Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Segui la storia  |       
Autore: drisinil    24/02/2023    6 recensioni
Non è comandante per caso, Erwin Smith. Pensa al triplo della velocità di un qualsiasi nano dei bassifondi, anticipa chiunque di almeno dieci mosse, è educatamente impietoso e armato fino ai denti di parole suasive e sguardi ispirati, che colpiscono durissimo sui tessuti molli delle più invisibili debolezze.
Questa è una raccolta di oneshot Eruri canonverse, che segue i miei personali headcanon.
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
BREVEMENTE RISPLENDIAMO SULLA TERRA


Levi Ackermann occupa lo spazio come se il suo corpo fosse grande il doppio.
Si appoggia allo schienale, allarga i gomiti sui braccioli, accavalla una sull’altra le gambe magre e poi scuote la testa risoluto, con quell’accenno di insofferenza perpetua che è la spezia esotica con cui condisce tutte le sue espressioni.
[Col cazzo!] No. Non se ne parla. No, [fanculo e] grazie.”
Le imprecazioni fra una parola e l’altra se le ricaccia in gola finché ci riesce, perché fra i fottutissimi effetti collaterali della prolungata esposizione al fottutissimo Erwin Smith c’è l’impellente necessità, che lo stronzo gentiluomo ingenera nel prossimo, di provare di continuo a essere alla sua altezza (Levi, che raffinato umorista!).

“Perché no?”

“Perché quando una cosa sembra merda e puzza di merda, indovina cos’è? Merda, anche se l’hai messa dentro un piatto d’oro.”

“Sintetico e molto deiettorio, grazie.”

“Prego, quando vuoi.”

Erwin sospira, mandando giù un lungo sorso di puzzolentissimo caffè d’orzo. “Mi aspettavo che l’avresti presa meglio.”

Che cazzo ti aspettavi? Una festa? Un mazzo di rose? Un bacio con la lingua?
Quando finisce di inghiottire il fiotto mentale di turpiloquio non gli resta nemmeno una sillaba utilizzabile, quindi Levi tace. E fissa le macchie luride di caffè e di ceralacca incrostate sul ripiano di legno di quel trogolo che il comandante più sciatto dell’umanità si ostina a chiamare scrivania.
Gratta compulsivamente con l’unghia quella più vicina. Vorrebbe odiarlo.

“Speravo che ti sentissi onorato” aggiunge Erwin, con il suo tono pacato e autorevole, impastato di medaglie al valore, di miele e di veleno. “Era quella l’intenzione.”

Levi smette di grattare e solleva gli occhi. E si accorge che è un errore tattico gravissimo, uno sbaglio da moccioso stordito al primo giro di giostra fuori dalle mura. Se avesse addosso il meccanismo tridimensionale, darebbe gas e si sparerebbe via dalla stanza all’istante. Invece resta impigliato in quello sguardo, come il perfetto idiota che è.

“La verità, Levi, è che ho veramente bisogno di te. Ho bisogno di garantirmi il tuo impegno e la tua presenza costante al mio fianco, in modo anche formale.”

Non è comandante per caso, Erwin Smith. Pensa al triplo della velocità di un qualsiasi nano dei bassifondi, anticipa chiunque di almeno dieci mosse, è educatamente impietoso e armato fino ai denti di parole suasive e sguardi ispirati, che colpiscono durissimo sui tessuti molli delle più invisibili debolezze.

Erwin lo guarda e Levi Ackermann, la feccia dei bassifondi, il criminale, il figlio di puttana, deglutisce e poi si schiarisce la gola e si spolvera con la mano l’orlo ricurvo e già perfettamente lustro degli stivali, a un passo dal soccombere al più squallido rossore da educanda.
Il fatto è che la luce negli occhi di Erwin Smith viene da cieli superiori.
Cieli oltre i cieli, dove l’aria è più fredda e i pensieri lo sono altrettanto, affilati, lividi. Un blu siderale che non sarà mai limpido, mai quieto, mai mite.
E smuove slanci sublimi e pensieri sconci allo stesso tempo.
Finché non ti marcisce il cervello del tutto e la dignità ti cola via dalle scuciture dello stemma sulla schiena.
Due battiti di palpebre, un mezzo sorriso e Levi si sente davvero onorato, come un qualsiasi imbecille dentro quei ranghi. Onorato, accaldato e smanioso di farsi mettere al guinzaglio corto (come se mendicare dalla mano del padrone non fosse già il suo più ragguardevole talento).

