addensò tra loro evidenziando una barriera invisibile, ma solida; Giuseppe non voleva che la madre la superasse.
«Ciao» sussurrò la donna. Sembrò voler aggiungere qualcosa, ma mise in moto.
Giuseppe cercò l’aggancio della cintura di sicurezza e le lanciò un’occhiata rapida: aveva le labbra strette in una linea sottile. Percepì una strana sensazione alla bocca dello stomaco: senso di colpa. La scacciò: non poteva perdonarla. E lei lo sapeva: la conosceva abbastanza per sapere che avrebbe voluto rimproverarlo per la sua testardaggine, poiché quella mattina gli aveva detto di prendere un altro giubbotto con il cappuccio e di non uscire con la felpa. Lui le aveva risposto male. Non lo rimproverava perché sapeva che era colpa sua.
La tensione in macchina si sciolse quando presero Emanuele, il fratellino di Giuseppe. Il bambino attirò l’attenzione della madre su di sé e il più grande tirò il suo mp4 fuori dallo zaino per ascoltare la musica a palla, sperando di uscire presto dal traffico dell’ora di punta e di arrivare a casa: aveva bisogno di prendere le sue cose e andare in piscina. Solo in quel modo sarebbe stato meglio.
 
 
 
*
 


Thumb
Il rumore della porta sbattuta risuonò nel piccolo appartamento. Odiava con tutto il cuore i tentativi di sua madre di far finta che non fosse successo nulla, che fosse tutto normale. Perché poi? Perché aveva voluto buttare tutto all’aria? Perché per lei loro valevano così poco?
Giuseppe ispirò sentendosi percorrere dalla testa ai piedi da un desiderio di rompere ogni cosa. Odiava quella sensazione, odiava perdere il controllo. Disseminò i vestiti sgualciti per tutto il pavimento. Si sedette sul letto e tentò di calmarsi.
Dopo qualche minuto cercò il borsone della piscina con lo sguardo e si decise ad alzarsi per prepararlo. L’unica cosa che lo calmava negli ultimi tempi era nuotare e ne aveva davvero bisogno in quel momento.
La piscina fortunatamente era vicina a casa sua e ormai era abituato a recarvisi a piedi. Uscì di casa il più velocemente possibile, ma si curò di sbattere il portone. Ormai quello era diventato un modo di comunicare.
Gli allenamenti non iniziavano mai prima delle tre, ma di solito a quell’ora la vasca grande era libera e l’allenatore gli permetteva di allenarsi da solo.
Adorava il silenzio che regnava a quell’ora, i gruppi di bambini non erano ancora arrivati e nemmeno quelli dei ragazzi più grandi. Silenzio.
Salutò rapidamente l’allenatore che si trovava nel suo piccolo ufficio e si affrettò verso gli spogliatoi. Solo in quel momento riprese a respirare per bene.
Si cambiò e si sciacquò, come da regolamento, poi finalmente si spostò in piscina. Quella stanza così vasta con quello specchio d’acqua che la riempiva quasi totalmente gli diede quasi un senso di vertigine: lui era così piccolo.
Salì sulla pedana, prese un respiro e si tuffò. Tutto il resto scomparve prima ancora che sfiorasse l’acqua.
Avere la piscina per sé era qualcosa di meraviglioso. Socchiuse gli occhi, lasciandosi inebriare dal silenzio. Si sentiva profondamente leggero lì.   Si sdraiò di schiena e si beò di quell’atmosfera.
«Per quanto vuoi continuare così?».
Giuseppe, sorpreso, boccheggiò e cambiò posizione rapidamente in modo da poter guardare il suo interlocutore in volto. L’allenatore lo fissava a braccia incrociate da bordo piscina.
L’equilibrio era stato spezzato.
Giuseppe sentì montare nuovamente la rabbia: non potevano lasciarlo in pace? Almeno lì. Odiava quando gli adulti pretendevano di aiutarlo.
Avrebbe voluto rispondergli a tono, ma aveva paura: e se non gli avesse più permesso di servirsi della piscina?
«Allora?».
Il ragazzino si strinse nelle spalle e non rispose.
«Presto ci sarà la prima gara dell’anno, i tuoi compagni verranno ad allenarsi. Se non vuoi partecipare…».
Giuseppe non lo fece nemmeno terminare e si issò sul bordo. «Me ne vado» disse a denti stretti.
«È un peccato. Avresti avuto buone possibilità».
«Buona giornata» tagliò corto il ragazzino dirigendosi verso gli spogliatoi prima di affermare qualcosa di cui si sarebbe potuto pentire.
 
