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Autore: Soul of Paper    27/02/2023    5 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 79 - La Resa dei Conti


Nota dell’autrice: Questo capitolo giocoforza tratterà di tematiche e scene un poco più violente, più che altro a livello psicologico, del mio solito. Non sarà nulla di grafico, nulla che non si possa vedere in una fiction RAI un poco più “drammatica” e lo scopo non è mai di indugiare sulla violenza in modo gratuito ma di mostrare come i personaggi la affrontano a livello strategico, fisico e mentale. Ritenevo giusto però avvertire chi fosse particolarmente sensibile a queste tematiche. Sarà l’unico e l’ultimo capitolo di questo tipo. Siamo appunto alla resa dei conti, al climax e alla chiusura di un cerchio.


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 


“Non abbiamo dichiarazioni! Fateci passare!”

 

Alcuni ragazzi della scorta spingevano tra i giornalisti e la folla, si voltò per riprendere Imma per mano, ma trovò solo altri agenti.

 

Il cuore gli saltò un battito e poi iniziò a martellare furiosamente, mentre la cercava con lo sguardo, tutto intorno, ma niente, lei non c’era: in quel mare nero i colori di Imma sarebbero dovuti spiccare ma… non c’era.

 

“Dov’è Imma?” sussurrò al ragazzo toscano, il più sveglio della scorta, che non doveva spargersi la voce che fosse senza protezione.

 

Per fortuna lui capì e ben presto anche gli altri della scorta si avvidero della cosa - come avessero fatto a farsela sfuggire gli era incomprensibile e non se lo sarebbe mai perdonato, oltre a non perdonarlo a loro.

 

Guardò verso Irene e Mancini, sperando che fosse ancora con loro ma no, erano braccati dai giornalisti, intenti a rilasciare dichiarazioni, ma nessuna traccia di Imma.

 

E poi vide Ranieri e Mariani, poco distanti ma liberi e, per fortuna, Mariani incrociò il suo sguardo e fece loro cenno di avvicinarsi.

 

“Avete visto Imma?” domandò a bassa voce, non appena lo raggiunsero, ma Mariani e Ranieri scossero la testa, spalancando gli occhi, spaventati quanto lui.

 

Estrasse il cellulare, per cercare di chiamarla o di localizzarla almeno, e la scritta Dottoressa sul display lo tranquillizzò un attimo.

 

Vado in bagno, ci troviamo nella nostra aula?

 

Tirò un lieve sospiro di sollievo, mostrando il messaggio agli altri, pure mentre pensava al cazziatone che avrebbe voluto farle, ma che non avrebbe mai osato farle nelle condizioni in cui era - anche perché per primo avrebbe dovuto incolpare se stesso.

 

Si avviò verso la porta laterale, per raggiungere la maledetta e benedetta aula.

 

“Avete visto la dottoressa Tataranni?” chiese agli agenti di guardia.

 

“Sì, sì, è passata di qua qualche minuto fa.”

 

“E voi l’avete lasciata andare?!” esclamò, un poco troppo forte, per fortuna coperto dal fortissimo brusio di sottofondo.

 

“Ci sembrava non stesse bene, per la gravidanza, con tutta questa folla… pensavamo fosse d’accordo con voi. E poi ormai il processo è finito e sono stati presi tutti, no?”

 

“E che siamo, in una fiction? Che finito il processo, finito il pericolo?!” sbottò, incredulo di fronte a tanta ingenuità: sì, erano giovanissimi entrambi ma… quasi lui ai primi tempi era stato più sveglio, ed era tutto dire.

 

Ma stare lì a discutere era inutile: dovevano raggiungere Imma.

 

Fece un cenno a Ranieri, Mariani, alla scorta ed aprì la porta. A passo spedito, si avviarono verso la famosa aula e ci entrò.

 

Niente, era vuota.

 

“Vado a controllare in bagno?” propose Mariani, che effettivamente un assalto di uomini al bagno delle donne non sarebbe stato il massimo.


“Vengo anche io. Ci dividiamo: qualcuno aspetta qui, qualcuno viene con noi.”

 

Alla fine, lasciarono Ranieri e due della scorta in aula, mentre loro, cercando di non dare nell’occhio, si avviarono verso i bagni, che però erano già nell’area comune del tribunale - quelli riservati ai magistrati erano fuori uso da che ne aveva memoria, a causa dei tagli.

 

Mariani fece un cenno di intesa, bussò e poi entrò.

 

Calogiuri si guardò intorno, mentre pregava che fosse ancora lì dentro e che stesse bene, perché l’istinto gli urlava che no, non andava tutto bene, non avendola incrociata nel percorso.

 

Fu allora che notò, poco distante, la folla dei giornalisti, che ormai erano fuoriusciti dall’aula, e Frazer che, con la sua altezza e stazza, torreggiava sui colleghi. Accanto a lui… di nuovo Valentina?

 

La cosa più strana era che Valentina stava prendendo nota sul suo tablet e parlavano fitto fitto.

 

Non sapeva che significava, ma sapeva che ad Imma non sarebbe piaciuto e-

 

“Non c’è…”

 

La voce di Mariani, poco più di un sibilo, lo portò a voltarsi verso di lei e il bagno, aperto e completamente vuoto.

 

Il panico ormai alle stelle, estrasse il cellulare per chiamare Ranieri e chiedere notizie, quando un grido gli gelò il sangue e per poco non gli cascò di mano.

 

“Romaniello! Dov’è Romaniello? Dov’è Moretti?!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Cammina, forza!”

 

Cercò di trattenere la voglia di vomitare, inspirando il più possibile dal naso, mentre teneva il mento sollevato e il collo immobile. Non solo per la mano che lo stringeva, ma perché c’era qualcosa di appuntito che le premeva sulla pelle, appena sotto la mandibola.

 

L’odore nauseante della mano sulla bocca non aiutava, mischiato a quello dell’adrenalina, a mille come l’ansia. La piccoletta che continuava a scalciare, ancora più impanicata di lei, e la paura, la paura più grande di tutte.

 

Doveva rimanere lucida, doveva cercare di calmarsi, doveva fare tutto il possibile perché non succedesse niente alla piccoletta.

 

Non capiva come fosse possibile che non ci fosse nessuno nei corridoi: probabilmente tutti erano ancora assiepati fuori da quella maledetta aula.

 

Vide una porta aprirsi e ci si trovò spinta dentro: un’aula, di quelle per i piccoli processi, poco più di un ufficio.

 

Il muro si fece vicino, sempre più vicino e ci si trovò spinta contro. L’urlo per il dolore tremendo alla pancia si perse tra le pieghe di quella mano schifosa.

 

La piccoletta che scalciava sempre di più, così premuta, come lei, contro quella superficie dura, il dolore che un poco diminuiva, la vista che le si colorava, mentre si imponeva di respirare, di non svenire. Sentì un rumore di qualcosa che si strappava, lontanissimo, anche se in realtà era la tenda, lì accanto a loro.

 

Plastica rotta e la mano le lasciò il collo ma solo per afferrarle i polsi e tirarli indietro. Di nuovo l’istinto di urlare, ma un ginocchio nella schiena, che la spingeva ancora di più al muro, mentre il dannato cordino veniva legato stretto sui polsi, la bloccò: sarebbe bastata una spinta più forte per uccidere la piccoletta e non poteva permetterlo.

 

E poi tessuto, tessuto stantio e vecchio, intorno alla bocca a mo di bavaglio.

 

“Romaniello! Dov’è Romaniello? Dov’è Moretti?!”

 

Alla buon’ora! - pensò, maledicendo chiunque fosse Moretti e gli altri agenti che avrebbero dovuto sorvegliarlo.

 

Legata come un salame, quelle mani tornarono sul collo e finalmente un po’ di spazio tra la pancia ed il muro. Ma poi si sentì voltare e trovarsi di fronte a quel viso, a quegli occhi, a quel ghigno che non aveva nulla di umano, ma di cui solo un uomo poteva essere capace, la portarono quasi a rimpiangere il non poterlo vedere.

 

Se fosse sopravvissuta, quello sguardo non se lo sarebbe mai scordata, mai, fino all’ultimo giorno, e lo maledisse anche per quello.

 

Quella dannata cosa appuntita ancora sotto l’orecchio, si sentì spingere all’indietro, finché il retro delle ginocchia toccò qualcosa e le gambe le cedettero su quella che riconobbe come una sedia.

 

Dita conficcate nei polpacci, sopra le calze, un altro conato di vomito da trattenere, e scendevano sempre più giù, fino alle caviglie, allargandole a forza, la plastica del dannato cordino che ci si conficcava, mentre venivano legate alle due gambe anteriori della sedia.

 

E poi… e poi nulla… per un attimo niente lame, niente mani, e il calore e il peso si allontanarono, lasciandola respirare.

 

Romaniello era in piedi, sopra di lei, a un paio di passi da lei e con un “non si preoccupi, dottoressa, torno subito: non si fanno aspettare le signore, figuriamoci una donna come lei!” roco e sardonico, lo vide andare fino alla porta dalla quale erano entrati, chiuderla a chiave, per poi cominciare a trascinarci davanti la scrivania più vicina e alcune sedie.

 

Impotente come non mai, sollevò lo sguardo da quei dannatissimi pantaloni di cotone chiaro, suo marchio di fabbrica, per cercare di notare più particolari possibili che potessero aiutarla a uscire viva da lì.

 

La lama… la lama non era altro che un frammento di specchio rotto ed insanguinato. Come la mano destra di Romaniello, che però aveva una specie di bendaggio di fortuna, insanguinato anch’esso - ecco perché la bocca gliel’aveva tappata sempre con la sinistra!

 

L’istinto che le faceva sapere di avere un’intuizione, ancora prima di esserne cosciente, le strinse lo stomaco, mentre riconosceva il tessuto del quale era fatta la benda.

 

Blu, come le camicie d’ordinanza estive dei carabinieri.

 

*********************************************************************************************************

 

Corse verso quelle grida, più forte che poteva, e si trovò di nuovo nel corridoio dal quale erano venuti, dove un drappello di giovani carabinieri erano palesemente nel panico, mentre il maresciallo, dal quale venivano le urla, li redarguiva di fare silenzio.

 

“Che succede?!” domandò, fermandosi davanti a loro, il cuore in gola, anche se già aveva capito tutto, già sapeva che era quello che non avrebbe mai voluto accadesse.

 

I ragazzetti lo guardarono terrorizzati, scattando sugli attenti, anche il maresciallo si voltò e li imitò, l’aria di chi avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì.

 

“Che è successo?! Maresciallo?!” ribadì, cercando di non scoppiare e di non urlare troppo.


“Romaniello non si trova. Romaniello Saverio.”

 

“E questo lo avevo capito!” sbottò, perché era ovvio che si trattasse di lui, era lui quello che si sporcava le mani di persona, “com’è possibile che non si trovi? Chi era con lui?”

 

“Un agente, Moretti. Doveva andare in bagno, ma non sono ancora tornati e-”

 

Alla parola bagno, il sangue gli finì tutto ai piedi e gli girò la testa.

 

Si guardò intorno, cercandone un altro e lo trovò, poco distante da quello dove forse era stata Imma. Fece per raggiungerlo, ma gli si pararono davanti non solo la sua metà della scorta e Mariani, ma pure parte dei giornalisti e della folla, che erano accorsi lì, sentendo le grida.