La merda fetente nel piatto d’oro è ancora lì, ma adesso non vede l’ora di mandarla giù, solo per sentirsi dire bravo.
Si prende almeno la soddisfazione di sbuffare forte e ringhiare fra i denti la resa: “Va bene. Va bene, Erwin [fottutissimo Smith]. Dammelo, questo [cazzo di] grado, se ci tieni così tanto [a mettermi una mano su per il culo per rendermi la tua grottesca marionetta].”

Erwin Smith è uno a cui vincere a tavolino non basta, quindi scuote il capo lentamente, mentre poggia la tazza sul piattino con un delicato acciottolio di porcellana.
“No, Levi. Non così. Non dev’essere un contentino per me. Vorrei che ci pensassi meglio. E’ una cosa seria, un riconoscimento dei tuoi meriti, ma anche un peso non indifferente, che in verità avrei preferito risparmiarti.”

Altro che verità, lo stronzo sta mentendo: è un raffinato ipocrita dal sorriso immacolato, un baro professionista, pronto a fottere chiunque con dolore, compreso se stesso.
“Non è che puoi pretendere che faccia salti di gioia [mentre lo prendo nel culo, per giunta metaforicamente]. Ci ho pensato [ma è sempre e comunque una grandissima stronzata] e la verità, Erwin, è che io sono [allergico alle stronzate] in assoluto la persona meno adatta per fare carriera nell’esercito, come avrai già intuito, perché anche un cagnaccio cieco e idrofobo lo capirebbe. Sono convinto che appuntarsi [sul culo] un pezzo di latta non significhi proprio un cazzo e non ho bisogno di ricordarti come è andata a finire l’ultima volta che mi hai costretto ad avere a che fare con quei [maledetti porci] debosciati che ingrassano a Mitras. Io non li voglio questi [fottutissimi] gradi militari. Tanto lo sai che ti obbedirò comunque, quindi se ti vuoi liberare di qualche patacca di latta, dalle alla quattrocchi [di merda], o al [lercione feticista] tuo segugio preferito, che dovrebbe preoccuparsi del proprio tanfo ogni tanto, più che di quello altrui. Perché queste maledette patacche devi per forza rifilarle a me?”

“Non è ovvio? Sei il soldato più letale e più leale che ho mai avuto, e che mai avrò, Ackermann.”

Stavolta, purtroppo, non mente. Ci crede davvero e le note basse, ammirate e affettuose della sua voce trapassano tutti i punti sensibili delle nove lettere di quel cognome maledetto.
Levi schiocca le labbra e si alza dalla poltrona. “Stronzate.”

Muove qualche passo fra le pile di libri polverosi ammonticchiati ovunque, guarda con cipiglio le tazze vuote allineate sul davanzale.

Erwin lo segue con lo sguardo.
“So di chiederti molto…”

Levi solleva sulla punta dello stivale un indumento non ben identificato la cui unica destinazione dovrebbe essere il rogo.

“...ma ho veramente bisogno di qualcuno a cui dare piena fiducia, che possa agire anche in autonomia, che… ”

“Ancora stronzate.”

“Dimmela tu la verità, allora.”

"Quello di cui hai veramente bisogno è uno stronzo obbediente e stitico, che non schiatti facilmente e non riempia di merda i calzoni immacolati della Legione quando lo spedisci a fare capriole in prima linea, in modo che gli altri disgraziati vadano a farsi ammazzare più contenti.”

Erwin (fottutissimo) Smith sorride e allunga una mano verso la cinghia di cuoio che avvolge la vita troppo sottile del suo sottoposto, stringendoci intorno le dita.
“Che ho veramente bisogno di te è la prima cosa che ho detto, in effetti.”

Come se non bastasse, per rendere letale il colpo (perché è sempre uno stronzo manipolatore, dopotutto), alza gli occhi e fa precipitare il cielo nella stanza.
E Levi Ackermann sa di essere fottuto. Annientato. Perché non c’è nessun altro al mondo che sia in grado di sbaragliare le sue difese e arrivargli così in fondo. Fino a dove scricchiolano le ossa, fino a dove si radicano i pensieri più tiepidi e indifesi, le parole che non oserà mai dire. Fino a dove, in mezzo ai nervi tesi e ai più viscidi marciumi della vita, si dibattono un’anima smarrita e un cuore inerme, che trema di nascosto.
Erwin lo guarda e vede. Lo guarda e sa.
Ma è troppo gentiluomo per approfittarsi platealmente di una simile voluttuosa debolezza e troppo bastardo per non farlo affatto.