*

 
Osservò con attenzione Cristoforo Alani mentre batteva e poi la traiettoria della palla: il tiro era debole e per nulla difficile da ricevere, ma andò dritto su Sara Marchetti. Quella ragazzina era veramente imbranata. E lui non voleva perdere contro la squadra di Isaac Alani. Spinse via la compagna e prese il pallone in bagher, passandolo a Samir Roosmil, un ragazzino di colore, che se la cavava bene nello sport.
«Era mia» si lamentò Sara.
«L’avresti presa male, come tutte le altre volte» ribatté acido.
La compagna gli rivolse uno sguardo ferito. Giuseppe scacciò il senso di colpa che si fece largo dentro di lui: aveva detto solo la verità. In più non sopportava perdere.
Ruotò e si ritrovò in prima fila davanti alla rete. Accanto a Vittoria. Lei gli lanciò un’occhiata seria, che non comprese. Erano giorni che provava ad avvicinarlo.
Uno dei suoi compagni batté, ma malamente perché la palla passò per pochissimo dall’altra parte del campo.
Giuseppe si trattenne a stento dal girarsi e insultarlo come avrebbe voluto.
Naturalmente Luca Defiano bloccò il tiro senza problemi e passò la palla a Isaac Alani che la batté direttamente nel loro campo con forza.
Giuseppe si voltò appena in tempo per vedere Sara sfiorare la palla e mandarla fuori.
«Ma sei scema? Era semplicissimo prenderla!» inveì.
«Fallo tu, la prossima volta» ribatté lei seccata e con voce stridula.
«Non era mia».
«Smettila» sibilò Vittoria vicino a lui.
«Ho ragione!» le urlò contro. «Non sa giocare».
«Non puoi trattare così i tuoi compagni di squadra».
«Non sa giocare».
«Nemmeno tu!».
«Come?». Giuseppe strabuzzò gli occhi e la fissò esterrefatto. «Ho fatto un sacco di punti!».
«Giochi da solo, innanzitutto. La pallavolo non è un gioco individuale. E comunque si dovrebbero fare tre tocchi, tu mandi la palla subito dall’altra parte».
«Bisogna fare punti per vincere» insisté Giuseppe.
Vittoria sollevò gli occhi.
A quel punto, però, il loro litigio attirò l’attenzione dell’insegnante che intervenne sbrigativamente a dirimere la questione. Sara chiese di uscire dal campo, Vittoria tentò d’insabbiare quanto accaduto, Isaac Alani intervenne per lamentarsi che avevano interrotto la partita. Per conto suo, Giuseppe era furioso per il comportamento delle due ragazze, ma anche per le pretese di Alani che s’intrometteva.
«Siete solo viziati!» quasi urlò ai suoi compagni.
«Ma cosa vuoi?» sbottò Vittoria in risposta fulminandolo.
«Che hai Nosmizzi? Sei lunatico come le ragazze?».
Un fiotto di rabbia gli bruciò il petto e la gola, di nuovo. Spinse il compagno prima di rendersi conto delle sue azioni. Naturalmente a quel punto la professoressa risolse la questione prendendosela con lui.
Giuseppe lasciò il campo e si diresse verso lo spogliatoio, ignorando i richiami.
 
Thumb.
Si sbattè la porta alle spalle.
Aveva perso di nuovo la calma. Questa volta davanti a tutti. Si sedette sulla panchina e si coprì il volto con le mani.
La rabbia sembrava divorarlo ogni volta. E diventava sempre peggio.
La porta si aprì all’improvviso e apparve Vittoria. La ragazza si piantò di fronte a lui con le braccia incrociate.
«Che vuoi?» le chiese esasperato Giuseppe. Non voleva vedere nessuno in quel momento.
«Sei antipatico e un po’ fuori di testa».
Giuseppe roteò gli occhi: era impossibile parlare con lei, sarebbe finita come l’ultima volta.
«Sei venuta per sentirti dire che hai ragione? Ok, hai ragione. Contenta?».
«Fai nuoto, vero?».
Il ragazzo la fissò sorpreso. «Come fai a saperlo?».
«Hai risposto con un’altra domanda».
Giuseppe sbuffò e si alzò in piedi, cercando di sfuggirle.
«Non hai senso dell’umorismo, eh? Comunque hai le spalle larghe. Sei molto competitivo e il tuo corpo è evidentemente allenato. Come ho detto prima però non sei abituato a giocare in squadra».
«Che deduzione» borbottò Giuseppe, che in verità era colpito dalla compagna.
«Comunque sì, ho ragione».
Giuseppe le lanciò un’occhiata, ma non ribatté: si sentiva più tranquillo.
«E ora?».
«Mi devi un favore».
«Un favore? E perché mai?».
«Perché ho detto alla prof che oggi hai la febbre, ecco perché ti comporti così».
«E ci ha creduto?» chiese scettico.
«Non credo. In compenso se l’è presa anche con me».
«Ottimo» commentò ironico Giuseppe.
«Almeno ci ho provato» replicò ella stringendosi nelle spalle. «Quindi devi fare una cosa per me».
«Che cosa?» le chiese decidendo di stare al gioco.
«Venirmi a vedere pomeriggio. Ho una partita, così ti mostro come si gioca».
Giuseppe la soppesò: Vittoria non aveva mai fatto mistero fin dal primo mese che lei giocava a pallavolo e che uno dei suoi sogni fosse quello di diventare una giocatrice professionista. La osservò con occhi nuovi: come faceva a divertirsi con loro in palestra, nonostante metà della classe non sapesse nemmeno posizionare le braccia per il bagher?
«Allora?» insisté lei.
«Va bene» disse non del tutto sicuro del perché.
 
