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Autore: Puffardella    22/02/2023    1 recensioni
L’animo umano è come la terra sulla quale è stato messo per vivere. La sofferenza a cui a volte è sottoposto si può paragonare all’incendio che travolge un campo. Dopo la furia del fuoco apparirà desolato, e vuoto, e invivibile. Invece, proprio quel trattamento gli darà nuovo vigore, lo renderà più fertile.
Allo stesso modo, solo dopo aver provato un grande dolore ci si riaccosta alla vita con rinnovato entusiasmo, perché è quando hai perso molto che capisci quanto sia importante non dare per scontato le cose che hanno il potere di renderti felice.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO 2
Stasera esco con Chiara.
Sono passati sei mesi dal giorno in cui mi costrinsi ad uscire con la tipa di cui ho nuovamente scordato il nome. Fu un fiasco completo. Gettai la spugna tra il secondo e il caffè. Parlava continuamente, e il fiato le puzzava di rancido. Inventai un'urgenza, l'accompagnai a casa e mi precipitai nella mia, dove mi infilai sotto la doccia e vi rimasi a lungo per togliermi dalle narici quel nauseabondo odore che mi sentivo addosso.
Poi fu il turno di Martina, l'istruttrice di judo di Nicolas, il primogenito di mia cognata Monica. Una pazza scatenata. Una di quei tipi new age che vanno in giro con enormi borsoni colorati di stoffa zeppi di oggetti bislacchi, che lasciano una scia di profumo di incenso dietro di loro e che parlano solo di energia positiva e negativa, tao, Karma, predestinazione, Budda, Krisna, e tutto un minestrone di concetti astrusi e filosofie orientali di cui nemmeno loro in realtà hanno capito un granché, ma che continuano a propinare e a propinarsi perché fa tanto trendy.
E con Alessia, l'estetista di mia cognata e i suoi strampalati discorsi sul 2012 e sugli ufo - da cui ritiene di essere stata rapita almeno una dozzina di volte -, ho toccato il fondo del barile e l'ho raschiato e lucidato per bene.
Questo mio quarto appuntamento me lo sono procurato da solo.
Chiara è un avvocato e mira in alto. È intelligente, ambiziosa, sexy, non le puzza il fiato e, soprattutto, ha tutta l'aria di essere una donna concreta. Lavora nello studio del mio legale. Più che altro sta finendo il suo tirocinio presso quello studio. Non abbiamo avuto molte occasioni di parlare, ma di una cosa sono sicuro: non è una psicopatica. E, nonostante tutto, l'idea di uscirci non mi entusiasma nemmeno un po'.
Credo che l'unico motivo per cui io continui a sottopormi allo strazio di queste uscite sia mio suocero. Lo amo come un padre e anche di più, e non sopporto di vederlo preoccupato.
Guardo la mia immagine riflessa nello specchio. Sono dentro a un completo di Armani grigio perla. Donna di classe vuole una serata di classe in un ristorante di classe con un accompagnatore di classe. L'uomo di classe alza lentamente gli occhi sul suo viso, e quello che vede non gli piace. Ho gli occhi spenti, infelici. Vengo assalito dallo sconforto.
«Ma che sto facendo?» dico a me stesso. Io non voglio uscire con Chiara. Non volevo farlo con nessuna delle donne prima di Chiara. Infilo le mani nelle tasche in cerca del cellulare. Lo stringo forte ma lo lascio dov'è. Non ho mai dato una buca in vita mia, e non inizierò oggi. Do un'occhiata all'ora: sono le sette e trenta. È presto.
Sbircio la foto di Sara sul comodino. Mi sorride. Sembra volermi infondere coraggio. Sembra volermi dire che andrà tutto bene. Le ho chiesto di aiutarmi a scegliere, se una scelta deve essere fatta, una donna che possa colmare il vuoto che c'è nella vita affettiva di nostra figlia. Il mio, lei lo sa, nessuna donna è in grado di riempirlo. E all'improvviso mi assale la smania di salire in mansarda, nel suo atelier.
Erano mesi che non lo facevo. Mi aggrappo al corrimano e mi arrampico su per le scale. Mi trascino a fatica davanti alla porta dello studio. Indugio. Afferro la maniglia, ma ho paura di entrare. Mi faccio coraggio e spalanco la porta.
Tutto è rimasto intatto, come Sara lo aveva lasciato. Fogli di carta e colle, smalti e vernici, lastre di vetro e stecche di legno dai colori e larghezze e spessori più svariati. E pinzatrici, sparachiodi, e tutta una serie di attrezzature che nessuno userà mai più.
Sara amava l’arte - la pittura ad olio era la tecnica che preferiva -, ma non sapeva tenere in mano nemmeno una matita. Dopo un anno sprecato al liceo artistico si era diplomata in ragioneria. Tuttavia non era quello che voleva fare nella vita: lei voleva stare in mezzo ai quadri. Ma, dal momento che non era capace di creare un semplice disegno nemmeno coi pastelli colorati, aveva capito che l'unico modo che aveva di trafficare con le tele era quello di incorniciarle.
Aveva seguito un corso privato ed aveva imparato bene il mestiere del corniciaio. E in quello era maestra davvero. Quando le veniva affidato un dipinto lo coccolava, se ne prendeva cura, lo studiava a lungo per discernere quale cornice lo avrebbe valorizzato.