 

Valentina!

 

Quei due occhi marroni lo guardavano spaventati, come quelli di un cerbiatto, come a chiedergli se avesse capito bene e dove fosse sua madre. In mezzo a tutta quella ressa, per un secondo vide solo lei. Finché il cognome Romaniello, ripetuto come una litania di bocca in bocca, lo portò a schiodarsi di lì, per cercare di raggiungerla ed allontanarla dalla folla e da lì, prima di poter anche solo pensare di aprirlo quel maledetto bagno.

 

Ma la fiumana di gente eruppe verso di lui e riuscì solo ad urlare uno “state indietro! Fateli stare indietro, maledizione!” e ne fu praticamente travolto.

 

Alla cieca, cercò di raggiungere Valentina, finché due mani grandi aprirono un varco e se la trovò gettata tra le braccia.

 

Uno sguardo d’intesa: e bravo Frazer!

 

La tirò a sé e con sé, più indietro possibile, mentre gli agenti spingevano in avanti verso la folla, facendo da scudo, e a loro si univano quelli della sicurezza del tribunale - decisamente fuori tempo massimo! 

 

Vide arrivare anche Ranieri con il resto dei loro agenti. Probabilmente avevano sentito le grida o erano stati avvertiti da qualcuno.

 

Altri passi di corsa alle loro spalle: Irene e Mancini, che dovevano aver fatto il giro largo per l’impossibilità di passare attraverso la folla.

 

Avevano entrambi uno sguardo omicida ed era palesemente rivolto agli agenti assegnati a Romaniello, mentre Irene gli chiedeva, “dov’è Imma?”

 

Non servì nemmeno risponderle, lo capirono immediatamente.

 

“Fateci passare! Fateci passare! Sono un carabiniere!”

 

“E lei? Pure lei carabiniera? Vestita così?”

 

“No, sono cancelliera, ma perché le carabiniere non potrebbero vestirsi eleganti fuori servizio? Questi pregiudizi maschilisti: e se siamo eleganti è perché siamo eleganti, e se una è sportiva allora è un maschio, e se invece si veste un poco più corto o scollata allora è una poco di buono e-”

 

“Signora Diana!” urlò, per fermarla prima che stordisse del tutto uno dei loro agenti di scorta, “Caputo, falli passare: a lei e al brigadiere Capozza!”

 

Sapeva che, in caso contrario, non avrebbero risolto niente. E poi era meglio levarli dalla folla e metterli in una stanza a parte e-

 

“E pure a me, se mi è concessa la grazia!”

 

Vitali, che sbucava a malapena, a causa dell’altezza. Non l’aveva proprio visto.

 

“Dottor Vitali! Fatelo passare!”

 

“Fratellì!”

 

All’inizio non comprese da dove venisse l’acuto inconfondibile di Rosa, ma alla fine la vide saltellare più avanti nella calca, Pietro al suo fianco con uno sguardo che faceva fede al suo nome.

 

“Fate passare anche mia sorella e… e mio cognato, ma metteteli in una stanza a parte, insieme alla signora De Santis e a Valentina e-”

 

“Io non vado da nessuna parte finché non trovate mamma!”

 

Il tono e lo sguardo di Valentina erano quelli che aveva preso da Imma, di quando non avrebbe cambiato idea su una cosa manco a smuovere mari e monti.

 

“Valentina, per favore, dobbiamo lavorare e… e se rimani qua non potremmo farlo in sicurezza. Per favore, fallo per tua madre e per me.”

 

“Ma non-”

 

“Dobbiamo fare in fretta. Per favore, Valentina, se ci saranno aggiornamenti sarai la prima a saperlo, va bene? Fidati di me!”

 

La vide deglutire ma poi fare cenno di sì col capo, due lacrime che le scendevano lungo le guance, mentre seguiva gli agenti che stavano già accompagnando Rosa, Diana e Pietro.

 

E brava Valentì!

 

“Capozza, se vuoi rimanere, dottor Vitali, se vuole darci una mano.”

 

“Se per te non è un problema, Giorgio.”

 

A quelle parole, si voltò verso Mancini, ricordandosi improvvisamente di non essere più lui il più alto in grado. Ma Mancini gli fece un cenno come a dire che non gli importava e pose quella fatidica domanda: “che succede?”

 

“Dobbiamo andare in bagno, subito. Al bagno degli uomini,” spiegò, cercando di non farsi udire da orecchie indiscrete.

 

Mancini annuì con Ranieri e, mo che avevano capito e che il corridoio era stato finalmente liberato, corse verso quella maledettissima porta.

 

Con Ranieri, Mariani e Capozza al suo fianco, più un paio degli agenti della scorta, che estrassero le loro pistole, si piazzarono intorno alla porta.

 

“Aspettate!”

 

Era Mancini e, a un suo cenno, quattro degli agenti di guardia consegnarono a lui, a Ranieri, a Mariani e a Capozza le loro pistole: con le misure di sicurezza del tribunale, non le avevano potute portare con loro.

 

Ranieri bussò, come si doveva fare da protocollo.

 

Silenzio.

 

“Aprite, carabinieri!”

 

Silenzio.

 

Con un cenno d’intesa, uno degli agenti di scorta girò la maniglia e la porta si aprì, ma solo di un pezzetto.

 

“C’è qualcosa che la blocca!”

 

“Dobbiamo sfondare!” ordinò, in automatico, mentre Mancini e Ranieri gli facevano un cenno di assenso.

 

I due agenti della scorta si misero in posizione e, coperti dalle loro pistole puntate, diedero una, due, tre spallate, finché la porta cedette un poco e uno di loro lanciò un urlo, scivolando a terra.

 

Le mattonelle erano quasi nere, nere di quel fluido viscido che aveva imparato a conoscere fin troppo bene in quei mesi.

 

Mariani, la più esile, si infilò nello spazio e, dopo poco, la porta si aprì del tutto.


Riverso in un lago di sangue, c’era quel qualcosa, anzi quel qualcuno che aveva sbarrato la porta con il proprio corpo, la gola tagliata.


“Moretti!” gridò una voce alle sue spalle, mentre all’odore metallico del ferro, si unì il gusto della bile.

 

Recuperò il cellulare dalle mani, ragionando se fosse la cosa giusta da fare o forse la più sbagliata.

 

“Provaci. Magari… magari non è come pensiamo. Magari si è solo nascosta. Ha la vibrazione, vero?”

 

Era stata Irene a parlare ed annuì. Ai processi Imma il cellulare non lo avrebbe mai tenuto con la suoneria - a teatro a volte sì, ai processi no.

 

Selezionò il primo numero di scelta rapida, e quel nome Dottoressa, apparve sul display. Ad ogni squillo a vuoto, sembra gli scoppiasse il cuore.

 

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Il sorriso.

 

Quel sorriso era sempre più ampio, sempre più spaventoso, mentre fissava il pezzo di specchio e poi lei, avvicinandosi, un passo dopo l’altro, sempre di più.

 

Sentiva quell’odore nauseabondo di adrenalina, ormoni, sudore e chissà che altro, Romaniello era come un predatore pronto a giocare con la preda, in uno di quei documentari che Pietro la costringeva a sorbirsi.

 

Quello sguardo che la fissava, la faceva sentire nuda e come se mille vermi le corressero sulla pelle.

 

Lo vide afferrare un’altra sedia e piazzarla di fronte a lei, poi ci si sedette, con tutta la calma del mondo, come se si stesse accomodando su un trono, al posto d’onore, e poi-

 

Quella mano. Sulla coscia, appena sopra al ginocchio.

 

Cercò di divincolarsi, ma le gambe erano mezze immobilizzate e non poteva chiuderle, non del tutto.

 

“Brava, dottoressa! Mi piace quando sei così decisa!” la derise, mordendosi il labbro in un modo che le provocò un altro mezzo conato.

 

Forse Romaniello se ne accorse, o forse lo interpretò come un suo tentativo di rispondere perché di nuovo quel maledetto pezzo di specchio le premette sul collo.

 

“Facciamo così…” le sussurrò all’orecchio, con quel tono serpentino che le veniva ancora più voglia di ucciderlo, “io adesso ti levo il bavaglio. Ma non azzardarti nemmeno a pensare di urlare, o fai una brutta fine e la fa anche lei.”

 

Le dita di Romaniello sulla pancia le gelarono il sangue, mentre i calcetti della piccoletta, se di solito ne sarebbe stata orgogliosa, ora la spaventavano: non voleva che Romaniello puntasse solo a lei, che si concentrasse su di lei.

 

Per fortuna le dita sparirono e, con un mezzo strappo verso il basso, la benda le finì sul collo, dove però tornò anche la lama.

 

“Che…” si schiarì la voce, perché non voleva farsi vedere debole o spaventata, non da lui, “che cosa spera di ottenere, eh, Romaniello? Dove pensa di andare? Da qua non la faranno mai uscire, sta solo peggiorando la sua posizione e-”

 

“Veramente sono MOLTO soddisfatto della mia posizione, dottoressa,” rise, leccandosi le labbra, che gliele avrebbe spaccate insieme al resto della faccia, “ma che pensa? Che sono nato ieri? Eh, no, proprio no. Lo so benissimo che non riavrò la libertà, che scappare da qua è impossibile. Le guardie sono sceme, è vero, ma le uscite… quelle almeno le sorvegliano bene. Solo che… sì, i domiciliari sono meglio della prigione, è vero, ma lo sa cosa c’è di peggio del pericolo della prigione e del suo squallore?”

 

La fissava, come se fossero a un quiz in tv o a una lezione e non con lei legata come un insaccato e con una lama alla gola.

 

“Lo squallore della noia, dottoressa. La noia, le giornate sempre uguali, la mediocrità. Ma che vita è, eh, me lo dice? E lo so che concorda con me, perché se c’è una cosa che non sopporta è la mediocrità, il lasciarsi vivere. Anche a lei piace l’adrenalina, come piace a me, la sfida, il pericolo.”

 

“Questa si chiama proiezione, Romaniello. E forse in questi anni ha fatto in tempo a scordarsi quanto sia brutta la prigione, ma non ne vale la pena per prendersi questa - che lei pensa sia una rivincita, ma che è solo uno scavarsi ancora di più la fossa da solo - di farsene altri quindici almeno in una cella e-”

 

“E invece sì che ne vale la pena, dottoressa. Questa rivincita la vale proprio tutta la pena: posso anche starmene in una cella finché campo, ma un’ultima soddisfazione me la voglio togliere, finché posso godermela fino in fondo. E che soddisfazione!”

 

Di nuovo quelle maledette dita sopra al ginocchio - per fortuna aveva le calze, almeno per il momento - dovette trattenere un altro conato, tra la presa e quel fiato nauseabondo che le si avvicinava sempre di più alle labbra, mentre Romaniello, con quello sguardo folle ed animalesco continuava il suo delirio, “tutti questi anni… a dover ingabbiare la mia vera natura. Senza una donna con cui poterla sfogare. E mo, proprio oggi, che quasi non ci speravo più, me ne vado in bagno, bello tranquillo, e chi mi vedo passare davanti? Il destino mi ha voluto dare un’altra possibilità. Mi ha detto Saverio, carpe diem! E non potevo rifiutare un simile regalo, non le sembra, dottoressa?”