 
 
 
*
 
 
Gli spalti erano gremiti di ragazzini e alcune famiglie. Nella porzione inferiore c’erano ragazzi e bambini più piccoli con tute dello stesso colore delle giocatrici a bordo campo, probabilmente nella pallavolo come nel calcio vi era una divisione per fasce d’età. Effettivamente non si era mai interessato tanto a quello sport. In realtà nemmeno il calcio era mai stato in cima ai suoi interessi, ma aveva sempre finto per compiacere il padre. Se non fosse stato per sua madre, probabilmente sarebbe stato ancora a scaldare la panchina della squadra di quartiere e a vergognarsi dei tentativi paterni d’incidere sulle decisioni dell’allenatore. Sebbene all’epoca fosse stato talvolta arrabbiato con lui per questo, adesso avrebbe voluto che fosse ancora lì. Forse aveva preso quella maledetta decisione perché aveva mollato il calcio. Un po’ come le guerre, non avvengono mai soltanto perché un principe è stato ucciso, ma per tensioni più lontane che non aspettano altro che esplodere. Naturalmente anche questa era colpa di sua madre. Non solo, adesso non c’era nessuno che lo aiutava e rimpiangeva l’invadenza del padre. Sua madre non aveva nemmeno cercato di dissuadere l’allenatore a farlo allenare da solo senza gareggiare.
Le due squadre entrarono in campo e Giuseppe s’impose di concentrarsi sul gioco.
La divisa di Vittoria e delle sue compagne consisteva in una maglietta amaranto a maniche corte che quasi copriva i pantaloncini dello stesso colore. La ragazzina si muoveva sul parquet con una certa disinvoltura. Giuseppe cominciò a rivalutarla: non aveva nulla della ragazzina petulante, annoiata e distratta che aveva conosciuto in classe. Era nel suo elemento.
La partita iniziò e Giuseppe si scoprì molto interessato, sebbene fino a quel momento avesse tentato di convincersi che era lì solo per accontentare la compagna.
Un paio di volte si ritrovò ad urlare insieme agli altri spettatori tanto il gioco lo prese. Anche se – non l’avrebbe ammesso facilmente – aveva occhi solo per una giocatrice.
Alla fine della partita, vinta dalla squadra di Vittoria due set a zero, Giuseppe la raggiunse a bordo campo e le fece cenno. «Ho rispettato l’accordo» borbottò per darsi un contegno.
La ragazzina sorrise e annuì. «Ti avevo notato e…», un ghigno si aprì sul suo volto, «ti ho sentito».
Giuseppe arrossì. «Ehm ok… io ora devo andare… sai, l’autobus…».
«Ma no, ci prendiamo qualcosa al bar qui di fronte. Offro io. Tra un po’ arriva mia madre e ti riaccompagniamo noi a casa».
Il ragazzino sorpreso si limitò ad annuire.
«Devo cambiarmi, aspettami all’ingresso».
«Ok».
Vittoria impiegò quasi un quarto d’ora per raggiungerlo. «Ehi, quindi ti è piaciuta la partita?».
Giuseppe sorrise leggermente e si strinse nelle spalle. «Interessante».
La compagna alzò gli occhi al cielo e si avviò verso l’uscita.
«Sicura che per tua madre non è un problema?».
«Sicurissima. Stai tranquillo».
Presero posto in un tavolino in un angolo e ordinarono della cioccolata calda.
«Sta facendo veramente freddo quest’anno» commentò Vittoria, togliendosi i guanti che aveva indossato solo per uscire dalla palestra.
«In effetti» concordò Giuseppe. «Per fortuna, qui si sta bene».
Per un momento vi fu un silenzio imbarazzante e i due si limitarono a sorseggiare la bevanda calda, poi Vittoria cominciò a commentare la partita e Giuseppe si sentì molto più a suo agio.
Quando arrivò la madre della compagna, il ragazzino se ne dispiacque perché avrebbe continuato volentieri a stare da solo con lei.
La signora fu molto cortese. Era molto ben vestita, come una manager dei film americani.
Appena arrivato a casa, non salì al suo appartamento, ma sedette sui gradini al buio. Un senso di malessere l’aveva colto man mano che si avvicinava a casa.
Prese il cellulare e chiamò il padre. Uno squillo, due, tre… Segreteria telefonica. Sospirò e decise di rientrare. Sicuramente il padre era impegnato in qualche riunione importante. Più tardi l’avrebbe richiamato e gli avrebbe raccontato di Vittoria.
 
 
 
*
 
 
 