Il soldato più forte dell’umanità ha imparato da tempo, forse dal primo istante, con la faccia schizzata di fango, ad arrendersi a quello sguardo.
E quindi si fa trascinare per le cinghie verso la sedia del comandante, finché le cosce sbattono contro un provvidenziale (e merdosissimo) bracciolo di legno intarsiato.
Le mani di Erwin che gli cingono la vita sono calde, solide e stanche, come lui; oneste più di quanto lui non sia, ruvide, enormi.
E questo a Levi non piace per niente.
Vorrebbe averle lui due mani enormi fra le quali custodirlo, un corpo titanico e indistruttibile da mettere fra lui e il mondo, con cui corazzarlo, per tenerselo dentro, al sicuro, accucciato nell’incavo umido, colloso e stretto della nuca.
E invece si trova, come sempre, ad abbracciarlo a malapena in quella gabbia di ossa troppo corte e leggere che ha ereditato dagli stenti dell’infanzia.
Non basta. Non basta mai. Perché Levi Ackermann non sarà mai abbastanza per Erwin Smith e questa è una lezione che credeva di aver imparato il primo giorno, in ginocchio nella melma, di fronte all’inganno sfacciato di un cielo d’estate nei bassifondi, sopra il filo tagliente di una lama.
Credeva di averla imparata, ma ci ricade ogni volta, nella sciocca presunzione di avere ancora qualche briciolo di indipendenza da regalargli, qualche goccia di sangue in più da spremersi per offrirgliela fra le mani a coppa, i polsi legati stretti dai lacci di patetico servilismo che gli fioriscono dalle vene.
Dove finisce lo schiavo in catene e inizia lo stronzo innamorato non lo ha ancora capito. Ha capito che cederà, questa volta e ogni volta.
“Ho una condizione.”

Gli occhi di Erwin si accendono nell’espressione vorace del giocatore d’azzardo, raddrizza la schiena, senza però abbandonare l’aggancio delle dita sul cuoio, perché un vero burattinaio non lascia mai andare i fili.
“Sentiamo.”

“Io faccio lo stronzo volante in prima linea, ma tu te ne resti con il culo sul cavallo e fai in modo di non morire.”

“Fammi capire: mi stai dando del codardo o mi ritieni incline al suicidio?”

“Non è in battaglia che sei codardo [e comunque, sempre meno del coglione addomesticato qui presente]. E no, non ti vedo incline al suicidio, ma magari sei così [stronzo] nobile da farti frullare in quella geniale testaccia bacata qualche pensierino lascivo sul [cazzo di] martirio per la [cazzo di] umanità.”

La risata del comandante è bassa e roca, una risata da letto capitata per caso in ufficio. “Non ho nessuna intenzione di farmi martirizzare, non prima di aver trovato qualche straccio di risposta. Sai che però, di questi tempi, un bel martire con le ali sul mantello sarebbe un’idea niente male. Per una questione di consenso, se non altro.”

“Anche renderti inabile al combattimento a furia di calci è un’idea niente male.”

“Questa è insubordinazione, Capitano Ackermann.”

“Quindi ho già accettato il pezzo di latta? Me lo devo cucire sulle chiappe?”

Il comandante alza le sopracciglia e storce la bocca, come se stesse valutando l’idea, quindi lo strattona, per farlo ruotare su se stesso.
“Uhm. Mi sento di dire che in parecchi - il cadetto Ral per dirne una - ti seguirebbero con ancora maggior abnegazione, se il grado lo esibissi… dove hai detto.”

“Sulle chiappe. Chiappe. E’ una parolina facile: puoi farcela, comandante.”

“Chiappe” concede, condiscendente. Allenta la presa delle dita e gli permette di nuovo di girarsi.

“Resta concentrato, Erwin. Il grado sulle chiappe me lo metto se accetti la mia condizione.”

“Un ufficiale che non scende in battaglia vale meno del fango che ha sotto gli stivali.”

“Motivo per cui uno stramaledetto zerbino davanti alla porta di questo ignobile ufficio sarebbe un luminoso passo avanti per l’umanità.”