 

“Sa che cosa ho scoperto, signor Romaniello? Che la vita, il destino non ti regalano niente. E che i regali si pagano, carissimi e-”

 

“E sono disposto a pagarli tutto quello che ho, dottoressa, tanto non ho più niente da perdere!”

 

Le dita, quelle dita ossute e schifose, che gliele avrebbe mozzate una per una, cominciarono a muoversi, più in alto, sulla coscia e, a parte il conato di vomito, trattenne l’istinto di divincolarsi, di richiuderle, e cercò di continuare a parlare, anche se, mai come in quel momento, ciò che doveva dire era completamente diverso da ciò che avrebbe voluto potergli urlare in faccia.


“Lei parla di soddisfazione. Ma che soddisfazione può darle avermi in questo modo? Che non posso fare nulla, nemmeno difendermi, e non perché non ne sia capace, ma perché sono qua legata come un salame, dopo avermi presa alle spalle, come un vigliacco.”

 

“Io non sono un vigliacco!”

 

“Ah no? Allora perché non mi ha affrontata faccia faccia, ad armi pari? Altro che maschio alpha, altro che coraggio, la verità è che a una come me lei non sa come tenere testa senza barare e-”

 

“Dottoressa, lei mi sottovaluta: lo so benissimo che lei è una tigre e che tigre! Magari ci penserò poi a slegarla per godermi meglio il momento con lei, ma devo prima prendere le mie precauzioni, per me e per lei.”

 

“Per me?”

 

“Certo, per lei. Suvvia, dottoressa, lo sa benissimo anche lei che sono anni che giochiamo a questo gioco del gatto con il topo. Lo so che la sente anche lei questa scintilla, questa tensione che c’è tra noi, fin dalla prima volta che ci siamo visti. Lei è l’unica che sa tenermi testa e io la testa gliel’ho tenuta, prima metaforicamente, ora letteralmente, per molto tempo.”

 

“Tenermi testa?” scoppiò a ridere, amara, ma non ce la faceva più, tra quella maledetta mano, che almeno si era fermata a metà coscia e il delirio di Romaniello, “veramente è da mo che ho vinto, Romaniello, se non se n'è accorto. E se c’è qualcuno che è capace di tenermi testa non è di certo lei!”

 

Per un attimo fu come se Romaniello avesse ricevuto uno schiaffo, tanto che arretrò leggermente, lasciandole finalmente aria un poco meno marcia da respirare - da quant’era che non vedeva un dentista? - ma poi dallo stupore passò alla rabbia e, di nuovo, a quel dannato sorrisetto.

 

“E chi sarebbe a tenerle testa, sentiamo? Se si riferisce a quel povero coglione di mio fratello… beh, effettivamente bisogna riconoscergli che ci si è messo di grande impegno. Ma sarebbe stato un vero peccato saperla morta in un volgare agguato, senza aver potuto nemmeno vivere un momento insieme. Che spreco terribile sarebbe stato, se questo corpo che tiene nascosto sotto questi vestiti orrendi, fosse finito crivellato senza provare nemmeno una volta nella vita il piacere di essere stata con un vero uomo. Che ha visto anche il suo lato oscuro, dottoressa, lo ha visto, lo ha riconosciuto e che sa di cosa lei ha bisogno.”

 

Dire che fosse sconvolta era dire poco, al di là del panico, al di là di tutto, si chiedeva se Romaniello quelle cose le pensasse veramente, se delirasse fino a quel punto o se fosse solo una presa in giro, un modo per provocarla e inorridirla ancor di più - cosa che, anche se non doveva darglielo a vedere, gli stava riuscendo benissimo.

 

“Se invece… se invece parla di quel cretinetti con cui non solo ha deciso di fidanzarsi ma, per qualche motivo a me inspiegabile, ha pure deciso di perpetuarne il pool genetico, rovinandone uno di razza come il suo, beh… se si riferisce a lui, la risolviamo subito.”

 

A parte inghiottire la rabbia per gli insulti a Calogiuri - che comunque parlava proprio lui, che a furia di sposarsi tra le stesse famiglie si capiva come fosse ridotto così! - fece appena in tempo a chiedersi cosa volesse dire, prima che lui le stringesse fortissimo la coscia.

 

E poi la mano per un momento la lasciò, ma la ritrovò sulla pancia, sulla giacca, sul fianco e…

 

Il cellulare!

 

Romaniello glielo aveva estratto dalla tasca dove lo aveva infilato - niente borse pesanti per lei, ovviamente! - e lo teneva in mano come un trofeo.

 

Un altro ghigno.


“Due chiamate perse! Proprio vero che, quando ci si diverte, al telefono non ci si pensa!”

 

Non aveva sentito la vibrazione ma del resto la giacca, che ormai doveva tenere aperta, era più appoggiata alla sedia che a lei, ed aveva avuto ben altro di cui preoccuparsi.

 

“Il suo cavalier servente le ha anche mandato un messaggio: Imma dove sei? Rispondimi, dimmi che stai bene, ti prego! Quanta eloquenza! Quanta solerte preoccupazione! Sarebbe un vero delitto lasciarlo così in pena, no?”

 

Non capendo dove volesse andare a parare, lo vide armeggiare col cellulare e poi sentì gli squilli, in viva voce, mentre lui le mostrava il display col nome Calogiuri.

 

Ma a che gioco stava giocando e-

 

Di colpo, Romaniello chiuse la chiamata.

 

E certo, probabilmente voleva torturarla e torturare Calogiuri, o forse mandargli quella telefonata per depistarlo e fargli credere che lei stesse bene e-

 

“Perché accontentarci di una chiamata, no, dottoressa? La tecnologia ha fatto così tanti passi in avanti! Meglio una bella videochiamata, anzi, facciamo le cose per bene. Che, come diceva la cattivissima anima di mio padre: le cose o si fanno bene o non si fanno! Lascio a lei immaginare a che genere di cose si riferisse!”

 

Completamente presa in contropiede, lo vide avvicinarsi al proiettore della piccola sala, usato per mostrare prove, video o altro. Ci collegò il suo cellulare, attaccandolo ad uno dei tanti cavetti, e lo accese, con un’abilità che decisamente il cancelliere medio non aveva, che ci perdevano sempre ore a farli funzionare.

 

Un’altra vibrazione, stavolta la sentiva, ed era il telefono che tremava sul metallo del proiettore mentre, sul telo bianco steso sul muro in fondo, appariva un’immagine ingrandita e un po’ sgranata dello schermo del cellulare - i mezzi erano quelli che erano.

 

“Imma? Imma stai bene?!”

 

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“Imma? Imma stai bene?!”

 

Sentì solo un respiro e la chiamata si interruppe.

 

Ormai sempre più in panico, dopo le chiamate perse e quella brusca interruzione, stava per riprovare per l’ennesima volta, quando sul cellulare apparve la richiesta di fare una videochiamata ed era proprio da Imma, con l’icona grigia e anonima che teneva da quando aveva cambiato il numero e ce l’avevano in pochissimi, di fiducia assoluta.

 

Magari era chiusa da qualche parte e non poteva parlare ma solo farsi vedere?

 

Rispose subito e all’inizio non capì, perché venne abbagliato da una luce e poi gli apparve davanti una roba chiara e sfocata.

 

“Imma? Imma?!”

 

“Buonasera capitano, quanto tempo!”

 

Un brivido freddo lungo la spina dorsale nel riconoscere quella voce e, subito dopo, il ghigno di Romaniello, finalmente a fuoco.

 

Ce lo avrebbe messo lui a fuoco, letteralmente!

 

Ma poi la telecamera si spostò, da quella anteriore a quella posteriore e vide un pezzo di qualche aula che roteava vorticosamente e infine, un pugno allo stomaco: Imma, legata ad una sedia.

 

“Calogiuri! Qualsiasi cosa ti dica, non dargli retta, hai capito?!” urlò, con lo sguardo di quando non voleva dare a vedere le emozioni, di quando voleva rassicurarlo, ma lui la conosceva troppo bene ormai.

 

Avrebbe voluto dirle tante cose, ma non sapeva se lei poteva vederlo e sentirlo. E poi di nuovo la telecamera frontale, il baffetto di Romaniello e quegli occhi gelidi che sibilavano un, “e certo! La dottoressa non vuole far sapere al suo cavalier servente quanto ci stavamo divertendo solo io e lei. Ma adesso lo saprà, si dovrà rendere conto che non c’è competizione con me, dottoressa.”

 

“Dove siete? Dove l’avete portata?” domandò, ignorando tutte le provocazioni, anche se il sangue, da gelido, gli ribolliva nelle vene.

 

“E che gusto ci sarebbe a fare tutto il lavoro per voi, capitano?”

 

“Che cosa volete, Romaniello?”

 

“Che cosa voglio? Tante cose, tante cose, tra cui dare una bella lezione a un po’ di gente. Ma dovrebbe capirlo da solo, ora che è pure diventato capitano. Che poi, al massimo capitan Findus, con quella faccia da merluzzo lesso che si ritrova, anzi in pescheria ho visto esemplari assai più svegli di lei!”

 

Doveva stare calmo, non doveva rispondere, non doveva cedere alle provocazioni, anche se era una parola. Non riusciva a capire dove fossero: non lo conosceva così il bene il tribunale, non era stato in tante aule nel corso di quegli anni romani, soprattutto non in posti così piccoli.

 

Alle sue spalle apparve Mancini, finendo nel feed della telecamera, chiedendo, “che succede?”

 

“Ho trovato Romaniello, è… è con Imma.”

 

“Ossequi al dottore e, per essere precisi, sono io che ho trovato voi. Che se stavamo ad aspettare voi, stavamo freschi, non è vero, dottoressa?”

 

La telecamera era sempre quella frontale, ma inquadrò per un attimo i vestiti di Romaniello - e ciò che vide gli fece crescere ancora di più la rabbia - e poi si allontanò e nell’inquadratura c’erano sia lui, sia Imma che un pezzo dell’aula.

 

Mise il microfono sul muto e chiese a Mancini e agli altri, che nel frattempo si erano assiepati alle sue spalle, “riconoscete dove sono?”

 

Mancini fece avanzare le guardie del tribunale, che di sicuro se ne intendevano più di tutti loro messi insieme, ma in quel momento un “e no!” rabbioso lo portò a guardare di nuovo verso lo schermo e Romaniello.

 

“E no, così non va proprio bene! Niente suggerimenti, capitano! Riaccenda quel microfono o la sua bella si troverà con qualche ruga in più sul viso!”

 

E in quel momento, Romaniello sollevò una mano e c’era qualcosa che ci luccicava dentro, come un vetro sporco e appuntito, che abbagliava quando si rifletteva nella telecamera. Lo puntò dritto al collo di Imma.

 

Un gemito, un paio di gocce di sangue ed il terrore più totale, la voglia di spaccare tutto e raggiungerla in ogni modo. Per fortuna, Romaniello si fermò a quel taglietto superficiale.

 

“Ci deve arrivare il capitano, niente suggerimenti o questa ruga si farà sempre più profonda.”