Nelle settimane successive Giuseppe non si perse una partita dell’amica e si beò sempre di più della sua compagnia. Dopo ogni partita si recavano in quello che ormai era diventato il loro bar e chiacchieravano finché uno dei due genitori di lei non andava a prenderli. Una parte di lui avrebbe voluto chiederle perché mai nessuno di loro assisteva alle sue partite, ma di genitori problematici ne sapeva abbastanza da non sfiorare nemmeno l’argomento. Eppure i signori Fullino sembravano sempre attenti e precisi.
Il ragazzino si spostò anche di banco in modo da essere più vicino a lei in classe e ciò giovò molto anche alla sua integrazione: legò molto di più con Samir e Federico Mestri, ma anche con Cassandra Pasini, la compagna di banco di Vittoria. E anche andare a scuola prese una nuova piega. Fino a quel momento l’aveva vissuta in modo contradditorio: aveva scelto lui il liceo scientifico, perché avrebbe tanto voluto diventare un ingegnere – una delle sue tante idee che il padre non aveva mai compreso ˗, ma fin dall’inizio aveva assunto un atteggiamento di contrasto perché vi insegnava la madre, che non si era opposta minimamente alla sua scelta, ma non aveva voluto che si iscrivesse nell’altro scientifico della città. Giuseppe lo sapeva perché: voleva controllare la sua vita. Solo che al momento iniziava a interessargli molto meno, considerando che cominciava a legare con i compagni e con i professori si trovava bene. L’importante era che lei non si avvicinasse ai suoi spazi. Se fosse stato per lui non avrebbe dovuto nemmeno passare per il corridoio dove si trovava la sua classe. All’inizio dell’anno aveva anche litigato con lei per questo motivo. Anche se la parte più razionale di lui gli diceva che, considerato che sfortunatamente una delle sue classi era nella parte opposta del corridoio, non poteva pretendere che lei facesse il giro della scuola solo per evitare quella del figlio. 
«La puoi smettere? Ti stai comportando da scemo».
Vittoria si era seduta accanto a lui e lo fissò infastidita.
«Io? È stato Alani a provocarmi prima!».
«Appunto! Provocarti!» sbottò Vittoria. «Lo fa apposta e tu ci cadi ogni volta. Hai sentito la professoressa di matematica? Finirà che ti metteranno sette in condotta! E Isaac sarà contento».
«Non m’interessa».
Vittoria alzò gli occhi al cielo. «Ripeto: sei scemo».
«Sono nervoso» ammise con forza e guardandola male. Non voleva litigare con lei, non voleva allontanarla ora che qualcosa stava andando per il verso giusto.
«Perché?».
Non voleva rispondere a quella domanda. Avrebbe dovuto raccontarle tutto. Erano settimane che suo padre sembrava essere sparito: aveva risposto al telefono una volta sola e gli aveva dedicato pochi secondi, il tempo di dirgli che era impegnato; e non aveva risposto ai suoi messaggi se non ogni tanto. Se lo teneva dentro da giorni, perché non avrebbe mai dato questa soddisfazione a sua madre.
«Niente» borbottò.
«Niente? Ma se ogni due e tre sembra che tu voglia sbranare qualcuno!».
«Non è vero».
«Sì, che è vero».
Giuseppe sbuffò: odiava quelle conversazioni.
Fortunatamente l’arrivo dell’insegnante di scienze costrinse Vittoria a desistere, almeno per il momento. All’uscita la ragazzina ricominciò di nuovo. Decisamente era molto testarda.
«Vorrei solo sentire o meglio ancora vedere mio padre» ammise esasperato, dopo essersi assicurato che nessun altro potesse ascoltare.
Vittoria si accigliò. «Lui non è qui?».
«No, si è trasferito» rispose e poi aggiunse per giustificarlo «È molto impegnato con il lavoro».
La ragazzina stavolta mostrò molta più consapevolezza. «I genitori sono così, almeno i miei non dicono che lo fanno per me… A loro piace la loro carriera, si sentono realizzati».
«Sono troppo impegnati per vederti giocare, eh?».
Vittoria annuì. «E poi pensano sia solo un gioco, una cosa da bambini. Io volevo iscrivermi in un’altra scuola… Non so, magari al turistico… non lo so, ma non al liceo… Ma loro no, liceo doveva essere e per giunta scientifico! E non mi hanno neanche permesso di scegliere l’indirizzo sportivo».
Giuseppe la fissò colpito: non pensava che l’amica covasse tutto quello dentro, anche perché non aveva mostrato mai aperta ostilità nei confronti dei genitori tutte le volte in cui lui era stato presente.
«Mi dispiace» borbottò incapace di dire qualcosa.
Lei si strinse nelle spalle: «L’importante è che non mi impediscano di giocare, è il mio tempo libero e non mi hanno mai detto come impiegarlo… Peccato che appena vedranno la pagella, daranno di matto».
«Se vuoi ti do una mano» propose all’istante Giuseppe. «Specialmente con latino, matematica e fisica» aggiunse ben sapendo che quelle fossero le bestie nere dell’amica.
Vittoria lo fissò con attenzione. «Tu aiuti me, ma non ti fidi abbastanza da farti aiutare».
«Vuoi andare a prendere mio padre e portarlo qui?» ribatté sarcastico. «Non puoi aiutarmi».
La ragazzina non replicò e i due si salutarono.
Nel pomeriggio, però, lei lo chiamò al telefono. «Senti, ci ho pensato» gli disse senza tanti convenevoli. «Forse non posso andare a cercare tuo padre e trascinartelo qui per i capelli, ma posso aiutarti a sfogare la tua rabbia».
«Ah, sì, e come?» chiese scettico Giuseppe scarabocchiando sul quaderno di fisica.
«Ci sarà pure qualcosa che ti faccia sentire meglio».
A quel punto delle conversazioni solitamente il ragazzino si chiudeva a riccio, ma, memore delle confidenze dell’amica, rispose: «Nuotare».
«Bene, allora è semplicissimo, no?».
«No».
«Perché? Basta andare in piscina».
«L’ultima volta che ci sono andato ho quasi mandato a quel paese il mio allenatore. Non posso più farmi vedere».
«Ma per favore! Sai quante volte ho litigato con il mio allenatore? Uh, nemmeno ti immagini! Lui dice che ho la lingua troppo lunga, ecco perché non mi ha dato la fascia da Capitano!».
«Ma te la meriteresti» sbottò indignato Giuseppe. «Sei la migliore!».
«Ora non esageriamo… Comunque sì, me la meriterei… Ma non cambiare discorso! Chiedi scusa all’allenatore e torna ad allenarti».
«Non posso».
«Perché?» insisté Vittoria.
«Perché lui vuole che io riprenda a gareggiare».
«Fantastico! E qual è il problema?».
E quale era il problema? Aveva smesso di gareggiare dal divorzio dei suoi genitori e soprattutto dal trasferimento di suo padre. Nonostante preferisse il calcio, quest’ultimo non aveva mai perso una sola gara del figlio. Vero anche che non era mai contento dei suoi risultati, se non quando arrivava primo. Perché aveva mollato? Perché aveva capito che lui non sarebbe tornato solo per tifare per lui? Perché non voleva condividere quei momenti con la madre? Perché non aveva più lo stimolo di compiacerlo in qualche modo? Forse si era anche sentito un po’ sollevato quando aveva smesso.
«Ehi, ci sei?» lo riscosse Vittoria.
«Sì».
«E quindi?».
«Forse perché mio padre si è trasferito» mormorò non del tutto convinto.
«Tu l’hai mai invitato?».
«A far che?».
«A venire a vederti… dopo il divorzio».
«Non ho più gareggiato».
«Allora provaci».
«A far che?».
Vittoria sbuffò. «A gareggiare di nuovo e a invitarlo a venire a vederti».
Giuseppe sgranò gli occhi a quella proposta, così assurda ma semplicissima allo stesso tempo.
«Allora che ne dici?» lo incalzò lei.
«Posso provarci» ammise.
«Ottimo! Non ho mai assistito a una vera gara di nuoto!».
 