Mi avvicino lentamente al piano di lavoro sgombro. Me la rivedo china su questo tavolo, con quel suo grembiule troppo largo per la sua esile figura. Sfioro la superficie ruvida del legno, e la mia mano si porta titubante verso la scatola quadrata rivestita con il raso rosa dimenticata in un angolo. Afferro il coperchio con entrambe le mani e lo sollevo piano. Le mani mi tremano e il cuore inizia una folle danza.
Il biglietto è ancora lì. È lì da almeno due anni, da quando decisi che tenerlo in camera era troppo doloroso, per me. E troppo rischioso. Questo è il biglietto con il quale Sara mi diede il suo addio. Non l'ho mai voluto leggere.
Quando le forze dell’ordine lo presero in esame per accertarsi che si fosse davvero trattato di suicidio, chiesi loro di non rivelarmene il contenuto.
Lo relegai quassù per non cedere alla tentazione di leggerlo.
Lo prendo fra le dita e me lo porto al naso. E aspiro come al solito, come continuo a fare con tutte le cose che le sono appartenute, che ha maneggiato. Aspiro in cerca del suo odore, del suo profumo.
Mia moglie profumava di gelsomino, e lavanda, e rosa. Profumava come le piante fiorite del suo giardino, quelle che coltivava con amore e dedizione.
Non usava deodoranti, e difficilmente metteva un profumo. Quando lo indossava lo faceva con discrezione, perché non le piacevano gli odori aggressivi.
Mia moglie non aveva bisogno di profumi artefatti. La sua pelle aveva la fragranza della pianta di mimosa in fiore, del glicine in pieno giugno. Questi sono gli odori che il mio olfatto cerca disperatamente fra le sue cose, inutilmente. La nostra casa non ha più il suo odore da così tanto tempo, ormai.
Ripongo il biglietto nella scatola e mi avvio all'appuntamento, più amareggiato, demotivato e infelice che mai.
Chiara sta parlando di politica da più di mezz'ora. Ho smesso di ascoltarla ancora prima. Non l'ho mai fatto, in realtà. Una donna che parla di politica con convinzione... non credevo ne esistessero ancora. Forse perché non ho mai frequentato una donna avvocato. E non credo che lo farò più, in futuro.
Non afferro niente di quello che dice. Tranci di vocaboli qua e là, il nome di un politico ogni tanto. Mi arrivano a ondate parti di discorsi tediosi su statistiche ed equazioni, proposte e bocciature. Non so se si rendono conto, queste donne, di quanto sia deprimente sentirsi parlare di politica al primo appuntamento. Ma devo essere onesto con me stesso. Se anche avesse parlato di sport, o di sesso, cosa sarebbe cambiato? Assolutamente niente. Non avrebbe fatto nessuna differenza. In fondo cos'è che cerco? Cos'è che voglio? O chi, per essere più precisi? Quella donna se ne è andata. Se ne è andata e si è portata dietro tutta la mia inutile esistenza.
Ho gli occhi fissi su Chiara, ma non sono messi a fuoco su di lei. Inseguono la scia dei miei pensieri e dei miei ricordi…
Ero già stato in questo ristorante con Sara, quando ero un giovane squattrinato fresco di laurea in architettura edile, senza un soldo ma pieno di entusiasmo e ottimismo. Sara mi supplicò di portarla in un altro locale prima ancora di entrare, ma stavo per chiederle di sposarmi e volevo un posto speciale, per farlo. Quasi svenne quando le mostrai l'anello. Ed io quasi svenni quando mi presentarono il conto. Quella fu una serata indimenticabile. Ridemmo così tanto, quella sera. Tutti i giorni ridevamo tanto, io e lei. Quanto tempo è passato dall'ultima volta che sono stato capace di farlo?
Lentamente focalizzo Chiara, e avverto un fastidio urticante. Perché ho portato qui un'altra donna? Perché ho portato questa sconosciuta nello stesso posto in cui fu deciso che Sara sarebbe diventata mia moglie? Chiara tace, mi guarda preoccupata.
«Ti senti bene?» mi chiede.
Schiudo le labbra. Vorrei essere galante e finire la serata, ma sono stanco di fingere. È tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui. Lei non dovrebbe essere qui, seduta al posto di mia moglie. Scuoto la testa.
«Veramente no...» ammetto infelice.
«Capisco.»
Che cosa esattamente pensa di aver capito non lo so e non mi interessa saperlo. Voglio solo andare via da qui, liberarmi di lei subito.
Chiara si rivela la donna che sembra, una donna di gran classe. Mi sorride, posa la sua mano sulla mia, impegnata da non so quanto a torturare una mollica di pane.
«Andiamo, non preoccuparti. Tanto non ho fame.»
Ho lasciato Chiara con la promessa di risentirci presto, ma entrambi sappiamo che non accadrà. Ho parcheggiato la macchina in garage e sono uscito in giardino.
È una bella serata di fine aprile. Il cielo è incredibilmente terso, pieno di stelle luminosissime. Venere brilla in tutto il suo splendore, e Giove le fa compagnia. E l'aria è profumata e fresca, invita alla passeggiata. E poi non sono nemmeno le dieci, non voglio tornare a casa. È presto, e Rachele è dai nonni. La casa è troppo vuota, stanotte, e quel maledetto biglietto mi chiama a gran voce. Non voglio leggerlo, non credo di essere ancora pronto per farlo.
Infilo le mani in tasca e mi avvio verso il centro, senza una meta precisa. Magari mi imbucherò in qualche bar e mi prenderò una sbronza colossale. Forse dovrei farlo. Se solo servisse a qualcosa…
   
 
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