 

“Va bene, va bene, Romaniello, niente suggerimenti, li faccio allontanare.”

 

“Ma no, finché non parlano possono godersi lo spettacolo, anzi devono godersi lo spettacolo. Noi non siamo egoisti, no, dottoressa?”

 

Romaniello si girò di nuovo verso Imma, che aveva un’espressione che non si sarebbe mai scordato, un’espressione da guerriera, impassibile. Con la mano libera, fece segno agli altri di scrivere invece che parlare.

 

Mancini annuì e lo vide armeggiare con il cellulare e passarlo a una delle guardie, che ci scrisse un numero, il numero dell’aula, e glielo mostrò.

 

E poi lo schermo di Ranieri, che si era piazzato dietro la telecamera e scriveva:

 

Chiamo i ROS

 

Gli fece il segno di ok con la mano, cercando di non farsi notare: doveva guardare il più possibile lo schermo e stare calmo, controllato.

 

Romaniello, purtroppo e per fortuna, era più concentrato su Imma, mentre le prometteva delle cose che gli facevano andare tutto il sangue alla testa, tipo che le avrebbe fatto provare com’era stare con un vero uomo, accarezzandola sopra i vestiti in un modo che gliele voleva mozzare quelle mani.

 

Da un lato non avrebbe mai voluto assistere a quella scena, dall’altro, mentre Romaniello era distratto, cercò di fare segno a Imma, per accertarsi se potesse vederlo.

 

Anche se non riusciva nemmeno immaginare cosa stesse provando lei in quel momento - e quello lo terrorizzava e lo faceva sentire impotente e inutile - sperò che lei fosse lucida e pronta come lo era sempre. Quando vide il cenno impercettibile del capo di Imma, le fece il segno di sbattere le palpebre.

 

Uno

 

Due

 

Tre

 

Imma chiuse e riaprì tre volte le palpebre, guardandolo come per rassicurarlo, quando avrebbe dovuto essere lui a rassicurare lei.

 

Stiamo arrivando, Imma, stiamo arrivando! - cercò di farle capire e il lieve accenno di sorriso di lei, mentre chiudeva le palpebre altre tre volte, gli diedero una motivazione e una forza, una rabbia, come mai prima.

 

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Quel tremendo odore di marcio sulle labbra, la lama sul collo, quelle mani che gliele avrebbe staccate con un coltello poco affilato, che facesse più male, cercò come poteva di pensare solo a Calogiuri, alla piccoletta e a come uscire di lì.

 

Per fortuna Calogiuri la capiva come sempre con uno sguardo, ma doveva stare attentissima a non farsi beccare da Romaniello, che d’accordo che UNA cosa in testa c’aveva, da sempre, ma non era scemo.

 

Un grattare al collo, e sentì la lama scendere, fino alla benda di fortuna. Un rumore di stoffa che veniva strappata e la vide volare nella stanza, oltre la sua testa.

 

Per un attimo le mancò il fiato, perché l’altra mano tornò ad afferrarla per il collo - l’unica consolazione era che almeno non vagava più in altri posti - ma la lama scese ancora e udì un altro suono di stoffa tagliata.

 

Il vestito, il vestito stava cedendo e sentì la lama scendere giù, sempre più giù, fino al seno. Pezzi di stoffa verde volavano e cadevano come stelle filanti.

 

Doveva stare ferma, doveva stare immobile, doveva stare calma, non farsi prendere dal panico. Guardò verso Calogiuri, odiando il fatto che lui la vedesse così e di non poterci fare niente. Lo vedeva che era sull’orlo di scoppiare, leggeva la rabbia e il dolore nei suoi occhi e anche il senso di colpa. Cercò di fargli segno di stare calmo, che andava tutto bene, anche se lo sapevano entrambi che non era vero.

 

“Mi voglio proprio godere lo spettacolo, piano piano, lo strip tease…” le sibilò sulle labbra, prima di fare un altro di quei suoi ghigni ed aggiungere, in tono cospiratorio, come se fosse il suo amante, il suo complice in un rapporto consensuale, “ora potremmo continuare dalle calze, che ne dici?”

 

Il nuovo passaggio al tu non era un buon segno e cercò di rimanere ferma anche quando sentì la lama e quella mano viscida sotto la gonna, che si sollevava sempre di più, fino al bordo delle autoreggenti - che con quella pancia i collant erano proprio da escludere.

 

Romaniello fece un’espressione sorpresa e sorrise ancora di più, mentre commentò un “bene bene, hai capito la dottoressa? Queste possono anche rimanere fino alla fine!” che la fece sentire tremendamente sporca.

 

Tornò a concentrarsi su Calogiuri, per non impazzire, e lo vedeva con la mascella contratta talmente forte che si sarebbe potuto spaccare i denti da solo, ma notò anche che lo scenario alle sue spalle cambiò. Stava camminando con la schiena attaccata al muro, probabilmente perché nessun altro la vedesse.

 

Calogiuri!

 

Se usciva viva di lì - e doveva uscire viva di lì - gli avrebbe detto che lo amava fino a sfinirlo.

 

Lo vide fare il segno di una telefonata e poi una R, una O, una S. I Ros. Per fortuna almeno un poco di linguaggio dei segni lo conoscevano.

 

Stavano arrivando i rinforzi, doveva resistere il più possibile senza che la situazione degenerasse e-

 

E Romaniello si voltò verso Calogiuri, che per fortuna ritornò quasi ad una maschera immobile, mentre quel maiale lo provocava con un, “la capisco, capitano, eccome se la capisco. Ha scelto proprio bene! La dottoressa ha un corpo meraviglioso, anche se lo nasconde sotto questi vestiti orrendi. Ma rimediamo subito.”

 

Di nuovo quel tremendo rumore di lama sulla stoffa - non sarebbe forse mai più riuscita a farsi gli stracci in casa, come la buonanima di sua madre le aveva insegnato - e il freddo dello specchio e dell’aria proprio sulla pancia, mentre cercava di trattenere il fiato. Il panico montava sempre di più, al percepire quella lama così vicina alla piccoletta, che aveva ripreso a scalciare come un’ossessa.

 

Stai ferma, piccolé, stai ferma! - provò a pregarla, neanche la potesse sentire, fino a che la lama non si fermò di nuovo, appena sotto al pancione.

 

L’altra mano sulla pancia, che la toccava in un modo quasi riverente che le appariva beffardo e come il peggiore degli schiaffi. La lama rimaneva vicino al fianco e d’istinto, senza pensarci, tirò con tutta la forza che aveva sui legacci ai polsi e alle gambe.

 

Nel giro di un secondo si rese conto che quello ai polsi stava cedendo e che Romaniello non doveva accorgersene.

 

E quindi urlò, per la prima volta urlò, mentre tirava più forte che poteva, benedicendo i maledetti tagli alla manutenzione, quando la plastica vecchia di quelle dannate cordicelle cedette, liberandole i polsi. Avrebbe ceduto anche quella alle caviglie, lo sentiva, ma non era ancora il momento: Romaniello se ne sarebbe accorto. I polsi li poteva, anzi li doveva tenere vicini, dietro la schiena, attendendo la giusta opportunità.

 

Guardò Calogiuri, terrorizzato, disperato e schifato - mentre Romaniello esclamava un, “così ti voglio!” carico di un’eccitazione che altro che nausea - e cercò di fargli capire che fosse tutto ok.

 

Come spiegargli che si poteva liberare?

 

“Certo che è proprio tosta, come la madre!” le sussurrò sulle labbra, toccando dove la bimba stava scalciando, “buon sangue non mente! Almeno ha preso da te e non da quel bambacione del padre. Ma… è una creatura così fragile, così innocente… basta così poco a cambiare una vita per sempre o a distruggerla, no, dottoressa? Basta un momento. Come quando mio padre mi ha spedito al riformatorio.”

 

Doveva farlo parlare, ma doveva ragionare molto bene su cosa dire e come dirlo.

 

“Suo padre ha sbagliato, Romaniello, ed è stato il padre che è stato, ma la sua vita se l’è rovinata lei, con le sue mani. Come sta facendo adesso, pensando di poter vincere così, tenendomi qui, legata. Ma non vincerà mai. E lo sa il perché? Perché io sono libera da tutte le catene, da ogni singola catena!”

 

Sottolineò le ultime parole guardando Calogiuri, cercando di fargli un cenno con le sopracciglia, pregando che avesse capito, per poi tornare a fissare quegli occhi di ghiaccio, così freddi e allo stesso tempo pieni di una terribile passione.

 

“Sono e sarò libera, sempre, fino in fondo. Mentre lei libero non lo è stato mai, Romaniello, diventando una pedina di suo fratello, come tutti gli altri. Io ce l’ho avuto il coraggio di spezzare i lacci che mi tenevano legata-” altro sguardo a Calogiuri “mentre lei no, le hanno pure fatto comodo, no? Diciamoci la verità!”

 

E mentre Romaniello, preso dalla rabbia, si distraeva, per un secondo fece segno a Calogiuri e poi abbassò lo sguardo verso i piedi - anche non riusciva bene a vederli, tra la pancia e Romaniello - e mosse leggermente le mani.

 

Calogiuri spalancò gli occhi e annuì: per fortuna si erano capiti.

 

“La verità? La verità? La verità è che io ho ripudiato la mia famiglia e i miei legami. Tu invece te ne sei solo creati di altri: con capitan Findus, con questa piccola rompicoglioni. Magari non proprio approvati dalla gente bene, perché lui è un ragazzino e non siete uniti dal sacro vincolo del matrimonio, ma sempre così terribilmente convenzionali. Non è di questo che hai bisogno.”

 

“Ah no? E di che cosa avrei bisogno?” lo provocò, per spingerlo a continuare a parlare, ma si rese conto dell’errore di valutazione commesso, quando la lama finì di nuovo sotto la pancia e sentì quel rumore orribile di stoffa lacerata.

 

“Di che hai bisogno? Di qualcuno che faccia uscire l’animale che c’è in te, e non solo con i vestiti o con questi bei completini, che sono sprecati per quel bamboccione!”

 

Il modo in cui le osservava il reggiseno e gli slip leopardati - mannaggia a lei che manco da incinta si era rassegnata ai mutandoni della nonna! - le diede un altro brivido, anche se si sforzò in ogni modo di non tremare. Romaniello continuava a tagliarle anche la parte della gonna, sempre più giù.

 

Fissò Calogiuri, per estraniarsi e per capire come stesse reagendo e, a parte che aveva uno sguardo omicida che non gli aveva mai visto prima, neanche nelle emergenze peggiori, lo vide farle cenno con la mano di aspettare e poi indicare fuori dalla telecamera. Pronunciò qualcosa che all’inizio non capì, ma per fortuna, alla seconda enunciazione, intuì che fosse un distrailo.

 

“Per fare uscire l’istinto animale le persone bisognerebbe lasciarle libere, non legate. E, se pensa di poterlo scatenare in me in queste condizioni, si sbaglia di grosso. L’unica cosa che scatena in me è la noia più totale.”

 

“Lo vedremo, dottoressa, lo vedremo…” sibilò lui e, con la coda dell’occhio, notò che Calogiuri agitava qualcosa in mano. Un foglio con su scritto…

 

DE LUCA È QUI

SIAMO QUI

 

Erano lì vicino, doveva tenerlo impegnato e-

 

In quel momento Romaniello fece per girarsi verso Calogiuri e allora lo provocò con un, “che cos’è, Romaniello? Ha bisogno dei suggerimenti di un vero uomo su come fare?”