 
*
 
 
«Accidenti! C’è un problema!» esordì Giuseppe lasciandosi andare sulla sedia dietro Vittoria. La ragazzina intenta a copiare gli esercizi dal quaderno di Samir non alzò nemmeno gli occhi, ma mormorò: «Quale?».
«Te li avrei fatti copiare io gli esercizi» tentò Giuseppe.
«Sono le otto. Sei in ritardo» replicò la ragazzina, finalmente guardandolo in volto e chiudendo i due quaderni. «Che succede?».
«Emanuele non trovava…».
«Mi riferisco al problema, non al motivo del ritardo».
«Ah, Edo mi ha scritto per dirmi che la gara questa volta sarà di mattina per problemi organizzativi».
«E quindi?» chiese Vittoria porgendo il quaderno a Samir.
«Come quindi? È un giorno di scuola».
«E quindi?» insisté ancora la ragazzina.
Giuseppe alzò gli occhi al cielo. «Non ho detto nulla a mia madre».
«Diglielo» replicò Vittoria come se fosse ovvio. «Non mi sembra chissà cosa».
«Non voglio. Ti ricordo che deve venire mio padre».
«Sinceramente, continuo a non capire. I tuoi sono in rapporti così cattivi da non potersi vedere? Tuo padre può vedere te e tuo fratello liberamente?».
Quell’ultima prospettiva non era mai nemmeno passata per la mente del ragazzino che boccheggiò. «Dici che è per questo che mio padre non viene mai?». Diede un pugno sul banco che fece sobbalzare parecchi. «Sì, ci scommetto che mia madre glielo impedisce! Ma a maggior ragione non devo dirle nulla».
Vittoria non era sicura di quel ragionamento, ma vedeva ancora una falla nel piano: «Ok, ma poi chi te la firma la giustificazione? Se le cose stanno come hai detto, non potrà farlo tuo padre».
«La falsificherò. Non credo ci voglia molto. Mia mamma non ha una scrittura particolare».
L’amica non era pienamente convinta, ma annuì. «Se lo dici tu».
Giuseppe scrisse al padre un messaggio su WhatsApp e cominciò ad assaporare il momento in cui l’avrebbe rivisto. Non si sentiva così da tempo.
 