“E’ un discorso serio: non posso smettere di combattere. E non voglio farlo. Rischiare la vita insieme a quelli che mando al macello è l’unico alibi che mi resta da dare in pasto alla mia coscienza e non vale neanche molto.”

Quei morti, con gli occhi vuoti e un buco al posto del cuore che hanno donato alla Legione, sono sempre lì, nascosti nelle ombre della sua tristezza, per quanto tenacemente e con violenza Levi si ostini a scacciarli, per quanto abbia eletto a propria missione quella di ubriacarlo di vita.
Gli pianta un ginocchio nella coscia, con uno scatto fulmineo e preciso, che sfrutta alla perfezione il buco centrale dell’intarsio del bracciolo.

“Ahia!”

“Ho esagerato? Che peccato. Smetti di fare quella faccia. Tanto sei e rimani un fottutissimo rigira-frittate professionista. E torniamo al punto: non devi morire. Se muori ti ammazzo.”

L’insensatezza della frase strappa al comandante un mezzo sorriso, che finisce nascosto contro la stoffa ruvida dell’unica divisa dell’esercito che odora immancabilmente di bucato. Di coagulo ferrigno e bucato, qualche volta.
“Prima o poi dovrai metterti in testa che il mondo non gira intorno a me. Vorrei davvero che la smettessi di pensarlo, è irritante e troppo ingenuo da parte tua.”

Il mondo di Levi Ackermann non gira affatto. E’ proprio lì e ce l'ha stretto addosso, bianco e diritto come una colonna di marmo, immenso e compresso fra quel cuore martoriato e indomito e il cielo che gli sfavilla fra le ciglia.
“Fanculo Smith. Irritati finché vuoi, ma non ti azzardare a morire.”

“Mi serve il tuo permesso?”

La domanda resta sospesa nel pulviscolo dorato intorno al lume, mentre Levi ci riflette.
Ci riflette appoggiando la guancia sui capelli biondi, lasciandogli scivolare una mano piccola e possessiva sulla schiena, l’altra sulla guancia ruvida.
Se mai ci fosse bisogno di trarre un profitto (i delinquenti figli di puttana dei bassifondi hanno sempre bisogno di un profitto) dall’offrire la vita e il cuore a Erwin Smith, sarebbe quello: non vederlo mai sconfitto dalla morte, non pensare notte e giorno al suo cadavere che marcisce fra i vermi, non doverlo mai piangere davanti a una lapide. Non finire con il cervello sbriciolato dalla disperazione e le mani vuote, a invocare fantasmi.
“Sì. Ti serve. Per crepare prima di me, ti serve il mio permesso.”

“Vedrò di ricordarmene.”

“Non è un suggerimento amichevole. E’ un cazzo di ordine.”
 
Erwin sa bene che obbedire a un ordine è sempre molto più semplice che impartirlo. E l’idea che per una volta sia qualcun altro a dirgli cosa fare della propria vita e ad assumersene la responsabilità, è insolita e stranamente riposante.
Se qualcun altro è Levi Ackerman, l’idea è rassicurante, calda, comoda come un letto di piume.
“Obbedisco, Signor Ackermann.”

“Capitano.”

“Obbedisco, mio capitano. Mi fido del tuo giudizio.”

Metà della legione esplorativa sarebbe pronta a giurare che Levi Ackermann non ha un cuore, ma due lame implacabili incastrate dentro al petto e una testa da pupazzo a molla, che scatta in avanti a ogni scatarramento del comandante.
L’altra metà pensa che un cuore, tutto sommato, ce l’abbia pure, ma che sia collegato direttamente ai cavi d’acciaio del meccanismo tridimensionale e fatto dello stesso materiale, inscalfibile e freddo, votato allo sterminio e all'eroismo.
Erwin Smith conosce la verità, per questo, su quel cuore ci appoggia le labbra.

L’unica eternità concessa al genere umano è quella del singolo istante.
Attimi fulgidi strappati a una notte invincibile e ritagliati con precisione sulla forma irregolare di un segreto.
Perché in un mondo che fa a brandelli e ingoia ogni cosa preziosa, amarsi fino all’anima è un segreto.


***
Questa storia è stata scritta per la #reversechallenge del gruppo fb "Non solo Sherlock" e dedicata ad Annalisa Mellino


****
Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2024 indetti sul forum Ferisce la penna https://feriscelapenna.forumfree.it/?t=79854039
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: drisinil