 

Sentì lo scatto della testa di Romaniello, che la fissava a dir poco rabbioso, omicida.

 

Forse aveva esagerato, ma almeno aveva tutta l’attenzione su di sé.

 

“C’hai la lingua lunga, troppo lunga, dottoressa!” sibilò, e la lama le premette più forte sul collo, “sono anni che te la vorrei tagliare, questa maledetta lingua, ma poi penso che potremmo usarla per cose assai più piacevoli, non credi?”

 

Non fece in tempo a rispondere che si trovò due labbra viscide sulle sue, cercò di trattenere un conato di vomito ma non ci riuscì. Romaniello ne approfittò per infilarci la sua di lingua.

 

Fu un secondo, l’istinto, e gliela morse, più forte che poteva.

 

Romaniello si ritrasse, urlando di dolore, la mano con la lama scese per un attimo. Imma cercò di liberare le gambe, per calciarlo via, ma riuscì solo a far cedere il laccio a una delle caviglie, prima che un rumore ed un dolore fortissimo le fecero scattare di netto il collo verso destra.

 

Il cranio che le rimbombava come una campana, la vista che traballava, le orecchie che ronzavano, vide il palmo ancora alzato di Romaniello, che le aveva tirato uno schiaffo così forte che ancora un po’ perdeva i sensi.

 

Le urla, le urla di Calogiuri in lontananza, terrorizzato più di lei, e quegli occhi, quegli occhi stretti, quelle labbra tirate in un ghigno furioso.

 

Era ad un passo dal baratro, lo sentiva, anche prima che la lama ritornasse a premerle sempre più sul collo. E non solo quella.

 

Qualcosa le diceva che Romaniello non era solo nero, ma ancora più eccitato, se possibile.

 

Se voleva prendere tempo ed evitare il peggio, non doveva rispondere con la violenza, non doveva reagire troppo o sarebbe stato peggio.

 

Incrociò per un secondo gli occhi pieni di lacrime di Calogiuri, rabbioso e disperato come non mai, ma poi si sentì afferrare per il viso e dovette tornare a guardare Romaniello. Un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca e si stava pulendo sulla camicia.

 

“È inutile che vi guardiate: tanto il tuo bel cavalier servente non può fare niente. Adesso sei mia, soltanto mia, finché mi pare e come mi pare, hai capito?”

 

Non rispose, era l’unica cosa da fare, non rispose.

 

“Non dici niente, eh? Non reagisci più? Dov’è finita tutta quella spocchia che hai sempre, tutto quell’orgoglio? Che cos’è, è bastato uno schiaffo per rimetterti al tuo posto?”

 

Nonostante la rabbia, lo schifo, la bile, il sangue che sentiva in bocca, stette zitta, anche quando fu baciata di nuovo con la forza, ma stavolta tenne le labbra serrate, non mosse un solo muscolo, come se fosse morta.

 

Sentiva che Romaniello era frustrato, sempre più frustrato, e finalmente quelle labbra schifose si levarono di mezzo e si sentì scuotere, con rabbia, e fu solo allora che sibilò un, “se mi vuole avere come un cadavere, se è anche necrofilo, può continuare pure così.”

 

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Era come se avesse un alveare in testa, le orecchie che gli ronzavano, mentre cercava di asciugare gli occhi, la rabbia che gli bruciava nel petto.

 

Doveva rimanere lucido, doveva farlo per lei che aveva una forza, un controllo che lui non sarebbe mai riuscito ad avere. Ma non poteva resistere ancora a molto, dovevano intervenire subito.

 

Guardò Mancini, che aveva uno sguardo omicida forse pari al suo, e poi De Luca, che stava tracciando note su una mappa del tribunale, insieme a Ranieri.

 

Fece segno di dargli una penna e con la mano libera scrisse:

 

Imma può liberare le mani e i piedi

 

De Luca annuì ed indicò il condotto di aerazione, che collegava l’aula dove era intrappolata Imma, di fronte alla quale si trovavano, con quella a fianco.

 

Vado io!


Due parole sulle note del cellulare di Mariani. La guardò con gratitudine.

 

Con mano un poco tremolante, mentre continuava a tenere d’occhio lo schermo, rispose:

 

Posso andare anch’io. Sono ancora molto magro

 

De Luca però fece cenno di no e, prima che potesse protestare, Ranieri gli mostrò il suo di telefono.

 

Solo tu puoi capirti così con Imma e non possiamo interrompere la telefonata

 

Gli faceva male, malissimo, dover restare lì a guardare senza fare niente, ma sapeva che aveva ragione e quindi fece un cenno di ok.

 

De Luca e Ranieri stavano dividendo i presenti in due squadre, a parte Mariani: una per sfondare le finestre, al momento dell’ingresso di Mariani, ed una per sfondare successivamente la porta, quando non sarebbe più stato troppo pericoloso farlo.

 

Possiamo usare i lacrimogeni?

 

De Luca, questa volta.

 

Per un attimo pensò alla bambina: i lacrimogeni non erano certo l’ideale per una donna in gravidanza.

 

Ma l’unica cosa che contava, più di qualsiasi altra, era salvare Imma.

 

E quindi con la sua penna diede la risposta finale:

 

Se serve. Fate di tutto per salvare Imma

 

E proprio in quel momento un urlo.

 

Ma non era Imma, era Romaniello, che urlava e la scuoteva di nuovo.

 

“Se non reagisci sei morta! Dieci, nove, otto…”

 

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“Sette, sei…”

 

La pelle del collo bruciava, probabilmente un altro taglietto, doveva fare qualcosa, doveva.


“Se mi uccide non avrebbe più alcuna soddisfazione, no?”

 

Romaniello digrignò i denti, il pungere della lama e poi finalmente potè respirare, il collo libero.

 

Almeno finché non sentì di nuovo la lama ma sulla pancia, che puntava dritto al suo ombelico.

 

Il gelo, il terrore, ma doveva stare calma, non doveva muoversi, per nessun motivo.

 

La piccoletta scalciava sempre di più, e sentì pure le piccole contrazioni del singhiozzo.

 

Altro che singhiozzo!

 

“Questa piccola bastarda ha proprio preso tutto da te. Ma non basterà a salvarla se non collabori.”

 

“Se uccide mia figlia di sicuro non collaborerò, anzi, non otterrebbe comunque quello che vuole, Romaniello.”

 

Si stupì di come le uscì la voce, con tutta quella calma apparente, quella decisione che non sentiva affatto.

 

“Lo so… ma si può sempre andare per gradi. Ci sono tanti modi di influire negativamente su una gravidanza, no? Ad esempio… una gomitata partita per sbaglio, o un pugno.”

 

Fece appena in tempo a percepire il pugno di Romaniello fendere l’aria e poi un rumore fortissimo, ma non sentì niente, nessun dolore. Si spaventò ancora di più, prima di capire che il pugno era stato indirizzato al bracciolo della sedia, appena accanto a lei.

 

Un chiarissimo avvertimento.

 

“Dottoressa… le conviene collaborare, ne terremo conto, come dici sempre tu.”

 

Erano agli sgoccioli, non poteva ancora tirare di molto la corda, lo sapeva. Un’occhiata a Calogiuri che le fece un segnale che era un… al mio segnale! e di nuovo quel distrailo!.

 

Romaniello, intanto, le aveva aperto del tutto il vestito e aveva ripreso a toccarla. Cercò di rumoreggiare un poco, per prendere più tempo e distrarlo, anche se avrebbe solo voluto vomitare e tirargli una testata.

 

Un altro foglio in mano a Calogiuri:

 

AERAZIONE

FINESTRE

TIENITI PRONTA

 

“Brava, così mi piaci!” si sentì soffiare nell’orecchio da quel maiale, felice che lei si lamentasse.

 

E poi di nuovo quelle labbra sulle sue e le tenne serrate, ma la lama premette di più sulla pancia, con un, “collabora, è l’ultimo avvertimento.”

 

“Se mi vuole far collaborare veramente ci sono altri metodi. O non è capace di usarli e teme il confronto con il bambino?”

 

Capì immediatamente, e non solo dallo sguardo di Romaniello, che a quelle parole si era ancora più ringalluzzito.

 

Viscidume sul collo ed era lui che glielo baciava e lo mordicchiava e cercò di estraniarsi, concentrandosi solo su Calogiuri e sul segnale. L’espressione di Calogiuri la stava uccidendo più di tutto il resto. Malediceva Romaniello e se stessa per essersi allontanata da sola come una scema e-

 

Il pensiero si interruppe bruscamente quando sentì il gelo della lama infilarsi sotto al reggiseno. Lo strappo e l’aria fredda sul seno, un altro conato di vomito, mentre percepiva la lama scendere ma per fortuna e purtroppo di lato, verso l’anca e gli slip.

 

“Tra poco si fa sul serio, dottoressa! Sei pronta?”

 

Guardò Calogiuri, che si mordeva le labbra, rabbioso e disperato quanto lei, lo implorò di distogliere lo sguardo ma lui scosse il capo e le fece il segnale di ci siamo!

 

Un rumore metallico e stavolta non era Romaniello, ma veniva dalla grata, Calogiuri indicò il naso e poi in basso e sapeva cosa intendeva, glielo aveva visto fare mille volte.

 

Sentì il coltello muoversi e, prima che potesse andare oltre, mo che poteva muoversi senza rischi per la bambina, inghiottì la bile e l’acido, si sporse leggermente e scontrò le sue labbra con quelle di Romaniello, che le spalancò per la sorpresa.

 

E lo baciò, violentemente, come sapeva che lui voleva, cercando di concentrarsi solo sulla meccanica, di non pensare, di staccarsi mentalmente da lui ma non da quello che la circondava.

 

Un altro rumore metallico, anche se distante - tutto era distante - sentì la presa di Romaniello allentarsi, la lama che probabilmente era finita sulla sedia, mentre l’altra mano stava scendendo dalla gola.

 

Prese un altro respiro col naso e scese leggermente con le labbra, toccandogli il mento e poi il collo, cercando di non aprire le labbra ma di fingere di volerlo baciare.

 

Il rumore di denti che si scontravano con altri denti, la testa che le girava e l’urlo di dolore di Romaniello, al quale aveva appena tirato una testata dritta sul naso. Sentiva il calore del sangue ma non si fermò: finalmente liberò le mani e lo spinse via con tutta la forza che aveva, giù dalla sedia, per terra, ai suoi piedi.

 

E gli sferrò uno, due, tre, quattro calci , ed ogni urlo di Romaniello era musica per le sue orecchie, anche se distante. Ma poi vide lo specchio caduto e si buttò in ginocchio per prenderlo, prima che ci riuscisse lui e si sentì afferrare per il polso, la stretta di Romaniello così forte che si tagliò alla mano e poi rischiò di mollare la presa.

 

Un boato improvviso, metallo e vetri, tutto intorno a loro. Una macchia di giallo all’angolo, l’urlo “arrenditi sei sotto tiro!”