I giorni che lo separavano dalla gara furono frenetici e impegnativi. Preparò tutto nei minimi dettagli, dopotutto non si era mai giocato la scuola ed era più difficile farlo se tua mamma lavorava nella tua stessa scuola.
Quella mattina comunicò alla madre che nel pomeriggio avrebbe avuto gli allenamenti e dopo la scuola sarebbe andato direttamente lì. Lei era molto protettiva, perciò avrebbe voluto sicuramente accompagnarlo, ma ormai aveva accettato che prendesse l’autobus per spostarsi da solo. In questo modo poté tranquillamente portarsi il borsone senza destare sospetti.
Giuseppe si trattenne fuori con alcuni dei suoi compagni e con la coda dell’occhio si assicurò che la madre entrasse dentro la scuola.
«Vengo con te, lo sai, vero?» gli sussurrò Vittoria apparendo dal nulla.
«Sei sicura?». Era troppo contento all’idea che gli avrebbe fatto compagnia. «E i tuoi?».
«Se falsifichi tu la firma, posso farlo anch’io» ribatté la ragazzina.
«Ok, allora andiamo».
I due si allontanarono velocemente nella speranza che nessuno li notasse.
«Sai che è la prima volta che prendo l’autobus?».
«Davvero?» replicò Giuseppe sorpreso.
«Sì, i miei mi hanno sempre accompagnata dappertutto. In compenso mi hanno promesso il motorino per il compleanno».
Per il resto del tragitto rimasero in silenzio, anche perché Giuseppe era sempre più teso.
Solo quando giunsero in piscina, il ragazzino ebbe il coraggio di confessare all’amica ciò che lo tormentava: «Mio padre non ha mai risposto al mio invito, però l’ha visualizzato».
«Magari ti farà una sorpresa» tentò Vittoria.
Giuseppe annuì: anche lui si aggrappava a quella speranza.
All’ingresso si separarono e Giuseppe raggiunse i compagni e l’allenatore.
Era più di un anno che non gareggiava, quindi si sentiva ancora più teso. Ma in qualche modo sentiva che era giusto quello che stava facendo. Per la prima volta da molto tempo vedeva più chiaramente.
Qualcuno dei compagni gli lanciò un’occhiata di sbieco, probabilmente molti non avevano ben visto che il mister gli permettesse di gareggiare dopo tanto tempo e dopo poco allenamento.
Salì sulla pedana.
Quanto gli era mancata quella sensazione!
Nel momento in cui si tuffò tutto il resto scomparve. Era nel suo elemento. Nessun pensiero. Nulla. Vuoto.
Riprese fiato e contatto con la realtà solo dopo le due vasche. Sollevò gli occhialini e si sorprese nel vedere il mister tendergli la mano.
«Un buon tempo per uno che non si allena seriamente da molto».
«Quanto sono arrivato?».
«Quarto».
Giuseppe storse la bocca e annuì, allontanandosi. Quarto. Solo i perdenti non salgono sul podio, gli aveva detto più volte suo padre.
E lui era un perdente. Ecco perché suo padre non si era preso la briga di andare a guardarlo. Doveva mollare il nuoto e basta, che gli era saltato in mente di tornare a gareggiare dopo tanto tempo? Se aveva smesso, doveva esserci un motivo, no?
«Ehi, sai stato bravissimo» strillò Vittoria andandogli incontro.
Giuseppe sbuffò e la ignorò.
«Ma che hai?».
«Sono un perdente».
«Ma dai, non credevi davvero di essere in forma! Hai ripreso da poco! Hai fatto un buon tempo».
La stessa cosa che gli aveva detto l’allenatore.
«Se uno non è capace di vincere, allora è meglio che si eviti figuracce».
«E chi te l’avrebbe detto questo?».
«Mio padre. È per questo che non è venuto. Non sono bravo come lui vorrebbe» ammise il ragazzo quando furono fuori dalla piscina. Il rumore degli applausi e delle altre gare sullo sfondo. Lontani da loro.
«Che idiozia» disse Vittoria senza trattenersi. «In questo modo nessuno farebbe mai nulla. Anche Federica Pellegrini non ha sempre vinto, se si fosse ritirata non sarebbe diventata la Divina».
Giuseppe la fissò sorpreso. «Non pensavo che ti interessasse tanto il nuoto».
«Mi piace lo sport» affermò Vittoria stringendosi nelle spalle. «Tuo padre ha risposto?» chiese porgendogli il cellulare che aveva custodito per lui.
Il ragazzo lo prese e lo sbloccò. «No».
«Senti, i miei non sono perfetti, ma rispondono sempre ai miei messaggi. Sempre» disse lentamente la ragazza.
«È un uomo impegnato» intervenne Giuseppe interrompendola, non avrebbe sopportato che dicesse quello che in fondo temeva. «E ce l’ha con mia madre. È tutta colpa sua se se n’è andato».
«Colpa di tua madre?».
«Esatto».
«L’ha tradito?» chiese a bruciapelo Vittoria.
«Cosa? No… Sì… Non lo so…» borbottò Giuseppe.
«Non lo sai? Quindi non sai perché hanno divorziato?».
«Mio padre ha detto che è colpa di mia madre».
«Ma ti ha anche detto che cosa ha fatto?» insisté Vittoria.
«Che cosa c’era da dire? Smettila» quasi urlò Giuseppe e la sua voce risuonò nel corridoio.
Vittoria aprì la bocca, ma poi la richiuse decidendo probabilmente che non avesse senso insistere ulteriormente anche perché l’amico non aveva intenzione di parlare.
 