 

Fu come se le sue orecchie si fossero stappate di botto: il grido di Mariani era potente come mai prima. Approfittò del momento di distrazione di Romaniello, per dargli una ginocchiata di nuovo , all’origine di tutti i suoi mali. Romaniello le mollò il polso e lei, d’istinto, spostò lo specchio e glielo premette alla gola.

 

La mano le tremava, le tremava fottutamente, una voce dentro di lei che urlava di affondare la lama, come un istinto primordiale che le gridava di uccidere, di vendicarsi.

 

“Dottoressa!”

 

La voce di Mariani e poi quel soffio da serpente che la incitava, “sì, dottoressa, uccidimi, liberati, segui la tua natura, il tuo sangue.”

 

Romaniello.

 

Maledetto!

 

Un altro mezzo boato, il rumore di legno sfondato e, non sapeva come, né con quale forza, ma i mobili davanti alla porta furono spinti in avanti. Calogiuri emerse insieme ad altri due uomini da quello che ne restava, quegli occhi ormai neri, serrati a fessura, ed un urlo straziante.

 

Nel giro di un secondo, quasi in automatico, si trovò a gettare la lama lontano, in un angolo, lontano da lui, non che facesse cazzate. E poi un altro grido non suo, di dolore stavolta, vicino allo sterno, e l’aria, l’aria fredda che la colpiva mentre il corpo di Romaniello si staccava finalmente dal suo, proiettato all’indietro.

 

Ossa che crollavano sul pavimento e poi si infrangevano sotto uno, due, tre, quattro pugni ed era Calogiuri, sopra Romaniello, che lo colpiva ancora e ancora, e non l’aveva mai visto così.

 

“Fermati!” urlò, buttandosi su di lui per bloccarlo, stringendolo da dietro per tenergli le braccia, più che poteva, col pancione di mezzo.

 

Un ultimo suono: quello della testa di Romaniello che ricadeva sul pavimento.

 

Calogiuri si era paralizzato del tutto, a mezz’aria.

 

Si tirò leggermente indietro, trascinandolo con sé, e poi lo fece voltare verso di lei, prendendogli il viso, per tranquillizzarlo e tranquillizzarsi.

 

Gli occhi rossi, rossissimi, bagnati come le guance, le labbra che sanguinavano da quanto le aveva morse, c’era un’indicibile sofferenza e senso di colpa, ma anche un orgoglio incredibile in come la guardava, che aumentava sempre di più.

 

Lo vide allungare una mano verso di lei ma poi fermarsi, come se avesse paura di farle altro male, che lei non gradisse. E quella premura così da Calogiuri la fece scoppiare in un singhiozzo, che risuonò con quelli della loro piccola guerriera.

 

Lo abbracciò, senza pensarci nemmeno un’altra volta, tirando un sospiro di sollievo e sentendosi finalmente al sicuro. Anche lui singhiozzava e la stringeva con quella forza e quella delicatezza che solo lui aveva.

 

“Ma che scenetta commovente!”

 

Romaniello!

 

Quella voce che le avrebbe per sempre dato i brividi, anche se era mezza impastata per via dei pugni presi e probabilmente di qualche dente saltato, la portò a lasciar andare Calogiuri, tenendogli però la mano, per poi girarsi verso di lui e quel sorrisetto mezzo sdentato.

 

“L’eroe che doveva salvare la sua bella e invece ha mandato avanti gli altri, come il mezzo uomo che è.”

 

Un ruggito ed Imma mise una mano davanti al petto di Calogiuri, per trattenerlo dal cedere alla provocazione.

 

Sentì i muscoli sotto le dita rilassarsi un poco: stava riprendendo il controllo.

 

“Intanto Calogiuri ha coordinato l’azione insieme a me e ce l’abbiamo fatta anche stavolta. E lei adesso se ne sta lì, ammanettato e bloccato come un salame, anche se non vorrei offendere i maiali, creature intelligentissime, paragonandoli a lei.”

 

Romaniello soffiò e Mariani e Mancini lo tennero fermo, perché lui provava ancora a sporgersi verso di lei, e dire che avessero pure loro uno sguardo omicida era dire poco.

 

In tutto quel muoversi, notò che per fortuna Calogiuri non aveva fatto troppi danni e purtroppo lei non gliene aveva fatti abbastanza: era ancora eccitato, eccitatissimo, forse più di prima.

 

Romaniello ovviamente capì subito dove le era caduto lo sguardo e sibilò un, “dottoressa, è stato bello anche per lei come lo è stato per me?”

 

Si limitò a sospirare e a intercettare Calogiuri, che era di nuovo sull’orlo dell’esplosione, per dargli un’altra pacca sul petto e dirgli, “lo vedi, Calogiuri? Non ne vale pena: più gli dai pugni e più è contento.”

 

“Non è di certo per lui che sono contento.”

 

“E chi può dirlo? Le vorrei dire che dove tornerà ora avrà modo di allargare i suoi orizzonti e sperimentare, non fosse che credo passerà parecchio tempo in isolamento e che non la augurerei nemmeno al mio peggior nemico. Poi con quella fiatella! Spero che il dentista del carcere sia capace di fare il miracolo.”

 

Romaniello ruggì di rabbia ma poi abbassò lo sguardo, puntando dritto al suo petto che era ancora nudo, scoperto.

 

Calogiuri schiumava, furibondo, e per un secondo ebbe la tentazione di coprirsi non solo da Romaniello ma da tutti. Una vocetta però la spinse a fare cenno a Calogiuri che non c’era problema e di aiutarla a tirarsi in piedi.

 

E così, piano piano ma dignitosamente, lo fecero ed affrontò con fierezza Romaniello, le mani sui fianchi, esclamando, al suo sguardo sorpreso, “eh beh? Che c’è? Non ho niente di cui vergognarmi, io. E anzi, sa cosa le dico, Romaniello? Che oggi mi ha fatto un gran favore. Perchè così, non solo si può scordare i domiciliari e il noiosissimo lusso nel quale ha vissuto negli ultimi anni, ma se, tra un po’ di tempo, quando lei sarà ormai vecchierello, a qualche avvocato venisse mai in mente di chiedere la sua scarcerazione, nessun giudice potrà mai credere né che lei sia innocuo, né ad un’eventuale buona condotta. E anche i permessi se li può scordare. Sì, ha fatto proprio un bel servizio alla collettività oggi, me ne congratulo con lei.”

 

Romaniello era sull’orlo di scoppiare e fu allora che, con immensa soddisfazione, proclamò, “portatelo via!”

 

Sapeva che non aveva alcun titolo per dare ordini ma tutti i presenti, Mancini e Mariani in primis, annuirono, tirarono pure lui in piedi, su gambe assai malferme, e lo trascinarono verso la porta.

 

“Tanti cari saluti a lei e famiglia, a mai più rivederci!”

 

Non appena Romaniello, con un’ultima occhiata ferale, sparì oltre l’angolo, si lasciò finalmente andare tra le braccia di Calogiuri. Cercò poi di coprirsi con la giacca che, in tutto quel delirio, era rimasta intatta, a parte qualche schizzo di sangue.

 

“Aspetta, prendi la mia,” si offrì Calogiuri, levandosi la giacca aperta e stropicciata e aiutandola ad infilarla in un modo che le diede la prima botta di commozione, mentre l’adrenalina cominciava a calare e la realtà di quanto era appena successo si faceva concreta e pesante.

 

Un peso tremendo: si sentiva esausta, come se fosse fatta di gelatina e braccia e gambe fossero di piombo, ma non doveva cedere, prima doveva uscire da lì.

 

“Ci sono altri feriti?” chiese, guardandosi intorno e trovando il viso preoccupato di Irene, che era entrata dalla porta ed aveva raggiunto Ranieri e De Luca.

 

“L’agente che sorvegliava Romaniello è morto - giusto per aggiungergli un altro capo di imputazione - ma per il resto stiamo tutti bene. Tu piuttosto? Forse è meglio che chiamiamo un’ambulanza e-”

 

“No, no, niente ambulanza, Irene: qua fuori ci stanno i giornalisti e non voglio altre speculazioni. Voglio uscire da qua sulle mie gambe, poi ci pensiamo.”

 

“No, non è che ci pensiamo: andiamo in ospedale e pure di corsa.”

 

Calogiuri, preoccupatissimo ed impositivo.

 

“Aiutami ad arrivare alla macchina e poi ci pensiamo. Qualcuno ha qualcos’altro con cui posso coprirmi? Che va bene che mo va di moda andare in giro con solo la giacca e quasi niente sotto, ma con questa pancia si apre tutto e vorrei almeno conservare un poco di mistero con la stampa.”

 

“Tieni questa.”

 

Sollevò lo sguardo verso Irene e si stupì nel vederle porgere la toga.

 

“La mia taglia è molto più grande della tua: dovrebbe coprirti del tutto. Aspetta che la appuntiamo con la spilla.”

 

E, come se le stesse porgendo una graffetta, Irene si levò la spilla d’oro che aveva sulla giacca, e che chissà quanto costava, e le richiuse la toga sul davanti, a mo di mantella - o di tendone, vista la sua pancia.

 

“Aiutateci a tenere lontani i giornalisti e usciamo di qua. Andate a preparare la macchina!” ordinò Calogiuri ai ragazzi della loro scorta che, con aria ancora scioccata ma anche impressionata, guardandola come se fosse una dea - la dea Kali per la precisione! - corsero fuori.

 

Sotto braccio a Calogiuri, circondata da Irene, Mancini, Mariani, Ranieri e pure Capozza, che aveva lo sguardo di chi aveva visto la morte in faccia - e non era Romaniello - si avviarono verso il corridoio e verso l’uscita del tribunale. Sentiva e vedeva già i flash e le urla in lontananza.

 

“Mamma! Mamma!”

 

Quel grido la fece arrestare di colpo. Mariani venne quasi buttata addosso a Mancini e al suo posto si trovò due occhi marroni allagati e due braccia che la stritolarono.

 

“Valentì…” sussurrò, con la seconda botta di commozione - mannaggia a lei!

 

“Sto bene, stai tranquilla, sto bene, va tutto bene,” cercò di rassicurarla, mentre Valentina piangeva più forte e mo pure lei singhiozzava allo stesso ritmo della sorellina.

 

Tutte a me!

 

Alla fine le prese il viso tra le mani per calmarla, facendo con lei due respiri profondi e dandole un bacio sulla fronte.

 

“Mo noi dobbiamo uscire, Valentì. Tu dì a tutti che sto bene e tra poco ci ritroviamo, va bene?”

 

Valentina annuì ma poi quasi la assordò con un, “ti voglio bene, mamma! Ti voglio tanto bene e sono tanto orgogliosa di te! Anche se ti sfotto sempre, ma…”

 

“Ma sei di famiglia, Valentì, è normale, mi preoccuperei del contrario.”

 

Un altro bacio sulla fronte e la lasciò andare, avviandosi verso i giornalisti con la sua scorta d’eccezione e a furia di “fateci passare!” “non abbiamo dichiarazioni!” e di spintoni riuscirono a guadagnare l’uscita.

 

L’aria di Roma non le era mai sembrata così fresca e pulita, neanche fossero in cima all’appennino lucano.

 

Arrivarono all’auto, finalmente, e Calogiuri la aiutò a infilarsi dietro, tenendola sempre mezza abbracciata, finché la portiera si richiuse.

 

*********************************************************************************************************

 

“Partiamo, andiamo all’ospedale!”

 

Sapeva che Imma avrebbe protestato, ma non ci potevano essere altre ragioni, anzi avrebbe chiamato la sua vecchia ginecologa.

 

Solo che non aveva più il numero.

 

“Imma, te lo ricordi il numero della ginecologa?” le domandò, che lei mandava a memoria qualsiasi cosa con una facilità impressionante.

 

Un secondo, un secondo di silenzio di troppo, senza proteste, senza risposte e si voltò verso Imma, una morsa a stringergli lo stomaco.

 

La vide lì, gli occhi chiusi, il corpo molle, svenuta, e si affrettò ad afferrarla prima che gli cadesse addosso al primo incrocio, gridando, “Imma, Imma!”, picchiettandole la faccia ed urlando agli agenti, “l’ospedale più vicino, subito!”

 

“Imma! Imma!” continuò a chiamarla, mentre la faceva distendere sul sedile e si abbassava a prenderle le gambe, per sollevarle il più possibile.

 

E fu allora che sentì, ancora prima che vederlo, un liquido caldo e viscido, che scendeva lungo le calze, nero come la disperazione che gli levava il fiato.

 

Sangue.

 

*********************************************************************************************************

 

Il cigolare di ruote sul pavimento.

 

Un rubinetto che perdeva.

 

I motori di qualche macchinario che vibravano dalle sale lì vicino.

 

Passi e parole delle poche persone in attesa e di chi entrava e usciva dalla zona riservata ai medici e alle emergenze.

 

Tutto gli sembrava amplificato a mille e lontanissimo insieme. Percepiva tutto e non percepiva niente.

 

Riusciva solo a pensare ad Imma, pallida ed esanime su quella barella e alle poche parole che aveva sentito dai medici prima che lo mollassero lì, a fare la cosa che più di tutte odiava: aspettare, impotente, senza sapere, senza poter fare nulla.

 

Per fortuna i ragazzi erano stati velocissimi, con la sirena erano arrivati al pronto soccorso in pochissimo tempo, ma gli era sembrato infinito, con quel maledetto sangue che non poteva fermare. Per fortuna non era molto ma aveva letto nei mesi precedenti, si era informato sui rischi principali in gravidanza e sapeva che non era detto che fosse un buon segno, né che l’emorragia fosse facile da bloccare.

 

Ma più di tutto era stato vedere Imma, la sua Imma, la sua dottoressa, sempre così forte, combattiva, fino all’ultimo, così pallida, così indifesa, così piccola nelle sue braccia.

 

E nemmeno il terrore provato quando era in mano a Romaniello, il senso di impotenza e di inutilità, erano paragonabili a quella morsa che stringeva il cuore, lo sterno e la pancia. Mai il rischio della… no non poteva pensare a quella parola! Ma mai il rischio era stato così vicino, così concreto, così impossibile da prevenire e prevedere.

 

La piccoletta… l’aveva sentita scalciare fino all’ultimo e l’idea di non conoscerla mai, quando già sentiva di conoscerla da sempre, con quel suo caratterino uguale a Imma…

 

Imma…

 

L’idea di una vita senza Imma non aveva senso, non era possibile, non era concepibile, semplicemente non era vita quella senza di lei.

 

Quello lo paralizzava più di tutto: perdere la piccoletta sarebbe stato un dolore inimmaginabile, ma perdere lei… non sarebbe mai riuscito ad andare avanti, nonostante le promesse che le aveva fatto, e lo sapeva.

 

Non sarebbe mai riuscito a perdonarsi in ogni caso il non averla saputa proteggere, il non esserci stato, l’averla persa di vista, l’averla lasciata sola, il non poter fare niente mentre lei subiva quello che aveva subito, il non averle potuto evitare quello schifo, quel trauma che forse si sarebbe portata dietro per sempre, anche se fosse andato tutto bene, ma l’alternativa…

 

Il mare gli rimbombava nelle orecchie, la testa gli scoppiava e la vista era sempre più appannata, non ci capiva più niente, nulla aveva senso, ma doveva essere forte per lei e-

 

“Calogiuri!”

 

Quella voce acuta, stridente in mezzo a tutta quell’ovatta, lo portò a girarsi di scatto verso la sua destra e l’inizio del corridoio.


Valentina con la sua scorta.

 

Rimase per un attimo immobile, mentre lei si avvicinava, urlando “dov’è mamma? Come sta?!” in un modo che era un altro pugno al petto.

 

Si alzò, in automatico e, senza sapere come, trovò la forza per enunciare, “è dentro. Ha… ha avuto un’emorragia e… gliela devono fermare e…”

 

Non riusciva ad aggiungere altro, perché tutto quello che poteva dire o ipotizzare era inaccettabile non solo per lui ma anche per Valentina.

 

Un singhiozzo e se la ritrovò tra le braccia, che piangeva come una bambina. Cercò di stringerla più che poteva, di provare a calmarla, ma la verità era che non riusciva nemmeno a calmare se stesso, a fare forza a se stesso, figuriamoci a lei.

 

“Valentì!”

 

Pietro e Rosa, che si tenevano stretti come per sorreggersi a vicenda.

 

Valentina si staccò bruscamente e con un “papà!” disperato gli corse incontro, buttandoglisi addosso.

 

Fu come uno schiaffo, non per Valentina, che era giusto e normale che volesse suo padre in un momento del genere, ma perché… perché forse per lui un amore del genere non ci sarebbe stato mai più. E non solo per la piccoletta, ma per Imma. Qualcuno che lo amasse in modo così incondizionato, che si fidasse così di lui, mentre lui forse non sarebbe più riuscito nemmeno a fidarsi di se stesso, figuriamoci ad amare se…

 

“Fratellì!”

 

Nemmeno gli occhi di Rosa ed il modo in cui lo stritolava riuscirono a farlo sentire meglio, anche se provò a ricambiare.

 

“Fratellì, mo devi lottare fino all’ultimo, non devi lasciarti andare, chiaro? Devi essere forte per Imma, hai capito?”

 

“Lo so… ma…”


“Niente ma! O chiamo ma’ a farti il trattamento completo.”

 

Gli scappò un sorriso, nonostante tutto, e prese per le guance sua sorella, dandole un pizzicotto come quando erano bimbi, pure se erano lavate di lacrime come le sue.

 

Un rumore di passi e vide Pietro, che si stava avvicinando con Valentina, ancora aggrappata a lui.

 

Lo sentì schiarirsi la voce e poi stringergli una spalla e dargli due pacche sulla schiena. Seppure con gli occhi rossi, voleva fargli forza.

 

Lo capì, si capirono all’istante, senza bisogno di parole: del resto Imma era stata la donna più importante della vita di Pietro, a parte Valentina, per moltissimi anni e… l’aveva amata tanto quanto l’amava lui, e probabilmente pure mo, anche se in modo diverso.

 

E quindi lo abbracciò, fregandosene del fatto che fossero tra uomini, cercando solo di non dare fastidio a Valentina e si trovarono a piangere come due scemi, insieme.

 

“Scusate…”

 

Un sussurro un poco timido e familiare, alzò gli occhi e vide Mariani, insieme a Mancini, entrambi in forte imbarazzo. E poi, subito dietro, Irene e Ranieri e-

 

“Valentì, Ippazio”

 

La signora Diana che, con la sua solita energia, si staccò da Capozza e corse avanti a tutti, raggiungendoli ed abbrancandosi prima Valentina e poi lui, in quel modo che non si capiva chi stesse consolando chi.

 

“Come sta? Che ha?”

 

“Un’emorragia, stanno cercando di fermarla e… e non so altro.”

 

Diana annui, gli occhi enormi, ma poi lo guardò con decisione ed esclamò, “Imma è forte! Non si fa fermare da niente! Ne ha passate tante, povera Imma, ma passerà anche questa, vedrai!”

 

Non fare promesse che sai di non potere mantenere, Dià!

 

La voce di Imma, chiarissima, netta, la voce della sua coscienza.

 

Ma ci voleva credere, ci doveva credere, doveva sperare, fino in fondo.

 

*********************************************************************************************************

 

Un aroma di caffè e una mano con un bicchierino davanti al viso.

 

“Grazie,” sussurrò, per non svegliare Rosa che si era assopita sulla sua spalla, visto che quella di Pietro era già occupata da Valentina.

 

Irene si limitò ad annuire con un, “non è granché, ma meglio di niente.”

 

Nonostante avesse provato a convincerli ad andare a riposare, e nonostante le proteste di un’infermiera, erano ancora tutti lì, in attesa.

 

Avrebbe solo voluto avere notizie ma i medici a cui aveva chiesto avevano ribadito che bisognava aspettare.

 

Mancini e Ranieri erano i più imbarazzati, forse si sentivano un po’ fuori posto. Diana e Capozza avevano invece un’aria combattiva, persino lui era andato a dirgli di “non fare lo scemo, capitano!” e la vicinanza di Diana gli faceva bene, si vedeva.

 

Un’altra pugnalata al pensiero di lei e di quanto lei non gli facesse solo bene ma gli avesse trasformato la vita in meglio. Lo avesse trasformato in una persona migliore, anche se non abbastanza, evidentemente, non abbastanza per proteggerla come avrebbe voluto.

 

Irene invece lo aveva ripreso sotto la sua ala, come ai vecchi tempi, ed era stata quella più pragmatica su come organizzare le cose, su chi avvisare, su quali dottori sentire - aveva anche chiamato la sua amica ginecologa, che era arrivata giusto un’ora prima. Era il suo modo di manifestare il bene e di tenersi impegnata, un po’ come faceva con Bianca - e in quello era simile ad Imma.

 

Vitali era sembrato molto colpito, colpitissimo, tanto che si era allontanato un paio di volte per nascondere l’emozione. Il rapporto tra lui ed Imma era molto più profondo e complesso di come poteva sembrare, da sempre.

 

Mariani… era Mariani, dolce ma forte e il suo sguardo positivo e carico di fiducia - che non sapeva se fosse reale o una maschera messa per lui, ma era comunque abbastanza convincente - se non era servito a lui - nulla poteva davvero servire in quel momento, se non la notizia che Imma stesse bene - di sicuro era servito a Valentina, insieme alla presenza di Pietro, e tanto bastava.

 

Per il momento, almeno.

 

Bevve d’un sorso quel caffè schifosissimo, rimpiangendo ogni caffè preso con Imma, da quegli che gli aveva sempre offerto al bar, nonostante le sue proteste, da quando era solo un appuntato, a quelli che le aveva preparato nella casa di Matera prima e in quelle di Roma poi. Ogni caffè portato la mattina, ogni cappuccino, con il suo amato bombolone e…

 

Si ritrovò di nuovo con la vista appannata, senza neanche rendersene conto, e stretto in un altro abbraccio, di Irene stavolta.

 

Solo che, non per colpa di lei, ma gli ricordava quelle settimane orribili in quel residence, senza Imma e quanto fosse inconcepibile per lui la vita senza di lei.

 

Un rumore, una porta che si apriva, e ne uscì la loro ginecologa storica, l’amica di Irene, che si avvicinò a loro, mentre Irene le chiedeva, “hai notizie, vero?”