I giorni successivi Giuseppe fu sempre di cattivo umore, ma nonostante ciò continuò ad apprezzare la compagnia di Vittoria.
Un pomeriggio, mentre era in camera intento a svolgere i compiti di matematica, gli squillò il cellulare. Finì un esercizio con calma, sicuro che fosse Vittoria. Quando lo prese con sorpresa costatò che era un messaggio del padre. Lo lesse avidamente e aprì il link. Suo padre aveva vinto un premio. Questo fanno i vincenti!
Con il cuore in gola non ebbe tempo di riflettere su quelle poche parole che la madre irruppe nella sua stanza.
«Che cosa vuol dire questa assenza giustificata?».
Giuseppe si accigliò, per un attimo troppo confuso, ma alla fine collegò le parole irate della madre e il tablet che lei stava sventolando pericolosamente sotto i suoi occhi.
«Che assenza?» si costrinse a rispondere. La sua mente a chilometri da lì.
«Giuseppe» sibilò la donna. «Mi ha anche chiamato il tuo allenatore, vuole sapere perché non ti fai più vedere in piscina! E vengo a scoprire da lui che hai partecipato a una gara quando in realtà avresti dovuto essere a scuola! Ma ti rendi conto?».
«Di che? Tutto sto macello per un’assenza? Dov’ero? A fare una stupida gara di nuoto, non a drogarmi per strada».
«Smettila con questo tono» sbottò sua madre fulminandolo con lo sguardo.
Giuseppe strinse le braccia al petto e decise di lasciarla sfogare. Quando lei lo lasciò solo si buttò sul letto con una punta di senso di colpa: sua mamma non perdeva il controllo in quel modo di solito. Per un attimo aveva avuto il timore che lo prendesse anche a schiaffi. Aveva colto una sorta di stanchezza mista a rassegnazione prima che lasciasse la camera. Prima che la porta sbattesse ancora ergendo una barriera probabilmente ormai invalicabile.
Scacciò quel pensiero. Era colpa sua dopotutto. Era lei a doversi sentire in colpa.
Riguardò il link che gli aveva inviato il padre e vide che la premiazione sarebbe stata quella sera. Decise che sarebbe andato da lui. Controllò gli orari dei treni e sorrise. Avrebbe fatto in tempo.
Prese uno zaino e corse fuori di casa, ignorando i richiami della madre.
Salì sul primo autobus disponibile e chiamò Vittoria, che promise che l’avrebbe raggiunto alla stazione.
La stazione era gremita e fredda. Un freddo pomeriggio d’inverno. Ma Giuseppe era euforico, come non era da molto tempo: sarebbe andato da suo padre, gli avrebbe dimostrato che lui non era dalla sua parte. Avrebbero rimesso tutto apposto.
«Eccomi» sbuffò Vittoria fermandosi vicino a lui.
«Il treno sta per partire».
I due ragazzi si diressero insieme al binario giusto e salirono sul treno, prendendo posto.
«Che lavoro fa tuo padre quindi?».
«Il manager».
«Davvero? Ed è rimasto qui? Pensavo fosse al Nord».
«Dirige un’azienda qui, ma ha clienti anche fuori dall’Italia».
Il viaggio durò più di due ore e per tutto il tempo Giuseppe ignorò le chiamate della madre.
«Ha scoperto della gara e che ho falsificato la sua firma» buttò lì il ragazzo. «I tuoi?».
«No, ma aspetta solo che esca la pagella» borbottò ella.
«Ma scusa e il registro elettronico?».
«Ho bruciato le credenziali nella stufa».
«Cosa?» chiese interdetto Giuseppe pensando di aver sentito male.
«Ho preso il foglio e l’ho gettato nella stufa» ripeté lei.
«Ma scusa e non vanno in segreteria a chiederle?».
«Lo faranno. Ora non hanno tempo. Vedrai, però, che dopo i colloqui di dicembre lo troveranno».
Giuseppe decise di far cadere il discorso.
Quando arrivarono a destinazione era ormai buio pesto. Giuseppe era sempre più agitato e cominciò a litigare con Google Maps perché internet non prendeva bene. Vittoria sbuffò accanto e lui e lo costrinse ad alzare gli occhi.
«Eccolo».
La premiazione si sarebbe svolta in un enorme hotel, che, non per nulla, era molto affollato e la strada era molto trafficata.
I due ragazzini attraversarono la strada e si avvicinarono all’ingresso. Quando furono abbastanza vicini, videro un addetto che chiedeva gli inviti e controllava i nomi su un elenco.
«Quel link vale da invito, vero?» borbottò Vittoria.
«Non credo» ammise Giuseppe ripensando al trafiletto del giornale online. «Ma è mio padre! Vedrai, ci faranno entrare».
Vittoria assunse un’espressione scettica, ma fortunatamente l’amico non la vide.
Giuseppe si avvicinò all’addetto e gli disse: «Sono il figlio di Ludovico Nosmizzi. Non ha fatto in tempo a darmi l’invito» disse indicando l’elegante cartoncino che una signora, alquanto infastidita per essere stata scavallata dal ragazzino, stava per esibire.
L’uomo lo fissò scettico. «Se non hai l’invito, non puoi entrare» replicò seccato allungando la mano verso quello della signora.
«Non può chiedere, per favore?» chiese Vittoria, cercando di essere diplomatica.
L’addetto sbuffò e si rivolse a qualcuno accanto a lui, poi riprese a controllare gli inviti.
I due ragazzi infreddoliti attesero speranzosi finché la fila non si esaurì e tutti ormai affollavano l’ampio atrio del Grand Hotel.
«Mio padre!» strillò Giuseppe all’improvviso indicando all’interno. I due uomini si voltarono automaticamente e il ragazzino sfilò velocemente all’interno, nonostante i loro richiami.
«L’hai visto veramente?» chiese incerta Vittoria.
«Sì» borbottò Giuseppe dirigendosi a passi svelti verso un lato dell’atrio, vicino alle scale che portavano al piano superiore. «Ciao, papà» disse immediatamente felice di rivederlo.
Era elegantissimo: Sembrava che il completo scuro gliel’avessero cucito addosso. Perfetto. Sorrideva e stringeva mani a una persona, scambiava battute con un’altra. Era nel suo elemento.
Il sorriso, però, scomparve alla vista del figlio. «Che fai qui?».
«Amore, chi è?».
Una donna – una ragazzina –, vestita con un lungo abito rosso scollato e al collo una collana tutta scintillante, apparve al suo fianco.
«Mio figlio» borbottò l’uomo. «Che fai qui?» ripeté.
Giuseppe non si lasciò scoraggiare. «Sono venuto a vederti prendere il premio. Sono fiero di te».
L’uomo si sforzò di sorridere, ma le parole della ragazza furono una nuova pugnalata per il ragazzino: «Amo, non mi avevi detto di avere un figlio». Sembrava preoccupata.
«Ti ho detto che sono divorziato» ribatté infastidito Ludovico, guidando il gruppetto in un angolo libero.
«Ma avere un figlio non è la stessa cosa. Io non ho voglia di fare da babysitter a nessuno».
Giuseppe li fissò stranito. «Io sono qui per mio padre» sibilò. La rabbia cominciava a montare dentro di lui.
«Sono impegnato adesso, Giuseppe» disse lui quasi in tono di rimprovero. «Dirò al mio assistente di farti accompagnare. Come sei arrivato?».
«Perché te ne sei andando di casa? Che cosa ti ha fatto mamma? Io non ho colpa delle sue azioni lo sai» sbottò Giuseppe trattenendo a stento le lacrime.
Suo padre alzò gli occhi al cielo. «Sei proprio un bambino».
«Spiegami» quasi urlò. Molti si voltarono verso di loro e questo infastidì il padre.
«Non vedi Lory, qui con me? Hai quattordici anni per la miseria! Con una come Lory perché dovrei stare con tua madre? Non è che sei gay?».
Una voragine si apri nel suo petto, avrebbe vomitato, ma doveva ancora capire. «Tu hai tradito mamma con una che ha la metà dei tuoi anni?».
«Con una che sa come divertirsi» ribatté suo padre.
Giuseppe aveva sentito abbastanza e sibilò. «Non ho bisogno del tuo assistente né dei tuoi soldi».
Lui e Vittoria si fecero strada in mezzo alla folla, ma nessuno li fermò.
Appena fuori dall’hotel, il freddo di una notte invernale schermì i loro visi, ma nemmeno questo scosse Giuseppe.
Vittoria lo guidò alla stazione, lo fece sedere su una panca e fece i biglietti per entrambi, dopo tornò a sedersi vicino a lui e lo abbracciò. Solo in quel momento Giuseppe lasciò andare le lacrime trattenute fino a quel momento.
 
Thumb.
Una porta sbattè, fu quasi un sollievo per Giuseppe che rialzò il volume della musica: conosceva la routine dei litigi tra i suoi genitori e dopo che il padre se ne andava, sua madre si chiudeva in camera a piangere.
Perché non riuscivano a capirsi?
Chiuse gli occhi e cercò di dimenticare, ma un dubbio s’insinuò improvvisamente in lui: quel giorno il litigio era durato poco e i due non si erano urlati contro abbastanza. Turbato, uscì dal rifugio della sua stanza ed Emanuele, incerto, lo seguì. Nel corridoio trovò suo padre con un trolley e un borsone. La moglie lo fissava in silenzio appoggiata al mobile nell’ingresso.
«Dove vai?» gli chiese con un terribile vuoto al cuore.
«Dove sarò più apprezzato» rispose suo padre lanciando un’occhiata disgustata alla moglie, che non replicò.
In quel momento Giuseppe vide un volto della madre che non conosceva: duro e distante, come se non provasse nulla per quell’uomo che eppure era suo marito.
«Fermalo» le disse disperato.
Lei non replicò e suo padre si chiuse la porta alle spalle.
Thumb.
La porta sbattuta con rabbia, questa volta per sempre. Perché un vero uomo non torna mai indietro, gli aveva sempre detto suo padre.
In quel momento odiò sua madre, perché non l’aveva fermato. L’aveva lasciato andare come se non valesse nulla.
 
E non valeva nulla si disse, mentre Vittoria lo scuoteva e lo sollecitava a raggiungere il binario. Erano entrambi congelati. Per fortuna il treno era caldo.
Stanco e svuotato chiamò sua madre e le chiese di andare a prenderlo alla stazione ripetendole l’orario che Vittoria gli suggerì. La madre sembrava stanca e spaventata, ma non gli chiese nulla.
«Posso dormire da te?» gli chiese Vittoria. «I miei sanno che dormo da Cassy».
Giuseppe annuì distrattamente e la fissò.
«Almeno ora sai la verità» bisbigliò lei. «Credo sia meglio».
Faceva malissimo: l’uomo che aveva idolatrato da sempre era un menefreghista che aveva tempo per le ventenni e non per i suoi figli.
Alla stazione trovò sua madre sul binario con un Emanuele mezzo addormentato vicino a lei.
Si abbracciarono in silenzio. E in quella stretta Giuseppe cercò di dirle quanto gli dispiacesse di non essersi fidato di lei, che non l’avrebbe più lasciata sola e che stavano molto bene anche in tre.
L’eco di quella porta sbattuta non l’avrebbe più perseguitato.

 
E ora sapeva che essere un vero uomo significava innanzitutto non essere come suo padre.
 
 
   
 
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