 

La vide annuire e balzò in piedi, la morsa quasi lo soffocava, cercando di capire qualcosa dall’espressione di lei, ma non riuscendoci.

 

“Siamo riusciti a bloccare l’emorragia, abbiamo dovuto fare una trasfusione ma… non ha perso troppo sangue-”

 

“Ma?” domandò, perché sapeva che c’era un ma e quel ma non lo faceva respirare.

 

“Ha avuto un distacco della placenta abbastanza importante. Per fortuna siamo riusciti a stabilizzarla e a fermare le contrazioni ma… le prossime ore saranno fondamentali per capire se bisognerà indurre il parto o se si può aspettare. Essendo passate le ventotto settimane ed essendo il feto ad un alto percentile di crescita, se necessario ci sono buone possibilità di sopravvivenza ma… ci potrebbero essere conseguenze di lungo termine per la sua salute. Quindi… più riusciamo ad aspettare e meglio è, ma non bisogna fasciarsi la testa già da ora. L’importante è che Imma rimanga tranquilla e a riposo assoluto, evitare altre emorragie o contrazioni. So che ha avuto diversi eventi traumatici nell’ultimo periodo e nelle ultime ore, quindi… il suo supporto è fondamentale, capitano, soprattutto nei prossimi giorni, che sono cruciali.”

 

Il sollievo nel saperla viva, nel saperle vive, fu fortissimo ma… ma si rese conto che rischiava di essere solo temporaneo, e non poteva permetterlo, non poteva permetterselo né permetterglielo.

 

“Ditemi cosa posso fare: tutto quello che posso fare lo farò e pure di più! Imma è la priorità assoluta, chiaro?”

 

La dottoressa annuì, intenerita ma anche un po’ a disagio, soprattutto quando aggiunse, “per me è chiaro ma… quando riprenderà i sensi, dipenderà da lei e solo da lei che cosa fare, non da noi, né da lei, capitano. Le è chiaro questo?”

 

E sì, gli era chiaro, gli era chiarissimo e pregò chiunque potesse ascoltarlo che quella scelta non dovesse arrivare mai, che Imma non dovesse portare anche quel peso, anche quella croce, dopo tutte quelle che già si era caricata sulle spalle.

 

Ma se così non fosse stato… sapeva cosa doveva fare.

 

*********************************************************************************************************

 

Luce, una luce fastidiosa negli occhi che bruciavano.

 

E poi nausea ed un cerchio che le si stringeva intorno alla testa.

 

“Imma? Imma? Imma?”

 

Il suo nome, come un’eco che le rimbombava nel cranio, ma allo stesso tempo così familiare e-


“Ca- Calogiù?” si trovò a pronunciare, con la bocca riarsa e la voce impastata, cercando di aprire gli occhi.

 

Una mano nella sua, che la stringeva fortissimo, un altro “Imma!” che si riecheggiava all’infinito, seguito da un “sono qui, mi senti? Mi vedi?”

 

E, finalmente, la luce lasciò spazio a macchie di colore, poi a un bianco sporco e sfocato, e poi infine, in mezzo a tutto quel bianco, vide, sempre più nitido, l’azzurro.

 

Gli occhi di Calogiuri, finalmente a fuoco nei suoi, occhi pieni di lacrime, e quel sorriso, quel sorriso sollevato e triste come non l’aveva mai visto - ed era tutto dire.


“Calogiù… dove… dove siamo? Che…?” cominciò a chiedere, confusa, ma poi un dolore alla mano, al collo, i muscoli della pancia che neanche quando aveva dato retta a Diana ed era andata con lei a fare una terribile lezione di pilates.

 

E poi quel ghigno, quella faccia.

 

“Romaniello!” esclamò, mentre tutto tornava all’improvviso, come un fiume in piena, “il tribunale… siamo in ospedale? La bambina?!”

 

Le era uscito un urlo e cercò di portarsi la mano non stretta da Calogiuri alla pancia, ma era tutta fasciata - se l’era tagliata con quel maledetto specchio! - e non capiva, e andava in panico, e sentiva un bip aumentare di frequenza e-


“Imma! Stai tranquilla, non ti devi agitare e-”

 

Nostra figlia, Calogiù?! Come sta nostra figlia?!”

 

“Adesso te lo dico, ma devi calmarti e-”
 

“Col cazzo! Dimmi come sta, mo, subito!”

 

“Se mi prometti di restare calma, te lo dico, ma c’è: è qui, nella pancia, come sempre-”

 

Il tocco lievissimo di lui sull’addome, il calore anche sotto gli strati della camicia da notte ospedaliera e del lenzuolo. Fu allora che lo sentì.

 

Un calcetto, uno solo, più debole del solito, ma c’era, c’era davvero, era viva! Era ancora lì con lei, con loro!

 

Senza riuscire a trattenersi, scoppiò in un pianto liberatorio e si trovò a stringersi a Calogiuri che le sussurrava di cercare di stare ferma, che doveva cercare di calmarsi, anche se lo sapeva che non era facile.

 

Il tono e il tocco delicatissimi di Calogiuri, come se avesse paura di farle male o metterla a disagio, le fecero bene e male al cuore insieme, mentre si sforzava di tranquillizzarsi, anche perché doveva saperne di più.

 

“Come sta la bimba?” gli domandò infine, staccandosi per guardarlo bene negli occhi, “c’era un ma, è vero?”

 

“Hai avuto un distacco della placenta e quindi un’emorragia. Sono riusciti a fermarla e a bloccare la situazione, per ora, ma… ma mo devi stare ferma, a riposo assoluto. Se si stacca di più dovranno… indurre il parto.”

 

Fu come se la lama di quel maiale le si fosse conficcata nel cuore. Era presto, troppo presto!

 

“Ma è troppo piccola e-”

 

“Mi hanno detto che anche a sette mesi, al giorno d’oggi, ci sono buone possibilità ma… ovviamente più riesci a portarla avanti e meglio è. Per questo devi stare tranquilla, anche se lo so che è quasi impossibile ma… bisogna evitare altre contrazioni, altre emorragie.”

 

Annuì, occhi negli occhi con lui, che cercava di farle forza, ma sapeva che non era scemo il suo Calogiù e che era preoccupato quanto lei.

 

“Come stai? Hai male?” le chiese poi, con quella premura che era solo sua.

 

“Tengo come un cerchio che mi stringe sulla capa, Calogiù, che altro che l’aureola che non ho, qua! E poi un po’ di nausea e male ai muscoli.”

 

“Hai avuto un lieve trauma cranico, credo per… per la testata…. E hai la pressione un po’ alta, te la stanno riducendo, ma anche per questo devi cercare di-”

 

“Stare calma, sì, Calogiù, ho capito. Ma lo sai che, quando mi dicono di stare calma-”

 

“Ti incazzi tre volte tanto. Lo so, dottoressa ma… sui sinonimi sei tu quella che ne sa di più.”

 

Gli sorrise e lui ricambiò, anche se debolmente. Era incredibile, un vero miracolo poter avere ancora quei momenti insieme, potergli parlare, poterlo sfottere e sentirsi sfottere, nelle piccole cose. Aveva davvero temuto di non poterlo fare mai più.

 

“Quanto… quanto devo stare in ospedale?”

 

“Non lo so… dipende da come andrà nei prossimi giorni ma… se riesci a continuare con la gravidanza dovrai comunque restare bloccata a letto e monitorata, quindi…”

 

“Quindi vuoi dirmi che devo stare in ospedale fino al parto?!” esclamò, preoccupata da quella prospettiva, che già stare ferma per lei era difficile, poi in un ambiente così…

 

Ma per la piccoletta lo avrebbe fatto, avrebbe fatto di tutto, ma ci sarebbe uscita di testa, già lo sapeva!

 

Calogiuri sembrò leggerle nel pensiero, senza bisogno di parole, perché le baciò la mano non fasciata, per farle forza, con quella venerazione che la stupiva sempre, soprattutto dopo tutti quegli anni insieme: forse era ancora maggiore che ai primi tempi.

 

“Ho sbagliato… è stata tutta colpa mia e non me lo perdonerò mai.”

 

“Ma che dici, Calogiù?” gli domandò, stranita, guardandolo meglio per capire se fosse serio, ma lo era.

 

“Ti ho perso di vista e non ti ho trovata per tempo e… e non sono riuscito a intervenire prima e-”


“E non devi dirlo nemmeno per scherzo, Calogiù! Sono io che devo chiedere scusa a te: la colpa è mia che… mi sono allontanata da sola, come una scema. Ma in tribunale mi sentivo al sicuro e poi… avevamo appena vinto e…”

 

“E abbiamo vinto, dottoressa, abbiamo vinto. E la colpa è solo e soltanto di… di quel bastardo e, se proprio per una volta ti devi scusare per qualcosa, tienitelo per quando so che non vorrai stare ferma, che ti conosco! Non per questo che… dovevi andare in bagno, la piccoletta preme, lo so.”

 

“Calogiù!”

 

Un altro abbraccio, fortissimo da parte di lei, leggero come una nuvola da parte di lui.

 

Si era proprio spaventato, Calogiù, anzi, terrorizzato. Gli prese il viso tra le mani, lo baciò sulla fronte e lo guardò dritto negli occhi, per rassicurarlo come poteva, anche se nessuno dei due sapeva del tutto come sarebbe andata e ne erano consapevoli entrambi.


“Comunque vadano le cose con… con la bambina… per me tu sei la priorità assoluta. Senza di te… senza di te la mia vita non avrebbe senso e devi stare in forze, indipendentemente da come andranno le cose. Devi pensare prima a te, non c’è nessuno di più importante. Me lo prometti?”

 

Le venne da singhiozzare, sia per tutto l’amore e il dolore in quelle parole, sia perché…

 

“Ma come faccio a promettertelo?”

 

“Devi promettermelo. Non solo per me, ma per Valentina, che è preoccupatissima, per il piccoletto, per tutti.”

 

Un altro singhiozzo ed annuì, piangendo insieme a lui.


“Te lo prometto.”


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo 79 che è stato davvero molto difficile da scrivere, ho cercato di essere il più “delicata” possibile nel farlo e di trasformare anche un momento drammatico e potenzialmente umiliante in un momento di presa di forza, di battaglia e di vittoria. Anche se indubbiamente avrà delle conseguenze non solo fisiche ma psicologiche e saranno affrontate nei prossimi capitoli, che saranno comunque più leggeri nei toni.

Ci stiamo sempre più avviando alla conclusione di questa storia, non mancano molti capitoli, anche se non li saprei quantificare. Ci sono ancora diversi punti di trama da chiudere per arrivare a quel finale che ho pianificato ormai da tanto tempo e spero che continuerà ad essere interessante per voi che leggete e, soprattutto, verosimile.

Ringrazio tantissimo tutti voi che mi avete recensito e mandato messaggi e commenti in questo periodo, le vostre parole mi danno sempre uno stimolo pazzesco a cercare di fare sempre meglio. Quindi aspetto i vostri commenti, positivi o negativi che siano.

Un grazie anche a chi ha messo questa storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 12 marzo, in caso di ritardi vi avviserò come al solito sulla pagina autrice.

A presto e grazie ancora!

 
   
 
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